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La morte di Empedocle – note di lettura

 

Franco Di Carlo La morte di Empedocle,

Edizioni Divinafollia, 2019
Molto è stato detto e scritto riguardo al recente libro di Franco Di Carlo La morte di Empedocle. Se ne occupati critici ed autori di spessore. Ne ho selezionati due, anche in virtù del loro speciale legame, professionale ma anche “empatico”, con l’autore di Genzano. Qui in calce troverete uno stralcio degli interventi dei due colleghi-amici di Franco: Cinzia Della Ciana e Giorgio Linguaglossa, con l’indicazione del link a cui potrete leggere gli articoli completi.
Nello spirito di questa rubrica, Letti sulla Luna, il cui intento è quello di indicare “oggetti terrestri” interessanti, spesso si tratta di libri, mi limiterò per quanto mi riguarda a fornire le coordinate essenziali e qualche mia impressione, da osservatore, consigliandovi di approfondire la conoscenza con i suddetti oggetti nel migliore, anzi, nell’unico modo possibile: cercandoli, e leggendoli (attività che è ancora possibile sulla terra, non è soggetta a restrizioni e, anzi, è consigliata).
“Non sono interessato alla poesia, / sono fatto di poesia e di nient’altro”, scrive Di Carlo. Ecco. Basterebbero questi due versi. Per tante cose. Una di ordine “pratico”: andare a cercare il libro e magari comprarlo. La seconda consiste nell’indicazione dell’impronta, dello stampo dei versi e dell’autore: la capacità di essere schietto, raccontandosi senza infingimenti, andando dritto all’essenza di ciò che davvero conta, i distinguo, le scelte, le condizioni innate e tuttavia rafforzate da anni di studio e dedizione assoluta e sincera.
Tertium non datur, sostenevano i latini. Invece qui un terzo elemento è concesso ed è rilevabile, ed è di natura “musicale” potremmo dire più che contenutistica (e qui Cinzia Della Ciana, poetessa legata alla musica, sarà contenta): si tratta del ritmo adottato, per volontà e/o per istinto da Di Carlo. Sintetizzando potremmo dire che si muove all’interno di una gamma di suoni, vibrazioni, assonanze e consonanze che oscillano tra classicità e modernità. O, meglio, è più esattamente, attualizzano, anche a livello di suoni, la classicità, ossia la capacità di dare peso ad ogni sillaba senza mai sovraccaricarla o renderla eccessiva, ridondante. “Gli dei camminano potenti – osserva l’autore – annunciano il barlume di una Mitica forma poetica”. Ogni scrittore e poeta, ma direi in termini più ampi ogni uomo, si sceglie un ritmo, una musica individuale. La propria colonna sonora esistenziale. E al ritmo di quella musica muove i suoi passi e fa muovere i propri pensieri, i gesti, le parole. Franco Di Carlo ha scelto una classicità attuale. Non attualizzata, è giusto specificarlo. La sua poesia è attuale perché si muove su cadenze che ricalcano la necessità della sostanza, della corporeità che si eleva alla ricerca di qualcosa che va oltre. Quell’essenza Mitica distingue l’effimero da ciò che permane. Questo aspetto è stato trattato anche da Silvia Denti nella nota introduttiva e da Andrea Matucci nella prefazione. Riguardo all’uso della rima Matucci opportunamente rileva che Di Carlo “ne libera talvolta la carica ironica nel ripetersi del distico baciato”, ma più spesso “ne sfrutta l’intensità sonora lavorando sui suoni della parola e sulle sue componenti germinative”.
Come suono, direi come canto, con la distribuzione accurata di musica e silenzio, vuoto e pieno, analogia e contrasto, si dipanano i versi di questo libro. Fin dai titoli dei vari componimenti, a tratti quasi ossimorici (“Nostalgia della morte”) oppure basati su “contrappunti” o accostamenti di natura pressoché sinestetica: (“Figure del desiderio”; “Sguardi notturni e suoni lontani”).
La poesia de “La morte di Empedocle” si muove tra estremi di sensi e parole, tra contrasti e inter-azioni profonde. Tra sintesi e distensione, alla ricerca del nucleo essenziale. Quello che nasce dalle parole e ad esse ritorna, come il canto di una fine che conclude un mondo e ne apre uno nuovo, ad esso strettamente correlato. “Duro e concreto il sentiero più arduo”, così si apre il componimento “Canto barocco” di pagina 20, che alla fine, con un procedimento che potremmo definire in senso ampio “paratattico” elenca “solitudini metafisiche e orrendo panico, / rive e foreste, campagne e deserti / cerchi cornici gironi e cieli concentrici”. Ma il libro, e la sua musica, è fatto anche di note più lievi, come a pagina 30, nella poesia “Fragile vana foglia”, il cui esordio è una descrizione che racchiude in sé, come certe liriche orientali, il senso di un istante che si estende oltre i confini temporali: “Sciolta nell’essere si confida col sole / l’erba viva”.
Moltissimo resta da dire di questo libro. Vari spunti ed elementi interessanti sono racchiusi negli stralci delle note di lettura di Della Ciana e Linguaglossa. Ma il consiglio da qui, dalla base lunare, resta quello di leggere i testi di persona sfogliando pagina per pagina, confrontando i propri ritmi, le proprie visioni e sensazioni con quelle dell’autore. Perché, come osserva lo stesso Di Carlo nella poesia “La conoscenza” di pagina 35, “Il poeta conosce modi e termini. / Li misura e rivela trattenendo la parola data. / Nulla perdendo. Afferma il mistero. / Compone il suo dire sgomento, / il suo canto nascosto e stupendo.”
       IM
 

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Il genius loci nella poesia di Franco Di Carlo.

Commento di Cinzia Della Ciana in occasione della presentazione del libro La Morte di Empedocle presso l’Enoteca Letteraria in Roma
Non si può capire la poesia di questa nuova silloge di Franco Di Carlo “La morte di Empedocle” (Edizioni Divinafollia, 2019) se non ci poniamo una domanda: da dove viene, dove è nato, dove vive ed è vissuto l’autore? Franco Di Carlo ha il privilegio di esser nato e di esser rimasto sempre a vivere a Genzano di Roma, un borgo incantevole che fa parte dell’area dei Castelli Romani. Cercherò di proiettarvi la vista di quei suoi luoghi al fine di trasportarvi in quei siti così suggestivi e carichi di peculiarità. Genzano si affaccia sul lago di Nemi e con la stessa Nemi, borgo fratello, fa da castone in corona sul cratere del lago. Un lago vulcanico che è un cono rovesciato e le cui superfici sono ricoperte di boschi e di arbusti mediterranei, colorate di verde intenso, quasi viscerale, un verde cupo palude che la sera vira al rosso amaranto. Un lago vulcanico, dunque, le cui acque di giorno sono atre, intrasparenti, oscure nel senso che non consentono di scorgere cosa vi sia sotto e tu quasi meccanico ti senti attratto e ti poni interrogativi su cosa nascondano. E la storia impera perché questo era il luogo di villeggiatura preferito dall’Imperatore Caligola che su quello specchio fece adagiare appositamente due preziosissime navi, come palazzi galleggianti per i suoi giochi e riti, poi affondate dagli oppositori e per secoli custodite dalle acque del lago. Acque che – mutuando la poesia di Ungaretti “Lago Luna Alba Notte” in “Sentimento del tempo” – al crepuscolo diventano quella “conca lucente/che trasporti alla foce del sole” e con la luna fanno tornare “colma di riflessi l’anima” e “acre la notte”. Una ripa scoscesa che come “impallidito livore rovina” (sempre mutuando la poesia ungarettiana), un imbuto che rimanda alla discesa ai regni ultraterreni e che è intersecato da quello specchio liquido giammai occhio, ma ombelico misterico che ti risucchia. Sì perché c’è un’aura di innegabile mistero che ti pervade quando arrivi sopra al lago di Nemi e cammini in una sorta di abbraccio da Genzano a Nemi. Due centri antichi che nascondono le loro tracce nella storia del loro nome, per entrambi legato a divinità lunari. Il toponimo Genzano secondo alcuni va riferita a Cynthia – termine usato per indicare la Luna (di cui Artemide era la divinità nella mitologia greca) – mentre Nemi da Nemus (letteralmente bosco) denominazione, spesso accompagnata da aggettivi o complementi di specificazione (“Nemus Dianae”,”Nemus Artemisium”, “Cynthiae fanum”), con cui era conosciuto il tempio di Diana che sorgeva sulle sponde del lago. E qui si ritorna al paesaggio. Alla divinità dei boschi e della caccia e della fertilità, era consacrato l’intero bosco circostante il lago, e tale culto è ancora oggi vivo se si pensa che adepti accendono candele su altari fra i resti dello scavo che mostra i fasti dell’antico tempio, gli imponenti nicchioni e i poderosi portici. Qui avverti ancora presenze divine, dietro i “fragili cespugli” di mirto avverti che si nasconde un fauno e ti pare di udire “celati bisbigli”, dietro le felci spunta una ninfa e passi di uomini e donne pervasi da danze e riti. Qui il bosco è selva e i lecci, le querce, l’alloro infatti pulsano per iniziati ai riti e ti pervade un senso di sacralità. Improvvisamente non sei in mezzo alla Natura, ma sei in mezzo alla storia che è “sacra”, ai miti, a ciò che non si rivela, all’esoterico inteso come sapere interno, come quegli insegnamenti che nell’antichità greca Pitagora e Aristotele impartivano ai soli discepoli atti a comprendere i segreti della natura. Sei in un universo dove avverti la correlazione dei quattro elementi fondamentali (aria, acqua, fuoco, terra) e la mescolanza di origine, nascita e morte. E non solo, perché qui l’aria punge la sera e dall’alto di Nemi godi il privilegio raro di tramonti che dal lago volano al mare in fronte. Oltre il cratere, infatti, si stende una fascia di piana che separa l’ombelico dalla vastità del mare che tutto abbacina e tutto risolve. Ecco in questi luoghi è nato, si è formato e ha scelto di vivere il Poeta Franco di Carlo, un poeta filosofo che è impregnato dal genius loci. In lui, come fu per Ungaretti all’epoca del soggiorno a Marino, il territorio si trasforma in paesaggio carico di suggestioni mitopoietiche, dove i miti, le leggende, i misteri, la storia, non si riducono a sterili forme retoriche, bensì a vitali archetipi, dei quali il poeta si nutre e con essi si fonde in una realtà primigenia.
( L’articolo completo si trova a questo link: https://cinziadellaciana.it/2019/07/28/la-morte-di-empedocle-lultimo-libro-di-poesie-di-franco-di-carlo/ )
 
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Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 Perché il poeta di Genzano si occupa della «morte di Empedocle»?, di un fatto così lontano nel tempo che è diventato mito? C’è qualche rassomiglianza tra la situazione politica e sociale della Sicilia del quinto secolo avanti Cristo e la attuale? Empedocle nasce attorno al 490 a.C. ad Agrigento, da una famiglia ricca di parte democratica, posizione che condivise e sostenne, anche se, a parere di alcuni studiosi, non partecipò mai ad attività di governo della sua città; ma su questo ci sono opinioni divergenti, lo Zeller afferma che fu a capo della democrazia del suo paese; possiamo quindi presumere che in qualche modo egli abbia partecipato attivamente al governo della sua città ma con un ruolo super partes, in modo non diretto. Muore a 60 anni in esilio nel Peloponneso, probabilmente perché abbandonato dal favore popolare e allontanato da Agrigento, verosimilmente perché il suo progetto politico in favore del popolo fallì, con conseguente esilio decretato dagli ottimati. Penso che l’intendimento di Franco Di Carlo sia stato quello di mettersi idealmente e in immagine nei panni del filosofo greco, e di qui riprendere a tessere, attraversando i millenni, il filo di una meditazione poetica che si situa nel sottilissimo confine tra la meditazione filosofica e quella poetica.
La crisi dei nostri giorni richiede anche alla poesia di ripensare il proprio statuto di verità e di dicibilità, ecco la ragione per cui la poesia si snoda con un linguaggio suasorio e assertivo dove il locutore può argomentare in modo esaustivo e pacato come quando si parla in solitudine tra sé e sé, infatti le interrogazioni sono tutte rigorosamente implicite, il senso non abita in ciò che si dice ma in ciò che si evita di dire, in ciò che non può esser detto, in quanto il rispondere non si dice, dunque non enuncia il proprio senso; il rispondere lo afferma senza dire che lo afferma, in tal modo il senso è implicito e lo si esplicita se viene indicato ciò che è in questione nel rispondere, ma il rendere esplicito il senso equivarrebbe ad impiegare frasari aperti dove il locutore impiega le proposizioni per quello che sono: o interrogative o affermative, in modo dilemmatico e antinomico. È questo procedere nascostamente dilemmatico il rovello del discorso poetico di Di Carlo; quello che il poeta di Genzano chiama «Apparato Tecnico» è il pericolo che incombe sulla civiltà, e allora occorre riannodare i fili del pensiero poetante, ricominciare da Empedocle.
Ho scritto in altra precedente nota critica che Di Carlo “preferisce il lessico colloquiale, il tono basso, gli effetti contenuti al massimo, un passo regolare e simmetrico. Ovviamente, oggi non si dà più una materia cantabile e, tantomeno, un canto qualsivoglia o una parola salvifica da cui toccherebbe guardarsi come da un contagio della peste. E allora, non resta che affidarsi ad «un appello / al dialogo destinato a restare / Inespresso, una parola staccata / e lontana». La «Vicinanza nostalgica» è «la parola [che] nomina la cosa»; siamo ancora una volta all’interno di una poesia della problematicità del segno linguistico, ad una poesia teoretica che medita sul proprio farsi, sulle condizioni di esistenza della poesia nel mondo moderno, poiché la direzione da perseguire è l’esatto opposto di quella che vorrebbe inseguire lo svolgimento del «progresso», ma un «regresso» calcolato e meditato è la tesi di Di Carlo: «questo è il processo regresso da avviare sulla strada / del pensare, arrivare al luogo scelto / opposto a quello voluto dal progresso nell’Apparato Tecnico»”.
Ma il tono basso, il lessico intellettuale, i convenevoli stilistici di cui questa poesia non fa mistero, sono le sue medaglie al valor militare, sono il pegno che la poesia deve pagare per la povertà dell’epoca attuale. Di Carlo fa poesia mentre costruisce la sua meta poesia sulla poesia, opera una riflessione davanti allo specchio di un’altra riflessione, prende a prestito Empedocle e medita sulla problematica sopravvivenza della poesia nel mondo di oggi, sospesa a metà tra pensiero filosofico e pensiero poetico, ed opta decisamente per una poesia intellettuale intrisa di formalismi filosofici e di bizantinismi del pensiero; lambiccato ed elegante, Di Carlo procede con i suoi endecasillabi alla maniera di un filosofo presocratico. Lo dice in forma epigrafica già nel «Prologo»: «Dobbiamo metterci in cammino, forse un viaggio/ all’interno, verso un tacito discorso».
(l’articolo completo si trova qui:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/03/09/franco-di-carlo-poesie-da-la-morte-di-empedocle-divinafollia-2019-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/)
Risultato immagini per la morte di empedocle libro

 

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, D. Maffìa, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri; è del 2019 La morte di Empedocle.

 

Luoghi d’autore. A spasso con Calvino

L’intento della rubrica Luoghi d’autore è descritto qui sotto: provare a vedere alcuni luoghi, borghi o città, reali o immaginari, con gli occhi di scrittori fondamentali del secolo scorso e non solo.
Le tappe fondamentali di questa “esplorazione” a metà strada tra documento e immaginazione, verranno ospitate dalla rivista L’Ottavo, a cura di Geraldine Meyer, che ringrazio per l’ospitalità.
Pubblico qui la prima “passeggiata” letteraria, quella con Italo Calvino. E vi invito a leggere l’articolo completo, assieme ad altri scritti in prosa e poesia, a questo link: 
https://www.lottavo.it/2020/03/luoghi-dautore-oggi-a-spasso-con-calvino/?fbclid=IwAR21c5ka0Q4ORwJsA_FcHn-kIgGEN6vJkkSuPwx3afBEa_WBXszePAXe-E0 
IM

 

Luoghi d’Autore  contiene esplorazioni, esercizi di lettura e rilettura, brevi ma appassionate escursioni “informali” in abiti lievi e colori accesi su fondamentali sentieri panoramici. Indaga sul  rapporto tra alcuni scrittori e poeti del Novecento e i loro luoghi di residenza ed elezione, le città e i borghi in cui hanno vissuto e lottato per il diritto di esistere e resistere, per la necessità, il fardello e il privilegio dell’espressione.

Rubrica a cura di Ivano Mugnaini

A spasso con Calvino: nei luoghi, oltre i luoghi fino dentro la realtà

Se una notte d’autunno un lettore….
Se una notte d’autunno un lettore si trovasse a pensare a Calvino, alla sua fama, alla sua controversa ma innegabile attualità, alle polemiche a tratti aspre e in altri casi leziose che ne fanno comunque oggetto di dibattito come se avesse pubblicato oggi stesso un nuovo libro… ebbene, il suddetto lettore si troverebbe, alla fine, a riflettere su delle nuove o vecchie cosmicomiche.

Italo Calvino (Foto da illibraio.it)

Calvino è stato un “pianista” della parola. Ha saputo adattarsi con elasticità alle esigenze, ai temi, alle corde e agli accordi del suo essere e a quelli del mondo. Ecco, probabilmente è questa una delle possibili parole chiave: mondo. In primis per l’internazionalità autentica, genetica, che gli era propria. Non solo per la nascita nella caraibica Cuba, ma soprattutto per la capacità di esplorare continenti, lingue e mentalità diverse e farle proprie. Estremamente ligure in questo, con un piede sulla terraferma e uno proteso verso il mare, calmo o in tempesta, limpido o denso e scuro. Ma Calvino è stato e ha scritto del mondo perché ha rifiutato di collocarsi nella proverbiale torre d’avorio. Ha percorso e abitato città reali, estremamente visibili, con quello sguardo attento e astuto da marinaio, tra sorriso ironico e amaro.
Di New York, Parigi, Roma e di mille altre luoghi visti e vissuti, ha colto il mito senza abdicare alla realtà, proponendo e rielaborando, mattone su mattone, una forma di verità che facesse pensare senza lacerare, conservando la capacità di spaziare tra presente e passato, tra la dimensione concreta e una giocosa, profondamente umana, filosoficamente infantile.
Di questi ossimori e questi paradossi si nutre la sua scrittura e l’attrazione che esercita. Talmente ampia da includere anche la sua controparte, le prese di posizione di alcuni detrattori che comunque fanno riferimento ai suoi testi, li analizzano e li dissezionano, dimostrando immancabilmente una conoscenza approfondita dei tessuti e delle arterie di quel corpo così multiforme. Calvino ha il dono e il castigo di generare giudizi divergenti. La mia esperienza personale non ha alcun rilievo sul piano statistico, chiaramente, ma può servire, almeno qui e ora, a confermare che i giudizi sullo scrittore molto di rado sono serenamente anodini. Un mio amico molto colto e preparato, formidabile bevitore poco santo e parecchio logorroico, non molte sere or sono mi ha bloccato al tavolo di una cena per oltre un paio d’ore per dirmi, tra le altre cose, che a suo avviso tutta la produzione di Calvino non vale niente (anche se lo ha detto in termini più coloriti, abbondanti di lettere zeta) e che si salva solamente “Se una notte d’inverno”, proprio in quanto testo atipico, quasi un non-romanzo, una specie di ibrido alla Frankenstein, oppure un divertissement, insomma una “roba strana”, fuori schema. Pochi giorni dopo, in virtù della logica dell’alternanza, una mia amica scrittrice e giornalista mi ribadiva con foga, al contrario, il suo amore, non per me ma per il suddetto Calvino. Più che di amore si trattava e si tratta di vera e propria fede, laica, d’accordo, ma del tutto assoluta, quasi integralista. La giornalista dalle grandi doti comunicative aveva creato addirittura un club, un Circolo Pickwick di giovani scrittori di belle speranze, i quali, ispirandosi allo stile e ai temi cari a Calvino, avevano scritto un’antologia di racconti dal titolo “La consistenza”, con un’eco lunga e appassionata che riportava alle Lezioni americane da lei idolatrate e recitate brano dopo brano come versetti biblici o coranici.
Tutto questo per ribadire che il viaggio di Calvino prosegue, con costanza, sempre di buona lena, e che la sua forza con ogni probabilità è in quella capacità di generare consistenza nell’inconsistenza e varietà nell’uniformità: giudizi contrapposti ma attenzione identica.
Una campionario ampio di pareri, soprattutto negativi, è stato raccolto e riportato in un recente articolo apparso sul Messaggero da Paolo Di Paolo.  L’articolo è ampio e dettagliato. Uno dei punti cardini è quello in cui Di Paolo sottolinea che agli scrittori vengono perdonati eccessi, follie e stranezze ma raramente o quasi mai viene perdonato il successo. Questa è una colpa che non viene redenta, se non in casi rarissimi di scrittori morti giovani, possibilmente santi o martiri di qualche idea, meglio ancora se suicidi.
Calvino invece il successo lo inseguì, lo rincorse e lo raggiunse. Gradualmente, iniziando con un passo cadenzato, poi adattando il ritmo al percorso e ai tempi. Una delle svolte fondamentali fu quella di accettare il consiglio dell’entourage della Einaudi: quello di passare dal realismo alla letteratura fantastica. Molti altri scrittori si sarebbero sdegnati, avrebbero eretto bunker e barricate a difesa della propria impostazione. Calvino accettò il consiglio e lo tramutò nella propria forza. Sembrava che attendesse da sempre questo snodo, o meglio lo accettò come parte di sé e continuò a raccontare ciò che sentiva suo tramite invenzioni di macchine narrative fatte di castelli, visconti, numeri e formule create ex novo, luoghi inesistenti e in realtà radicati in ciascuno, nel profondo. Un’abilità camaleontica di parlare di sé diventando uno dei suoi numerosi personaggi, oggetti e luoghi, tra Marcovaldo e Palomar.
Calvino nasce a Cuba, ma vi rimane solo fino all’età di due anni. Il tempo necessario per assorbire di quella zona del mondo e di quella dimensione della mente un senso di precarietà tenace, un’allegria malinconica e una sete di avventura, fatta di incontri, di gesti, ma soprattutto di parole, racconti veri e inventati, esagerati ed esatti, come accade sempre in quella parte di continente in cui la realtà ha la voglia e la forza di farsi magia.
Il padre, agronomo sanremese, docente di matematica e scienze, conduce Calvino in Italia all’età di due anni. Il giovane si trova così a metà strada tra il mare e terra, intesa anche come suolo, studiato e misurato con criterio scientifico, e dall’altra parte il mare, l’attrazione dell’altrove. Successivamente Calvino rivisitò varie volte Cuba in compagnia della moglie, la traduttrice argentina Ester Judith Singer, sposata nel 1964. In quell’occasione conobbe Ernesto “Che” Guevara a cui, dopo la sua morte in Bolivia, dedicò alcune pagine.
A fianco a Cuba, di fronte, in un dialogo anch’esso complesso e fertile, l’America.
Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino parte per l’America. Definisce New York, «la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa terra». Qui, più che mai, il viaggio non solo parla della persona ma è la persona. Nel corso dei due mesi trascorsi a New York, Calvino realizza il desiderio profondo dei suoi personaggi, quindi suo: osservare il mondo senza essere visto, presente ed estraneo, invisibile e tuttavia concreto, tangibile, non meramente onirico.
Osserva l’America come suo padre avrebbe osservato e misurato un terreno complesso e irregolare, pieno di contrasti, arido e fertile, ricco di meraviglie e di desolazioni. Dalle sue “osservazioni” scaturiranno i saggi raccolti nel libro Un ottimista in America, edito da Einaudi. Nella primavera del 1961 il libro è pronto, ma Calvino lo ferma in seconde bozze. Si rende conto che il libro è troppo avanti e soprattutto troppo distante dai luoghi comuni acquisiti in Italia tramite le pellicole hollywoodiane: “Forse – dice – dovremmo insegnare agli americani che cos’è l’America”.
Calvino si sente americano, perfettamente a suo agio in una terra di contrasti, in evoluzione costante.  È un uomo felice laggiù. Le lettere agli amici italiani sprizzano allegria. A Elsa Morante scrive: «New York mi ha assorbito come una pianta carnivora assorbe una mosca”. La fantasia nutre se stessa e divorandosi si rigenera, nuova, vitalissima. Quelle americane, ampie, dure, ma irrefrenabili nel brulicare di vita, sono il modello delle città invisibili, ognuna portatrice di un’idea, di un modello, di una potenzialità.
La Francia, inoltre, altro capitolo. A Parigi Calvino visse dal 1967 al 1980. È la città della sua maturità, il luogo dove prende atto e visione della presenza fisica, rilevabile tramite i cinque sensi, della leggerezza, altra parola chiave, e, più che mai, magica. Parigi è un racconto eternamente rivolto all’indietro, alla grandezza della storia e del passato ma con un piede etereo sospeso nell’aria, simile a quello di una ballerina della Folies Bergères, verso il futuro. La razionalità si inebria di effluvi di champagne e ne nasce l’umorismo, sensuale, in ogni possibile accezione.
In questa mappa ideale è utile fare sosta, con una passo indietro, anche a Torino, tappa significativa della sua giovinezza. Il capoluogo piementose rivela, nella sua geometrica precisione di strade e gesti, uno dei contrasti alla base anche della scrittura e del pensiero calviniano: la città ha un vigore e una linearità che “invitano alla logica, e attraverso la logica” aprono “la via alla follia”. Non è un caso, detto tra parentesi, che Torino sia la capitale italiana del mistero e dell’occulto.
Roma, invece, apparentemente più posata e domestica, in realtà in qualche modo provoca in Calvino un’ammirazione prudente. Soprattutto a causa di alcuni scrittori dell’ambiente letterario della capitale che a suo avviso vi soggiornavano solo nella speranza di assorbire una grandezza che era loro estranea.
A Roma lo scrittore trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita, alloggiando in piazza Campo Marzio. Rileggendo alcune pagine di Palomar dedicate a Roma vi si intuiscono presagi di morte che paiono quasi assediare il protagonista in fuga dalla folla. Ne «L’ invasione degli storni», c’è un espediente narrativo e psicologico di geniale efficacia: la città eterna vista «con occhi da uccello». I secoli trascorsi e l’istante che fugge.
Calvino-Palomar evita di confrontarsi con la città reale. Guarda in alto, fuori dalle prospettive consuete e si chiede se “questo affollarsi del cielo ci ricorda che l’ equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso di insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?” Scriveva Pasolini: “le città che Calvino sogna, in infinite forme, nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una città reale”. In quest’ottica, dunque, Roma, la più nota delle metropoli, quella in cui tutto, passato e presente è alla portata degli occhi, dei piedi e delle mani, in realtà è l’ultima, e la prima in ordine gerarchico, delle città invisibili incontrate ed evocate da Calvino. E se Calvino è visto come “scrittore freddo”, accusato di essere incapace di rendere il senso del tragico e del sacro, è proprio perché la sua visione assolutamente laica, priva di religiosità, lo spinge a rinunciare al lusso delle illusioni, quelle in cui indulgono coloro che esaltano un passato glorioso o un lontano futuro di redenzione. In Calvino non c’è illusione. La sola gioia possibile è quella di un reale reso mitico dall’energia presente e da una fantasia che non pretende di ammantarsi di vesti sacre o mistificatorie.
In questo breve excursus, ho tentato di tracciare alcune tappe del percorso umano e letterario di uno degli autori italiani più apprezzati e letti in tutto il mondo. Tentativo un po’ folle, vista la vastità e la varietà di spunti e tematiche che gli sono proprie. È stato quasi come ricercare i sentieri dei nidi di ragno, tanto per prendere a prestito il titolo del suo primo romanzo. Tentativo folle, e quindi in fondo compatibile con l’atteggiamento di un autore che ha saputo cercare la natura autentica dei luoghi e dei personaggi, proprio nell’atto di evidenziarne l’imprevedibile umana follia, fantasia, senza le barriere preconcette del prima e del dopo, del se e del mai.
Calvino ha cercato l’affermazione di sé e del proprio mestiere senza snaturarsi, senza rinunciare alla coerenza con ciò che credeva e ciò a cui non credeva, senza dogmi e costrizioni. Il suo successo non è una colpa né può essere visto come un limite. È la testimonianza che ciascun individuo è una città di parole e sogni, invisibili fino a quando non accettiamo il mistero del connubio del sorriso e del pensiero. Quel gioco per cui ogni vita è solo se stessa ed è parte di un mito e di un mistero. Calvino ricorda, con i suoi libri, ad ogni individuo rampante, dimezzato, cosmicomico, incessantemente viaggiante, che quel gioco va vissuto e raccontato, giorno per giorno. Perché la vita è un luogo che si trasforma istante per istante, nell’atto di viverlo, pensarlo e immaginarlo: “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere”. Quindi, tornando al titolo e all’esordio: “Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di Malbork […] in una rete di linee che s’intersecano illuminate dalla luna”, chiede ancora: “Quale storia, laggiù, attende la fine?”, la risposta, sempre diversa, sempre individuale e nuova, è nel racconto stesso.
 

Un marziano del mondo e della parola

 
Leggendo e osservando sui giornali e in televisione il teatro della politica e della vita attuale, mi è venuto spontaneo chiedermi cosa avrebbe detto Flaiano dei mirabolanti eventi e mutamenti e dei memorabili tweet con i controtweet.  Probabilmente avrebbe detto “Coraggio, il meglio è passato”. O magari avrebbe taciuto, osservando con occhio da realistico sognatore “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.
Una cosa è certa: mi è venuta voglia di ripubblicare un vecchio pezzo su Flaiano, in cui, tra l’altro, viene citata anche questa sua frase: “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Il mio auspicio è che, a dispetto di tutto, anche in questi giorni non si smetta di pensare.
E magari anche di scrivere.
Se poi vi va di farmi leggere le vostre parole, edite o inedite, lo faccio volentieri.
Il mio indirizzo è sempre lo stesso: ivanomugnaini@gmail.com  .
Così come è sempre lo stesso il mio sito: https://www.ivanomugnaini.it/  . Non è un panettone, ma anche il sito è artigianale. Garantito e senza canditi.

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ENNIO FLAIANO:

UN MARZIANO DEL MONDO E DELLA PAROLA

Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato,  sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
Ma in Flaiano lo spettacolo della parola non cede mai all’autocompiacimento. Non è un caso quindi che abbia volutamente scelto una posizione defilata per osservare criticamente la realtà, una sorta di terra di confine posta a metà strada tra il coinvolgimento e il distacco, la passione e l’umorismo. In tal modo si è rivelato egli stesso quel “marziano” che ha descritto nel suo famoso racconto. E la sua navicella, inafferrabile, si è sempre sottratta ai radar e ai caccia di qualsiasi stormo di ordinari benpensanti, sorvolando e distaccandosi da quei luoghi comuni che ha sempre stigmatizzato.
«L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo», scriveva Flaiano. Questa affermazione contiene una netta presa di posizione e la conferma che solo il pensiero, una volta tramutato in parola, ci offre una chiave di lettura, e una conoscenza più elevata, o almeno più libera, non condizionata da cliché.
Flaiano nasce a Pescara, città anche di D’Annunzio, in grado di produrre questi due sguardi così distanti del medesimo circo del mondo fatto di luci, giochi d’ombra, suoni, rumori, tunnel misteriosi e caroselli rutilanti. La stessa terra d’Abruzzo genera il vate, il poeta soldato, l’immaginifico creatore di versi e slogan, e, qualche decennio dopo, l’antiretorico dissacratore, l’uomo della sintesi caustica, lo scrittore dall’aspetto di commesso viaggiatore che scardina le roboanti certezze. In comune una passione vorace per l’eloquio, un’attrazione maniacale e due diversissime e al tempo stesso inimitabili forme di funambolismo.
In Un marziano a Roma, Flaiano scrive: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.»
Meglio allora vederla già filtrata da uno schermo, la verità, o da una posizione laterale, come in un film che usa la sua natura fittizia per rappresentare la realtà. Cercando così di far ridere quando è il caso di piangere e viceversa, o indurre entrambe le cose, salvandosi però da quello sguardo insostenibile di Medusa che annienta e nasconde il pensiero. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso dell’umorismo. Lui, Flaiano Ennio, ultimo dei sette figli di Cetteo Flaiano, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Evidentemente era forse già scritto che ne dovesse parlare, producendo una serie di aneddoti che fotografano un’epoca e che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Per Flaiano Roma oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Si iscrive ad architettura ma non completa gli studi, coerente con quel senso di solida e strutturata impalpabilità, fedele a quella sua natura che egli stesso sintetizzò mirabilmente con la frase “Con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, motto della sua intera esistenza, riportata anche sulla lapide posta a futura memoria sulla sua casa romana.
La sceneggiatura non scritta, o scritta sul cemento della realtà, prosegue quando si stabilisce in Viale delle Milizie condividendo una stanza con il pittore Orfeo Tamburi. I nomi, le parole, perfino le targhe agli angoli delle strade, sembrano inseguire il suo umorismo, quel sentimento del contrario in lui innato. In quel periodo conosce tra gli altri Mario Pannunzio e Leo Longanesi e inizia a collaborare con varie riviste.
Partecipa alla Guerra d’Etiopia, e, anche in questo evento biografico accanto all’orrore reale ci sarà spazio per la memoria, per il ricordo e la testimonianza. Anni dopo ne nascerà, scritto in poco più di tre mesi, il romanzo Tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega.
Il comico e il tragico si rincorrono nella sua vita, in un appuntamento immancabile. Come la sua presenza ai tavoli dei caffè letterari romani ma soprattutto delle trattorie, veri palcoscenici di battute feroci e geniali, testimoniate in modo sublime, ad esempio, dai fedeli avventori del Re della Mezza Porzione nel film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Flaiano sposa in quegli anni un’insegnante di matematica, quasi a voler dare una misura al fluire anarcoide della vita, ma il volto tragico della vita va oltre ogni catalogazione tassonomica, oltre ogni formula ed equazione: la figlia Luisa, nata nel 1942, pochi mesi più tardi manifesta i primi segni di una encefalopatia che ne condizionerà gravemente l’intera esistenza.
Il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura.
Collabora con molti dei più significativi registi del dopoguerra, ma resta nella memoria soprattutto il suo lungo e fruttuoso sodalizio con Federico Fellini. Due personaggi simili e diversissimi, Fellini e Flaiano, due timidezze a confronto, due scontrosità di sapore differente e con specifiche modalità di difesa e di attacco. Ma con il gusto condiviso di ritrarre quel lato del mondo che affascina e inorridisce, il grottesco scrutato con attenzione divertita e feroce, forse per evidenziare il lato surreale nascosto nei meandri di ciascuno di noi come in quel malinconico e interminabile girotondo di “8½”.
All’attività di sceneggiatore Flaiano affianca quella di giornalista. Negli anni sessanta inizia un periodo di viaggi e relazioni internazionali, in Spagna, a Parigi (dove scrive per Louis Malle), e negli Stati Uniti (per l’Oscar a “8½”), poi di nuovo a Parigi (dove scrive una sceneggiatura tratta dalla Recherche di Proust per René Clément), a Praga e in Israele. Collabora tra gli altri con Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.
La “bilocazione dell’intelligenza”, quel suo modo di cogliere l’ambivalenza del reale, gli ha permesso di osservare il mondo senza esserne inglobato, rifuggendo dai meccanismi dell’omologazione, del luogo comune e dall’apparente mondo dorato dello star system. Questo suo essere dentro la realtà restandone fuori, ha prodotto alcune delle sceneggiature più significative del cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta e una serie innumerevole di aforismi che ancora oggi hanno il potere di ritrarre l’indole, il modo di essere e di pensare degli italiani.
Il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”, scriveva Flaiano. Ebbene, non saprei dire se noi italiani il suo genio lo abbiamo compreso troppo o troppo poco. Come commentare altrimenti le notizie e le immagini dei “solerti” impiegati che timbrano il cartellino in mutande per poi tornarsene a letto? Oppure gli appartamenti concessi in affitto dal Comune di Roma ai soliti ignoti (o noti, cognati e cugini di altri noti) al prezzo di un caffè al mese? Una sua critica puntuale e salace manca come la bussola ad un marinaio nel mare in tempesta.
Ci manca Flaiano. Non per una sdolcinata esaltazione quasi agiografica o per un amarcord fuori tempo, ma per una concreta e solida presa d’atto: l’assenza oggi di figure che abbiano saputo coglierne lo spirito e riceverne l’eredità. Del resto, come egli stesso aveva preconizzato, nel nostro paese vige una sorta di “culto della mancanza di personalità”, e in particolare i giovani “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
Flaiano pur essendo stato un campione della disillusione ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una storia, in un racconto, in una sequenza di immagini, o addirittura in una sola frase, in cui come per incanto è possibile cogliere immediatamente entrambe le facce della luna. Questo dono ha potuto farcelo in qualità di marziano, proveniente da galassie di ironia e stralunata lucidità. E ha potuto offrircelo perché era capace di leggere la realtà senza cedere alla patina di banalità di cui questa a volte si ammanta, utilizzando la parola come strumento per sezionare e ricomporre il mondo.
In questi tempi in cui tutto scorre velocemente, in cui il pensiero più alto vale l’esternazione di un tweet, in un mondo in cui non si scrivono più storie ma tutti fanno storytelling, risulta più che mai evidente la sua geniale capacità di sintesi e la sua lucida e visionaria lungimiranza. Ma forse, essendo Flaiano sempre un passo avanti o un passo di lato di fronte alla realtà, oggi, con un suo fulminante aforisma, ci avrebbe con ogni probabilità invitato a riscoprire il valore più profondo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione.
E forse, anzi sicuramente, da genio qual era, ancora una volta non sarebbe stato compreso.
                                                                                       Ivano Mugnaini

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La poetessa dei “liberi ribelli” – Intervista a Dalila Hiaoui

 Le risposte di Dalila Hiaoui alle mie domande sono piene di frasi che si aprono su altre frasi, altri tempi e modi, spiragli ampi e generosi, parentesi che chiudono epoche e aprono mondi nuovi, possibili. Sono dense di punti esclamativi simili a sorrisi, sguardi, gesti che richiamano l’attenzione oltre il limite della parola scritta, verso quella zona compresa tra realtà e immaginazione, fantasia e gesto  concreto.
L’intervista è piena di fascinosa, coinvolgente poesia. Alla fine risulta quasi percepibile, mangiabile, condivisibile con  gli occhi e con le mani, da un unico piatto con bordi colorati posto al centro di una tenda grande quanto il mondo. IM

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Rubrica A TU PER TU

La poetessa dei “liberi ribelli” – Intervista a  Dalila Hiaoui 

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1 –  Buongiorno Dalila e benvenuta.

Sei nata in Marocco e sei di origine berbera.

Quali influenze hanno avuto e hanno le tue radici sul tuo modo di essere e di esprimerti, nella vita e nell’arte? Qual è il rapporto dei berberi con la poesia, con il racconto, con quella che potremmo definire “l’affabulazione”? Quali legami ci sono tra la cultura scritta e la tradizione orale, tra la modernità e il passato?

Salve Ivano, sono molto lieta e anche grata di essere la tua ospite. Sono marocchina berbera, o, se vuoi, Amazigh, che vuol dire: i liberi ribelli. Sono nata a Marrakech che nella lingua amazigh antica vuol dire la sede, o anche la casa, di Dio. Ho vissuto nel nord del Marocco, esattamente nella città di Tetouan dove è diffusa la cultura andalusa, e nel profondo deserto del Marocco, a Dakhla, verso i confini con la Mauritania, un’area in cui è predominante la cultura Hassania. Queste sono le mie radici, ciò da cui ho avuto origine e che porto con me, anche oggi, anche nel cuore dell’Europa.

Roma è stata ed è un elemento determinante per costruire me stessa, ciò che sono, il mio modo di imparare, di pensare, di valutare, di comportarmi, essendo, allo stesso tempo, passato, presente e futuro.

Per quello che riguarda l’ultima parte della tua domanda sui legami che ci sono tra la cultura scritta e la tradizione orale, posso dire che l’arte con tutte le sue sfumature è la vera memoria dei popoli che non verrà mai cancellata: la cultura orale è la matrice di quella scritta, sia nei racconti sia nel canto. Nell’eterna Roma sto seguendo i passi del mio nonno amazigh Afulay che da voi è conosciuto con il nome Lucius Apuleius (127-170). Apuleio è considerato il primo romanziere dell’umanità e io sono felice e onorata di avere un simile precursore. Nei nostri percorsi di viaggiatori del mondo e della parola c’è una piccola differenza, tuttavia: Afulay detto Apuleius ha scritto il suo romanzo L’asino d’oro dopo il suo arrivo a Roma, mentre io sono arrivata avendo già nel bagaglio un romanzo di un certo successo nel mondo arabo e francofono e qualche poesia sulla tema della pace tra i popoli e le religioni. Nonostante i vari articoli che avevo già scritto e tutto quello che già avevo fatto nell’ambito della scrittura, anche narrativa, nel mio passaporto marocchino dell’epoca, era scritto poetessa sotto il mio nome. Quindi il mio paese di origine mi definiva già “poetessa”, una definizione impegnativa che però mi identifica, quasi un secondo nome, una strada, una meta, un modo di essere.

2 – Risiedi da tempo in Italia, a Roma. Al di là degli stereotipi e con serena e informale schiettezza, quali sono stati gli ostacoli che hai incontrato al tuo arrivo in Italia e quali sono gli aspetti che, ancora oggi, trovi difficilmente comprensibili, o almeno auspicabilmente modificabili dell’Italia?
Sul fronte opposto, cosa ti ha fatto amare l’Italia e di cosa sei grata al nostro paese?

Il vostro paese è anche il mio! È il luogo dove ho provato a volare con le mie ali, senza essere la moglie di tizio o la sorella di caio! Se Marrakech è mia madre, Roma è la mia madrina: mi ha abbracciata nel momento del bisogno di affetto, ha curato le mie ferite e mi ha fatto crescere. A Roma mi sento a casa, forse con un tocco di più di ordine e disciplina rispetto alla mia terra. Ma il tempo meteorologico non è tanto diverso dal mio paese di origine, così come la stessa è la cultura mediterranea e quasi gli stessi sono gli ingredienti della cucina e per questo non sono rimasta stupita vedendo lo stesso sorriso sulle labbra della gente, ascoltando la battuta pronta, o la domanda “Come va?” subito dopo il buongiorno del mattino. Nella mia adorata Roma ho scoperto il lato gentile e amichevole della gente già dal primo giorno, visto che non trovavo la strada per raggiungere il palazzo in cui si svolgeva il mio nuovo lavoro: alcuni hanno provato a indicarmi la strada usando il francese, lo spagnolo o l’inglese perché il mio italiano era limitatissimo. Alcuni hanno provato con i gesti e altri addirittura hanno lasciato i loro commerci e le loro occupazioni e mi hanno accompagnato per qualche tratto di strada per farmi arrivare a destinazione! In quel mio primo giorno romano, io che pensavo di essere venuta a Roma solo per qualche giorno o qualche settimana ho capito di aver raggiunto la mia meta finale e di essere nel posto giusto! E così l’Italia mi ha regalato amici e amiche più presenti nella mia vita e più vicini delle persone della mia stessa famiglia. Ti faccio anche una confessione: tornando a Roma dal funerale di mia nonna materna, sono andata dall’aeroporto direttamente all’agenzia immobiliare per cambiare la casa che avevo preso in affitto e prenderne una con un giardino! Anche un piccolo buco mi andava bene, mi bastava avere lo spazio sufficiente per mettere nel terreno quelle radici che avevo perso con la morte di mia madre e poi di sua madre cioè la mia adorata nonna. Così ho piantato dei piccoli alberi come quelli che abbiamo a Marrakech: arance, mandarini, fichi, albicocche, limoni, olivi, ciliegie, e una mimosa, in omaggio a tutte le donne!

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3 – Sei un osservatore interessante della realtà proprio per questo tuo percorso biografico, oltre che artistico, che ti ha consentito di vivere ruoli molto diversi, a volte in apparente contrasto. Conosci il mondo arabo e quello occidentale, la solitudine dello scrittore e i luoghi affollati, i salotti e i palazzi, le agenzie governative, le università e gli studi televisivi. Conosci persone di ogni classe e condizione sociale e umana.
Come vivi questa tua costante immersione in ambienti e contesti diversi? E come influenza il tuo modo di vivere, di scrivere e di percepire?
 
È il mio capitale! La mia ricchezza morale, mentale e spirituale. Ogni persona che ho incrociato nel percorso della mia vita ha avuto in qualche modo il ruolo del maestro per bene o il maestro chi ti fa estrarre le unghie e ti ispira la forza per evitare il pessimismo di certi momenti. Lo stesso discorso vale per ogni luogo in cui ho vissuto: per me è stata una vera scuola se non un’università! Di quei volti e quei luoghi è fatto l’inchiostro con cui scrivo, la mia poesia e la mia prosa!

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4 – Faccio anche a te una domanda a cui tengo molto e che ho già rivolto ad altri autori intervistati in precedenza: pensi che la letteratura, la poesia, la narrativa, la scrittura in senso ampio, possano essere solamente una specie di rifugio nella tempesta, o possano in qualche modo agire in modo effettivo, avere un ruolo per modificare il mondo, il modo di rapportarci gli uni con gli altri, di agire oltre che di pensare?
 
L’espressione “letteratura” in lingua araba vuol dire la massima educazione, la vetta dell’educazione, l’espressione “poesia” viene dalla radice verbale sentire, quindi solo chi ha bevuto dall’acqua santa della cultura può sinceramente cambiare il mondo e seminare la bellezza, l’amore e la pace dappertutto. Per questa ragione organizzo ogni tanto con amiche ed amici poeti e scrittori delle carovane di solidarietà a favore degli studenti del Marocco, e siamo riusciti anche a convincere amici ed amiche che operano al di fuori del campo letterario a contribuire alla creazione di librerie e spazi d’arte e cultura nelle scuole di montagna del Marocco. Il futuro con ali di pace e amore dobbiamo disegnarlo insieme anche nelle zone lontane e periferiche.

5 – La tua è una poesia impegnata in senso concreto, non di facciata.
Come concepisci il concetto di “impegno” anche nell’ottica del mondo attuale, tra squilibri, tensioni e conflitti, anche di mentalità e di visione del mondo, della politica e della religione?

Grazie di aver definito la mia poesia impegnata. È vero! Non ho mai scritto sin da piccola della fantastica chiarezza del cielo, del blu smeraldo del mare, del meraviglioso canto del canarino o del gioioso amore vissuto, o, nel mio caso dopo tutti questi anni, mai vissuto! Parlo del lato gioioso dell’amore, ovviamente, non dell’amore in se stesso. Non scrivo se non ho le lacrime agli occhi! Non scrivo se una scena di vita non mi ha colpito l’anima o ha colpito qualcuno, qualche altro essere umano. Non scrivo se non di qualcosa o di qualche luogo che mi è davvero caro. La poesia è uno specchio della società, e il mio dovere è di fare vedere alla società sia orientale che occidentale i diversissimi volti che vi sono riflessi e che non sono nella maggior parte dei casi piacevoli! Credo che tutti quanti abbiamo il dovere di difendere il diritto legittimo di vivere in un mondo d’amore, di equilibrio spirituale e mentale. Vale a dire vivere nella pace interiore, soprattutto. Da mia parte sto provando a volte tramite articoli o saggi oppure poesie scritte con l’inchiostro della critica e della denuncia sociale, con parole sussurrate oppure gridate a dire BASTA! Ho dedicato poesie alle suocere che rovinano i rapporti dei figli con le altre donne, ai figli adolescenti con tutte le loro problematiche con i genitori, ai turisti del piacere carnale, alla irresponsabilità degli uomini della nostra benedetta epoca, al velo, all’eredità, alla poligamia. Ho provato a parlare di tutto questo, di ciò che sento e vedo con i miei occhi di musulmana con la mente aperta; vale a dire musulmana che non dice Amen e così sia alle interpretazioni e alle spiegazioni degli altri, ma si fa, in modo autonomo, le sue ricerche personali ed accademiche. Non sono nata per fare il pappagallo! Sono nata per correre come la gazzella tra i campi di sapienza e a volte per volare come un’aquila!

6 – Ho trovato interessante (e questo si ricollega anche alla domanda precedente) il tuo vivere a tutto tondo il ruolo di poetessa e di comunicatrice, senza chiuderti nella proverbiale “torre d’avorio”. Mi ha colpito ad esempio anche la tua capacità di trasformare la cucina, i piatti tradizionali della tua terra d’origine, in un ponte, un modo per fare dialogare in modo vivo e gioviale culture e mondi diversi.
Cito volentieri, a questo proposito, un brano tratto da un post pubblicato su Arab News:

La mattina del fatidico pranzo – a base di piatti della tradizione, in teoria; un tripudio d’ingredienti cosmopoliti, nella pratica – ho trascorso un’ora e mezza sui mezzi pubblici romani, su e giù dal ventre fino alla superficie della nostra Madre Terra. Tra metropolitane ed autobus in cui i turisti fanno chiasso più degli studenti e dei lavoratori. E nonostante non ne potessi più, mi sono trovata a sorridere a quei visi. Proprio io che a lungo, per molte mattine, mi sono lamentata in tutte le lingue (anche quelle che non conosco!) del sovraffollamento, dei ritardi, del calpestarsi i piedi, dell’urtarsi, ora stavo sorridendo. Perché già fantasticavo di ciò che di lì a poco avrei vissuto: avrei scorto la gioia della festa sui visi delle mie amiche egiziane, siriane, palestinesi. Intorno a un pranzo all’insegna del light, a cui si addice d’essere servito in semplici piatti di plastica. E che ogni festa ti sia lieta, Eva che rappresenti tutte le donne, a cavallo della libertà lungo la distesa dell’uguaglianza.

Ti va di commentarlo, dicendoci anche qualcosa riguardo all’importanza dell’essere “light” e del dialogo multietnico?

È un progetto mio che forse vedrà la luce con un’amica specializzata nelle scienze alimentari. È un progetto per creare davvero un ponte di delizie tra le due sponde del mediterraneo visto che facciamo il bagno nello stesso mare e peschiamo lo stesso merluzzo usando lo stesso olio di oliva di pianura e lo stesso alloro e timo di montagna! Quasi tutti gli ingredienti si trovano e anche la volontà non manca. Quindi manca poco per godere delle bontà delle due rive con un tocco dietetico ragionevole! Amo cucinare e condividere i piacere della gola con i miei cari, ma amo di più semplificare un po’ le ricette, perché il ritmo della vita occidentale è molto veloce, e anche perché tengo presente le intolleranze, la glicemia, la pressione, il colesterolo e tutti gli altri gioielli che ci regala la vita prima o poi!

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7 – Insegni la lingua araba e con essa le tradizioni, il modo di vivere.
Ritieni che una maggiore conoscenza reciproca, fin dalle scuole elementari, potrebbe favorire il dialogo o è pura utopia?
 
Caro Ivano! La prima Università europea che ha aggiunto la lingua araba alla lista degli studi accademici è stata italiana. È accaduto nel 1600, e di preciso a Bologna, dopo che gli arabi erano stati cacciati da Granada in Andalusia. In seguito lo studio della lingua araba si è esteso a Napoli e ad altre città e altre prestigiose sedi accademiche. Dalla Sicilia i numeri arabi hanno raggiunto l’intera Europa e tutto l’occidente e con essi è giunta la nuova creazione dell’epoca, “lo zero”, in arabo “ssefr” poi per voi “cifra” e per i francesi “chiffres”. Quindi, che lo si voglia o no, l’Italia è stata la vela della nave dello scambio e del dialogo culturale storicamente e in Italia sento davvero un interesse molto vivo per le lingue straniere. Inoltre, come hai sottolineato nella domanda, è molto importante offrire ai bambini un orientamento bilingue. Un orientamento psicolinguistico moderno che risponda ai veri bisogni dei bambini. Io per esempio all’asilo avevo la mattina l‘arabo e il pomeriggio il francese, ed era vietato parlare in arabo durante il pomeriggio francofono così come era vietato parlare in francese o in dialetto durante la mattinata dell’arabo! Le lingue erano presenti anche durante il gioco o il canto e la terza lingua era in programma per il liceo. Adesso hanno la terza lingua, spesso l’inglese o lo spagnolo, già dalla scuola media. Quanto al berbero, si impara nelle zone montane del Marocco a partire dalla scuola elementare insieme all’arabo e al francese. Mi ricordo benissimo un discorso degli anni 80 di Re Hassan Secondo di cui mi è rimasto impresso nella memoria anche il tono non solo le parole: “Chi parla solo una lingua è un analfabeta nonostante i suoi diplomi!”. Però questo non vuol dire che siamo dei geni in Marocco oppure che il Marocco è il paradiso divino. C’è tanto da fare soprattutto nel campo dell’insegnamento perché è la base di tutto! A cosa servono greggi di pappagalli?
 

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8 – In qualche modo ricollegandoti a tutta la conversazione precedente, ci puoi parlare del tuo salotto letterario bilingue J’nan Argana.
Come è nato, come opera, e come lo consideri nell’ambito della cultura del dialogo di cui abbiamo parlato? Pensi che sia un esempio isolato o che possa fare da seme per favorire la nascita di realtà simili sia a Roma che in altre città?

J’nan Argana vuol dire il Paradiso di Argan. E l’argan come sapete è un albero che si trova solo in Marocco e ha la funzione di separare il deserto dalla pianura creando una cintura naturale per bloccare o limitare la sabbia che non smette di avanzare. L’argan è un frutto che dà un olio miracoloso con caratteristiche medicinali favolose e che si può ottenere solo tramite il lavoro delle mani delle donne berbere. Viene ancora oggi macinato con la pietra! Ho sempre avuto in mente di tenere salotti culturali e letterari, fin dai tempi di Marrakech, prima di spostarmi a Roma. Nei primi anni del mio soggiorno romano ero in fase di rinascita psicologicamente e culturalmente e dovevo ambientarmi e mettere radici. Poi, piano piano, mi sono sentita a casa, ma l’idea di creare un salotto letterario è rimasta a lungo un sogno nel cassetto. Nel 2011 i pipistrelli dell’odio e dell’ignoranza hanno colpito nel cuore della mia città natale, Marrakech, un caffè dove avevano luogo attività culturali anche con turisti stranieri che si chiamava “Argana”. In seguito a questo episodio con amici intellettuali marocchini e italiani abbiamo pensato di realizzare qualcosa per avvicinare i popoli, le culture, le etnie, ed è nato ARGANA. Abbiamo seminato l’amore e il dialogo invece dell’odio e della chiusura mentale. Tutto ciò si può creare ovunque, basta avere volontà e desiderio di condivisione! La cultura non ha confini geografici! 

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9 – Come ultima ma non ultima domanda, ti chiederei un bilancio della tua esperienza umana e artistica, e una previsione (anche se mi rendo conto che non è facile assumere il ruolo di indovini): pensi che ci siano spazi per poter vivere in un mondo in cui ci si comprende maggiormente, pur nelle differenze, nelle diversità, nelle specificità di ognuno?
Vorrei una risposta duplice, una con il cuore di poetessa, l’altro con la mente di studiosa e docente.

Oppure, ringraziandoti per le risposte a questa intervista date sia in qualità di poetessa e scrittrice che di divulgatrice e studiosa, vorrei una risposta libera, sincera, data con un ottimismo che conosce bene la realtà, ma anche la volontà e la speranza di poterla rendere più umana.
 
Amare, donare, sorridere, sognare, sopportare, non guardare dietro se non per vedere quanto è grande anzi gigante la nostra ombra, e per ultimo: vivere e lasciare vivere! Ecco le sette chiavi della mia vita! La luce del mio cammino di studio, di ragione e di poesia. La ricercatrice e la poetessa scrittrice sognatrice non si sono mai separate in me fin da quando avevo 15 anni! Vanno tanto d’accordo e non intervengo mai per separarle. Penso che le sette chiavi possano servire a qualsiasi persona per andare avanti e per affrontare ogni difficoltà!

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Dalila Hiaoui, poetessa-scrittrice, collabora con diversi giornali e riviste arabe e marocchine; è professoressa di lingua e cultura araba presso le agenzie delle Nazioni Unite. Di origine Amazigh (berbera), è nata a Marrakech e risiede a Roma. Ha pubblicato come “author, & co-author”, 19 libri tra poesie, romanzi in lingua araba, italiana, inglese, cinese, serba, albanese  e un manuale di arabo in 3 volumi in collaborazione con il Rettore dell’Università Internazionale Uni-Nettuno a Roma, con la quale ha realizzato anche i corsi televisivi: IMPARO LA LINGUA ARABA-IL TESORO DELLE LETTERE, (già in onda sui canali nazionali del Marocco, sui canali dell’Università, e su Rai 2 e 3, e il digitale terrestre dal 2010). Conduce da giugno 2013 il salotto letterario bilingue J’nan Argana.
 
Aggiungo volentieri una piccola ma significativa postilla integrativa alla nota biografica scritta dalla stessa autrice:

Posso aggiungere anche che sono una delle pochissime  scrittrici/poetesse di lingua araba ad avere intrapreso la strada del digitale, cioè, l’e-book, pensando all’ambiente, soprattutto! E sto lavorando a progetti simili con altre autrici ed altri autori, anche più giovani! Ho presentato nel 2016 a Fez in Marocco una delle poetesse più giovani del mondo, ha 13 anni, ed è semplicemente italiana. Vorrei che le opere dei piccoli autori che vivono tra le montagne, nel deserto, nei villaggi più lontani fossero a portata di mano di tutta la gente che creda ancora nell’amore, in Europa, in Asia, in Australia, e dappertutto nel mondo. Così ho adottato culturalmente i giovanissimi poeti e pittori delle montagne del Marocco. Sto lavorando con i loro professori alla pubblicazione delle loro opere in digitale e in cartaceo perché in alcuni paesi non è possibile comprare o scaricare l’e-book, forse per misure di sicurezza. Tutto il guadagno derivante da questa iniziativa sarà destinato ai piccoli autori e alle loro scuole, per coprire le spese di studio, gli occhiali da vista, e altro materiale e attrezzature scolastiche. Tutto questo senza chiedere nessun finanziamento a nessuna organizzazione! Sono sempre andata avanti da sola condividendo il frutto del mio sudore personale per un futuro migliore! 

Dalila Hiaoui 2

Il vangelo del boia

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Un thriller che è anche indagine psicologica, riflessione sul tramonto di un’epoca ed esplorazione della labile zona di confine tra bene e male.

Un mia recensione del libro “Il vangelo del boia”.

Con l’augurio di buona estate, IM

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Nicola Verde, Il vangelo del boia, Newton Compton editori, Roma, 2017

Il genere thriller ha come ingrediente principale, il rischio, l’azzardo. Anche per l’autore. Soprattutto per l’autore. La scelta di un protagonista come Mastro Titta, il boia della Roma papalina, poteva condurre il romanzo verso sentieri scoscesi, tra melma e rocce appuntite. Poteva tramutare l’adrenalina in una melma tutto sommato tranquillizzante, per assonanze con il personaggio incarnato (è il caso di dirlo) dall’ottimo Aldo Fabrizi che in Rugantino più che un boia appare un pacioso cuoco-filosofo che esalta la bellezza di una quieta vita coniugale. Oppure, sul fronte opposto, poteva incanalare la trama nello stretto ma frequentatissimo canyon dei romanzi sugli intrighi del Vaticano, tra sotterranei alla Gide, palazzi e segreti antichi e recenti. Nicola Verde ha saputo schivare entrambe le insidie.

Il vangelo del boia è un libro originale. Utilizza ingredienti autentici, genuini, ma li elabora con attenzione e cura, arrivando alla fine a farci respirare l’atmosfera che desidera, quella che ha immaginato e pensato. Forse è racchiusa in quest’ultimo vocabolo “pensato”, una delle possibili chiavi di interpretazione: la vita è descritta nel suo caotico debordare, tra battute in romanesco sbracate o laceranti, nel fluire pigro e feroce di una città che è allo stesso tempo metropoli e piccolo centro, enorme paese replicato in mille borgate, con i suoi scemi del villaggio, i polli da spennare e gli infami, le vittime e i carnefici, e la vita che passa, sbraita e sembra sempre uguale. È questo il punto: sembra uguale. Perché mentre la vita accade, qualcuno pensa, rimugina, sul presente, sul passato, su ciò che ha fatto è ciò che ha subito. Immaginando il romanzo come un palcoscenico, potremmo visualizzare un brulicare costante di folla in prima fila, e, un passo indietro e più in alto, i protagonisti, immersi nel flusso ma impegnati in una rappresentazione ulteriore, fatta di verità che riemergono, di inganni, di miserie e di potere, di sopraffazione e violenze. La vera arma del delitto qui è la mente, quella che riflette e tortura se stessa, fino a ridursi all’immobilità, offrendo in tal modo il collo nudo all’assassino. Il succo del romanzo è qui: arrivare a percepire, più che a comprendere, che il vero boia non sempre è colui che ha in mano la lama che recide il collo. A volte nella vita il carnefice è colui, o colei, che non ti aspetti. Chi non temi, o chi addirittura ami dal profondo, con tutto te stesso.

Il sangue del romanzo è nella consapevolezza che non di rado il vero boia siamo noi stessi, e le persone che più sentiamo vicine. E che anche il boia, per quanto anziano, solido, esperto, apparentemente inattaccabile, in realtà ha un collo fragile esposto agli inganni, all’ingiustizia, ai rimorsi, alla coscienza, la propria, e ai sotterfugi astuti e feroci da parte di chi considera affine e ama appassionatamente.

«Va bene», acconsentì alla fine, «non vi racconterò della mia famiglia, ma consentitemi di tornare indietro nel tempo, perché il destino la propria strada se la prepara con un certo anticipo, togliendo o seminando ostacoli, e possiamo dire che i semi di quell’incertezza che segnò la fine della mia carriera furono gettati molti anni prima… ma soprattutto», concluse con un filo di voce, «perché i fantasmi vengono sempre dal passato».

Il tempo, quindi, il passato, e i fantasmi mai morti, sempre striscianti e micidiali. Nicola Verde utilizza con gusto e in dosi abbondanti questo gioco crudele, a livello di panoramica e su scala più ridotta. Descrive innanzitutto una Roma che non c’è più, se non nella memoria e nel mito. La Roma ottocentesca, becera, ruffiana, ma anche fascinosa, carnale per scelta e spirituale per necessità, sempre vera e diretta, tra carezza e coltello, urla e risa più corpose, con la sola trasgressione della dolcezza, dell’amore. Roma eternamente vittima di un potere cupo e immobile e di un sacro mai innocente e candido. Quella Roma è, nel libro, uno dei protagonisti. Forse la testa che cade è la sua. Con un rumore sordo, quello a cui fa seguito un istante di sterminato silenzio. Il momento in cui ognuno, anche il più ignaro dei popolani, si rende conto che qualcosa di grande è accaduto: il tempo ha cambiato pagina e capitolo. La testa di un’epoca che sembrava senza fine è crollata al suolo. E niente sarà più come prima.

L’accostamento tra un destino individuale, quello del boia, e la sorte di un’intera città, o meglio di un intero mondo, è uno dei cardini del romanzo. Mastro Titta era un punto di riferimento per il popolo tutto, per gli equilibri fatti di favori, delazioni e ruffiane gerarchie. Era il quieto vivere, paradossale elemento rassicurante con una mannaia stretta tra le dita. Crolla il boia, vittima del suo passato, di un amore, di un inganno, e, simultaneamente, la lama del tempo si abbatte su un’epoca, su un microcosmo alieno ai cambiamenti, lento, pachidermico. La passione scalfisce il solidissimo boia e un’inattesa svolta muta gli orizzonti della Storia. Lo Stato della Chiesa è costretto a guardare se stesso nello specchio e a vedere per la prima volta le sue profondissime rughe. Proprio come Mastro Titta che, alla sua veneranda età, è obbligato a fermarsi e a riflettere sul suo passato, sulle ombre, sugli scheletri in un armadio che avrebbe dovuto essere vuoto e immacolato.

Con questi presupposti, su questo intreccio nell’intreccio, trama ulteriore che estende lo sguardo e avvince, Verde può gettare sul tavolo una ad una tutte le carte, i colpi di scena, e ognuno risulterà ben inserito nel meccanismo: l’assassinio di un gendarme, cadaveri senza testa (immagine dominante, metafora a trecentosessanta gradi), le sette sataniche, la segreteria vaticana, i giudici muti, sporchi e senza cuore, e, davvero non ultima, la donna fatale, nel senso stretto del termine, una femmina che cattura le immagini e i sensi, le passioni e le pulsioni, le grandezze e le miserie di un boia che diventa vittima pur restando carnefice.

Il boia della Roma santa e prostituta è vittima di una prostituta in combutta con la Santa Sede. Assieme a lui si tormenta e muore un uomo che per anni ha dato la morte ma che ha subito come ogni altro il fascino della passione, anche quella più torbida e carnale. Muore con lui una città ingenua e spietata, becera e sublime. Tutto il resto sarà modernità, rapida, non di rado dozzinale. Il boia che si ferma nell’atto di uccidere e riflette sul suo passato, ricorda quasi Cronos, il tempo che prova nostalgia, imperfetto, sporco di sangue e di sperma, ma ancora acceso di passione. L’alternarsi dello sguardo in questo romanzo ricalca procedimenti cinematografici: dalla visione d’insieme al piano americano, dalla carrellata al dettaglio. Si riesce a cogliere il legame stretto tra i destini individuali e i mondi che li ospitano, abbracciandoli o soffocandoli. Si entra nei meandri di una psicologia fatta di passione e crudeltà, carezza e ferita che lacera e mutila. La testa mozzata è il nucleo vivo e pulsante che separa e unisce il bene e il male, il passato e il presente, il becero e il sublime. E il boia siamo noi, in fondo: il passato che avremmo voluto mettere a tacere e che ci invece che ci blocca la mano a mezz’aria, obbligandoci a pensare, a riflettere su un mistero che è fatto della nostra stessa carne e della nostra stessa mente.

Ivano Mugnaini

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TRENO QUASI DIRETTO – reloaded

TRENO QUASI DIRETTO

Piccola riproposizione di un racconto piuttosto domenicale e piuttosto folle

 

8 dicembre 2015, raccontiBolognacantareCassandra CrossingFirenzeFrankie Lane,HollywoodIvano MugnainiLiguriaMarlon BrandoRomatreno

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

 

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Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

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La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

 

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

 

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

 

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

 

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A Martian of the world and of the word

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We miss Flaiano. In these uncertain and confused times, in this autumn of the world between global crises and loss of identity, opportunism and new barbarism, we miss him. Flaiano were useful, now, to the whole world but above all to Italians, an ingenious and disenchanted people, still caught in the trap of considering cunning more important than intelligence.
With his wit and his irreverent humour, Flaiano would comfort us in his own way by saying “Come on, the best is past”, and laughing we might remind ourselves that the best must be imagined and constructed, not just waited.
Ennio Flaiano, writer, journalist, humorist, screenwriter, film critic and playwright, has given a precise picture of Italy and of the Italians in their multiple facets. Like a diamond cut, his writing, nuanced, dissected, whipped and mocked our vices and our virtues and did so in the name of a profound and highly personal faith in the word. “I believe only in the word. The word hurts, the word convinces, the word subsides. This, to me, is the meaning of writing. ”
For Flaiano the word is never just a sound or a graphic expression of a concept, it is first and foremost itself a show: comedy, tragedy, farce, a lie which contains innumerable truths. The word is a constant and yet always new and unpredictable performance, staged by the Nearly Stable Company of Life.
But in Flaiano the show of the word never means complacency. It is no coincidence then that he deliberately chose a tight angle to critically observe reality, a sort of border land located halfway between involvement and detachment, passion and humor. Thus he became the “Martian” that he described in his famous story. And his space ship is always subtracted to radar detection and hunting of any flock of ordinary well-meaning groups of people. He saves himself by flying over and detaching from those clichés that he always stigmatized.
“Man is a thinking animal, and thinking makes him soar above the surface. This is my faith. Maybe the only one. But it is enough for me to keep following the show of the world”, wrote Flaiano, and this statement contains a clear position and the confirmation that only the thought, once turned into word, gives us a clue, and a higher knowledge, or at least a free one, not conditioned by clichés.
Flaiano was born in Pescara, the city also of D’Annunzio. The same place can produce these two distant visions of the same circus of lights, shadow plays, sounds, noises, mysterious tunnels and glittering carousels. The same land of Abruzzo creates the bard, the soldier poet, the imaginative creator of verses and slogans, and, a few decades later, the rhetorical desecrator, the caustic man by the appearance of a traveling salesman able to undermine bombastic certainties. Both D’Annunzio and Flaiano share a voracious passion for the speech, a manic attraction and two very different and yet inimitable forms of acrobatics.

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In A Martian in Rome, Flaiano wrote: “The word is used to hide the thought, and thought to hide the truth. And the truth strikes those who dare to face her. ”
Better, then, to see truth already filtered by a screen, or from a side, like a movie that uses its fictitious nature to represent reality. Thus trying to make people laugh when it is appropriate to weep, and vice versa, or induce both, though saving themselves from the unbearable gaze of Medusa that annihilates and hides the thought. The first significant event in the life of Flaiano is already in itself a script, written by an author named ironic fate, with an immense sense of humor. He, Ennio Flaiano, the last of seven children of Cetteo Flaiano, arrives in Rome in 1922 traveling on a crowded train of fascists who flocked to the capital on the occasion of the fateful march. Evidently it was perhaps already written that he had to speak about that event, producing a series of anecdotes that photograph that specific era and yet immortalize human characters subtracted to any chronological connotation.
For Flaiano Rome was not only a chosen home city. It was also an inexhaustible source of ideas, gestures, biting sarcasm, harsh inventions and genius. A source from which to draw in small sips, just enough to appreciate the taste without absorbing poisons, small cunning, gossip, and the chatter of the great fashionable circles, carefully dodged.
He enrolled in architecture but did not complete his studies, consistent with that sense of solid and structured elusiveness, true to the nature that he himself admirably summed up with the phrase “With the feet strongly rooted on the clouds”, the motto of his whole existence, reported also on the tombstone placed on his home in Rome.

Fln targa
The script, written by reality, continues when he moved to Viale delle Milizie sharing a room with Orfeo Tamburi. The words, even the names of the streets, seem to pursue his humour, that sentiment to the contrary innate in him. At that time he met among others Mario Pannunzio and Leo Longanesi and began collaborating with various magazines.
He joined the War of Ethiopia, and, even in this biographical event next real horror there will be room for memory and testimony. Years later will born from that experience, written in just over three months, the novel Time to Kill, winner of the first edition of the Premio Strega.
The comic and the tragic meet continously in his life. As his presence at the tables of Roman literary cafes but above all of the restaurants, real stages of fierce and brilliant jokes, testified in a sublime way, for example, by the faithful clients of the King of the Half Portion in C’eravamo tanto amati directed by Ettore Scola.

Fl mez porz
Flaiano in those years married a teacher of mathematics, as if to give a measure to the flow of anarchist life, but the tragic face of life goes beyond any taxonomic classification, beyond formulas and equations: his daughter Luisa, born in 1942, a few months later shows the first signs of encephalopathy that seriously affected the whole of her existence.
The film world calls him, attraction and natural outlet, in a conflictual relationship, never resolved; this is the ideal place in which to act and set in motion his ideas and paradoxes and on the other end a place of vanity and compromises that he always refused. At first he worked as a film critic for several magazines before landing on the script.
He works with many of the most significant directors of the postwar period, but remains in the memory above all his long and fruitful partnership with Federico Fellini. Two similar characters and yet very different, Fellini and Flaiano, two shynesses comparing, two grumpinesses of different flavor and specific methods of attack and defense. But with the shared pleasure of portraying that side of the world that fascinates and horrifies, the grotesque scrutinized with amused and ferocious attention, perhaps to highlight the surreal side hidden in the depths of each of us and combining like in the melancholy and endless carousel of ” 8½ “.
Flaiano also worked as a journalist. In the sixties he began a period of travels and international relations, in Spain, in Paris (where he wrote for Louis Malle), and the United States (for an Oscar for “8½”), then again in Paris (where he writes a script taken from Proust’s Recherche for René Clément), in Prague and in Israel. He collaborated among others with Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.

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The “bilocation of intelligence”, his way of grasping the ambivalence of the real, has allowed him to see the world without being incorporated, avoiding the approval mechanisms, the commonplace and the apparent golden world of the star system. His being in the reality and yet staying outside, has produced some of the finest screenplays of the Italian cinema of the fifties and sixties, and an endless series of aphorisms that still have the power to portray the character, the way of being and thinking of the Italians.
“The worst that can happen to a genius is to be understood,” wrote Flaiano. Well, I can not say if the Italians have understood his genius too much or too little. How to comment otherwise the news and images of “hard-working” employees who stamp the card in underwear and then go back to bed? Or the apartments rented by the City of Rome to the usual unknown (or known, friends and cousins ​​of other parents of the parents) to the price of a coffee a month? We miss Flaiano’s sharp and salacious criticism like a sailor misses the compass on a stormy sea.
We miss Flaiano. Not for a sloppy exaltation almost hagiographic or a nostalgic memory out of time, but for a solid acknowledgment: the absence of figures able to grasp his spirit and take his heritage. After all, as he himself had predicted, in our country exists a sort of “cult of lack of personality”, and in particular young people “have almost all the courage of the opinions of the others.”
Flaiano, although deeply disillusioned, showed us that you can enclose the world in a story, a sequence of images, or even in a sentence, in which as if by magic you can immediately grasp both sides of the moon. He could make us this gift because he was indeed a Martian coming from irony galaxies and dazed lucidity. He could give it to us because he was able to read reality without succumbing to the banality patina of which it is sometimes cloaked, using the word as a tool to dissect and reconstruct the world.
In these times everything flows quickly, and the highest thought is worth the externalization of a tweet. In this world where people don’t seem to read stories but they all make storytelling, Flaiano’s brilliant synthesis and lucid and visionary foresight would be necessary more than ever. But perhaps, being Flaiano always a step forward or a step to the side of reality, today, with his withering aphorisms, he would probably invite us to rediscover the deeper value of silence, of listening, of reflection.
And perhaps, since he was a genius indeed, once more he wouldn’t be understood.

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Un marziano del mondo e della parola

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Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato, sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
Ma in Flaiano lo spettacolo della parola non cede mai all’autocompiacimento. Non è un caso quindi che abbia volutamente scelto una posizione defilata per osservare criticamente la realtà, una sorta di terra di confine posta a metà strada tra il coinvolgimento e il distacco, la passione e l’umorismo. In tal modo si è rivelato egli stesso quel “marziano” che ha descritto nel suo famoso racconto. E la sua navicella, inafferrabile, si è sempre sottratta ai radar e ai caccia di qualsiasi stormo di ordinari benpensanti, sorvolando e distaccandosi da quei luoghi comuni che ha sempre stigmatizzato.

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«L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo», scriveva Flaiano. Questa affermazione contiene una netta presa di posizione e la conferma che solo il pensiero, una volta tramutato in parola, ci offre una chiave di lettura, e una conoscenza più elevata, o almeno più libera, non condizionata da cliché.
Flaiano nasce a Pescara, città anche di D’Annunzio, in grado di produrre questi due sguardi così distanti del medesimo circo del mondo fatto di luci, giochi d’ombra, suoni, rumori, tunnel misteriosi e caroselli rutilanti. La stessa terra d’Abruzzo genera il vate, il poeta soldato, l’immaginifico creatore di versi e slogan, e, qualche decennio dopo, l’antiretorico dissacratore, l’uomo della sintesi caustica, lo scrittore dall’aspetto di commesso viaggiatore che scardina le roboanti certezze. In comune una passione vorace per l’eloquio, un’attrazione maniacale e due diversissime e al tempo stesso inimitabili forme di funambolismo.

Fln e D'Anz
In Un marziano a Roma, Flaiano scrive: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.»
Meglio allora vederla già filtrata da uno schermo, la verità, o da una posizione laterale, come in un film che usa la sua natura fittizia per rappresentare la realtà. Cercando così di far ridere quando è il caso di piangere e viceversa, o indurre entrambe le cose, salvandosi però da quello sguardo insostenibile di Medusa che annienta e nasconde il pensiero. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso dell’umorismo. Lui, Flaiano Ennio, ultimo dei sette figli di Cetteo Flaiano, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Evidentemente era forse già scritto che ne dovesse parlare, producendo una serie di aneddoti che fotografano un’epoca e che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Per Flaiano Roma oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Si iscrive ad architettura ma non completa gli studi, coerente con quel senso di solida e strutturata impalpabilità, fedele a quella sua natura che egli stesso sintetizzò mirabilmente con la frase “Con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, motto della sua intera esistenza, riportata anche sulla lapide posta a futura memoria sulla sua casa romana.
La sceneggiatura non scritta, o scritta sul cemento della realtà, prosegue quando si stabilisce in Viale delle Milizie condividendo una stanza con il pittore Orfeo Tamburi. I nomi, le parole, perfino le targhe agli angoli delle strade, sembrano inseguire il suo umorismo, quel sentimento del contrario in lui innato. In quel periodo conosce tra gli altri Mario Pannunzio e Leo Longanesi e inizia a collaborare con varie riviste.
Partecipa alla Guerra d’Etiopia, e, anche in questo evento biografico accanto all’orrore reale ci sarà spazio per la memoria, per il ricordo e la testimonianza. Anni dopo ne nascerà, scritto in poco più di tre mesi, il romanzo Tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega.
Il comico e il tragico si rincorrono nella sua vita, in un appuntamento immancabile. Come la sua presenza ai tavoli dei caffè letterari romani ma soprattutto delle trattorie, veri palcoscenici di battute feroci e geniali, testimoniate in modo sublime, ad esempio, dai fedeli avventori del Re della Mezza Porzione nel film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.

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Flaiano sposa in quegli anni un’insegnante di matematica, quasi a voler dare una misura al fluire anarcoide della vita, ma il volto tragico della vita va oltre ogni catalogazione tassonomica, oltre ogni formula ed equazione: la figlia Luisa, nata nel 1942, pochi mesi più tardi manifesta i primi segni di una encefalopatia che ne condizionerà gravemente l’intera esistenza.
Il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura.

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Collabora con molti dei più significativi registi del dopoguerra, ma resta nella memoria soprattutto il suo lungo e fruttuoso sodalizio con Federico Fellini. Due personaggi simili e diversissimi, Fellini e Flaiano, due timidezze a confronto, due scontrosità di sapore differente e con specifiche modalità di difesa e di attacco. Ma con il gusto condiviso di ritrarre quel lato del mondo che affascina e inorridisce, il grottesco scrutato con attenzione divertita e feroce, forse per evidenziare il lato surreale nascosto nei meandri di ciascuno di noi come in quel malinconico e interminabile girotondo di “8½”.

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All’attività di sceneggiatore Flaiano affianca quella di giornalista. Negli anni sessanta inizia un periodo di viaggi e relazioni internazionali, in Spagna, a Parigi (dove scrive per Louis Malle), e negli Stati Uniti (per l’Oscar a “8½”), poi di nuovo a Parigi (dove scrive una sceneggiatura tratta dalla Recherche di Proust per René Clément), a Praga e in Israele. Collabora tra gli altri con Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.
La “bilocazione dell’intelligenza”, quel suo modo di cogliere l’ambivalenza del reale, gli ha permesso di osservare il mondo senza esserne inglobato, rifuggendo dai meccanismi dell’omologazione, del luogo comune e dall’apparente mondo dorato dello star system. Questo suo essere dentro la realtà restandone fuori, ha prodotto alcune delle sceneggiature più significative del cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta e una serie innumerevole di aforismi che ancora oggi hanno il potere di ritrarre l’indole, il modo di essere e di pensare degli italiani.
“Il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”, scriveva Flaiano. Ebbene, non saprei dire se noi italiani il suo genio lo abbiamo compreso troppo o troppo poco. Come commentare altrimenti le notizie e le immagini dei “solerti” impiegati che timbrano il cartellino in mutande per poi tornarsene a letto? Oppure gli appartamenti concessi in affitto dal Comune di Roma ai soliti ignoti (o noti, cognati e cugini di altri noti) al prezzo di un caffè al mese? Una sua critica puntuale e salace manca come la bussola ad un marinaio nel mare in tempesta.
Ci manca Flaiano. Non per una sdolcinata esaltazione quasi agiografica o per un amarcord fuori tempo, ma per una concreta e solida presa d’atto: l’assenza oggi di figure che abbiano saputo coglierne lo spirito e riceverne l’eredità. Del resto, come egli stesso aveva preconizzato, nel nostro paese vige una sorta di “culto della mancanza di personalità”, e in particolare i giovani “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
Flaiano pur essendo stato un campione della disillusione ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una storia, in un racconto, in una sequenza di immagini, o addirittura in una sola frase, in cui come per incanto è possibile cogliere immediatamente entrambe le facce della luna. Questo dono ha potuto farcelo in qualità di marziano, proveniente da galassie di ironia e stralunata lucidità. E ha potuto offrircelo perché era capace di leggere la realtà senza cedere alla patina di banalità di cui questa a volte si ammanta, utilizzando la parola come strumento per sezionare e ricomporre il mondo.
In questi tempi in cui tutto scorre velocemente, in cui il pensiero più alto vale l’esternazione di un tweet, in un mondo in cui non si scrivono più storie ma tutti fanno storytelling, risulta più che mai evidente la sua geniale capacità di sintesi e la sua lucida e visionaria lungimiranza. Ma forse, essendo Flaiano sempre un passo avanti o un passo di lato di fronte alla realtà, oggi, con un suo fulminante aforisma, ci avrebbe con ogni probabilità invitato a riscoprire il valore più profondo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione.
E forse, anzi sicuramente, da genio qual’era, ancora una volta non sarebbe stato compreso.

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TRENO QUASI DIRETTO, storia di tre donne che avevano sbagliato treno

Un altro vecchio racconto, che in questi giorni mi sembra essere tornato vivo, attuale.    IM

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

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Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

“Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

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Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

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Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

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ARTE E LUOGHI – Festival Letteratura di Viaggio

Ho già dato la notizia, ma l’articolo di “Arte e Luoghi” dedicato al Festival della Letteratura di Viaggio in cui sono stato premiato anch’io è molto gradito, gentile e ben fatto, e lo condivido qui, con un grazie ad Antonietta Fulvio.

www.arteeluoghi.it

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Viaggio al centro autore

Premio “InWebWeTravel  2015” allo scrittore Ivano Mugnaini

Raccontare il mondo attraverso le parole. E non solo. Esplorare luoghi e culture attraverso l’arte della narrazione che passa dalla letteratura alla fotografia, geografia, musica, antropologia, disegno, giornalismo e storia. Tutto questo e tanto altro ancora è ogni anno il Festival della Letteratura di Viaggio. Promosso dalla Società Geografica Italiana, la rassegna promuove incontri con autori e artisti di fama internazionale, concerti, mostre e laboratori. Quest’anno tra gli ospiti lo scrittore Björn Larsson e  il musicista e compositore Nicola Piovani al quale è andato il prestigioso Premio “La Navicella d’Oro”.

La serata conclusiva del festival si è svolta lo scorso 26 settembre nella splendida Villa Celimontana alla presenza di un pubblico di editori, blogger, esperti del settore e appassionati di viaggi e ha visto attribuire, tra gli altri riconoscimenti, il premio premio “InWebWeTravel  2015”  – sezione Lazio – allo scrittore e poeta Ivano Mugnaini  per il racconto dedicato ad Alberto Moravia “Roma è davvero solo un fondale?” .

Un saggio scritto in occasione dell’anniversario della morte dello scrittore Alberto Moravia, ricordato attraverso i luoghi di una Roma interiorizzata che non è solo sfondo dei suoi romanzi ma “specchio della società e dei suoi profondi cambiamenti”.
Nato a Viareggio, Ivano Mugnaini si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Pisa con una tesi sul teatro rinascimentale. Ha seguito corsi universitari e seminari post lauream di lingua, letteratura e traduzione presso le Università di Londra, Nottingham e Lipsia. Collabora con case editrici in qualità di redattore e curatore di note critiche nonché con diverse testate giornalistiche tra le quali anche la nostra “Arte e Luoghi”. L’articolo sopraccitato ha inaugurato, infatti, lo scorso anno la rubrica “Viaggi al centro dell’Autore” curata dallo stesso  Ivano a lui vanno le congratulazioni di tutta la redazione per la vittoria di un premio così prestigioso.

“Una vittoria che è una bella soddisfazione – ha commentato Ivano Mugnaini – perché premia un’idea diversa di letteratura di viaggio, fatta non solo del racconto di luoghi visitati ma dell’esplorazione di un autore attraverso i luoghi che lo hanno ispirato e ospitato.  ‘Viaggi al centro dell’Autore‘  è una rubrica in cui non si parla di viaggi  o di luoghi ma di scrittori, letterati e poeti che con la loro opera hanno impresso una traccia forte sul territorio, l’ambiente e il contesto che li ha ospitati o che essi hanno eletto come loro topos ideale, fonte di ispirazione e di ricerca”. Una ricerca che continua da oltre un anno e che ha regalato ai lettori dei saggi di straordinaria intensità, non ultimo quello dedicato a Italo Calvino. (an.fu.)

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Approfondimenti sulla rubrica Viaggi al centro dell’Autore di Ivano Mugnaini e sul sito ufficiale dell’autore

Viaggio rubrica Dedalus