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Responsum – recensione del libro

Rosaria Mariagrazia Fiorentino, Responsum, Ladolfi editore, 2022
Recensione di Ivano Mugnaini

“Non porgere orecchio / a chi ti descriverà / come qualcosa di strano.” Questi versi perentori, accorati, si trovano all’inizio di una delle poesie più significative di Responsum, il libro di poesie di Rosaria Mariagrazia Fiorentino.
Si tratta di un’esortazione di notevole rilievo e sostanza, in quanto vale sia nel contesto specifico del dialogo in forma di versi tra i due innamorati che costituisce la struttura portante della raccolta, sia, a più ampio raggio, per il valore metaforico che spontaneamente assume.
Qualcosa di “strano” è, in primis, a ben riflettere, l’amore. Lo è sempre e comunque, in qualità di partita di poker a occhi chiusi, giocata senza neppure conoscere le proprie carte, non solo quelle dell’avversario. Una corsa controvento, e, non di rado, contro il mondo, contro la folla che avanza compatta come un muro in senso opposto alla marcia dei piani, dei sogni, delle necessità, dei desideri.
Qualcosa di strano è, in modo altrettanto evidente, la poesia. Lo è nella forma e nella natura profonda, nella capacità, anzi, nella necessità di sconvolgere e ribaltare le regole della sintassi, della logica, del modo ortodosso di vedere e di pensare.
La posta in palio, per chi si schiera dalla parte dell’amore e della poesia, è, in ogni caso, estremamente preziosa; seppure anch’essa complessa, multiforme. Il premio è la libertà di essere se stessi, di vivere emozioni autentiche, forti, non fittizie o di maniera.
Ho avuto il compito e il piacere di scrivere la prefazione di Responsum. In quell’occasione ho avuto modo di ribadire alcune delle caratteristiche della raccolta che mi avevano colpito in particolare sia sul piano dei contenuti che a livello di linguaggio; e le due dimensioni risultano nelle liriche della Fiorentino adeguatamente correlate.
I versi sono brevi, limati all’estremo, alla ricerca di una sintesi che generi solennità senza minare le basi dialogiche della raccolta, ossia l’alternarsi di cui si è detto tra le voci di due persone innamorate. Vengono tolti tutti i fronzoli e gli orpelli, di modo che resti l’urgenza del dire e del provare emozioni.
“Sacrifico / vita / salute / beni / felicità / posizione. / Io non voglio amare. / L’idea originale permane. / Lo considererai un malsano pensiero. / Ho conosciuto me in te. / Tu conoscesti te stesso / attraverso me / In realtà non ci conoscevamo. / Ma io non voglio riconoscermi così. / Gelosa / Invadente / Appassionata. / Sono una anima randagia / che fugge alle catene”.
Questa esternazione, affidata alla voce femminile, alla “Lei” che parla in prima persona, ci consente di rilevare ulteriormente ciò a cui si è fatto cenno: l’amore di cui parla il libro è “controcorrente”, avulso ai contesti ritenuti accettabili dalle convenzioni sociali. La voce femminile, tramite cui l’autrice esprime se stessa, si rende conto del peso del rapporto e lo manifesta con chiarezza e genuinità all’amato.
È interessante a mio avviso osservare come la Fiorentino non cerchi in alcun modo la “complicità” del lettore. Non vuole convincerlo di avere ragione, non vuole comprensione né sconti di pena, non cerca consensi e non teme condanne. La natura propria di questo libro è quella di un giornale di bordo in forma di versi, o meglio quella di un diario condiviso tra due amanti in cui ognuno vede il giorno, il mese, l’anno, il tempo, con occhi diversi, a seconda dei battiti dei cuori, dell’alternanza di desideri, necessità, rimpianti, paure.
Il contrappunto delle due voci, spesso come detto composto da versi brevi o brevissimi che a volte esondano come fiumi in frasi ampie, giunge progressivamente a quella che è una sorta di coincidenza degli opposti. Ossia, seppure da due fronti ormai necessariamente contrapposti, entrambi riconoscono all’Amore (quasi personificato, giudice che salva e condanna se stesso) il potere di dire sì o no, di avere la parola definitiva.
Ma, paradossalmente, la parola definitiva dell’amore è una sola: amore. Sì, ancora una volta lui, lui soltanto. Non si tratta di un gioco di parole ad effetto né di una tautologia. L’amore sa che, pur nel buio delle stanze, pur nella clandestinità imposta da regole che prescindono da lui, esiste, vive, sussurra, urla, tocca, divora, divora noi e se stesso.
I due amanti, nell’atto di affermare due istanze opposte, il desiderio di proseguire il rapporto da parte di lui e la necessità di concluderlo da parte di lei, in realtà affermano un’identica cosa. Dimostrano, non con teorie astratte, ma con la realtà dei loro abbracci e dei loro tormenti interiori, che il loro tempo insieme è stato (ed è) amore vero.
“Parlami, / portami / nel mondo dei tuoi sogni. / Il mondo / dove non c’è nessuno / tranne me e te / e il peccato”. Questi versi, affidati alla voce maschile, al “Lui” che interloquisce con la sua amata, contengono, forse, alcune delle chiavi della raccolta. La richiesta è quella di essere nuovamente accolto nel mondo dei sogni di lei. Tuttavia, nei versi successivi, tale mondo viene definito privo di gente esterna, e, a dispetto di ciò, dominato dal “peccato”.
La raccolta, pur essendo come detto, espressione diretta e in apparenza non filtrata di un dialogo quasi registrato “in presa diretta”, senza interventi autorali, in realtà, in modo indiretto e implicito (e proprio in virtù di questo credibile e coinvolgente), pone e propone alcune riflessioni fondamentali sui limiti e sui confini della libertà individuale, sulla linea di demarcazione tra dimensione onirica e dimensione fattuale e sulla distinzione fondamentale tra diritto alla libertà e possibilità di scavalcare le barriere e le demarcazioni sociali e morali.
Accade così che nelle poesie di questo libro, al di là di un linguaggio volutamente lineare, niente sia “a cuor leggero”. Di ogni espressione, di ciascun vocabolo, cogliamo sia la parte assolata sia il lato in ombra, il volto oscuro della luna.
Lui implora, grida di volerla ancora, di volere ancora i loro abbracci in stanze chiuse e protette da sguardi esterni. E mentre lo urla sa che otterrà un “no”. Così come sa che non si deve e non si può. Non più. Lei segue la ragione. Accoglie la riflessione matura che la porta a rifiutare un rapporto che la sta corrodendo dentro e fuori. Ma mentre cede il passo alla ragione, dentro di sé, nel profondo, percepisce ancora fortissimo il desiderio di lui e del loro amore.
“Il battito del mio cuore / sul tuo / lì in penombra. / Sentirsi noi. / Lì in penombra. / Incoercibile serenità / dell’attimo. / Attimo / lieve / gaio / dirompente / che ha portato via / l’infantile. / Attimo / di un gesto / di una risata / di un gemito / di una occhiata / lì in penombra”. Sulla base di quanto esposto qui in questa disamina, la logica vorrebbe che questa espressione di desiderio ancora vivissimo, di trasgressione che urla, fossero gridati a voce ancora più alta da lui. Scopriamo invece che è il contrario. È lei che li pronuncia, nitidi, nella parte conclusiva del libro, dopo avere detto e argomentato mille “No”, con la n maiuscola, motivati, spiegati nei dettagli, con la chiarezza sofferta di chi valuta il bene e il male di tutto e di ciascuno.
Responsum è un libro molto particolare, nutrito da mille ossimori, alcuni voluti e creati ad hoc dall’autrice, altri nati dalla sincerità con cui i dialoghi dei due amanti sono stati riportati, quasi avessimo di fronte la trascrizione puntuale da parte del dibattito in un’aula di tribunale o di un registratore acceso tra le mura di un’alcova.
È un libro lineare e complesso, tenero e aspro, agro come frutto acerbo e tagliente come spina di rosa. È un libro che appare come espressione di una vicenda assolutamente individuale. E tuttavia ognuno, ciascuna lettrice ciascun lettore, alla fine vi può ritrovare qualcosa di suo, un pensiero, uno stato d’animo, un’incoercibile contraddizione esistenziale.
È un libro in cui l’amore, ammettendo le sue colpe, manifestando la propria imperfezione e fragilità, in realtà conferma, sornione, con occhio da angelo e da diavolo, la propria incontrastabile predominanza, la consapevolezza di possedere e di dare il solo bene e il solo male del mondo. Tutto il bene e tutto il male che gli esseri umani possono vivere, sentire, soffrire, desiderare, divorando ed essendo divorati.
Questo libro è un diario, ma anche un Bildungsroman, un romanzo di formazione scritto in versi, e un saggio filosofico travestito da frasi in apparenza semplici che parlano di abbracci nel buio, nella penombra sospesa tra la necessità umana di dare se stessi a chi veramente si ama e la consapevolezza altrettanto possente dell’autodistruzione.
In amore ci si annienta, sembra dirci l’autrice. Ma con altrettanta vividezza ci conferma che senza amore si è già morti molto prima di essere effettivamente defunti. Responsum è un processo all’amore, che, di riflesso, diventa un dibattimento sul confine tra libertà e regole, sul discrimine tra bene e male, tra osservanza del giusto e abbandono cerebrale e sensuale al peccato.
Alla fine di tutto però, in virtù del coraggio della sincerità che Rosaria Mariagrazia Fiorentino ha saputo mettere nero su bianco, viene fuori dalla lettura un verdetto, uno solo, incurante della ragione e della canonica coercizione: per un essere umano degno di tale nome, il solo autentico “peccato” è non avere amato e non amare.

Ivano Mugnaini

TI RACCONTO UNA CANZONE

Quando Massimiliano Nuzzolo e Eleonora Serino mi hanno chiesto di scegliere una canzone su cui scrivere un racconto per il libro TI RACCONTO UNA CANZONE me ne sono venute in mente trenta, o forse trecento.
 Ho optato per il più semplice, in apparenza, dei temi: l’amore. Che in realtà, è, puntualmente, il più complesso. 
Ma, per fortuna, esiste anche il ritmo.
Lo scrittore inglese W. H. Pater nel libro The Renaissance sostiene che “Ogni arte aspira alla condizione della musica”, alla sua possente, essenziale, sensualissima immediatezza.
Ho scritto così un racconto ispirato alla canzone Io che amo solo te di Sergio Endrigo.
Ne copio qui di seguito un brano.
L’invito è a dare un’occhiata al volume intero, edito da Arcana Edizioni.
Dare un’occhiata e magari comprarlo.
Perché l’idea è bellissima e perché le autrici e gli autori dei racconti hanno confermato che la ricchezza è nella varietà, nelle infinite variazioni sul tema.
IM

TI_RACCONTO_UNA_CANZONE_COVER

 
Uno stralcio

del racconto

IO CHE AMO SOLO TE
[…]

Cerco nella memoria, rovisto negli scaffali polverosi dei ricordi, per individuare il punto esatto in cui ho ascoltato quella canzone per la prima volta.
Mi viene in mente la piazza del mio paese. Quell'asfalto scuro e squamoso percorso da cani ossuti e vecchi orgogliosi su cui, giocando e cazzeggiando, ho lasciato vari strati di pelle delle ginocchia e dei gomiti.
Ma quella sera il piazzale era pieno di sedie e di luci e di un palco degno della Sanremo de noartri, il Festival delle Borgate.
Tre ragazzine battevano le dita sul microfono per scimmiottare Whitney Houston e gruppi di eredi degli eredi dei Beatles con capelli a schiaffo sulla fronte vuota urlavano in falsetto lasciando perplessi i piccioni schifati affacciati sul cornicione del campanile. Apatici al punto di non voler neppure effettuare la manovra per cui sono famigerati e temuti. Eppure, in quell’attimo di non vita, nel bel mezzo di un familiare non mondo, comparve chi non mi sarei mai aspettato. Lui, il quasi ergastolano, il silenzioso, il duro che passava con la sua macchina grigia e lo sguardo di Lee van Cleef nei film di Sergio Leone.
Proprio lui, el hombre, il gringo che mi aveva sempre inquietato, intimorito, irritato. Lui, l’antipatia fatta persona, era concorrente a tutti gli effetti, regolarmente iscritto alla gara canora.
Venne il suo turno. Salì sul palco con passi rapidi e furtivi degni di Diabolik. Impugnava il microfono come una pistola. Temevo ci avrebbe sparato. Una canzone esplosiva e il festival sarebbe approdato sui giornali. Non sulla pagina degli spettacoli ma nel bel mezzo della cronaca nera. Il borgo avrebbe finalmente acquisito una notorietà solida come il piombo.
Invece, con voce timida, quasi dolce, iniziò a cantare.
Guardava di lato verso la terza fila, dov’era seduta sua moglie.
Non gliene fregava niente del pubblico, né, tantomeno, della giuria. Tutto sommato non si curava neppure della band che cercava affannosamente di tenere il ritmo delle sue stonature.
Cantava per lei. Commosso, sincero, con gli occhi, con le mani, con il cuore.
“C'è gente che ama mille cose / e si perde per le strade del mondo. / Io che amo solo te, / io mi fermerò / e ti regalerò / quel che resta / della mia gioventù”.
Quel giorno ho imparato alcune cose.
Mai giudicare una persona dalla faccia che fa o che gli fanno fare.Mai giudicare una canzone dalla somma dei voti di una giuria che poi alla fine premiò un emulo improbabile di Julio Iglesias vestito con un doppio petto bianco da settecentomila lire senza IVA e con la tasca in cui infilare la mano collocata tra cuore e fegato, lì dove fa più scena.
Quel giorno ho imparato che il vero vizio del presunto puttaniere, giocatore d'azzardo, fumatore seriale, era amare.
Amare e avere il coraggio di cantarlo di fronte a duecento persone che lo odiavano con tutto il cuore e almeno tre quarti della milza e di tutti gli organi interni.
Lui, lì, quella sera, come sempre, cantava per lei e per l'amore.
E io, commosso e divertito, mi sentivo un coglione. Io avrei votato per lui. Senza alcuna esitazione.Ripenso oggi, ancora una volta, a quella sera e a quella canzone.
Tu non c'eri.
Non esistevi ancora per me.
Non c’eravamo ancora conosciuti, o “riconosciuti”, come dici tu.
E allora vorrei dirti... andiamo a cercare quella piazza.
È cambiata, ora è un parcheggio per SUV di casalinghe in carriera che fanno la spesa per fare una foto alla pastasciutta col pomodoro e con la mozzarella dietetica, quasi sintetica anch’essa.
Ma il Festival c'è ancora. E c'è ancora l’ormai storica Sagra ad esso legata.
Se te lo dicessi, alla prima sillaba della parola “sagra” saresti già pronta, già vestita, già con il cappellino da turista sulla testa al di sopra di un sorriso felice e autentico come quello di una bambina. Una bambina di cinquant’anni, molto più saggia di me.
Io invece mi sgomento già alla prima lettera, per il parcheggio, per le file, per le posate di plastica, per le urla etiliche dei vicini di panca, per le note malinconiche e le danze atletiche dei novantenni, i millennials del secolo scorso molto più vitali di me.
La Sagra non la nomino neppure.
Mangiamo anche stasera sulla nostra terrazza, nella nostra casa in Via dei Matti al numero zero, in un posto sperduto, al margine di una strada che non prosegue oltre se non nei prati di un'asina geniale dal nome Fiona, tra lucciole che danzano nel buio e tronchi di alberi caduti su cui sedere, quelli che tu chiami “alberi delle fate”. Ci sediamo sul terrazzo, nella semioscurità della tua lampada di sale, rosa ovviamente, perché a te danno noia le luci elettriche troppo nitide. E infatti le mie ginocchia conoscono alla perfezione tutti gli spigoli del letto. Ormai siamo molto più che amici. Fanno finta di non sentire le mie imprecazioni in dialetto e in italiano. Ma vale la pena sacrificare un residuo di un eroico menisco per giungere ad un tuo abbraccio. Metto su YouTube, sul tuo tablet che lagga molto meno del mio, Io che amo solo te, per vedere sul tuo viso, a sorpresa, la tua reazione.
Dopo qualche secondo mi dici: “È bella, ma è vecchia”.
Immediatamente cerchi Irama e Fred de Palma.
[…]

 Ti_racconto_una_canzone_scheda

 

 

 

“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

copertina
Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
lungarno-pisa
L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

Spesso accade che le persone che sanno ridere (e nel caso specifico anche far ridere) siano anche molto serie, con molte cose da dire, capaci di ascoltare e di fornire coordinate  interessanti per esplorare la geografia, la storia e alcuni angoli della metropoli, del mondo e del tempo che in genere sfuggono agli sguardi frettolosi, da turisti.
Oreglio canta, nel duetto con Roberto Vecchioni e in questo suo Milano OltrePop, “con i piedi nel passato e lo sguardo dritto e attento nel futuro”.
Per riassumere tutti e temi gli spunti trattati nell’intervista ci vorrebbe veramente troppo tempo. Meglio, per chi vorrà, leggerla direttamente.
Buona lettura e buon ascolto
IM

720 x 720 Flavio Oreglio- Milano OltrePop - cover copia

Milano OltrePop

Intervista a Flavio Oreglio

1 ) “Con i piedi nel passato/ e lo sguardo dritto e attento nel futuro”. Comincerei col proporti più che una domanda un tema a piacere (come si faceva a scuola qualche annetto fa). Ossia qualche tua considerazione a ruota libera per mettere in relazione il disco con i versi di Pierangelo Bertoli che ho citato, con piacere, in apertura.

La citazione di Bertoli che ho inserito nell’introduzione al disco non è casuale. Troppo spesso, infatti, la riproposta di brani del passato (chiamata “tributo” oppure “omaggio”) è vista come operazione-nostalgia, come un “Do you remember?” o un “Bei tempi quelli”… ecco… niente di tutto questo mi appartiene. Io guardo avanti con la consapevolezza del punto di partenza, in questo senso i piedi sono nel passato ma lo sguardo è dritto e attento nel futuro. E a proposito delle cosiddette “radici” permettimi di aggiungere una cosa: la loro riscoperta non deve essere coltivata per ostentare una sorta di “appartenenza” ad excludendum, modello il Marchese del Grillo “Noi siamo noi e voi non siete un cazzo” e non deve servire per erigere o giustificare muri di separazione con chi quelle radici non condivide. Le radici sono memoria e ricchezza culturale, vanno sicuramente tramandate ma anche analizzate criticamente. Molti loro aspetti che oggi ci appaiono come “politicamente scorretti” si possono giustificare con l’esistenza di una mentalità, ma non devono servire oggi per giustificare una mentalità con la loro esistenza. Continua la lettura di Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

L’Indice dei Libri del Mese – N.6 – 2021

Sul numero di giugno de L’Indice dei Libri del Mese una mia recensione a ‘La Cosa’ di Gianluca Garrapa.

Nello stesso numero, tra l’altro, anche una recensione di Enzo Rega a Luigi Fontanella e tante altre belle cose, ossia bei libri.

recensione Garrapa
area-riservata-e-sommario-GIUGNO-2021

Se davvero porterai la mia poesia

Immagine Se davvero porterai

Una poesia inedita scritta e tradotta in un aprile piovoso, in attesa del sole.

An unpublished poem written on a rainy April afternoon, waiting for the sun.

Se qualcuno fosse interessato alla traduzione di singoli scritti di poesia o narrativa, o di libri e manoscritti,mi
contatti a ivanomugnaini@gmail.com
 If anyone is interested in the translation of individual writings of poetry or fiction, or of books and manuscripts, please contact me at ivanomugnaini@gmail.com

ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”

La rubrica A TU PER TU ospita oggi i ROSSOMETILE e il loro album “Desdemona”.
Nell’intervista ci parlano della loro musica,  ma anche del connubio tra realtà e dimensione onirica,  delle assonanze, etno, gothic, symphonic, di Poe e di  Hesse, di “Storie d’amore e di peste”, di “Narciso e Boccadoro” e di mille altre suggestioni rese musica e armonia.
Buona lettura e buon ascolto a tutte e a tutti, IM
                        A TU PER TU 
                      UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande, in parte “personalizzate” e in parte ricorrenti, permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.    IM

Intervista

ai

Rossometile

Con particolare riferimento al disco Desdemona

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

La prima domanda è “di prassi”: potete fornire un vostro breve “autoritratto” ai lettori di Dedalus?

La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.

(ha risposto Gennaro Rino Balletta)

 

2 ) Il nome del vostro gruppo da cosa nasce? Lo avete scelto per le suggestioni e le assonanze o anche per i significati che racchiude?

Il rosso di metile è un composto chimico, un indicatore di acidità. A un certo valore di pH il rosso di metile determina l’immediata colorazione rossa di una soluzione incolore. Pensammo che sarebbe stato originale immaginare di trasporre in musica il fenomeno cromatico che avviene in chimica col rosso di metile. E così unimmo le parole “rosso” e “metile” creando il nostro “rossometile”. 

(ha risposto Rosario Runes Reina) Continua la lettura di ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”