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Alice nel labirinto – intervista a Roberta De Tomi

Spazia con curiosità e fantasia, Roberta De Tomi,  in vari ambiti e tra vari generi. Ha scritto libri diversi l’uno dell’altro ma con il comun denominatore di una passione vivida, a tratti “speziata”, che la porta a cercare storie e argomenti in grado di suscitare a loro volta la curiosità, l’interesse e la passione del lettore, conducendolo in ambiti in cui realtà e dimensione onirica si incontrano, giocando a creare nuovi spazi, mondi possibili.
L’intervista qui pubblicata ci offre l’opportunità di approfondire la conoscenza con questa autrice vivace che opera attivamente anche in rete. Ci conduce inoltre a esplorare territori del panorama letterario che hanno molti appassionati lettori.
IM

2021Alice nel labirinto

                            A TU PER TU
                         UNA RETE DI VOCI
 L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica. IM

 

5 domande

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Roberta De Tomi

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Un saluto ai lettori e alle lettrici e un grazie per l’attenzione che mi dedichi. Non sarà un “autoritratto”… alla Dorian Gray, anche se sarebbe bello immortalare un pizzico di bellezza in questo momento storico così difficile. A parte questo, ho dipinto di colori diverse pagine che sono diventati racconti e romanzi. Ho iniziato in sordina, dopo essermi laureata al DAMS di Bologna, partecipando ad alcuni concorsi letterari, all’interno dei quali ho ottenuto buoni esiti. In parallelo ho iniziato un percorso lavorativo nella comunicazione che ha toccato diversi ambiti in maniera trasversale: dal giornalismo ai blog, passando per la gestione di eventi e uffici stampa. Parallelamente mi sono occupata anche di altre mansioni, ma sempre tenendo stretta la passione per la scrittura; passione che, dopo le prime prove, mi ha portato alla pubblicazione.
Ho vissuto e vivo con un certo travaglio la precarietà della mia generazione, tanto che ai tempi, con un blog e articoli dedicati, ho cercato di parlarne; ma mi rendo conto che certi argomenti sono spine che bruciano, vasi di cristallo da maneggiare con cura. Viviamo tempi complessi, sospesi, forse stiamo aspettando Godot; sinceramente io non riesco a stare ferma, in attesa di un miracolo salvifico. Non è nella mia indole, ho bisogno di creare, di fare qualcosa e di incuriosirmi. Creare è vivere.

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La poetessa dei “liberi ribelli” – Intervista a Dalila Hiaoui

 Le risposte di Dalila Hiaoui alle mie domande sono piene di frasi che si aprono su altre frasi, altri tempi e modi, spiragli ampi e generosi, parentesi che chiudono epoche e aprono mondi nuovi, possibili. Sono dense di punti esclamativi simili a sorrisi, sguardi, gesti che richiamano l’attenzione oltre il limite della parola scritta, verso quella zona compresa tra realtà e immaginazione, fantasia e gesto  concreto.
L’intervista è piena di fascinosa, coinvolgente poesia. Alla fine risulta quasi percepibile, mangiabile, condivisibile con  gli occhi e con le mani, da un unico piatto con bordi colorati posto al centro di una tenda grande quanto il mondo. IM

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Rubrica A TU PER TU

La poetessa dei “liberi ribelli” – Intervista a  Dalila Hiaoui 

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1 –  Buongiorno Dalila e benvenuta.

Sei nata in Marocco e sei di origine berbera.

Quali influenze hanno avuto e hanno le tue radici sul tuo modo di essere e di esprimerti, nella vita e nell’arte? Qual è il rapporto dei berberi con la poesia, con il racconto, con quella che potremmo definire “l’affabulazione”? Quali legami ci sono tra la cultura scritta e la tradizione orale, tra la modernità e il passato?

Salve Ivano, sono molto lieta e anche grata di essere la tua ospite. Sono marocchina berbera, o, se vuoi, Amazigh, che vuol dire: i liberi ribelli. Sono nata a Marrakech che nella lingua amazigh antica vuol dire la sede, o anche la casa, di Dio. Ho vissuto nel nord del Marocco, esattamente nella città di Tetouan dove è diffusa la cultura andalusa, e nel profondo deserto del Marocco, a Dakhla, verso i confini con la Mauritania, un’area in cui è predominante la cultura Hassania. Queste sono le mie radici, ciò da cui ho avuto origine e che porto con me, anche oggi, anche nel cuore dell’Europa.

Roma è stata ed è un elemento determinante per costruire me stessa, ciò che sono, il mio modo di imparare, di pensare, di valutare, di comportarmi, essendo, allo stesso tempo, passato, presente e futuro.

Per quello che riguarda l’ultima parte della tua domanda sui legami che ci sono tra la cultura scritta e la tradizione orale, posso dire che l’arte con tutte le sue sfumature è la vera memoria dei popoli che non verrà mai cancellata: la cultura orale è la matrice di quella scritta, sia nei racconti sia nel canto. Nell’eterna Roma sto seguendo i passi del mio nonno amazigh Afulay che da voi è conosciuto con il nome Lucius Apuleius (127-170). Apuleio è considerato il primo romanziere dell’umanità e io sono felice e onorata di avere un simile precursore. Nei nostri percorsi di viaggiatori del mondo e della parola c’è una piccola differenza, tuttavia: Afulay detto Apuleius ha scritto il suo romanzo L’asino d’oro dopo il suo arrivo a Roma, mentre io sono arrivata avendo già nel bagaglio un romanzo di un certo successo nel mondo arabo e francofono e qualche poesia sulla tema della pace tra i popoli e le religioni. Nonostante i vari articoli che avevo già scritto e tutto quello che già avevo fatto nell’ambito della scrittura, anche narrativa, nel mio passaporto marocchino dell’epoca, era scritto poetessa sotto il mio nome. Quindi il mio paese di origine mi definiva già “poetessa”, una definizione impegnativa che però mi identifica, quasi un secondo nome, una strada, una meta, un modo di essere.

2 – Risiedi da tempo in Italia, a Roma. Al di là degli stereotipi e con serena e informale schiettezza, quali sono stati gli ostacoli che hai incontrato al tuo arrivo in Italia e quali sono gli aspetti che, ancora oggi, trovi difficilmente comprensibili, o almeno auspicabilmente modificabili dell’Italia?
Sul fronte opposto, cosa ti ha fatto amare l’Italia e di cosa sei grata al nostro paese?

Il vostro paese è anche il mio! È il luogo dove ho provato a volare con le mie ali, senza essere la moglie di tizio o la sorella di caio! Se Marrakech è mia madre, Roma è la mia madrina: mi ha abbracciata nel momento del bisogno di affetto, ha curato le mie ferite e mi ha fatto crescere. A Roma mi sento a casa, forse con un tocco di più di ordine e disciplina rispetto alla mia terra. Ma il tempo meteorologico non è tanto diverso dal mio paese di origine, così come la stessa è la cultura mediterranea e quasi gli stessi sono gli ingredienti della cucina e per questo non sono rimasta stupita vedendo lo stesso sorriso sulle labbra della gente, ascoltando la battuta pronta, o la domanda “Come va?” subito dopo il buongiorno del mattino. Nella mia adorata Roma ho scoperto il lato gentile e amichevole della gente già dal primo giorno, visto che non trovavo la strada per raggiungere il palazzo in cui si svolgeva il mio nuovo lavoro: alcuni hanno provato a indicarmi la strada usando il francese, lo spagnolo o l’inglese perché il mio italiano era limitatissimo. Alcuni hanno provato con i gesti e altri addirittura hanno lasciato i loro commerci e le loro occupazioni e mi hanno accompagnato per qualche tratto di strada per farmi arrivare a destinazione! In quel mio primo giorno romano, io che pensavo di essere venuta a Roma solo per qualche giorno o qualche settimana ho capito di aver raggiunto la mia meta finale e di essere nel posto giusto! E così l’Italia mi ha regalato amici e amiche più presenti nella mia vita e più vicini delle persone della mia stessa famiglia. Ti faccio anche una confessione: tornando a Roma dal funerale di mia nonna materna, sono andata dall’aeroporto direttamente all’agenzia immobiliare per cambiare la casa che avevo preso in affitto e prenderne una con un giardino! Anche un piccolo buco mi andava bene, mi bastava avere lo spazio sufficiente per mettere nel terreno quelle radici che avevo perso con la morte di mia madre e poi di sua madre cioè la mia adorata nonna. Così ho piantato dei piccoli alberi come quelli che abbiamo a Marrakech: arance, mandarini, fichi, albicocche, limoni, olivi, ciliegie, e una mimosa, in omaggio a tutte le donne!

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3 – Sei un osservatore interessante della realtà proprio per questo tuo percorso biografico, oltre che artistico, che ti ha consentito di vivere ruoli molto diversi, a volte in apparente contrasto. Conosci il mondo arabo e quello occidentale, la solitudine dello scrittore e i luoghi affollati, i salotti e i palazzi, le agenzie governative, le università e gli studi televisivi. Conosci persone di ogni classe e condizione sociale e umana.
Come vivi questa tua costante immersione in ambienti e contesti diversi? E come influenza il tuo modo di vivere, di scrivere e di percepire?
 
È il mio capitale! La mia ricchezza morale, mentale e spirituale. Ogni persona che ho incrociato nel percorso della mia vita ha avuto in qualche modo il ruolo del maestro per bene o il maestro chi ti fa estrarre le unghie e ti ispira la forza per evitare il pessimismo di certi momenti. Lo stesso discorso vale per ogni luogo in cui ho vissuto: per me è stata una vera scuola se non un’università! Di quei volti e quei luoghi è fatto l’inchiostro con cui scrivo, la mia poesia e la mia prosa!

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4 – Faccio anche a te una domanda a cui tengo molto e che ho già rivolto ad altri autori intervistati in precedenza: pensi che la letteratura, la poesia, la narrativa, la scrittura in senso ampio, possano essere solamente una specie di rifugio nella tempesta, o possano in qualche modo agire in modo effettivo, avere un ruolo per modificare il mondo, il modo di rapportarci gli uni con gli altri, di agire oltre che di pensare?
 
L’espressione “letteratura” in lingua araba vuol dire la massima educazione, la vetta dell’educazione, l’espressione “poesia” viene dalla radice verbale sentire, quindi solo chi ha bevuto dall’acqua santa della cultura può sinceramente cambiare il mondo e seminare la bellezza, l’amore e la pace dappertutto. Per questa ragione organizzo ogni tanto con amiche ed amici poeti e scrittori delle carovane di solidarietà a favore degli studenti del Marocco, e siamo riusciti anche a convincere amici ed amiche che operano al di fuori del campo letterario a contribuire alla creazione di librerie e spazi d’arte e cultura nelle scuole di montagna del Marocco. Il futuro con ali di pace e amore dobbiamo disegnarlo insieme anche nelle zone lontane e periferiche.

5 – La tua è una poesia impegnata in senso concreto, non di facciata.
Come concepisci il concetto di “impegno” anche nell’ottica del mondo attuale, tra squilibri, tensioni e conflitti, anche di mentalità e di visione del mondo, della politica e della religione?

Grazie di aver definito la mia poesia impegnata. È vero! Non ho mai scritto sin da piccola della fantastica chiarezza del cielo, del blu smeraldo del mare, del meraviglioso canto del canarino o del gioioso amore vissuto, o, nel mio caso dopo tutti questi anni, mai vissuto! Parlo del lato gioioso dell’amore, ovviamente, non dell’amore in se stesso. Non scrivo se non ho le lacrime agli occhi! Non scrivo se una scena di vita non mi ha colpito l’anima o ha colpito qualcuno, qualche altro essere umano. Non scrivo se non di qualcosa o di qualche luogo che mi è davvero caro. La poesia è uno specchio della società, e il mio dovere è di fare vedere alla società sia orientale che occidentale i diversissimi volti che vi sono riflessi e che non sono nella maggior parte dei casi piacevoli! Credo che tutti quanti abbiamo il dovere di difendere il diritto legittimo di vivere in un mondo d’amore, di equilibrio spirituale e mentale. Vale a dire vivere nella pace interiore, soprattutto. Da mia parte sto provando a volte tramite articoli o saggi oppure poesie scritte con l’inchiostro della critica e della denuncia sociale, con parole sussurrate oppure gridate a dire BASTA! Ho dedicato poesie alle suocere che rovinano i rapporti dei figli con le altre donne, ai figli adolescenti con tutte le loro problematiche con i genitori, ai turisti del piacere carnale, alla irresponsabilità degli uomini della nostra benedetta epoca, al velo, all’eredità, alla poligamia. Ho provato a parlare di tutto questo, di ciò che sento e vedo con i miei occhi di musulmana con la mente aperta; vale a dire musulmana che non dice Amen e così sia alle interpretazioni e alle spiegazioni degli altri, ma si fa, in modo autonomo, le sue ricerche personali ed accademiche. Non sono nata per fare il pappagallo! Sono nata per correre come la gazzella tra i campi di sapienza e a volte per volare come un’aquila!

6 – Ho trovato interessante (e questo si ricollega anche alla domanda precedente) il tuo vivere a tutto tondo il ruolo di poetessa e di comunicatrice, senza chiuderti nella proverbiale “torre d’avorio”. Mi ha colpito ad esempio anche la tua capacità di trasformare la cucina, i piatti tradizionali della tua terra d’origine, in un ponte, un modo per fare dialogare in modo vivo e gioviale culture e mondi diversi.
Cito volentieri, a questo proposito, un brano tratto da un post pubblicato su Arab News:

La mattina del fatidico pranzo – a base di piatti della tradizione, in teoria; un tripudio d’ingredienti cosmopoliti, nella pratica – ho trascorso un’ora e mezza sui mezzi pubblici romani, su e giù dal ventre fino alla superficie della nostra Madre Terra. Tra metropolitane ed autobus in cui i turisti fanno chiasso più degli studenti e dei lavoratori. E nonostante non ne potessi più, mi sono trovata a sorridere a quei visi. Proprio io che a lungo, per molte mattine, mi sono lamentata in tutte le lingue (anche quelle che non conosco!) del sovraffollamento, dei ritardi, del calpestarsi i piedi, dell’urtarsi, ora stavo sorridendo. Perché già fantasticavo di ciò che di lì a poco avrei vissuto: avrei scorto la gioia della festa sui visi delle mie amiche egiziane, siriane, palestinesi. Intorno a un pranzo all’insegna del light, a cui si addice d’essere servito in semplici piatti di plastica. E che ogni festa ti sia lieta, Eva che rappresenti tutte le donne, a cavallo della libertà lungo la distesa dell’uguaglianza.

Ti va di commentarlo, dicendoci anche qualcosa riguardo all’importanza dell’essere “light” e del dialogo multietnico?

È un progetto mio che forse vedrà la luce con un’amica specializzata nelle scienze alimentari. È un progetto per creare davvero un ponte di delizie tra le due sponde del mediterraneo visto che facciamo il bagno nello stesso mare e peschiamo lo stesso merluzzo usando lo stesso olio di oliva di pianura e lo stesso alloro e timo di montagna! Quasi tutti gli ingredienti si trovano e anche la volontà non manca. Quindi manca poco per godere delle bontà delle due rive con un tocco dietetico ragionevole! Amo cucinare e condividere i piacere della gola con i miei cari, ma amo di più semplificare un po’ le ricette, perché il ritmo della vita occidentale è molto veloce, e anche perché tengo presente le intolleranze, la glicemia, la pressione, il colesterolo e tutti gli altri gioielli che ci regala la vita prima o poi!

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7 – Insegni la lingua araba e con essa le tradizioni, il modo di vivere.
Ritieni che una maggiore conoscenza reciproca, fin dalle scuole elementari, potrebbe favorire il dialogo o è pura utopia?
 
Caro Ivano! La prima Università europea che ha aggiunto la lingua araba alla lista degli studi accademici è stata italiana. È accaduto nel 1600, e di preciso a Bologna, dopo che gli arabi erano stati cacciati da Granada in Andalusia. In seguito lo studio della lingua araba si è esteso a Napoli e ad altre città e altre prestigiose sedi accademiche. Dalla Sicilia i numeri arabi hanno raggiunto l’intera Europa e tutto l’occidente e con essi è giunta la nuova creazione dell’epoca, “lo zero”, in arabo “ssefr” poi per voi “cifra” e per i francesi “chiffres”. Quindi, che lo si voglia o no, l’Italia è stata la vela della nave dello scambio e del dialogo culturale storicamente e in Italia sento davvero un interesse molto vivo per le lingue straniere. Inoltre, come hai sottolineato nella domanda, è molto importante offrire ai bambini un orientamento bilingue. Un orientamento psicolinguistico moderno che risponda ai veri bisogni dei bambini. Io per esempio all’asilo avevo la mattina l‘arabo e il pomeriggio il francese, ed era vietato parlare in arabo durante il pomeriggio francofono così come era vietato parlare in francese o in dialetto durante la mattinata dell’arabo! Le lingue erano presenti anche durante il gioco o il canto e la terza lingua era in programma per il liceo. Adesso hanno la terza lingua, spesso l’inglese o lo spagnolo, già dalla scuola media. Quanto al berbero, si impara nelle zone montane del Marocco a partire dalla scuola elementare insieme all’arabo e al francese. Mi ricordo benissimo un discorso degli anni 80 di Re Hassan Secondo di cui mi è rimasto impresso nella memoria anche il tono non solo le parole: “Chi parla solo una lingua è un analfabeta nonostante i suoi diplomi!”. Però questo non vuol dire che siamo dei geni in Marocco oppure che il Marocco è il paradiso divino. C’è tanto da fare soprattutto nel campo dell’insegnamento perché è la base di tutto! A cosa servono greggi di pappagalli?
 

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8 – In qualche modo ricollegandoti a tutta la conversazione precedente, ci puoi parlare del tuo salotto letterario bilingue J’nan Argana.
Come è nato, come opera, e come lo consideri nell’ambito della cultura del dialogo di cui abbiamo parlato? Pensi che sia un esempio isolato o che possa fare da seme per favorire la nascita di realtà simili sia a Roma che in altre città?

J’nan Argana vuol dire il Paradiso di Argan. E l’argan come sapete è un albero che si trova solo in Marocco e ha la funzione di separare il deserto dalla pianura creando una cintura naturale per bloccare o limitare la sabbia che non smette di avanzare. L’argan è un frutto che dà un olio miracoloso con caratteristiche medicinali favolose e che si può ottenere solo tramite il lavoro delle mani delle donne berbere. Viene ancora oggi macinato con la pietra! Ho sempre avuto in mente di tenere salotti culturali e letterari, fin dai tempi di Marrakech, prima di spostarmi a Roma. Nei primi anni del mio soggiorno romano ero in fase di rinascita psicologicamente e culturalmente e dovevo ambientarmi e mettere radici. Poi, piano piano, mi sono sentita a casa, ma l’idea di creare un salotto letterario è rimasta a lungo un sogno nel cassetto. Nel 2011 i pipistrelli dell’odio e dell’ignoranza hanno colpito nel cuore della mia città natale, Marrakech, un caffè dove avevano luogo attività culturali anche con turisti stranieri che si chiamava “Argana”. In seguito a questo episodio con amici intellettuali marocchini e italiani abbiamo pensato di realizzare qualcosa per avvicinare i popoli, le culture, le etnie, ed è nato ARGANA. Abbiamo seminato l’amore e il dialogo invece dell’odio e della chiusura mentale. Tutto ciò si può creare ovunque, basta avere volontà e desiderio di condivisione! La cultura non ha confini geografici! 

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9 – Come ultima ma non ultima domanda, ti chiederei un bilancio della tua esperienza umana e artistica, e una previsione (anche se mi rendo conto che non è facile assumere il ruolo di indovini): pensi che ci siano spazi per poter vivere in un mondo in cui ci si comprende maggiormente, pur nelle differenze, nelle diversità, nelle specificità di ognuno?
Vorrei una risposta duplice, una con il cuore di poetessa, l’altro con la mente di studiosa e docente.

Oppure, ringraziandoti per le risposte a questa intervista date sia in qualità di poetessa e scrittrice che di divulgatrice e studiosa, vorrei una risposta libera, sincera, data con un ottimismo che conosce bene la realtà, ma anche la volontà e la speranza di poterla rendere più umana.
 
Amare, donare, sorridere, sognare, sopportare, non guardare dietro se non per vedere quanto è grande anzi gigante la nostra ombra, e per ultimo: vivere e lasciare vivere! Ecco le sette chiavi della mia vita! La luce del mio cammino di studio, di ragione e di poesia. La ricercatrice e la poetessa scrittrice sognatrice non si sono mai separate in me fin da quando avevo 15 anni! Vanno tanto d’accordo e non intervengo mai per separarle. Penso che le sette chiavi possano servire a qualsiasi persona per andare avanti e per affrontare ogni difficoltà!

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Dalila Hiaoui, poetessa-scrittrice, collabora con diversi giornali e riviste arabe e marocchine; è professoressa di lingua e cultura araba presso le agenzie delle Nazioni Unite. Di origine Amazigh (berbera), è nata a Marrakech e risiede a Roma. Ha pubblicato come “author, & co-author”, 19 libri tra poesie, romanzi in lingua araba, italiana, inglese, cinese, serba, albanese  e un manuale di arabo in 3 volumi in collaborazione con il Rettore dell’Università Internazionale Uni-Nettuno a Roma, con la quale ha realizzato anche i corsi televisivi: IMPARO LA LINGUA ARABA-IL TESORO DELLE LETTERE, (già in onda sui canali nazionali del Marocco, sui canali dell’Università, e su Rai 2 e 3, e il digitale terrestre dal 2010). Conduce da giugno 2013 il salotto letterario bilingue J’nan Argana.
 
Aggiungo volentieri una piccola ma significativa postilla integrativa alla nota biografica scritta dalla stessa autrice:

Posso aggiungere anche che sono una delle pochissime  scrittrici/poetesse di lingua araba ad avere intrapreso la strada del digitale, cioè, l’e-book, pensando all’ambiente, soprattutto! E sto lavorando a progetti simili con altre autrici ed altri autori, anche più giovani! Ho presentato nel 2016 a Fez in Marocco una delle poetesse più giovani del mondo, ha 13 anni, ed è semplicemente italiana. Vorrei che le opere dei piccoli autori che vivono tra le montagne, nel deserto, nei villaggi più lontani fossero a portata di mano di tutta la gente che creda ancora nell’amore, in Europa, in Asia, in Australia, e dappertutto nel mondo. Così ho adottato culturalmente i giovanissimi poeti e pittori delle montagne del Marocco. Sto lavorando con i loro professori alla pubblicazione delle loro opere in digitale e in cartaceo perché in alcuni paesi non è possibile comprare o scaricare l’e-book, forse per misure di sicurezza. Tutto il guadagno derivante da questa iniziativa sarà destinato ai piccoli autori e alle loro scuole, per coprire le spese di studio, gli occhiali da vista, e altro materiale e attrezzature scolastiche. Tutto questo senza chiedere nessun finanziamento a nessuna organizzazione! Sono sempre andata avanti da sola condividendo il frutto del mio sudore personale per un futuro migliore! 

Dalila Hiaoui 2

TRENO QUASI DIRETTO – reloaded

TRENO QUASI DIRETTO

Piccola riproposizione di un racconto piuttosto domenicale e piuttosto folle

 

8 dicembre 2015, raccontiBolognacantareCassandra CrossingFirenzeFrankie Lane,HollywoodIvano MugnainiLiguriaMarlon BrandoRomatreno

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

 

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Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

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La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

 

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

 

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

 

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

 

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TRENO QUASI DIRETTO, storia di tre donne che avevano sbagliato treno

Un altro vecchio racconto, che in questi giorni mi sembra essere tornato vivo, attuale.    IM

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

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Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

“Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

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Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

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Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

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Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

pasolini

In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini, il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente, si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.
I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini_borgata_RomaPasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”.Pasolini-mamma-romaMamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:
Io sono una forza del Passato.
 Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
- coma i pras di rosada -
di timp antic a trima.

(…Casarsa
- come i prati di rugiada -
trema di tempo antico.) (B, I, 17)
Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.
Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.