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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

copertina
Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
lungarno-pisa
L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

Un marziano del mondo e della parola

 
Leggendo e osservando sui giornali e in televisione il teatro della politica e della vita attuale, mi è venuto spontaneo chiedermi cosa avrebbe detto Flaiano dei mirabolanti eventi e mutamenti e dei memorabili tweet con i controtweet.  Probabilmente avrebbe detto “Coraggio, il meglio è passato”. O magari avrebbe taciuto, osservando con occhio da realistico sognatore “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.
Una cosa è certa: mi è venuta voglia di ripubblicare un vecchio pezzo su Flaiano, in cui, tra l’altro, viene citata anche questa sua frase: “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Il mio auspicio è che, a dispetto di tutto, anche in questi giorni non si smetta di pensare.
E magari anche di scrivere.
Se poi vi va di farmi leggere le vostre parole, edite o inedite, lo faccio volentieri.
Il mio indirizzo è sempre lo stesso: ivanomugnaini@gmail.com  .
Così come è sempre lo stesso il mio sito: https://www.ivanomugnaini.it/  . Non è un panettone, ma anche il sito è artigianale. Garantito e senza canditi.

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ENNIO FLAIANO:

UN MARZIANO DEL MONDO E DELLA PAROLA

Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato,  sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
Ma in Flaiano lo spettacolo della parola non cede mai all’autocompiacimento. Non è un caso quindi che abbia volutamente scelto una posizione defilata per osservare criticamente la realtà, una sorta di terra di confine posta a metà strada tra il coinvolgimento e il distacco, la passione e l’umorismo. In tal modo si è rivelato egli stesso quel “marziano” che ha descritto nel suo famoso racconto. E la sua navicella, inafferrabile, si è sempre sottratta ai radar e ai caccia di qualsiasi stormo di ordinari benpensanti, sorvolando e distaccandosi da quei luoghi comuni che ha sempre stigmatizzato.
«L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo», scriveva Flaiano. Questa affermazione contiene una netta presa di posizione e la conferma che solo il pensiero, una volta tramutato in parola, ci offre una chiave di lettura, e una conoscenza più elevata, o almeno più libera, non condizionata da cliché.
Flaiano nasce a Pescara, città anche di D’Annunzio, in grado di produrre questi due sguardi così distanti del medesimo circo del mondo fatto di luci, giochi d’ombra, suoni, rumori, tunnel misteriosi e caroselli rutilanti. La stessa terra d’Abruzzo genera il vate, il poeta soldato, l’immaginifico creatore di versi e slogan, e, qualche decennio dopo, l’antiretorico dissacratore, l’uomo della sintesi caustica, lo scrittore dall’aspetto di commesso viaggiatore che scardina le roboanti certezze. In comune una passione vorace per l’eloquio, un’attrazione maniacale e due diversissime e al tempo stesso inimitabili forme di funambolismo.
In Un marziano a Roma, Flaiano scrive: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.»
Meglio allora vederla già filtrata da uno schermo, la verità, o da una posizione laterale, come in un film che usa la sua natura fittizia per rappresentare la realtà. Cercando così di far ridere quando è il caso di piangere e viceversa, o indurre entrambe le cose, salvandosi però da quello sguardo insostenibile di Medusa che annienta e nasconde il pensiero. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso dell’umorismo. Lui, Flaiano Ennio, ultimo dei sette figli di Cetteo Flaiano, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Evidentemente era forse già scritto che ne dovesse parlare, producendo una serie di aneddoti che fotografano un’epoca e che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Per Flaiano Roma oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Si iscrive ad architettura ma non completa gli studi, coerente con quel senso di solida e strutturata impalpabilità, fedele a quella sua natura che egli stesso sintetizzò mirabilmente con la frase “Con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, motto della sua intera esistenza, riportata anche sulla lapide posta a futura memoria sulla sua casa romana.
La sceneggiatura non scritta, o scritta sul cemento della realtà, prosegue quando si stabilisce in Viale delle Milizie condividendo una stanza con il pittore Orfeo Tamburi. I nomi, le parole, perfino le targhe agli angoli delle strade, sembrano inseguire il suo umorismo, quel sentimento del contrario in lui innato. In quel periodo conosce tra gli altri Mario Pannunzio e Leo Longanesi e inizia a collaborare con varie riviste.
Partecipa alla Guerra d’Etiopia, e, anche in questo evento biografico accanto all’orrore reale ci sarà spazio per la memoria, per il ricordo e la testimonianza. Anni dopo ne nascerà, scritto in poco più di tre mesi, il romanzo Tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega.
Il comico e il tragico si rincorrono nella sua vita, in un appuntamento immancabile. Come la sua presenza ai tavoli dei caffè letterari romani ma soprattutto delle trattorie, veri palcoscenici di battute feroci e geniali, testimoniate in modo sublime, ad esempio, dai fedeli avventori del Re della Mezza Porzione nel film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Flaiano sposa in quegli anni un’insegnante di matematica, quasi a voler dare una misura al fluire anarcoide della vita, ma il volto tragico della vita va oltre ogni catalogazione tassonomica, oltre ogni formula ed equazione: la figlia Luisa, nata nel 1942, pochi mesi più tardi manifesta i primi segni di una encefalopatia che ne condizionerà gravemente l’intera esistenza.
Il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura.
Collabora con molti dei più significativi registi del dopoguerra, ma resta nella memoria soprattutto il suo lungo e fruttuoso sodalizio con Federico Fellini. Due personaggi simili e diversissimi, Fellini e Flaiano, due timidezze a confronto, due scontrosità di sapore differente e con specifiche modalità di difesa e di attacco. Ma con il gusto condiviso di ritrarre quel lato del mondo che affascina e inorridisce, il grottesco scrutato con attenzione divertita e feroce, forse per evidenziare il lato surreale nascosto nei meandri di ciascuno di noi come in quel malinconico e interminabile girotondo di “8½”.
All’attività di sceneggiatore Flaiano affianca quella di giornalista. Negli anni sessanta inizia un periodo di viaggi e relazioni internazionali, in Spagna, a Parigi (dove scrive per Louis Malle), e negli Stati Uniti (per l’Oscar a “8½”), poi di nuovo a Parigi (dove scrive una sceneggiatura tratta dalla Recherche di Proust per René Clément), a Praga e in Israele. Collabora tra gli altri con Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.
La “bilocazione dell’intelligenza”, quel suo modo di cogliere l’ambivalenza del reale, gli ha permesso di osservare il mondo senza esserne inglobato, rifuggendo dai meccanismi dell’omologazione, del luogo comune e dall’apparente mondo dorato dello star system. Questo suo essere dentro la realtà restandone fuori, ha prodotto alcune delle sceneggiature più significative del cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta e una serie innumerevole di aforismi che ancora oggi hanno il potere di ritrarre l’indole, il modo di essere e di pensare degli italiani.
Il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”, scriveva Flaiano. Ebbene, non saprei dire se noi italiani il suo genio lo abbiamo compreso troppo o troppo poco. Come commentare altrimenti le notizie e le immagini dei “solerti” impiegati che timbrano il cartellino in mutande per poi tornarsene a letto? Oppure gli appartamenti concessi in affitto dal Comune di Roma ai soliti ignoti (o noti, cognati e cugini di altri noti) al prezzo di un caffè al mese? Una sua critica puntuale e salace manca come la bussola ad un marinaio nel mare in tempesta.
Ci manca Flaiano. Non per una sdolcinata esaltazione quasi agiografica o per un amarcord fuori tempo, ma per una concreta e solida presa d’atto: l’assenza oggi di figure che abbiano saputo coglierne lo spirito e riceverne l’eredità. Del resto, come egli stesso aveva preconizzato, nel nostro paese vige una sorta di “culto della mancanza di personalità”, e in particolare i giovani “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
Flaiano pur essendo stato un campione della disillusione ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una storia, in un racconto, in una sequenza di immagini, o addirittura in una sola frase, in cui come per incanto è possibile cogliere immediatamente entrambe le facce della luna. Questo dono ha potuto farcelo in qualità di marziano, proveniente da galassie di ironia e stralunata lucidità. E ha potuto offrircelo perché era capace di leggere la realtà senza cedere alla patina di banalità di cui questa a volte si ammanta, utilizzando la parola come strumento per sezionare e ricomporre il mondo.
In questi tempi in cui tutto scorre velocemente, in cui il pensiero più alto vale l’esternazione di un tweet, in un mondo in cui non si scrivono più storie ma tutti fanno storytelling, risulta più che mai evidente la sua geniale capacità di sintesi e la sua lucida e visionaria lungimiranza. Ma forse, essendo Flaiano sempre un passo avanti o un passo di lato di fronte alla realtà, oggi, con un suo fulminante aforisma, ci avrebbe con ogni probabilità invitato a riscoprire il valore più profondo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione.
E forse, anzi sicuramente, da genio qual era, ancora una volta non sarebbe stato compreso.
                                                                                       Ivano Mugnaini

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