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Dacia Maraini legge “Un numero sul braccio” – Giornata della Memoria 2021

In occasione della Giornata della Memoria pubblico volentieri il link del video realizzato da Andrea Annessi Mecci in cui Dacia Maraini legge il racconto “Un numero sul braccio”, tratto da «Buio» (Rizzoli, 1999).
Lo stesso Annessi Mecci ha scritto un resoconto, anch’esso qui pubblicato, con le considerazioni e le emozioni legate all’incontro con Dacia Maraini e all’ascolto della lettura del racconto.
Un modo per riflettere tutti, grazie alla scrittura, alla lettura e al potere dell’immagine, sull’importanza di un ricordo vigile, presente, necessario.
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VIDEO – LINK PER VISIONE https://youtu.be/qvR1s0sP3h0
“Un numero sul braccio” [Dacia Maraini legge da Buio, Rizzoli, 1999. Il video a camera fissa la riprende in lettura seduta sulla poltrona di casa davanti la libreria. Durata video 8’. Qualità audio buona.]
 

TESTO
Giornata della memoria – 27 gennaio 2021

L’incontro virtuale nel salotto della signora Maraini – che ringrazio con cuore di aver concesso – è l’occasione per registrare la sua lettura del racconto “Un numero sul braccio”, tratto da «Buio» (Rizzoli, 1999). Premiato con lo Strega, questo volume raccoglie dodici storie che indagano il lato oscuro dell’animo umano tra abusi sessuali, prostituzione minorile, violenza domestica e femminicidio.
Queste violenze sono compiute ai danni di bambini e donne che assumono atteggiamenti differenti rispetto all’accaduto. Il clima di omertà e il senso di colpevolezza si ripresenta sistematicamente all’interno di tutta la raccolta, in cui la famiglia non appare più come un nido sicuro, ma porta d’ingresso per violenze e soprusi.

Continua la lettura di Dacia Maraini legge “Un numero sul braccio” – Giornata della Memoria 2021

Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese

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Anna Maria Ortese è nata a Roma il 13 giugno 1914. in questi giorni in cui ricorre l’anniversario della sua nascita, ripubblico un “viaggio” sulle tracce del suo “realismo visionario”.
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Anna Maria Ortese

Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese: la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”

“Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di sé stessa Anna Maria Ortese.
Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.
         Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice.  Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.
Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.
“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione” (L’Infanta sepolta, Adelphi, Milano 1994, p. 17).
Questo è uno dei ritratti che la scrittrice delinea con meticolosa passione del volto, di uno dei volti possibili, della sua amata. Ma la città in cui la libertà espressiva della gente è assoluta e autentica è troppo vivida e lacerante, forse, persino per lei. Per chi, come la Ortese, anela un ponte che possa mettere in contatto le sponde del vero e del sognato, la realtà coloratissima, vibrante ma anche cruda di una città inafferrabile come Napoli è spiazzante, è un’attrazione tanto intensa da risultare dolorosa. Un luogo in cui si ritrova, si riconosce, ma inesorabilmente si smarrisce. Forse non è un caso che uno dei libri più noti che la Ortese dedica alla città partenopea sia contraddistinto già nel titolo da una negazione: Il mare non bagna Napoli. Quasi a sottolineare, montalianamente, che tutto ciò che possiamo sapere, oltre che avere, di questo vasto insieme di vicoli e vite, è ciò che non sappiamo e che ciò che non possediamo. Oppure, in modo più semplice e più intricato allo stesso tempo, potremmo ipotizzare che il paradosso logico e geografico alla base del titolo sia una presa di posizione, una trincea difensiva: negare il dato di fatto per sottrarsi alla morsa contrapposta di troppa verità e di troppo mistero, “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” generano una confusione che è sì meravigliosa ma anche difficile da conciliare con quell’amore per la solitudine, con la sua altrettanto meravigliosa e ugualmente assoluta necessità.
 
Il porto di Toledo, quindi, il romanzo a cui la Ortese si è dedicata una vita intera, come un’immensa tela di Penelope, è la risposta, o meglio il modo per prolungare in eterno una domanda, un persistere di idee e sensazioni contrapposte: l’attrazione irresistibile e la necessità di fuggire verso un altrove che è soprattutto interno, interiore, quindi ulteriore paradosso, il ritorno ad un punto di partenza che non si può accettare come stabile. Questa è la condanna dell’autrice, una fuga costante, una diaspora della mente e del cuore per tornare a ciò che le corrisponde ma da cui deve costantemente fuggire.
Nel gennaio del 1933 muore alla Martinica il fratello Emanuele, marinaio. Lo smarrimento la porta a scrivere poesie. Pubblicate dopo alcuni mesi dalla rivista La Fiera Letteraria le valgono il primo incoraggiamento a scrivere. Nel 1943 termina il suo primo racconto, “Pellerossa”. Il tema è coerente con il suo approccio, lo sguardo e il punto di osservazione che le sono propri. Lei stessa sostiene che in questo racconto «è adombrato un tema fondamentale della [sua] vita: lo sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove saranno condotti gli uomini comuni».
Nel 1937 pubblica i racconti Angelici dolori, anche in questo caso traspare la volontà di mediare tra corporeo e immateriale, proiettando l’umano in una dimensione ulteriore che tuttavia è anch’essa afflizione, inesorabile eterno ritorno.
In seguito la sua ispirazione artistica sembra affievolirsi. Si sposta in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze e Trieste, nel 1939 è a Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritorna a Napoli, e collabora alla rivista Sud, dove, tra gli altri, conosce Luigi Compagnone e Raffaele La Capria.
Nel 1953 pubblica II mare non bagna Napoli, a cui ho fatto cenno sopra, uno dei romanzi chiave, dal punto di vista letterario e umano. L’ultimo racconto del libro, “II silenzio della ragione”, dedicato agli scrittori napoletani, suscita in città violente opposizioni. Sembra un messaggio indirizzato ad un amore tormentato, una lettera volutamente cosparsa di veleno. Per generare lo strappo, la scissione da un sentimento di appartenenza troppo stretto, tanto grande da risultare annichilente. A partire da quel momento, da quello scritto estremo, la Ortese avrà difficoltà a tornare a Napoli. A tornarci di persona, in carne ed ossa, perché in realtà il legame resta vivissimo, come si è detto. Oltre a II porto di Toledo del 1975, anche II Cardillo addolorato scritto molti anni dopo, nel 1993, testimonia e conferma un pensiero mai spento, una compenetrazione profonda.
In uno dei suoi trasferimenti a Milano scrive i racconti Silenzio a Milano, titolo anch’esso emblematico, quasi a voler contrapporre due mondi che costituiscono due sue dimensioni, esistenziali ed espressive, l’esuberanza espressiva del sud e la necessità dei colori e dei toni più tenui, quasi offuscati. La scrittrice nei primi anni ha un rapporto speciale con il capoluogo lombardo, inoltre qui, negli anni ’50, nasce il suo amore con il caporedattore dell’Unità, Marcello Venturi. Anche Milano con il tempo si tramuta in un luogo d’esilio. Come se anche con le città, così come con i suoi simili, la scrittrice provasse un’attrazione che a un certo tempo si trasforma, cambia di segno, forse per eccesso di affetto o per una consapevolezza che subentra, per un mistero che, una volta penetrato, la appaga o la spaventa. La scrittrice lascerà Milano, definitivamente, durante gli anni della contestazione, nel 1969, dopo avere cominciato qui la prima stesura de Il Porto di Toledo, per rifugiarsi a Roma. Di fronte agli accadimenti della storia, alle rivolte e ai conflitti, la Ortese fugge, ancora una volta, prima in una metropoli, poi in un ambiente più raccolto, consono alla necessità dell’isolamento, Rapallo. Qui vivrà a lungo con la sola compagnia della sorella, Maria, pittrice afflitta da disabilità, quasi un alter ego, uno specchio in cui si osserva e si riconosce.
È facile immaginare che nella quiete appartata di Rapallo, circondata dai gesti alacri e dal dialetto rapido dei liguri, alla Ortese capitasse, per contrasto, di ripensare alle lentezze ataviche del Sud, a quel mondo così diverso da quello delle nebbie ovattate. La Ortese percepiva nel Mezzogiorno la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. Annota, tra l’altro, che a Vieste, in Puglia, «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente». Questa dichiarazione, anzi, questa prova assoluta, espressa dal corpo oltre che dalla mente, della disperazione, intesa nell’accezione esatta e inesorabile di “mancanza di speranza”, con ogni probabilità ha sempre inorridito la scrittrice. Forse perché, anche in questo caso, vi riconosceva molto di suo. La sua risposta personale è stata la scrittura: dare una forma, e una voce, a quella mancanza di punti di appoggio, a quella dimensione amata eppure estranea, ferocemente aliena, incomprensibile perché sommersa dalla verità del mondo.
 In Città involontaria scrive: «tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata» e in un altro racconto osserva: «per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra». In un’intervista rilasciata molto più tardi, nel 1994, quasi un resoconto o un compendio, dichiara:  
“Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia”.
La “lacera condizione universale” del Meridione non è solo un puntuale reportage, una testimonianza. È anche e soprattutto un paradigma dello spaesamento interiore, di quello smarrimento totale, inteso anche come perdita dei riferimenti essenziali. Come sosteneva Pasolini, l’autenticità perduta era l’unica ricchezza di un mondo snaturato e smarrito. L’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato la propria unica speranza nel momento in cui si è disfatta delle proprie radici ed è crollata in un baratro da cui è impossibile risalire.
Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura  tanto tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo». Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla».
L’analisi è lucida, aspra, non per una forma di compiacimento o di paternalismo infarcito di un senso latente di superiorità. C’è un desiderio autentico di comprendere, di individuare le radici del male. Ci sono parallelismi, per certi aspetti, anche nel brano tratto da Il mare non bagna Napoli qui di seguito riportato, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. In particolare nel riferimento al “sonno”, all’apatia atavica. Il Sud è scrutato con occhio lucido ma sincero. Con una compenetrazione autentica, non con l’occhio di un colonizzatore o di un entomologo che descrive un insetto strano e malato: «Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro ‘regolata’, sono dovute le condizioni di questa terra, e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.
Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste ragioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa».
Naturale, non solo in virtù di un gioco di parole, è anche l’accostamento con le tematiche leopardiane, quell’oppressione che è imputabile in parte alla natura in parte al destino e alla storia.
Le terra del Sud è «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato», in quel silenzio che è anche tentativo di dialogo, muto ma tenace, con qualcosa che non si scorge ma si fa sentire, spesso come oppressione, afa, bagliore immenso e accecante, si individua il senso interiore della condizione meridionale.
La complessità della scrittrice avrebbe richiesto un’analisi molto più approfondita. Già da questi brevi appunti è stato possibile tuttavia intravedere qualche scorcio, iniziando un viaggio alla scoperta dell’immaginifico quanto reale mondo di Anna Maria Ortese: un universo dove accanto ai segni tangibili dei luoghi e degli eventi del tempo si percepisce l’attrazione e la necessità di pensare, e pensarsi, in un luogo altro, una collocazione ideale, allo stesso tempo defilata e protetta e immersa nel fluire, quasi un’utopia impropria e spuria, un sogno che non ignora la carne reale delle sofferenze che vorrebbe riscattare se solo potesse sperare davvero di riuscirci.
L’appellativo di «zingara assorta in sogno» attribuitole da Italo Calvino è emblematico, in quest’ottica. La scrittrice è immersa nel sogno ma non nel sonno. È assorta, quindi astratta, in apparenza estranea. Ma non dorme, una parte di lei resta vigile, presente, e vede, con occhi non solo reali.
Così ho pensato di andare/ verso la Grotta,
in fondo alla quale,/ in un paese di luce,/
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”
(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi).
Si deve alla Ortese, tra l’altro, il verso che ha dato origine al titolo del film di Mario Martone dedicato a Leopardi. Tra le sorelle e i fratelli ideali della Ortese, si possono individuare autrici e autori molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati da una ribellione che si manifesta nelle forme di una fuga verso  luoghi di elezione, isole e fortificazioni difensive, concrete e metaforiche.   Le è affine Elsa Morante, ad esempio, che come lei ha creduto nella «inesistenza», in un mondo “fiabesco” ma sempre ancorato al vero, all’umanità in carne ed ossa. Oppure Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, da lei definito «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole». In un altro dominio artistico, quello delle arti figurative, si può forse individuare quella che si potrebbe definire una raffigurazione iconografica del senso e delle suggestioni profonde della Ortese. Le pagine della Ortese si possono accostare ai quadri metafisici di De Chirico, a quelle ombre che si allungano a dismisura in piazze in apparenza inanimate, algide, apparentemente partorite da un impulso astratto della mente. Eppure, a ben vedere, c’è sempre un modello concreto ed esistente, un’osservazione a monte, attenta, del vero. Un vero che tuttavia non basta, così come non è sufficiente e non è esatta la definizione di surreale. La ricerca, mai interrotta, sempre in fieri, è quella di una realtà altra, sottratta alle miserie del contingente. Per giungere forse in un attimo di privilegio assoluto ad una comprensione più intensa del mistero del dolore e della bellezza. Per cogliere in un oggetto, in un orologio che segna un’ora inesatta o improbabile, il senso dell’umano.

di Ivano Mugnaini

Luoghi d’autore. A spasso con Calvino

L’intento della rubrica Luoghi d’autore è descritto qui sotto: provare a vedere alcuni luoghi, borghi o città, reali o immaginari, con gli occhi di scrittori fondamentali del secolo scorso e non solo.
Le tappe fondamentali di questa “esplorazione” a metà strada tra documento e immaginazione, verranno ospitate dalla rivista L’Ottavo, a cura di Geraldine Meyer, che ringrazio per l’ospitalità.
Pubblico qui la prima “passeggiata” letteraria, quella con Italo Calvino. E vi invito a leggere l’articolo completo, assieme ad altri scritti in prosa e poesia, a questo link: 
https://www.lottavo.it/2020/03/luoghi-dautore-oggi-a-spasso-con-calvino/?fbclid=IwAR21c5ka0Q4ORwJsA_FcHn-kIgGEN6vJkkSuPwx3afBEa_WBXszePAXe-E0 
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Luoghi d’Autore  contiene esplorazioni, esercizi di lettura e rilettura, brevi ma appassionate escursioni “informali” in abiti lievi e colori accesi su fondamentali sentieri panoramici. Indaga sul  rapporto tra alcuni scrittori e poeti del Novecento e i loro luoghi di residenza ed elezione, le città e i borghi in cui hanno vissuto e lottato per il diritto di esistere e resistere, per la necessità, il fardello e il privilegio dell’espressione.

Rubrica a cura di Ivano Mugnaini

A spasso con Calvino: nei luoghi, oltre i luoghi fino dentro la realtà

Se una notte d’autunno un lettore….
Se una notte d’autunno un lettore si trovasse a pensare a Calvino, alla sua fama, alla sua controversa ma innegabile attualità, alle polemiche a tratti aspre e in altri casi leziose che ne fanno comunque oggetto di dibattito come se avesse pubblicato oggi stesso un nuovo libro… ebbene, il suddetto lettore si troverebbe, alla fine, a riflettere su delle nuove o vecchie cosmicomiche.

Italo Calvino (Foto da illibraio.it)

Calvino è stato un “pianista” della parola. Ha saputo adattarsi con elasticità alle esigenze, ai temi, alle corde e agli accordi del suo essere e a quelli del mondo. Ecco, probabilmente è questa una delle possibili parole chiave: mondo. In primis per l’internazionalità autentica, genetica, che gli era propria. Non solo per la nascita nella caraibica Cuba, ma soprattutto per la capacità di esplorare continenti, lingue e mentalità diverse e farle proprie. Estremamente ligure in questo, con un piede sulla terraferma e uno proteso verso il mare, calmo o in tempesta, limpido o denso e scuro. Ma Calvino è stato e ha scritto del mondo perché ha rifiutato di collocarsi nella proverbiale torre d’avorio. Ha percorso e abitato città reali, estremamente visibili, con quello sguardo attento e astuto da marinaio, tra sorriso ironico e amaro.
Di New York, Parigi, Roma e di mille altre luoghi visti e vissuti, ha colto il mito senza abdicare alla realtà, proponendo e rielaborando, mattone su mattone, una forma di verità che facesse pensare senza lacerare, conservando la capacità di spaziare tra presente e passato, tra la dimensione concreta e una giocosa, profondamente umana, filosoficamente infantile.
Di questi ossimori e questi paradossi si nutre la sua scrittura e l’attrazione che esercita. Talmente ampia da includere anche la sua controparte, le prese di posizione di alcuni detrattori che comunque fanno riferimento ai suoi testi, li analizzano e li dissezionano, dimostrando immancabilmente una conoscenza approfondita dei tessuti e delle arterie di quel corpo così multiforme. Calvino ha il dono e il castigo di generare giudizi divergenti. La mia esperienza personale non ha alcun rilievo sul piano statistico, chiaramente, ma può servire, almeno qui e ora, a confermare che i giudizi sullo scrittore molto di rado sono serenamente anodini. Un mio amico molto colto e preparato, formidabile bevitore poco santo e parecchio logorroico, non molte sere or sono mi ha bloccato al tavolo di una cena per oltre un paio d’ore per dirmi, tra le altre cose, che a suo avviso tutta la produzione di Calvino non vale niente (anche se lo ha detto in termini più coloriti, abbondanti di lettere zeta) e che si salva solamente “Se una notte d’inverno”, proprio in quanto testo atipico, quasi un non-romanzo, una specie di ibrido alla Frankenstein, oppure un divertissement, insomma una “roba strana”, fuori schema. Pochi giorni dopo, in virtù della logica dell’alternanza, una mia amica scrittrice e giornalista mi ribadiva con foga, al contrario, il suo amore, non per me ma per il suddetto Calvino. Più che di amore si trattava e si tratta di vera e propria fede, laica, d’accordo, ma del tutto assoluta, quasi integralista. La giornalista dalle grandi doti comunicative aveva creato addirittura un club, un Circolo Pickwick di giovani scrittori di belle speranze, i quali, ispirandosi allo stile e ai temi cari a Calvino, avevano scritto un’antologia di racconti dal titolo “La consistenza”, con un’eco lunga e appassionata che riportava alle Lezioni americane da lei idolatrate e recitate brano dopo brano come versetti biblici o coranici.
Tutto questo per ribadire che il viaggio di Calvino prosegue, con costanza, sempre di buona lena, e che la sua forza con ogni probabilità è in quella capacità di generare consistenza nell’inconsistenza e varietà nell’uniformità: giudizi contrapposti ma attenzione identica.
Una campionario ampio di pareri, soprattutto negativi, è stato raccolto e riportato in un recente articolo apparso sul Messaggero da Paolo Di Paolo.  L’articolo è ampio e dettagliato. Uno dei punti cardini è quello in cui Di Paolo sottolinea che agli scrittori vengono perdonati eccessi, follie e stranezze ma raramente o quasi mai viene perdonato il successo. Questa è una colpa che non viene redenta, se non in casi rarissimi di scrittori morti giovani, possibilmente santi o martiri di qualche idea, meglio ancora se suicidi.
Calvino invece il successo lo inseguì, lo rincorse e lo raggiunse. Gradualmente, iniziando con un passo cadenzato, poi adattando il ritmo al percorso e ai tempi. Una delle svolte fondamentali fu quella di accettare il consiglio dell’entourage della Einaudi: quello di passare dal realismo alla letteratura fantastica. Molti altri scrittori si sarebbero sdegnati, avrebbero eretto bunker e barricate a difesa della propria impostazione. Calvino accettò il consiglio e lo tramutò nella propria forza. Sembrava che attendesse da sempre questo snodo, o meglio lo accettò come parte di sé e continuò a raccontare ciò che sentiva suo tramite invenzioni di macchine narrative fatte di castelli, visconti, numeri e formule create ex novo, luoghi inesistenti e in realtà radicati in ciascuno, nel profondo. Un’abilità camaleontica di parlare di sé diventando uno dei suoi numerosi personaggi, oggetti e luoghi, tra Marcovaldo e Palomar.
Calvino nasce a Cuba, ma vi rimane solo fino all’età di due anni. Il tempo necessario per assorbire di quella zona del mondo e di quella dimensione della mente un senso di precarietà tenace, un’allegria malinconica e una sete di avventura, fatta di incontri, di gesti, ma soprattutto di parole, racconti veri e inventati, esagerati ed esatti, come accade sempre in quella parte di continente in cui la realtà ha la voglia e la forza di farsi magia.
Il padre, agronomo sanremese, docente di matematica e scienze, conduce Calvino in Italia all’età di due anni. Il giovane si trova così a metà strada tra il mare e terra, intesa anche come suolo, studiato e misurato con criterio scientifico, e dall’altra parte il mare, l’attrazione dell’altrove. Successivamente Calvino rivisitò varie volte Cuba in compagnia della moglie, la traduttrice argentina Ester Judith Singer, sposata nel 1964. In quell’occasione conobbe Ernesto “Che” Guevara a cui, dopo la sua morte in Bolivia, dedicò alcune pagine.
A fianco a Cuba, di fronte, in un dialogo anch’esso complesso e fertile, l’America.
Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino parte per l’America. Definisce New York, «la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa terra». Qui, più che mai, il viaggio non solo parla della persona ma è la persona. Nel corso dei due mesi trascorsi a New York, Calvino realizza il desiderio profondo dei suoi personaggi, quindi suo: osservare il mondo senza essere visto, presente ed estraneo, invisibile e tuttavia concreto, tangibile, non meramente onirico.
Osserva l’America come suo padre avrebbe osservato e misurato un terreno complesso e irregolare, pieno di contrasti, arido e fertile, ricco di meraviglie e di desolazioni. Dalle sue “osservazioni” scaturiranno i saggi raccolti nel libro Un ottimista in America, edito da Einaudi. Nella primavera del 1961 il libro è pronto, ma Calvino lo ferma in seconde bozze. Si rende conto che il libro è troppo avanti e soprattutto troppo distante dai luoghi comuni acquisiti in Italia tramite le pellicole hollywoodiane: “Forse – dice – dovremmo insegnare agli americani che cos’è l’America”.
Calvino si sente americano, perfettamente a suo agio in una terra di contrasti, in evoluzione costante.  È un uomo felice laggiù. Le lettere agli amici italiani sprizzano allegria. A Elsa Morante scrive: «New York mi ha assorbito come una pianta carnivora assorbe una mosca”. La fantasia nutre se stessa e divorandosi si rigenera, nuova, vitalissima. Quelle americane, ampie, dure, ma irrefrenabili nel brulicare di vita, sono il modello delle città invisibili, ognuna portatrice di un’idea, di un modello, di una potenzialità.
La Francia, inoltre, altro capitolo. A Parigi Calvino visse dal 1967 al 1980. È la città della sua maturità, il luogo dove prende atto e visione della presenza fisica, rilevabile tramite i cinque sensi, della leggerezza, altra parola chiave, e, più che mai, magica. Parigi è un racconto eternamente rivolto all’indietro, alla grandezza della storia e del passato ma con un piede etereo sospeso nell’aria, simile a quello di una ballerina della Folies Bergères, verso il futuro. La razionalità si inebria di effluvi di champagne e ne nasce l’umorismo, sensuale, in ogni possibile accezione.
In questa mappa ideale è utile fare sosta, con una passo indietro, anche a Torino, tappa significativa della sua giovinezza. Il capoluogo piementose rivela, nella sua geometrica precisione di strade e gesti, uno dei contrasti alla base anche della scrittura e del pensiero calviniano: la città ha un vigore e una linearità che “invitano alla logica, e attraverso la logica” aprono “la via alla follia”. Non è un caso, detto tra parentesi, che Torino sia la capitale italiana del mistero e dell’occulto.
Roma, invece, apparentemente più posata e domestica, in realtà in qualche modo provoca in Calvino un’ammirazione prudente. Soprattutto a causa di alcuni scrittori dell’ambiente letterario della capitale che a suo avviso vi soggiornavano solo nella speranza di assorbire una grandezza che era loro estranea.
A Roma lo scrittore trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita, alloggiando in piazza Campo Marzio. Rileggendo alcune pagine di Palomar dedicate a Roma vi si intuiscono presagi di morte che paiono quasi assediare il protagonista in fuga dalla folla. Ne «L’ invasione degli storni», c’è un espediente narrativo e psicologico di geniale efficacia: la città eterna vista «con occhi da uccello». I secoli trascorsi e l’istante che fugge.
Calvino-Palomar evita di confrontarsi con la città reale. Guarda in alto, fuori dalle prospettive consuete e si chiede se “questo affollarsi del cielo ci ricorda che l’ equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso di insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?” Scriveva Pasolini: “le città che Calvino sogna, in infinite forme, nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una città reale”. In quest’ottica, dunque, Roma, la più nota delle metropoli, quella in cui tutto, passato e presente è alla portata degli occhi, dei piedi e delle mani, in realtà è l’ultima, e la prima in ordine gerarchico, delle città invisibili incontrate ed evocate da Calvino. E se Calvino è visto come “scrittore freddo”, accusato di essere incapace di rendere il senso del tragico e del sacro, è proprio perché la sua visione assolutamente laica, priva di religiosità, lo spinge a rinunciare al lusso delle illusioni, quelle in cui indulgono coloro che esaltano un passato glorioso o un lontano futuro di redenzione. In Calvino non c’è illusione. La sola gioia possibile è quella di un reale reso mitico dall’energia presente e da una fantasia che non pretende di ammantarsi di vesti sacre o mistificatorie.
In questo breve excursus, ho tentato di tracciare alcune tappe del percorso umano e letterario di uno degli autori italiani più apprezzati e letti in tutto il mondo. Tentativo un po’ folle, vista la vastità e la varietà di spunti e tematiche che gli sono proprie. È stato quasi come ricercare i sentieri dei nidi di ragno, tanto per prendere a prestito il titolo del suo primo romanzo. Tentativo folle, e quindi in fondo compatibile con l’atteggiamento di un autore che ha saputo cercare la natura autentica dei luoghi e dei personaggi, proprio nell’atto di evidenziarne l’imprevedibile umana follia, fantasia, senza le barriere preconcette del prima e del dopo, del se e del mai.
Calvino ha cercato l’affermazione di sé e del proprio mestiere senza snaturarsi, senza rinunciare alla coerenza con ciò che credeva e ciò a cui non credeva, senza dogmi e costrizioni. Il suo successo non è una colpa né può essere visto come un limite. È la testimonianza che ciascun individuo è una città di parole e sogni, invisibili fino a quando non accettiamo il mistero del connubio del sorriso e del pensiero. Quel gioco per cui ogni vita è solo se stessa ed è parte di un mito e di un mistero. Calvino ricorda, con i suoi libri, ad ogni individuo rampante, dimezzato, cosmicomico, incessantemente viaggiante, che quel gioco va vissuto e raccontato, giorno per giorno. Perché la vita è un luogo che si trasforma istante per istante, nell’atto di viverlo, pensarlo e immaginarlo: “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere”. Quindi, tornando al titolo e all’esordio: “Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di Malbork […] in una rete di linee che s’intersecano illuminate dalla luna”, chiede ancora: “Quale storia, laggiù, attende la fine?”, la risposta, sempre diversa, sempre individuale e nuova, è nel racconto stesso.
 

LucaniArt Magazine su Lo specchio di Leonardo

Lo specchio di Leonardo Ivano Mugnaini

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Un romanzo breve, solido e ben costruito, una scrittura limpida e affascinante sui temi dell’adattamento e la ricerca dei valori assoluti

Si terrà proprio in questi giorni a Matera una mostra su Le macchine di Leonardo” che annoto nell’agenda, per una visita prima della chiusura. Trovo sempre affascinante, seppure a volte strumentalizzata e abusata (come quella di Pasolini), quella del genio fiorentino, di cui leggo ancora in un trafiletto dell’Espresso del 3 marzo di un doppio omaggio di Valentina Fortichiari con un’autobiografia e un romanzo al pittore rinascimentale. Una cascata di iniziative, discussioni, libri. Recentemente anche una mostra a Londra. Ho scritto questo trafiletto per aggiungere e segnalare ai lettori di LucaniArt un altro bellissimo libro su Leonardo, uscito recentemente per le edizioni Eiffel e che ho appena terminato di leggere. Si tratta di un romanzo breve dello scrittore toscano Ivano Mugnaini dal titolo Lo specchio di Leonardo”, di cui avevo già apprezzato la vena poetica e letto svariati racconti e articoli di critica e riflessione, pubblicati direttamente sul suo blog personale all’indirizzo http://www.ivanomugnaini.it/ .
“Lo specchio di Leonardo” è uno di quei libri che si leggono d’un d’un fiato, ti prendono e ti restano dentro. La trama è avvincente e originale, ed esplora il mondo interiore del pittore nelle sue mille sfaccettature, con i suoi conflitti e il suo bisogno di libertà e fughe. Un bisogno primordiale di certezze e di risposte, che porterà il genio fiorentino allo scambio di se stesso con un sosia, in un gioco di specchi e di maschere intrigante e tormentato, in cui si frammischiano sentimenti torbidi e aspirazioni al bene, passioni e confessioni, insoddisfazioni e solitudine. Sia la narrazione in prima persona, sia la tematica forte e prevalente dell’inconscio, lo rendono di impatto diretto ed immediato, un aspetto che consente sicuramente riconoscimento ed identificazione nel lettore. Il linguaggio di matrice kafkiana è solido e sicuro, in equilibro perfetto tra verità ed invenzione, una sonda sempre vigile e coerente sull’opacità del reale e sui sotterranei imprevedibili dell’animo umano. Da leggere.

Maria Pina Ciancio

http://www.edizionieiffel.com/ 

LA TENACIA DELLO SGUARDO: il realismo visionario di Anna Maria Ortese

In questo giorno in cui le immagini della violenza riempiono gli occhi e la mente, ho deciso di pubblicare l’articolo dedicato ad Anna Maria Ortese anche in lingua inglese, un medium in grado di mettere in contatto e favorire il dialogo con la stragrande maggioranza delle persone, quelle che ripudiano la violenza e credono nella possibilità della convivenza civile. Il gesto è inutile, vano, per niente in grado di modificare le cose. Ma in fondo tutta l’arte è inutile. È utopia, ricerca di un mondo altro. Ma senza quella vitale inutilità, senza quella ricerca di un luogo che non c’è, o che bisogna trovare, la sconfitta dell’umanità e della bellezza sarebbe ancora più grave, sarebbe definitiva. Ben venga quindi ogni gesto “inutile” che ci conferma che siamo ancora vivi e ancora tenacemente umani.
On this day in which the images of violence fill the eyes and the mind,  I decided to publish the article on Anna Maria Ortese also in English , a medium that can bring together and foster dialogue with the great majority of the people, those who refuse violence and still believe in the possibility of civil cohabitation. The gesture is useless, vain,unable to change things . But basically all art is useless. It is utopia, looking for another world. But without this vital futility, without the search for a place that does not exist, or that we still have to find, the defeat of humanity and beauty would be even more serious, it would be definitive. I welcome, therefore, every “useless”gesture which confirms that we are still alive and still tenaciously human.

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VIAGGIO NEL REALISMO VISIONARIO DI ANNA MARIA ORTESE:
la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”

 

Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di se stessa Anna Maria Ortese. Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.

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Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice. Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.

Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.

Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione” (L’Infanta sepolta, Adelphi, Milano 1994, p. 17).

Questo è uno dei ritratti che la scrittrice delinea con meticolosa passione del volto, di uno dei volti possibili, della sua amata. Ma la città in cui la libertà espressiva della gente è assoluta e autentica è troppo vivida e lacerante, forse, persino per lei. Per chi, come la Ortese, anela un ponte che possa mettere in contatto le sponde del vero e del sognato, la realtà coloratissima, vibrante ma anche cruda di una città inafferrabile come Napoli è spiazzante, è un’attrazione tanto intensa da risultare dolorosa. Un luogo in cui si ritrova, si riconosce, ma inesorabilmente si smarrisce. Forse non è un caso che uno dei libri più noti che la Ortese dedica alla città partenopea sia contraddistinto già nel titolo da una negazione: Il mare non bagna Napoli. Quasi a sottolineare, montalianamente, che tutto ciò che possiamo sapere, oltre che avere, di questo vasto insieme di vicoli e vite, è ciò che non sappiamo e che ciò che non possediamo. Oppure, in modo più semplice e più intricato allo stesso tempo, potremmo ipotizzare che il paradosso logico e geografico alla base del titolo sia una presa di posizione, una trincea difensiva: negare il dato di fatto per sottrarsi alla morsa contrapposta di troppa verità e di troppo mistero, “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” generano una confusione che è sì meravigliosa ma anche difficile da conciliare con quell’amore per la solitudine, con la sua altrettanto meravigliosa e ugualmente assoluta necessità.

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Il porto di Toledo, quindi, il romanzo a cui la Ortese si è dedicata una vita intera, come un’immensa tela di Penelope, è la risposta, o meglio il modo per prolungare in eterno una domanda, un persistere di idee e sensazioni contrapposte: l’attrazione irresistibile e la necessità di fuggire verso un altrove che è soprattutto interno, interiore, quindi ulteriore paradosso, il ritorno ad un punto di partenza che non si può accettare come stabile. Questa è la condanna dell’autrice, una fuga costante, una diaspora della mente e del cuore per tornare a ciò che le corrisponde ma da cui deve costantemente fuggire.

Nel gennaio del 1933 muore alla Martinica il fratello Emanuele, marinaio. Lo smarrimento la porta a scrivere poesie. Pubblicate dopo alcuni mesi dalla rivista La Fiera Letteraria le valgono il primo incoraggiamento a scrivere. Nel 1943 termina il suo primo racconto, “Pellerossa”. Il tema è coerente con il suo approccio, lo sguardo e il punto di osservazione che le sono propri. Lei stessa sostiene che in questo racconto «è adombrato un tema fondamentale della [sua] vita: lo sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove saranno condotti gli uomini comuni».
Nel 1937 pubblica i racconti Angelici dolori, anche in questo caso traspare la volontà di mediare tra corporeo e immateriale, proiettando l’umano in una dimensione ulteriore che tuttavia è anch’essa afflizione, inesorabile eterno ritorno.

In seguito la sua ispirazione artistica sembra affievolirsi. Si sposta in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze e Trieste, nel 1939 è a Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritorna a Napoli, e collabora alla rivista Sud, dove, tra gli altri, conosce Luigi Compagnone e Raffaele La Capria.

Nel 1953 pubblica II mare non bagna Napoli, a cui ho fatto cenno sopra, uno dei romanzi chiave, dal punto di vista letterario e umano. L’ultimo racconto del libro, “II silenzio della ragione”, dedicato agli scrittori napoletani, suscita in città violente opposizioni. Sembra un messaggio indirizzato ad un amore tormentato, una lettera volutamente cosparsa di veleno. Per generare lo strappo, la scissione da un sentimento di appartenenza troppo stretto, tanto grande da risultare annichilente. A partire da quel momento, da quello scritto estremo, la Ortese avrà difficoltà a tornare a Napoli. A tornarci di persona, in carne ed ossa, perché in realtà il legame resta vivissimo, come si è detto. Oltre a II porto di Toledo del 1975, anche II Cardillo addolorato scritto molti anni dopo, nel 1993, testimonia e conferma un pensiero mai spento, una compenetrazione profonda.

In uno dei suoi trasferimenti a Milano scrive i racconti Silenzio a Milano, titolo anch’esso emblematico, quasi a voler contrapporre due mondi che costituiscono due sue dimensioni, esistenziali ed espressive, l’esuberanza espressiva del sud e la necessità dei colori e dei toni più tenui, quasi offuscati. La scrittrice nei primi anni ha un rapporto speciale con il capoluogo lombardo, inoltre qui, negli anni ’50, nasce il suo amore con il caporedattore dell’Unità, Marcello Venturi. Anche Milano con il tempo si tramuta in un luogo d’esilio. Come se anche con le città, così come con i suoi simili, la scrittrice provasse un’attrazione che a un certo tempo si trasforma, cambia di segno, forse per eccesso di affetto o per una consapevolezza che subentra, per un mistero che, una volta penetrato, la appaga o la spaventa. La scrittrice lascerà Milano, definitivamente, durante gli anni della contestazione, nel 1969, dopo avere cominciato qui la prima stesura de Il Porto di Toledo, per rifugiarsi a Roma. Di fronte agli accadimenti della storia, alle rivolte e ai conflitti, la Ortese fugge, ancora una volta, prima in una metropoli, poi in un ambiente più raccolto, consono alla necessità dell’isolamento, Rapallo. Qui vivrà a lungo con la sola compagnia della sorella, Maria, pittrice afflitta da disabilità, quasi un alter ego, uno specchio in cui si osserva e si riconosce.

È facile immaginare che nella quiete appartata di Rapallo, circondata dai gesti alacri e dal dialetto rapido dei liguri, alla Ortese capitasse, per contrasto, di ripensare alle lentezze ataviche del Sud, a quel mondo così diverso da quello delle nebbie ovattate. La Ortese percepiva nel Mezzogiorno la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. Annota, tra l’altro, che a Vieste, in Puglia, «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente». Questa dichiarazione, anzi, questa prova assoluta, espressa dal corpo oltre che dalla mente, della disperazione, intesa nell’accezione esatta e inesorabile di “mancanza di speranza”, con ogni probabilità ha sempre inorridito la scrittrice. Forse perché, anche in questo caso, vi riconosceva molto di suo. La sua risposta personale è stata la scrittura: dare una forma, e una voce, a quella mancanza di punti di appoggio, a quella dimensione amata eppure estranea, ferocemente aliena, incomprensibile perché sommersa dalla verità del mondo.

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In Città involontaria scrive: «tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata» e in un altro racconto osserva: «per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra». In un’intervista rilasciata molto più tardi, nel 1994, quasi un resoconto o un compendio, dichiara:

Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia”.

La “lacera condizione universale” del Meridione non è solo un puntuale reportage, una testimonianza. È anche e soprattutto un paradigma dello spaesamento interiore, di quello smarrimento totale, inteso anche come perdita dei riferimenti essenziali. Come sosteneva Pasolini, l’autenticità perduta era l’unica ricchezza di un mondo snaturato e smarrito. L’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato la propria unica speranza nel momento in cui si è disfatta delle proprie radici ed è crollata in un baratro da cui è impossibile risalire.

Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura tanto tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo». Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla».

L’analisi è lucida, aspra, non per una forma di compiacimento o di paternalismo infarcito di un senso latente di superiorità. C’è un desiderio autentico di comprendere, di individuare le radici del male. Ci sono parallelismi, per certi aspetti, anche nel brano tratto da Il mare non bagna Napoli qui di seguito riportato, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. In particolare nel riferimento al “sonno”, all’apatia atavica. Il Sud è scrutato con occhio lucido ma sincero. Con una compenetrazione autentica, non con l’occhio di un colonizzatore o di un entomologo che descrive un insetto strano e malato: «Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro ‘regolata’, sono dovute le condizioni di questa terra, e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.

Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste ragioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa».

Naturale, non solo in virtù di un gioco di parole, è anche l’accostamento con le tematiche leopardiane, quell’oppressione che è imputabile in parte alla natura in parte al destino e alla storia.

Le terra del Sud è «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato», in quel silenzio che è anche tentativo di dialogo, muto ma tenace, con qualcosa che non si scorge ma si fa sentire, spesso come oppressione, afa, bagliore immenso e accecante, si individua il senso interiore della condizione meridionale.

La complessità della scrittrice avrebbe richiesto un’analisi molto più approfondita. Già da questi brevi appunti è stato possibile tuttavia intravedere qualche scorcio, iniziando un viaggio alla scoperta dell’immaginifico quanto reale mondo di Anna Maria Ortese: un universo dove accanto ai segni tangibili dei luoghi e degli eventi del tempo si percepisce l’attrazione e la necessità di pensare, e pensarsi, in un luogo altro, una collocazione ideale, allo stesso tempo defilata e protetta e immersa nel fluire, quasi un’utopia impropria e spuria, un sogno che non ignora la carne reale delle sofferenze che vorrebbe riscattare se solo potesse sperare davvero di riuscirci.

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L’appellativo di «zingara assorta in sogno» attribuitole da Italo Calvino è emblematico, in quest’ottica. La scrittrice è immersa nel sogno ma non nel sonno. È assorta, quindi astratta, in apparenza estranea. Ma non dorme, una parte di lei resta vigile, presente, e vede, con occhi non solo reali.

Così ho pensato di andare/ verso la Grotta,
in fondo alla quale,/ in un paese di luce,/
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”

(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi).

Si deve alla Ortese, tra l’altro, il verso che ha dato origine al titolo del film di Mario Martone dedicato a Leopardi. Tra le sorelle e i fratelli ideali della Ortese, si possono individuare autrici e autori molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati da una ribellione che si manifesta nelle forme di una fuga verso luoghi di elezione, isole e fortificazioni difensive, concrete e metaforiche. Le è affine Elsa Morante, ad esempio, che come lei ha creduto nella «inesistenza», in un mondo “fiabesco” ma sempre ancorato al vero, all’umanità in carne ed ossa. Oppure Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, da lei definito «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole». In un altro dominio artistico, quello delle arti figurative, si può forse individuare quella che si potrebbe definire una raffigurazione iconografica del senso e delle suggestioni profonde della Ortese. Le pagine della Ortese si possono accostare ai quadri metafisici di De Chirico, a quelle ombre che si allungano a dismisura in piazze in apparenza inanimate, algide, apparentemente partorite da un impulso astratto della mente. Eppure, a ben vedere, c’è sempre un modello concreto ed esistente, un’osservazione a monte, attenta, del vero. Un vero che tuttavia non basta, così come non è sufficiente e non è esatta la definizione di surreale. La ricerca, mai interrotta, sempre in fieri, è quella di una realtà altra, sottratta alle miserie del contingente. Per giungere forse in un attimo di privilegio assoluto ad una comprensione più intensa del mistero del dolore e della bellezza. Per cogliere in un oggetto, in un orologio che segna un’ora inesatta o improbabile, il senso dell’umano.

Anna Maria Ortese ha lottato e vissuto una vita intera per strappare alla realtà quel varco di bellezza e di magia che la rendesse vivibile. Senza mai privare la fantasia della carne concreta, seppure dolorosa e addolorata, della verità, ma senza mai rinunciare, pagando sulla propria pelle in prima persona, al diritto alla fuga, ad un esilio temporaneo dal mondo che è esso stesso una forma di presenza, attraverso la scrittura, la testimonianza, la ricerca di quel “paese di luce” che non esiste ma la cui ricerca è essa stessa il senso del cammino, del viaggio.

THE TENACITY OF THE EYE: the visionary realism of Anna Maria Ortese

In questo giorno in cui le immagini della violenza riempiono gli occhi e la mente, ho deciso di pubblicare l’articolo dedicato ad Anna Maria Ortese anche in lingua inglese, un medium in grado di mettere in contatto e favorire il dialogo con la stragrande maggioranza delle persone, quelle che ripudiano la violenza e credono nella possibilità della convivenza civile. Il gesto è inutile, vano, per niente in grado di modificare le cose. Ma in fondo tutta l’arte è inutile. È utopia, ricerca di un mondo altro. Ma senza quella vitale inutilità, senza quella ricerca di un luogo che non c’è, o che bisogna trovare, la sconfitta dell’umanità e della bellezza sarebbe ancora più grave, sarebbe definitiva. Ben venga quindi ogni gesto “inutile” che ci conferma che siamo ancora vivi e ancora tenacemente umani.
On this day in which the images of violence fill the eyes and the mind,  I decided to publish the article on Anna Maria Ortese also in English , a medium that can bring together and foster dialogue with the great majority of the people, those who refuse violence and still believe in the possibility of civil cohabitation. The gesture is useless, vain,unable to change things . But basically all art is useless. It is utopia, looking for another world. But without this vital futility, without the search for a place that does not exist, or that we still have to find, the defeat of humanity and beauty would be even more serious, it would be definitive. I welcome, therefore, every “useless”gesture which confirms that we are still alive and still tenaciously human.

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THE VISIONARY REALISM OF ANNA MARIA ORTESE :

THE TENACITY OF THE EYE AND THE PAIN OF “NON-EXISTENCE”

“I’ve always been alone, like a cat,” writes of herself Anna Maria Ortese. A short sentence, apparently weak, almost an unpretentious lament, deprived even of consolation. In fact in this fragment, in this thin sliver of glass, is enclosed a large sky that dominates and oppresses, a flare which imposes the vision of the contours. Loneliness is common to many human beings. But for some who, despite their own will, have the gift and the pain to perceive more strongly the bright lights and the gray halo of existence, it is a burden of a greater, almost unbearable weight. It is also inevitable to think of the constant almost physical presence of this solitude, in the many trips that Ortese has faced, changing cities, houses, people around her, but remaining always and despite everything alone. Even thinking about contacts with the literary world which contrasted her but also appreciated and honored her, almost grudgingly but clearly, the occasion on which she won the Premio Strega, for example, but also in many other circumstances, it is easy to imagine her discomfort, her desire to return to her home, next to her sick sister, to cultivate an isolation that was care and disease at the same time.

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Yet, in the fragment of glass from which took inspiration this brief attempt of examination, there is also a reflection of a more vivid and sharper angle. Quite unintentionally, in all likelihood, to Ortese who has expressed it, but perceptible, perhaps with a vital and voluntary force for us. “Alone like a cat”, noted the writer. The first thing to remark is a very personal and oblique approach that has always characterized even the prose of Ortese. Generally we say, “alone like a dog.” Usually a cat is either domestic, and therefore it is not alone, or it is alone just when it wants, because it chooses it, or because of necessity, should it be only the need to defend itself from the humans or from other animals, or because in loneliness it can sleep, think and look, and observe the frenzy of life, possibly without being seen. The impression is that Ortese, in her long and complicated journey of human being and writer, has observed the world with a voracious curiosity, capable of devouring herself first, her own mind and energy. But watching and recording, with the sincerity of someone who is outside of all the herds and all the congregations, was the luxury that she allowed himself, ready to pay for it with exclusion and imprisonment, in the strict sense, in the four walls where she cultivated the silences and the words, her writings, the sheets with which she struggled every day to try to combine fantasy with reality.

Anna Maria Ortese was born in Rome in 1914, from a modest family. During World War I she lives first in Puglia then in Portici and then in Potenza. After the war her father built a house in Libya. Shortly after, however, he returned to Italy and specifically in Naples. Naples is the fundamental relationship of the existence of Ortese. More than a place we can talk about a relationship, a passionate and tormented history lasting a lifetime.

“I have lived a long time in a city truly exceptional. Here, […] all things, good and bad, health and the spasm, the singers of happiness and pain […] all these noises were so tightly narrow, confusing, mixed with each other, that the stranger who came to this city had […] a very strange impression, as an orchestra whose instruments, composed of human souls, no longer obeyed the smart baton of the Maestro, but each of them expressed its own behalf arousing effects of wonderful confusion “(The Buried Infanta, Adelphi, Milan, 1994, p. 17).

This is one of the portraits that the writer outlines with meticulous passion of the face, of one of the possible faces, of her beloved. But the city in which the freedom of expression of people is absolute and authentic is too vivid and piercing, perhaps, even for her. For those who, like the Ortese, long a bridge that can bring together the banks of truth and dream, colorful but also raw reality, an elusive a city like Naples is unsettling, it is an attraction so intense that it becomes painful. A place in which one finds himself, but surely goes astray. Perhaps it is no coincidence that one of the most famous books that Ortese dedicated to the city of Naples is characterized in the title by a denial: The sea doesn’t touch Naples. As if to underline that all we can know, and have, of this vast set of alleys and lives, is what we do not know and what we do not possess. Or, more simply and more complicated at the same time, we could assume that the logical paradox and the geographic base of the title is a position, a defensive trench: to deny the matter of fact in order to escape too much truth and too much mystery, “all things, good and bad, health and the spasm, the singers of happiness and pain” generate a confusion that is wonderful but also difficult to reconcile with that love for solitude, with its equally beautiful and equally clearly necessity.

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The Port of Toledo, then, the novel to which the Ortese has devoted a lifetime, like a huge canvas of Penelope, is the answer, or the best way to prolong forever a question, a persistence of conflicting ideas and feelings : the irresistible attraction and the need to flee to another place that is mostly internal, inner, then another paradox, the return to a starting point that can not be accepted as stable. This is the conviction of the author, a constant escape, a diaspora of mind and heart to return to what corresponds to her but she must constantly escape from.

In January of 1933 her brother Emanuele dies in Martinique. The loss is for her the door to write poetry. Published a few months later in the magazine “The Literary Fair”, her poems gained her the first encouragement to write. In 1943 she finished his first novel, “Redskin”. The theme is consistent with her approach, the look and the point of observation that are suitable to her. She herself says that in this story “is foreshadowed a fundamental theme of [her] life: the shock of large masses of humanity, civilization with no more spaces and innocence, large enclosures where common men will be conducted.”

In 1937 she publishes the short stories Angelic pain. In them again shines the desire to mediate between corporeal and immaterial, projecting the human in a further dimension which however is also sorrow, unrelenting eternal return.

Later her artistic inspiration seems to fade. She moves to various cities of northern Italy, Florence and Trieste. In 1939 she was in Venice, where she finds a job as a proofreader at Gazzettino.

At the outbreak of World War II she returned to Naples, and contributed to the magazine “South”, where, among others, she knows Luigi Compagnone and Raffaele La Capria.

In 1953 she publishes The sea doesn’t touch Naples, which I have mentioned above, one of the key novels, from the literary and human point of view. The last story of the book, “The silence of reason”, dedicated to the Neapolitan writers, arouses violent opposition in the city. It seems a message addressed to a tormented love, a letter deliberately sprinkled with poison. To create a rift, splitting from a feeling of too tight, so great as to be annihilating. From that moment, the Ortese will struggle to return to Naples. It will be difficult for her to return in person, because mentally the tie remains very much alive, as it has been said. In addition to The port of Toledo in 1975, also The grieving Cardillo written many years later, in 1993, testifies and confirms a thought never turned off, a deep penetration.

In one of her transfers to Milan she writes the stories Silence in Milan, another emblematic title, as if to contrast two worlds which are two existential and expressive dimensions belonging to her, the exuberance of the South and the need of more muted colors and tones, almost blurred. The writer in the early years has a special relationship with Milan. In the 50s, began her love affair with the chief editor of L’Unità, Marcello Venturi. Even Milan with time turns into a place of exile. With the cities, as well as with the people, the writer felt an attraction that at some time turns, changes sign, perhaps for an excess of affection or a knowledge that takes shape, a mystery that, once penetrated, becomes banal or scares. The writer will leave Milan, finally, during the years of the youth protest, in 1969, after starting here the first draft of The Port of Toledo, to take refuge in Rome. Faced with the events of history, the uprisings and conflicts, the Ortese escapes once again, first in a city, then in a more intimate place, apt for isolation, Rapallo. There she will live alone in the sole company of her sister, Mary, painter afflicted by disability, almost an alter ego, a mirror in which she could observe and recognize herself.

It is easy to imagine that in the quiet secluded Rapallo, surrounded by hard working and from the Ligurian quick dialect, Ortese happened, by contrast, to rethink the atavistic slowness of the South, that world so different from the muffled mist. Ortese perceived in the South the most obvious consequence of inner emptiness suffered by her people. She notes, among other things, that in Vieste, in Puglia, “it seemed that [the people] have lost the ability to think, for hundreds of years, not expecting anyone and anything.” This statement, in fact, this absolute proof, expressed by the body as well as the mind, of despair, understood in the precise and unrelenting sense of “hopelessness”, in all probability has always horrified the writer. Perhaps because, also in this case, she recognized in it much of her own feelings. Her own answer was writing: to shape, and give voice, to the lack of support points, to that dimension loved yet alien, fiercely alien, incomprehensible because submerged by the truth of the world.

 In City inadvertent she writes, “everything was still, as if life had petrified,” and in another story she observes, “as we looked around, there was only stone.” In an interview, much later, in 1994, nearly a report or summary she says:

“This nothing, or all, of the universe, this terrible strangeness of the universe in the Western tradition is nothing, and to me is everything . […] We believe to be sitting on something, but we are sitting on nothing. […] Feeling this unspeakable pain maybe I became bad also in The Sea doesn’t touch Naples; perhaps because I came from the time of the war, when I traveled throughout Italy: in the midst of fire, iron, terror. And when I came back I felt the inconsistency of human life, and saw this inconsistency, this southern pain: people brought to nothing, and the euphoria of the people in high places who amused themselves, was madness. “

The “torn universal condition” of the South is not only a timely report, a witness. It is also and above all a paradigm of displacement within the total loss of essential references. As Pasolini claimed, lost authenticity was the only wealth of a world distorted and defeated. Paleoindustrial Italy peasants left their only hope when they abandoned their roots and collapsed into an abyss from which it is impossible to escape.

It is a still area, dark and quiet, within which any possibility of emotion will not survive, except a form of fear so strong as to prevent “to pronounce the word man in its true meaning.” On the one hand, therefore, the Ortese experiences emotions, sounds and lights of reality; on the other, she comes to the “sense of cold and nothing.”

Her analysis is polished, rough, not a form of complacency or paternalism peppered with a latent sense of superiority. There is a genuine desire to understand, to identify the roots of evil. There are parallels, in some respects, even in the excerpt from The sea doesn’t touch Naples set forth below, with The Leopard by Tomasi di Lampedusa. In particular in reference to “sleep”, to atavistic apathy. The South is scrutinized with an eye polished but sincere. With an authentic penetration, not with the attitude of a colonizer or an entomologist describing a strange and ill insect: “There is in the most extreme and shiny southern lands, a ministry hidden in the defense of nature by reason; a genius mother, of unlimited power, to whose care is entrusted jealous and perpetual sleep. That defense would loosen if for a moment the sweet and cold voices of human reason could penetrate that nature. In this incompatibility of two forces equally strong and not at all reconcilable, as the optimists think, in this terrifying secret as defense of a territory – the vague nature with songs, sorrows, and deaf innocence – and not in a history full of rage, that here is more ‘regulated’, are due to the conditions of this earth, and the miserable end it makes, whenever it organizes an expedition or sends its boldest pioneers. Here the thought can not be servant of that nature, contemplated in any book or art. If you just mention an attempt to critical development, or manifest some try to correct the heavenly shape of this land, you will see that the sea is only water, volcanoes chemical compounds, every possibile desire to change is killed.

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Much of this nature, of this maternal and conservative genius, occupies the same kind of man, and keep the oppressed in their sleep: Day and night takes care of this sleep, careful that it is not changed into something more keen. Torn by the lamentations of the son from time to time, but ready to suffocate the sleeper if it shows to move, and hints looks and words that are not exactly those of a sleepwalker. The immobility of the reason has been attributed to other causes, but that does not have a relationship with the real. It is nature that regulates life and organizes the pains of these regions. The economic disaster has no other cause.”

Natural, not only by virtue of a play on words, is also the combination with issues of Leopardi, the oppression that is partly due to the nature and in part to destiny and history.

The land of the South is “left hanging on the edge of an eternal dawn”: right there, where “Christ is not even past,” in the silence that is also trying to dialogue, silent but strong, with something that you can not see but you feel, often as oppression, stuffiness, immense and blinding glow, where you find the inner meaning of the southern state.

The complexity of the writer would have required a much more detailed analysis. Already from these short notes, it was possible to detect some glimpses, however, beginning a journey to discover the real world of Anna Maria Ortese imagery: a universe where alongside tangible signs of the places and events of the time you feel the attraction and the need to think, in a way, an ideal location , at the same time secluded and protected and surrounded by flowing , almost an improper and spurious utopia, a dream that does not ignore the real meat of the suffering that would redeem if only we could really hope to succeed.

The definition of “gypsy absorbed in a dream”, attributed to Anna Maria Ortese by Italo Calvino is emblematic in this respect. The writer is immersed in the dream but not in sleep. Absorbed, abstract, seemingly unrelated. But she does not sleep, a part of her remains vigilant, present, and sees, with eyes not only real .

“So I thought I’d go to / the Grotta,

in the bottom of which, / in a land of light, /

has been sleeping, a hundred years, the young fabulous. “

(Anna Maria Ortese, Pilgrimage to the tomb of Leopardi).

It is due to Ortese, among other things, the verse that gave rise to the title of the film that Mario Martone dedicated to Leopardi. Between the ideal sisters and brothers of Ortese, you can identify authors different from each other but united by a rebellion that manifests itself in the form of an escape to places of election, islands and defensive fortifications, concrete and metaphorical. The Elsa Morante Ortese is similar, for example, for the belief in the “non-existence”, in a “fairytale” always anchored to the truth, in the flesh of humanity. Or with Leopardi “who felt and suffered all our despairs”, but especially with foreign writers such as Thomas Mann and Ernest Hemingway, whom she called “a piece of sea and wind, a piece of the sky, and a stab of the sun.” In another artistic domain, that of painting, you can probably find one that might be called an iconographic representation of meaning and suggestions of Ortese. The books of Ortese have much in common with the metaphysical paintings of De Chirico, those shadows that lengthen dramatically in lifeless, icy squares, apparently born out of an impulse of an abstract mind. Yet, in hindsight, there is always a concrete model and existing upstream observation, careful, true. A truth that is not enough, and it is not the exact definition of surreal. The research, uninterrupted, always in the making, aims to a different reality, removed from the miseries of the contingent. To reach perhaps in a moment of absolute privilege a more intense understanding of the mystery of pain and beauty. To grasp an object, a clock that marks an inaccurate or unlikely hour, the sense of humanity.

Anna Maria Ortese struggled and lived a lifetime to snatch from reality the beauty and magic that would make it livable. Without depriving fantasy of concrete flesh, albeit painful and sorrowful: the truth. Never giving up, paying in person the right to escape, in a temporary exile from the world that is itself a form of presence, through writing, the search for the “land of light” that does not exist but whose research is itself the sense of the trip.

Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

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In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini, il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente, si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.
I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini_borgata_RomaPasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”.Pasolini-mamma-romaMamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:
Io sono una forza del Passato.
 Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
- coma i pras di rosada -
di timp antic a trima.

(…Casarsa
- come i prati di rugiada -
trema di tempo antico.) (B, I, 17)
Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.
Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.