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Figlie uniche

Una mia recensione al libro Figlie uniche,  di Claudia Marin.
Buona lettura, IM

Figlie uniche, copertina

Claudia Marin, Figlie uniche, Iride, 2021

Figlie uniche è fluido, scorrevole, divertente, ironico, in grado di sdrammatizzare in tutti i modi possibili le ferite della vita, the slings and arrows of outrageous fortune. Si legge con un sorriso, desiderosi di scoprire come procede, paragrafo dopo paragrafo, con rapida voracità. Ma, attenzione, qualcosa resta. Non scorre via anodino e indolore. Perché quell’acqua chiara, fresca, a tratti dolce e a tratti amara, si fa specchio di esistenze possibili, forse reali, forse del tutto inventate, ma di sicuro verosimili, umanissime. Parla simultaneamente di un universo circoscritto e dello spazio e del tempo che ciascuno vive dentro di sé, tra analogie e contrasti, nello scorrere ininterrotto che cambia e ci trasforma.
Costanza, la protagonista, avrebbe tutto per essere contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il rapporto complesso e conflittuale con la madre la condiziona, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.
L’accadimento che genera il mutamento mettendo in moto una progressiva “agnizione”, è la nascita della figlia di Costanza. La protagonista si rende conto, razionalmente e per istinto, che in seguito a quell’evento niente sarà più come prima. Dovrà abbandonare la rassicurante condizione di trentenne ancora protetta e viziata da moine adolescenziali e dovrà finalmente guardare negli occhi le sue debolezze, le malattie reali e quelle immaginarie, ma anche i punti di forza, le energie nascoste proprio nei luoghi che teme di attraversare, nelle verità che ha paura di cercare e di scoprire.
Lo specchio, è opportuno ribadirlo, è uno dei simboli più rilevanti della vicenda narrata. Una metafora lineare e stratificata, a livelli multipli, non di rado contrapposti. Sofia, la figlia di Costanza, è l’immagine della madre ma è al tempo stesso una proiezione anche di Celeste, sua nonna. È una sorta di ponte tibetano, danzante, inebriato e inebriante, complicato da attraversare, percorso da scosse e venti giovanili, da energie e cupezze, da intelligenza e ingenuità. Grazie a questo ponte, Costanza e Celeste troveranno modo di avvicinarsi, esitanti, ognuna con il suo passo, ognuna con i suoi testardissimi orgogli, con una sfida che volta dopo volta si rinnova.
Questo romanzo racchiude un microcosmo femminile. Un universo assolutamente intimo, fatto di gesti e di pensieri, di confessioni aspre e desideri di dolcezza. Il vetro riflettente, liscio e aspro, è il romanzo stesso. Una superficie in cui tre volti si sovrappongono ma in cui ogni lettrice (ma in fondo anche ogni lettore) può riconoscersi trovando qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, della difficoltà a ritagliarsi uno spazio autonomo nel mondo, in quello familiare e in quello esterno.
La malattia irrompe nella trama mettendo ulteriormente a nudo caratteri e rapporti personali. Costanza si ammala di melanoma. Allo stesso tempo deve pensare a proteggere sua figlia dai suoi dolori personali e da quelli che la malattia comporta. Celeste, in quei frangenti, senza rinnegare se stessa, rivela la parte più umana della sua personalità. Quella che era emersa dai racconti della sua infanzia trascorsa in un orfanotrofio, prima della fama che l’avrebbe portata di colpo in Francia, in compagnia di un amore che costituisce anche il nodo da sciogliere del romanzo, il mistero concernente l’identità del padre di Costanza. Sì, perché questo libro sembra nascere “in presa diretta” da dialoghi immediati e realistici, ma possiede anche una struttura interna ben curata ed elaborata in grado di condurre a progressive rivelazioni o anche, per scelta e necessità, a soluzioni aperte, ad altri sviluppi ancora da vivere e da immaginare.
Il romanzo, come detto, spazia tra presente e passato con un costante gioco di rimandi. A sua volta ricalca le rifrazioni da cui trae origine: i volti delle tre donne, le loro tre generazioni e personalità ben distinte, si scontrano, si respingono, si accostano in un bacio finalmente tenero, senza orgogli, per poi respingersi e cercarsi di nuovo. I tre personaggi principali, in eterno conflitto, a ben pensare e a ben sentire, non hanno misura, non hanno senso e non hanno amore, se non una nell’altra e per l’altra.
Ne deriva un duplice processo: in primo luogo la personalità della protagonista, Costanza, compressa tra orgogli e paure, tra la voglia di gettarsi nella vita come in una piscina, finalmente libera e coraggiosa, e, sul fronte opposto, il timore dell’ignoto, dell’imponderabile. Altra sfaccettatura, strettamente correlata alla prima, è la complessa coesistenza delle tre protagoniste, tre esseri fieramente autonomi, e, come suggerisce il titolo, unici.
Il finale del romanzo, ineluttabilmente aperto, offrirà un punto di vista per cogliere allo stesso tempo le singole parti e la figura d’insieme. Lasciando spazio ad ulteriori prospettive, ad altre ottiche, tra cui, determinante, quella del lettore, chiamato non solo a scegliere un proprio personale punto di osservazione ma anche ad entrare in prima persona all’interno della cornice, portando con sé le proprie paure e i propri desideri: le proprie, irrinunciabili, unicità.
  Ivano Mugnaini

 

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Claudia Marin

Napoletana con ascendenze venete, vive a Roma. Giornalista per il Quotidiano Nazionale, da sempre è ostaggio della follia della scrittura creativa. Fin dai banchi delle elementari, quando si inventava gli «amici immaginari», ha scritto, riscritto, sovrascritto e cancellato storie e racconti. Stavolta ha deciso di venire allo scoperto: ed ecco Figlie uniche.

 

“Monte Stella”: il cronometro, la clessidra e il magnetofono

Monte Stella (poesie 2014-2019) - Luigi Fontanella - Libro - Passigli -  Passigli poesia | IBS
Monte Stella: Variazioni sul tema del tempo e della realtà
in Luigi Fontanella
Il riferimento alle variazioni sul tema richiama immediatamente la musica. Un mio professore del liceo sosteneva che la musica è matematica. Un altro sosteneva che è illogica astrazione. Entrambe le affermazioni sono vere ed entrambe sono false. È qui che subentra la poesia. La sola in grado di accogliere in sé il vero e il falso, la realtà è ciò che va oltre, sopra, sotto, nei meandri, nelle vene sotterranee, al di là del confine e del limite.
Il recente libro di Luigi Fontanella, Monte Stella, parla di moltissime cose. Spazia, racconta, immagina, disegna e compone. Ma soprattutto gioca, con “orrore” ma anche con il gusto di addentrarsi dentro un dedalo di “cose buffe”, con il Tempo, operaio, capomastro e inesorabile padrone della palazzina eternamente in affitto e perennemente in costruzione che è la Vita.
Per parlare adeguatamente di un libro ricco e complesso come Monte Stella bisognerebbe essere amici del principale e possedere moltissimo del suo materiale da costruzione. Qui ed ora, in questo spazio telematico, ciò non è possibile. Ma abbiamo comunque a disposizione un modo semplice e bello per fregare il “capoccia”: comprare il libro e leggerlo, con la dovuta calma e la dovuta attenzione che si riservano a parole che sono il frutto di anni di scrittura, di ricordi e di vita vissuta.
Hic et nunc, possiamo esplorare, come in un immaginario volo di aliante, il Monte eponimo.
In primis, qualche chiarimento sul titolo, in apparenza sibillino, di questo articolo. Conosco Luigi Fontanella da alcuni anni e ogni tanto mi reco nella sua casa fiorentina per fare una chiacchierata di aggiornamento. Sarebbe elegante e assez maudit dire che beviamo litri di Chianti, invece spesso ci gustiamo ottima acqua, oppure, visto che arrivo sempre nel pomeriggio, un tè. Poco british, ma sempre tè. Durante le nostre chiacchierate parliamo non solo di idee astratte ma anche dei modi concreti, dell’aspetto “pratico” dello scrivere, che poi, a ben pensare, influisce molto sulla forma e sui contenuti. Fontanella mi ha rivelato che spesso scrive di notte, nel dormiveglia, e che per poter annotare rapidamente le idee utilizza un magnetofono. Ecco, credo che in questo oggetto, a metà strada tra modernità e tradizione, passione e riflessione, immediatezza e ragionamento rielaborato come materia onirica plasmabile, ci sia molto della poetica di Fontanella in generale e del libro di cui ci occupiamo ora in modo più specifico.
Faccio riferimento ad un’intervista rilasciata da Fontanella a Rodolfo Di Biasio per il magazine “America Oggi”. Nella risposta alla domanda iniziale, Fontanella cita il suo libro d’esordio, La verifica incerta, pubblicato nel 1972. La sua reazione al pensiero del lasso di tempo trascorso da quella prima pubblicazione è «stupore misto a incredulità e orrore». Entrano in scena, qui, gli altri due “oggetti” del titolo: il cronometro e la clessidra. Il primo è lo strumento atto ad un’inesorabile, scientifica misurazione. Un modo asettico di calcolare lo scorrere dei secondi che diventano meccanicamente anni e poi decenni. La clessidra invece è un marchingegno più semplice e più complesso, in ugual misura: è un concetto più che un oggetto. È talmente lento da concedere di inserire, assieme alla sabbia che scorre, anche il sapore del mare che si è vissuto, dei campi della gioventù, delle regole, delle trasgressioni, dei volti amati e odiati, delle persone affini e quelle da cui ci si è allontanati. La clessidra è un simbolo. Forse è la poesia: una misurazione volutamente, necessariamente umanizzata. L’opposto della precisione. È un tempo che, pur restando spietatamente “palazzinaro” e “usuraio”, si può rendere, tramite il gioco e il trucco delle metonimie, quasi umano, sostenibile, cantabile. Il quarto oggetto, non citato esplicitamente ma sempre presente, è un metronomo: la musica è un modo di muoversi nel tempo in modo più armonico, meno robotico. I riferimenti alla musica, diretti e indiretti, allusi o dichiarati come abbracci, sono numerosi e significativi. Si veda in particolare l’ultimo componimento del libro, “Il movimento dei rami” che Fontanella introduce in questo modo: «nato esattamente da alcune suggestioni derivate dall’ascolto di una composizione al pianoforte di Ezio Bosso: un musicista che ho scoperto sette anni fa. La sua immatura, recente scomparsa mi ha profondissimamente addolorato».
Su questo terreno ha luogo lo scontro, la battaglia decisiva: preso atto del lutto e del processo dell’invecchiamento (un’azione costante di aggressione a ciò che abbiamo di bello e di caro) resta da impostare una strategia, necessariamente autonoma e individuale, di difesa. Non è un caso forse che sulla copertina del libro campeggino, come uno stemma, versi essenziali: «Qui si celebra il canto del distacco. / Una porta sui campi. / La gabbia vuota. / Il richiamo di capelli e sorrisi / da un balcone all’altro / Siamo / solo bambini, conchiglie / dimenticate al vento».
Prima di tutto la celebrazione, la ritualità. Volere e sapere dare sostanza di emozione, nell’attimo e nel ricordo, ad ogni accadimento, anche quelli in apparenza minimi, conferendo loro una laica, sentitissima sacralità, è la prima barriera contro l’avanzare dell’oblio. Poi quell’esclamazione, lieve e possente, “siamo solo bambini”. Genera innanzitutto una ciclicità, un continuum tra infanzia e senescenza. E si sa, il cerchio non ha spazi vuoti, non consente al nemico di insinuarsi all’interno senza essere contrastato. C’è, inoltre, il richiamo all’aspetto ludico, del vivere e dello scrivere. È il contrario della sciatta approssimazione, questo va chiarito. Si tratta, al contrario, di quella deliberata volontà-necessita di guardare il lato oscuro della luna, l’umorismo pirandelliano, la salvifica autoironia di Svevo (che Fontanella ha studiato e assimilato a lungo e con cura), oppure la verve dissacrante dei surrealisti, a partire dall’amatissimo Breton, fino a raggiungere uno ad uno tutti i modelli e i compagni di viaggio ideali, Bontempelli, Artaud, Pessoa, Aleixandre, Landolfi, Rilke, Delfini, Campana, Corazzini, Calogero, Gatto, Savinio, Anna Maria Ortese e molti altri che non elenco ma che chi legge il libro ritroverà, nitidamente. Autori diversi tra loro eppure con un filo rosso che lo stesso Fontanella identifica nella loro ispirazione visionaria sostenuta però da esperienze forti e laceranti, di vita vissuta.
La vita vissuta contrapposta alla dimensione onirica. Anzi no, non contrapposta, semmai affiancata, sovrapposta, in un intreccio astratto e tuttavia carnale. La poesia recente di Fontanella è contraddistinta da questo fare bilanci “in fieri”. Già ne L’adolescenza e la notte l’autore ripercorre le strade dei ricordi e li conduce di fronte al presente consentendo loro di incontrarsi, guardandosi negli occhi.
Quella che nel libro precedente era una contrapposizione dialogica, un contrasto, qui, in Monte Stella «diventa un polittico che si articola attraverso cinque sezioni». Il termine “polittico” richiama la pittura, ma potremmo aggiungere ancora un riferimento alla musica definendo le composizioni di Monte Stella “polifoniche”, tra «intrecci fra il presente, il passato e qualche proiezione del futuro; una sorta di andirivieni del pensiero che rivisita alcuni luoghi del salernitano, del nostro Mezzogiorno, di Roma, di New York e della Provenza, ma anche con riferimenti a personaggi della mia famiglia o ad alcuni compagni della mia giovinezza, fino all’esperienza assiale della paternità e, per riflesso, quella relativa ai miei Lari».
Una caratteristica fondamentale di Monte Stella è la scelta di non chiudere, di non prospettare neppure per un istante, pur nella cognizione del tempo e del dolore, una linea orizzontale che ponga termine alla sequenza delle cose e degli eventi, dei sensi e dei sentimenti.
Fontanella è consapevole di ogni strappo, di ogni ferita, al giusto, al bello, all’essenza stessa dell’umanità. Ma il suo pessimismo è fronteggiato sempre, e regolarmente sconfitto, o almeno placato, mutato di volto e di segno, da una vitalità, nel senso stretto e metaforico del termine, che non si esaurisce e non si placa. Molte sono le poesie del libro che confermano questa tendenza. Un esempio, lineare e forte, è quello della lirica di pagina 74 dedicata alla figlia Emma: «Una sola certezza, una piccola figlia / ora già donna». Con un finale mirabile nella sua immediatezza: “Non scordarti mai che tu mi sei figlia». Per creare il cerchio di cui si è detto, quello che contrasta il tempo e la morte, non servono materiali complessi, servono materiali saldi. E il verso citato ne è un valido esempio.
Sono le radici ed i rami, e la possibilità di essere allo stesso tempo gli uni e gli altri, a combattere la tentazione della resa. Oltre ai Lari, e oltre ai figli, ci sono i luoghi, quelli reali e quelli mitici, e anche in questo caso confonderli, nella mente e nel cuore, contribuisce a rinforzare la barriera difensiva.
Monte Stella è un libro di memorie, un diario di viaggio, ma anche, in fondo, un autoritratto. Il ritratto di una “verde senescenza” ma anche quello di un pessimista tenacemente appassionato e saldamente avvinto alla vita. Un poeta che registra con il magnetofono versi onirici che sono assolutamente reali e ricordi reali che sono assolutamente onirici. In una raccolta di poesie che parla di distacco ma che ancora ricerca «il Senso, se senso esiste, che regola la vita». E, a dispetto di tutto, spera e crede che la poesia «possa giocare un ruolo di miglioramento etico-sociale della nostra esistenza, minata continuamente da sciagure, ingiustizie, soprusi».
Questo libro ci conferma che, anche se siamo conchiglie dimenticate nel vento, possiamo «aspettare un’alba – come sempre». Ci dice, anzi ci racconta, del «vento che non smette di / soffiarti sulla faccia», ma anche di quella parte insondabile, magica, che vale comunque la pena di annotare, ascoltare e rivivere: quel «bambino che dorme / disegnando nell’aria il suo nudo / mistero».

Ivano Mugnaini

Monte Stella": raccolta di poesie di Luigi Fontanella

On the other side of the moon – Cronache di estinzioni

Nel weekend lo spettacolo della Luna piena della Neve - Tiscali Ambiente

On the other side of the moon

Osservazioni e note di viaggio
su

Cronache di estinzioni

di Lucetta Frisa

Cronache di estinzioni. Si intitola così il libro che vi propongo oggi in questo spazio riservato alle segnalazioni di libri, spesso atipici (per loro merito e nostra fortuna) che ho letto con piacere. Questa rubrica di segnalazioni si chiama “Letti sulla luna”, e, nel caso specifico di questo libro, il luogo in cui idealmente sfogliamo le pagine appare quanto mai adeguato.
Ci siamo estinti, ci dice l’autrice, Lucetta Frisa. Più che una previsione per il futuro, la cronaca è un commento in fieri, se non addirittura un resoconto di eventi che già hanno avuto luogo. Ma immaginiamolo come il commento di una partita. Un match tra la bellezza del mondo e la stupidità umana. Anzi, potremmo sintetizzarla in questo modo: in diretta dallo stadio Azteca, il Peggio dell’Atletico Sapiens Sapiens contro il Resto del Bello del Mondo.
Questo non è tuttavia, è bene chiarirlo, solo un resoconto di eventi catastrofici, disastri ecologici e altre esiziali amenità. È un libro in cui l’autrice si chiede, e ci chiede, se abbia senso continuare ad essere come siamo e a vivere come viviamo.
Una domanda da un milione di dollari, o di talleri, a seconda delle epoche, in quanto è su questo interrogativo che si gioca da sempre il senso del fare poesia. Piera Mattei in una recensione al libro apparsa su “Perigeion” ha scritto: «Cronache di estinzioni è la raccolta poetica di Lucetta Frisa che più ho amato». Al di là delle classifiche, concordo anch’io sul fatto che questo libro abbia concesso a Lucetta di esprimere al meglio la gamma dei temi, dei modi e degli sguardi su sé stessa e sulla vita che le sono cari e consoni.
Ho incontrato Lucetta Frisa in varie occasioni. L’impressione dominante è una solarità assoluta e una grande capacità di dialogo, in grado di mettere a proprio agio perfino i timidi più ostinati. Eppure, nella sua tendenza alla giovialità c’è una parte della mente e del cuore che osserva e annota. Collocata on the other side of the moon, nella parte più silenziosa dei luoghi e dei tempi, la Lucetta cronista estrae il taccuino e scrive. Si appunta gesti, azioni, comportamenti e soprattutto il materiale di base, il combustibile che può accendere un falò nel buio ma anche generare tragicomici incendi: le parole. L’ironia è la bussola volutamente sbalestrata che la Frisa usa per salvare sé stessa e la barca degli esseri viventi a lei cari dai più funesti naufragi. È quella scialuppa che ti consente di porti le domande che davvero contano, che poi essenzialmente sono quelle che ci hanno insegnato a non fare. I saggi, i sapienti, gli astuti, sanno bene che quelle domande sono pericolose. Scardinano l’asse delle cose così come sono. Quindi per potersele porre, bisogna avere una parte “clandestina”, un pezzo del cervello e del cuore che risiede sulla Luna e vive di salvifiche ironie. «La luna è schizzata fuori orbita / stufa di stare dove stava / rotolata acciambellata nello spazio vuoto / inciampata dentro i buchi neri / giù giù / un tuffo / fino al salotto». Ecco, questi, oltre ad essere i versi iniziali della lirica di pagina 58, sono anche un “ritratto di poetessa con galassie”.
«L’antichità naturale nella poesia permette a Frisa di governare lo scazzo proprio dentro le fastose e festose risultanze oggi in voga. Una slogatura articolare non è metafora assistenziale, ma quest’evento dà modo di indirizzare gli strali agli agenti nemici letterari e non». Il brano qui citato è tratto dalla prefazione al libro a firma di Elio Grasso. Ci consente di dare alcune informazioni e fare alcuni rilievi. La Frisa, avendo ottimi amici, nella sua mugugnante e generosa Genova e non solo, ha scelto due adeguatissime cornici per i suoi versi. La prefazione di Grasso e un altro lavoro di cesello, collocato in fondo, dal lato opposto ma illuminato dallo stesso acume e dallo stesso sobrio e intenso affetto nei confronti dell’autrice: un lunare e stralunato, godibilissimo racconto di Mauro Macario. Da leggere, anch’esso. Parla del libro e dell’autrice collocandoli in una futuribile Ghenovas, una città in cui tutto è talmente diverso da oggi da essere in fondo uguale. Siamo già nel futuro presente, o nel presente senza futuro, in mano a ronde di cyborg che vigilano affinché nessuno si possa emozionare. Ma Mauro Macario riesce a leggere clandestinamente il libro e ne propone una sintesi che è un esatto messaggio-missaggio: «un mix di prosa, poesia, pamphlet lirico e velate richieste di soccorso».
La caratteristica di maggior rilievo che mi sembra si confermi anche in Cronache di estinzioni è la libertà. Lo hanno detto e narrato con diverso approccio ma in modo concorde anche Grasso e Macario. Libertà in senso ampio, conquistata anno per anno, a caro prezzo, ma sempre senza scordarsi il sorriso, la risata fragorosa ma mai cattiva e la irrinunciabile ironia. Libertà nel senso di capacità di dire ciò che vuole e sente di voler dire, e scrivere. Sembra cosa da poco. Potrebbe apparire scontata. Qualcuno potrebbe obiettare che chiunque, qui, può dire e scrivere ciò che vuole. Mica siamo a Ghenovas nel 2087 circondati da ronde di cyborg! Siamo sicuri? Voglio dire, quanti di noi scelgono i temi dei propri scritti perché premono sul cuore e non perché premono ai critici alla moda, quelli che fanno chic come le giacche di lino e le camicie firmate. Quanti, nella realtà, prima ancora che nella scrittura, esprimono i sentimenti scomodi, ingombranti, senza sottoporli a mille filtri a protezione 50? La Frisa questo privilegio-diritto o diritto-privilegio, se lo è ritagliato. In questo libro esordisce con la poesia “Per mia madre”, e, a metà circa, osserva «Forse le persone che nella vita contano / stanno tranquille e modeste nell’invisibile / ma la spiaggia assalita dalle alghe / non mi piace e non mi piacciono / i cari fantasmi e gli eventi troppo lontani». La conclusione della lirica è questa: «È il momento di andarmene da qui / per rivivere gli attimi di luce / la gloria della loro solare illusione / insieme a te che davvero fosti reale / e ora, incerta, molto incerta, mi sorridi».
La retorica, gli stilemi, il politically correct (o come caspita si voglia definirlo), qui vanno a ramengo. Si fanno da parte. Anzi no, vengono messi da parte, affinché la voce sia sincera e la luce faccia chiarore davvero, per quanto è dato di vedere ad un essere vivente.
Questo libro spazia tra detriti e vulcani e il contrasto tra vita e morte, buio e luce, energia e stasi, pervade l’intera gamma dei componimenti. Ma l’opposizione non è mai semplice, non è lineare ed univoca. La Lucetta ci ricorda, tramite i versi, che «nelle incolmabili distanze / si fa esercizio d’immaginazione». Parlando di città, di luoghi familiari e lontani, di fenomeni climatici e naturali, si finisce per parlare dell’uomo, del genere umano, del legame con lo spazio vitale che gli è stato dato e che ha scelto di trasformare, con ostinato zelo, a sua immagine e somiglianza. L’uomo ha voluto provare che effetto fa sentirsi dio, padrone assoluto del pianeta. Il risultato sarebbe comico, se potessimo permetterci di osservarlo da qualche terrazza panoramica di un altro bel pianetino, magari davanti ad un tavolo di vetro con un prosecco della Valle di Marte, doc e d’annata. Sulla temperatura, beh, non è possibile garantire il meglio.
Se non basta la geofisica come monito, si prova con la Storia. A pagina 33 c’è una poesia che parla della London Valour, la nave naufragata a Genova il nove aprile 1970. Naufragata tra i moli del porto. Il meccanismo delle associazioni, davvero libere, è il caso di ribadirlo, e aspramente sincere, porta la Frisa a queste considerazioni: «Allora non è vero che chi sta al riparo si salva. / Le raccomandazioni di mia madre furono irreali: / se fa freddo copriti, prendi l’ombrello se piove / se traversi la strada fai attenzione. Allora / non c’è scampo quando qualcosa che deve accadere / accade?».
Il nodo è in questo interrogativo. Amleto avrebbe detto that is the question. Il dubbio per antonomasia viene analizzato, scannerizzato con attenzione. Alla fine ne deriva una risposta che è domanda ulteriore: «Chi può raggiungere lo stato postumo / di questo atroce presente se non fuggendo da lui? / E dove? / L’ironia ci tiene in vita per un po’ impedendo / le smanie di assoluto. Ma non basta. / Occorre molto tempo verticale e lo spazio / esatto / tra terra / e cielo».
Nel libro lo iato tra terra e cielo viene rafforzato anche da una riga bianca.
Alcune considerazioni conclusive, ma prima un invito. L’agile libro di Lucetta Frisa (corredato dalle due preziose cornici di artista di cui si è detto) consta di una settantina di pagine. Ovunque si trovi il potenziale lettore, sulla Terra, sulla Luna, su Marte o su qualche luogo ulteriore non ancora mappato, la lettura del suddetto libro potrebbe far bene. Non per rispondere alle domande, ma per tracciare una rotta emotiva, alla faccia dei cyborg di cui sopra.
Potrebbe servire a chiederci se vale la pena sentirci forti ed efficienti distruggendo ciò che davvero conta e in fondo ciò che davvero siamo. Più in generale potrebbe essere utile per chiederci dove si trovi, dove esattamente sia collocato, “il tempo verticale”. Forse ce lo potrebbe dire tra un sorriso e una battuta autoironica la Frisa. O magari ci direbbe che neppure lei ne ha idea. Non ne ha idea, neppure pallida come la luna. Ci confermerebbe, Lucetta Frisa, che nella sua vita ha sempre agito d’istinto, fregandosene di quelli saggi e di quelli precisi, e pensando e scrivendo ciò che davvero la toccava nel profondo, quello che la faceva stare meglio, almeno per un po’.
Ecco forse agli interrogativi di questo libro non c’è una risposta. O forse, nell’atto di dire che la risposta non esiste, implicitamente si traccia una strada.
Una via di fuga. Perché la fuga è necessaria, praticamente sempre. Ma la vera fuga, quella autenticamente libera, è quella che consente di scappare via senza in realtà muoverci dal luogo imperfetto e dal presente atroce che sono il solo luogo e il solo tempo che abbiamo.
Per vivere. Per tentare di vivere. Ogni volta che il vento si alza.

 

                                                                                                                                 Ivano Mugnaini
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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.