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Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

Spesso accade che le persone che sanno ridere (e nel caso specifico anche far ridere) siano anche molto serie, con molte cose da dire, capaci di ascoltare e di fornire coordinate  interessanti per esplorare la geografia, la storia e alcuni angoli della metropoli, del mondo e del tempo che in genere sfuggono agli sguardi frettolosi, da turisti.
Oreglio canta, nel duetto con Roberto Vecchioni e in questo suo Milano OltrePop, “con i piedi nel passato e lo sguardo dritto e attento nel futuro”.
Per riassumere tutti e temi gli spunti trattati nell’intervista ci vorrebbe veramente troppo tempo. Meglio, per chi vorrà, leggerla direttamente.
Buona lettura e buon ascolto
IM

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Milano OltrePop

Intervista a Flavio Oreglio

1 ) “Con i piedi nel passato/ e lo sguardo dritto e attento nel futuro”. Comincerei col proporti più che una domanda un tema a piacere (come si faceva a scuola qualche annetto fa). Ossia qualche tua considerazione a ruota libera per mettere in relazione il disco con i versi di Pierangelo Bertoli che ho citato, con piacere, in apertura.

La citazione di Bertoli che ho inserito nell’introduzione al disco non è casuale. Troppo spesso, infatti, la riproposta di brani del passato (chiamata “tributo” oppure “omaggio”) è vista come operazione-nostalgia, come un “Do you remember?” o un “Bei tempi quelli”… ecco… niente di tutto questo mi appartiene. Io guardo avanti con la consapevolezza del punto di partenza, in questo senso i piedi sono nel passato ma lo sguardo è dritto e attento nel futuro. E a proposito delle cosiddette “radici” permettimi di aggiungere una cosa: la loro riscoperta non deve essere coltivata per ostentare una sorta di “appartenenza” ad excludendum, modello il Marchese del Grillo “Noi siamo noi e voi non siete un cazzo” e non deve servire per erigere o giustificare muri di separazione con chi quelle radici non condivide. Le radici sono memoria e ricchezza culturale, vanno sicuramente tramandate ma anche analizzate criticamente. Molti loro aspetti che oggi ci appaiono come “politicamente scorretti” si possono giustificare con l’esistenza di una mentalità, ma non devono servire oggi per giustificare una mentalità con la loro esistenza. Continua la lettura di Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

Premio nazionale di scrittura teatrale Marco Praga

Agli autori di testi teatrali e a chi voglia provare a cimentarsi con la scrittura teatrale, segnalo questo Premio indetto da Macabor Editore.

La partecipazione è gratuita.

Buona scrittura, IM

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MARLOWE VS SHAKESPEARE

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 DRAMATIS PERSONAE:

SHAK : William Shakespeare
BURB : Richard Burbage, principale interprete dei maggiori lavori teatrali di Shakespeare
MARY : Mary Winifred Burbage, moglie di Richard Burbage

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SHAK : La notizia è ufficiale: è morto Christopher Marlowe. Uno dei due maggiori autori del suo tempo. L’altro è ancora vivo, e, spero, lo rimarrà ancora a lungo!
BURB : E’ possibile William che tu non riesca a comportarti come si deve neppure di fronte alla morte?
SHAK : Come no? Ci riesco perfettamente. Faccio ciò che si deve. Ciò che si adatta alla morte. Anzi, esattamente il contrario. Se resto me stesso, se non cambio, rimane vivo anche Christopher. Se scherzo come se fosse in vita, e lo amo e lo odio come prima, Christopher c’è ancora. E ancora sopravvivono i suoi scritti, le sue parole. E’ qui, con noi, lo è stato, lo è e lo sarà. Sì, viva quel figlio di un cane di Christopher Marlowe!
[Esce Shakespeare, cantando versi sconci]     
BURB : Non riesco a capirlo. È un uomo fatto di nulla, di fiato, di aria impalpabile.
MARY : Ogni uomo è fatto a suo modo. William è le sue parole.
BURB : È stato lui ad ucciderlo! Ne sono convinto. Ora più che mai.
MARY : Ma cosa dici, Richard?
BURB : So bene cosa dico, lo so alla perfezione. William ha sempre odiato Marlowe. Lo ha sempre considerato un ostacolo, un impedimento. Ora, togliendolo di mezzo, si è spianato la strada per la gloria e il successo. Marlowe era l’unico in grado di tenergli testa. Anzi, forse gli era superiore per ispirazione e inventiva. William lo ha fatto assassinare da un sicario in una rissa di taverna. Marlowe era facile all’ira, è stato facile attirarlo in un tranello.
MARY : Stai dicendo cose senza senso, Richard.
BURB : Magari fosse così! Ne sarei felice. Ma si tratta solo della verità. La realtà nuda e cruda. Tolto di mezzo il rivale, William può volare solitario nei cieli della fama. Era un pollastro di campagna, un gallinaccio impolverato di Stratford, ancora mezzo sporco di letame. Ora, grazie al teatro, grazie a me, alla voce e alla faccia che gli presto da anni, si è potuto rivestire di piume nobili d’aquila e di falco. E di falco ha sviluppato anche gli artigli e la cupidigia. Ha eliminato Marlowe senza alcuna esitazione. Un taglio netto alla gola, una ferita mortale. Ma William è un falco astuto, civilizzato. Non si è sporcato di sangue. Lo ha fatto fuori per interposta persona.
MARY : Non credo a una sola parola di quello che dici! Marlowe è sempre stato una testa calda. Non ha fatto altro che mischiarsi ai delinquenti, alla peggiore feccia. È chiaro che presto o tardi un incidente del genere poteva accadergli. Si è trattato solo di una disgrazia, e Marlowe ha fatto di tutto per andarsela a cercare. Perché ti accanisci contro William? Sono certa che anche lui, a suo modo, soffre per la scomparsa di Marlowe. Come puoi accusarlo in questo modo? E perché proprio adesso? Hai sempre amato William, lo hai sempre rispettato. Cosa è cambiato ora?
BURB : Non è cambiato niente, è questo il punto. Solo che, in questo preciso istante, mi ha colto un senso di vertigine, la coscienza del vuoto. Mi sento sull’orlo di un baratro, e l’aria, adesso, pesa come pietra. Sono stanco di recitare. La morte trasforma le cose. Ti penetra dentro e ti cambia, anche quando non è la tua. Perché la morte è di tutti, identica, democratica, giusta, inesorabile. Marlowe lo conoscevo appena. Non ho mai recitato in un suo dramma, non ho mai parlato con lui. Però ho ascoltato le sue parole. Le ho fatte mie. I suoi versi, le ambizioni, le tragedie, le miserie e le grandezze. Sera dopo sera, mentre davo vita a Enrico IV, a Riccardo III e a Tito Andronico, dentro di me sentivo crescere l’urlo di rabbia di Faust e Tamerlano, la loro sete di potere e di conquista. Diventavo Marlowe, mentre recitavo, frase per frase, i testi cesellati da William.
MARY : È normale, Richard. Sei un attore, ma hai diritto anche tu, come tutti, ai tuoi pensieri e ai sogni al di fuori della scena. È giusto conservare spazio per il mondo autentico, le passioni reali, le verità.
BURB : Già, è normale. Ma mio padre mi ha portato su un palcoscenico molto prima che fossi in grado di parlare e camminare. Facevo la parte del neonato rapito dai pirati. Mi infagottavano in un drappo azzurro e mi sballottavano da una parte all’altra. Dalle braccia dell’attrice che impersonava mia madre a quelle dei guitti vestiti da bucanieri. Piangevo, atterrito. Una recitazione perfetta, del tutto adeguata al ruolo. Ecco, posso dirti che i primi versi che ho recitato sono stati i singhiozzi di un pianto. E quelle sono state le prime e le uniche volte in cui la mia parte è stata sincera. Le sole volte in cui la finzione ha combaciato con la vita. Solo che non avevo coscienza, ero un bimbetto frignante, incapace di pensare. Capace soltanto di sentire paura e dolore. Ho potuto ragionare solo in seguito su quella beffarda ironia. Solo più tardi, quando ero già un attorino giovane, solerte, rispettoso del testo alla virgola, attento al ritmo, alle pause, alle entrate in scena e alle uscite imposte dal copione. Sono stato sincero, in vita mia, solo quando non lo sapevo. Quando esprimevo la sofferenza per istinto, come un qualsiasi animale. Dopo, per anni, per lunghe stagioni di esordi e di repliche, sono stato sempre e soltanto un fantoccio. Pieno di vento e orgoglio, carico di gesti e follie generate da altre mani, altre menti. Sangue e inchiostro alieno. Sono stato William Shakespeare, per anni interi. I suoi eroi, i bellimbusti, i condottieri, i Romani, gli Ebrei, i Veneziani, i vincitori e vinti della sua fantasia. Tutti trionfanti, alla fine, gli uni e gli altri. Acclamati dal pubblico, osannati, imitati. Sono stato William Shakespeare. Restando me stesso, però, un sacco vuoto colmo di echi nudi di parole. Poi, un giorno, è giunta a me la voce di Marlowe. Ho scoperto che esisteva qualcosa, qualcuno in grado di coprire quell’eco con un grido possente. Qualcuno più forte, più folle, più dotato di disperato talento. Ho lasciato che la voce di Christopher crescesse in me, sera dopo sera, spettacolo dopo spettacolo in un vitale e distruttivo controcanto.
MARY : Ora capisco la ragione del tuo dolore. Ma non puoi lasciarti accecare dalla rabbia. Marlowe è morto, ma restano le sue parole, le invenzioni, la verità. La verità, sì. Bisogna averne rispetto, conservarne la natura, lo spirito profondo. Non puoi accusare William. C’è un confine netto tra realtà e finzione, ragione e follia. È la verità, che ti piaccia o no. Bella o brutta, dolce o agra come veleno, è necessario riconoscerla, rispettarla; è il solo dio, la verità, che si concede alla nostra vista. Si tratta di chinare la testa, guardarlo negli occhi un istante, e venerarlo una vita intera.
BURB : Hai ragione. Hai sempre ragione, Mary. Bisogna venerare la verità. È un comandamento, una necessità. Allora, finalmente, mi inchino. Grazie a te ne trovo la forza. Mi genufletto, davanti a te, che sei il mio amore, la sola persona in cui posso specchiarmi senza vedere il baratro della distanza e dell’indifferenza. Dono a te la mia verità, ad occhi chiusi, piangendo, come quando ero un fagotto di carne conteso da braccia sconosciute sulle tavole di un palcoscenico. Piangendo e gridando, ti regalo la verità che desideri. Ma è un dono che faccio soprattutto a me, ad essere onesto. Liberandomene, mi sgravo del fardello di me stesso.
Christopher Marlowe l’ho ucciso io. Sì, io, Richard Burbage, attore ricco e famoso. Non è stato difficile, in fondo. Ho solo indossato un travestimento in più, un tabarro scuro con un cappuccio che mi copriva la faccia lasciando scoperti solo gli occhi. Ho impersonato la parte di un cupo e taciturno sicario. Ho provocato Christopher quel tanto che è bastato per costringerlo a reagire. L’ho sopraffatto, colpendolo più volte ai fianchi, al petto, al cuore. Ho guardato il suo sangue colare a fiotti. Sono scappato via, gettando il mantello tra gli arbusti di una boscaglia. Sono andato a passi lenti, poi, da aristocratico in gita di piacere, fino alla cittadina più vicina. Ho preso una carrozza e sono tornato a casa, sereno, pulito.
 Tutto facile. Anche raccontarti, fin qui, cosa ho fatto. Più complesso, molto di più,  è parlarti dei perché. Potrei dirti che per William ho provato immediatamente un’istintiva antipatia. Mi è sempre risultato indigesto, lontano, incompatibile con il mio modo di vedere e pensare. Christopher, invece, lo amavo. O meglio, cominciavo ad amarlo. Sentivo nascere in me quella passione, quella comunanza che ti fa riconoscere nell’altro, fino a sentirlo dentro, percependo te stesso in lui. Cominciavo ad amarlo. E ho dovuto fermare quell’amore. Ad ogni costo. Perché sarebbe accaduto come con William: mi sarei accorto di non essere nulla al suo confronto. Il paragone mi avrebbe annichilito. Solo che, nel suo caso, l’amore sarebbe stato un ulteriore carico, un macigno in più. Posso sopportare di essere il fantoccio di stracci di qualcuno che mi sta indifferente o che odio, ma non riesco ad esserlo nei confronti di qualcuno che amo. L’abisso di distanze tra il desiderio e la realtà mi avrebbe schiacciato, tramutando la mia mente in poltiglia. L’ho ucciso per salvarmi. C’è qualcosa di più forte della pietà umana, dei dettami della morale; qualcosa di più forte dell’orrore, e perfino dell’amore: l’egoismo, il grido assordante dell’istinto di sopravvivenza. Chiamala come vuoi, anche solo pazzia, magari. Qualunque nome gli diamo, non muta la sua essenza.
È questa la verità che volevi. La sola, l’unica che mi è stata data in sorte in questo “racconto pieno di rumore e furia narrato da un idiota”. Ecco, vedi, neppure in questo momento riesco a smettere di recitare. Sono e rimango un attore, è condanna e privilegio. Forse anche tutto ciò che ti ho confessato è una fandonia. Il mio tentativo personale di creare una vicenda di cui, per una volta, sono anche il regista e l’autore. Certo, magari è così. Decidi tu. Il compito è tuo, adesso. Ora sei anche tu un’attrice, amore mio. Attrice e sceneggiatrice costretta a far combaciare la faccia con la trama. Quella che pensi di architettare pagina dopo pagina, atto dopo atto, e che spesso, al contrario, si scrive da sola. La vicenda nasce nell’atto di recitarla, mentre, magari, pensi a qualcos’altro, o provi a sperare un epilogo diverso. Ma questa è un’altra storia, vecchia, risaputa. Riguarda ciò che rimane, ciò che si salva, e che, spesso, non salva te.
“Il resto è silenzio”, scrive il grande William Shakespeare. E, come sempre o quasi, ha ragione lui. Il silenzio è cosa buona e giusta, è pietoso, generoso. Lo affermo io, contro il mio interesse, io che vivo di fiato e suono di parole. Il silenzio è pietoso, ma tu, amore mio, hai voluto ascoltare il frastuono di metallo della verità. Ora anche tu ne ascolti il clamore. Devi muoverti, correre su tavole impolverate, per non sentirlo più, o fingere con te stessa di non sentirlo. Devi scegliere anche tu, da questo preciso istante, la verità che vuoi e puoi sostenere, quella che ti consentirà di campare, venendo a patti con la vita, fino alla scommessa scontata e persa con qualche sollievo, la morte.
Scegli tu la verità, Mary. Traccia il confine, la linea rossa di vernice e sangue tra realtà e finzione. Adesso siamo davvero uniti per il bene e per il male, amore mio. Facciamo la stessa strada, sotto un cielo che ti scruta senza mollarti un istante. Fai la tua scelta. Dovrai decidere anche tu quale realtà percorrere, da quale cammino lasciarti attraversare. Anche tu ora, come me, dovrai dire a te stessa, istante dopo istante, se sei bugiarda oppure assassina”.
William Shakespeare 2Richard Burbage, amico di William Shakespeare

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“COME VI PIACE” di WILLIAM SHAKESPEARE

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“COME VI PIACE” DI SHAKESPEARE
 L’ARCADIA VISTA ALLO SPECCHIO
Come vi piace non è certo la più nota delle commedie di Shakespeare. Ma è conosciuta, rappresentata, letta e studiata quel tanto che basta per coglierne il fascino sottile, subdolo, verrebbe da dire: le complessità, i divertiti e bruschi cambiamenti di visione e prospettiva, le trappole farcite di cortesi florilegi accuratamente preparate dal buon William. Ancora efficacissime, pronte a scattare alla minima sollecitazione. Shakespeare ricevette in dono una consapevolezza linguistica che gli consentiva di padroneggiare le parole, versi alati o ruvida prosa, in modo da poter comprendere, nel senso più ampio del termine, il gusto, la capacità ricettiva, lo scandaglio emotivo, la contemplazione estetica (ed estatica) di un pubblico vastissimo. Dal contadinotto venuto a teatro per farsi due risate e guardarsi un paio di dame dagli abiti non esattamente casti, al Professore di Oxford che si mischia alla folla ed elucubra, tra uno schiamazzo e l’altro, individuando assonanze e consonanze, richiami intertestuali e compagnia bella. William aveva cibo a sufficienza per sfamare tutti. Per lasciare ciascuno alla fine, sazio, certo di aver avuto ciò che desiderava.
Come vi piace, opportunamente tradotto da qualcuno anche con Come vi pare, diventa quindi in un certo senso anche una specie di marchio di fabbrica, un motto, uno slogan. Se è questo che volete, sembra dirsi Shakespeare, questo avrete. Per me è lo stesso, l’importante è che siate contenti voi, e che riempiate i teatri, giorno dopo giorno. Questa è, almeno in parte, una potenziale chiave di lettura. Le porte letterarie shakespeariane tuttavia di chiavi ne richiedono numerose per sperare di vederle socchiudere. Il buon William sembra voler assecondare gusti e richieste, pare allinearsi a ciò che furoreggia, ciò che è in voga. Dal canto suo sembra addirittura dire “Io scrivo, così, perché sono drammaturgo, è il mio mestiere. Sono come un sarto, confeziono abiti su misura, a seconda delle esigenze e delle mode”. La frase è falsa, oltre che inventata. Niente di più lontano dalla realtà. Doveva mangiare, William, certo, come ogni padre di famiglia, o forse di famiglie. Ma ciò non gli impediva di fare, in realtà, come pareva a lui. Dando sempre l’impressione di servire la rispettabilissima platea, of course.
La commedia Come vi piace avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, a regola, uniformarsi ai dettami della letteratura “pastorale”, l’Arcadia che faceva sognare e versare fiumi di inchiostro. L’intreccio avrebbe potuto essere complesso ma prevedibile, ed aprire la strada, anzi, un verde e profumato sentiero, verso l’atteso happy ending. Avrebbe accontentato tutti, o quasi. Di sicuro la maggioranza degli spettatori. Non avrebbe soddisfatto però uno spettatore particolare, il primo e l’ultimo: William Shakespeare da Stratford. Accade così allora che, alla fin fine, il primo e l’ultimo a divertirsi sia proprio l’autore. Anche a spese del suo pubblico. Lo schema di base della commedia pastorale era semplice nella sua intricatezza. Travestimenti, giochi, trucchi innocui e in gran parte giocosi, e poi via, l’agnizione, ognuno si rivela per quello che è, buoni e cattivi, belli e brutti, e finisce a tarallucci e vino, e dentro una mirabolante alcova. Shakespeare scardina il meccanismo. Dando la colpa con un ghigno sarcastico ai propri attori, quasi avessero fatto di testa loro, mostra che la vita, sia nella realtà che nella finzione, è più articolata, più ricca di sfumature. Perché tutto il mondo recita una commedia (e qui l’eco arriva nitida fino a Pirandello ed oltre), e la Fortuna svolge una parte determinante.
La scena è quella della foresta di Arden, luogo deputato, idilliaco per eccellenza. Una sede “ecologica” da contrapporre alla cruda vita sociale e cittadina. Ma anche nell’Arcadia si insinuano, non meno aspre, le contraddizioni, i contrasti, i dissidi. Shakespeare non sopportava l’esaltazione incondizionata del mondo pastorale. A lui, è il caso di dirlo, non pareva plausibile. Finisce allora per minarne le basi dall’interno, in modo velato, indiretto, e, per questo, più efficace. Tramite il linguaggio, arma primaria. Le miti principessine e le fanciulle in fiore, ed anche gli integerrimi eroi, cadono, non di rado, e con un certo gusto, nel linguaggio “osceno”. Mai fine a se stesso, con un verve ed un senso della misura assoluti. Si tratta però pur sempre di un elemento che va al di fuori del cliché. Anche l’esaltazione della campagna come paradiso in terra è sottoposta a occhiate e battute schiettamente ironiche. Meglio lasciare la campagna ai contadini, ci dice Shakespeare. Anzi, lo fa dire ai suoi saggi pazzi, siano essi raffinati ed eccentrici viaggiatori o buffoni di mestiere. Jaques, il personaggio dal nome francesizzante, è il signore che vive e pensa da filosofo. Divertendosi a “ragionare”, il che spesso equivale a camminare in direzione contraria rispetto alla folla. Il buffone invece è Touchstone, Pietra di Paragone. Già la traduzione del suo nome dice molto. Ricerca l’oro. Materiale prezioso e raro. Come la verità. Forse non la troverà mai. Ma già la ricerca lo eleva, di sicuro dal punto di vista morale e intellettuale. I personaggi “malinconici”, afflitti da quella sorta di malattia che li porta al morbo del pensiero, della ragione, erano un mezzo per mostrare l’altro lato della luna, quello oscuro, scomodo, avvolte da dense foschie. Un’altra eco, distante dai tempi e dai climi shakespeariani, ma forse neppure troppo, destinata a giungere fino a Freud, comincia a vibrare nell’aria.
L’ultimo è più gustoso scherzo di Shakespeare, lo specchio deformante più possente e grottesco, appare nel finale della commedia. Il gioco della luce e dell’ombra, del bianco e del nero, viene ribaltato, o, almeno, intessuto in nodi più complessi. Il duca cattivo in un primo momento è al potere, e quello buono in esilio. Situazione standard, si potrebbe dire, comunissima, quasi normale, nell’ambito teatrale e non solo. Accade però in Come vi piace che il cattivo diventi buono, e si faccia addirittura eremita. Lasciando il potere all’altro, che lascia la macchia, senza troppi rimpianti, per tornare a palazzo. La formula si ripete, a chiasmo, nei due figli dei duchi, Oliver e Orlando. Il cattivo Oliver diventa buono e sceglie il bosco. Quando però viene a sapere dell’eredità, si ricrede. Pungente e credibile, sul piano psicologico, anche questo retrofront. Nella parte conclusiva della pièce, le figlie dei duchi, Rosalinda e Celia (nome forse non casuale, quest’ultimo) sposeranno il nuovo buono e l’ex-cattivo. In un matrimonio collettivo stile giapponese, quasi, in grado di mettere in crisi anche il più solerte impiegato dell’Ufficio Anagrafe. Ma proprio dall’ambito che dovrebbe rinsaldare la pace e l’armonia, quello pastorale, emergono, emblematicamente, le prime insidie, le contraddizioni, le complicazioni amorose personificate dall’ulteriore coppia, quella di Silvio e Febe.

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Complicata, molto, la trama della commedia, e tuttavia solare, nella sua arguta sequenza di ombre e riflessi. Forse perché il linguaggio, è, come osservò Johnson, tra i più fluidi e vitali del repertorio shakespeariano. Una commedia un po’ fuori luogo e fuori epoca, Come vi piace, ma anche fuori dal tempo, con quella grazia e quel brio, a tratti serenamente taglienti, che ancora racchiude. Divertente, a suo modo. Forse perché l’autore si è divertito in prima persona, a prendere modelli e smontarli, rimettendoli insieme a suo piacimento. Si è anche divertito a giocare a mosca cieca con lo spettatore, e a prenderlo in giro, facendogli credere che il testo fosse stato scritto come piaceva a lui. In realtà è il contrario, si tratta di un esperimento letterario, giocoso e complicato come una partita a dama. Ma a noi, in fondo, piace anche così. Forse perché ci piace pensare che tutto sia come ci pare.

Ivano Mugnaini

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