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THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole

Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM

bellissimo - Recensioni su Sunshine Skyway Bridge, Tampa - Tripadvisor

The color of sunshine

Lo Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza muri, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperti della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle. Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre da rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.
Ivano Mugnaini
 
 
 
 

A TU PER TU – Brina Maurer

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

A TU PER TU ospita oggi Claudia Manuela Turco alias Brina Maurer, poeta, romanziere e diarista, biografa e critico letterario.
Al di là delle qualifiche, sarà interessante, anche in questo caso, cogliere le peculiarità, le specifiche caratteristiche, le passioni, le lotte, le battaglie, le prese di posizioni, coraggiose, sincere, non solo in ambito letterario.
Quindi anche stavolta invito volentieri i “dedalonauti” alla lettura integrale dell’intervista da cui, in modo esplicito e tra le righe, emergono alcuni tratti intensamente rivelatori degli autori e delle loro opere, che poi sono un tutt’uno.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

VOCABOLARI E ALTRI VOCABOLARI_COP

5 domande

a

Brina Maurer

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

  • Ti ringrazio per l’invito e per l’ospitalità.

Mi chiamo Claudia Manuela Turco, ma da diversi anni ormai mi sono impossessata del nome di un personaggio da me inventato per un romanzo – Brina Maurer  -, dopo aver riflettuto a lungo su nomi di poeti, scrittori, attori, artisti e protagonisti di libri o film che mi piacevano. Adottando un nome d’arte, volevo prendere distacco dalla mia vita reale, o meglio, crearmi una seconda vita. C’erano pure problemi di omonimia, tra l’altro.

Il nome “Manuela” (senza la E iniziale) mi piaceva, ma non ero certa che fosse davvero mio. Infatti, da un certo momento in avanti sembrò che mio padre se ne fosse scordato al momento dell’iscrizione all’anagrafe. Il mio secondo nome ricomparve soltanto quando mi trasferii nel 2000 a Torino. “Claudia”, invece, non mi piaceva. Forse perché era stato scelto il nome “Claudio” nel caso fossi stata un maschio, e “Manuela”, se femmina. Alla fine, però, fu deciso che fossi “Manuela” ma soprattutto “Claudia”: nomen omen. Un nome importante nella nostra tradizione, penso alla gens Claudia, ma soprattutto alla parola “claudicante”. Scherzando, amo dire di essere “un autore Rizzoli”… essendo ortopedia una delle mie “passioni”!

La scelta del nome “Brina” è stata del tutto istintiva, soprattutto mi pareva sposarsi bene con

“Maurer”, un cognome abbastanza famigliare nella mia terra, il Friuli, e avendo sempre gradito come suona il cognome “Marler”, a un certo punto per me fu naturale ideare questo personaggio e, in un secondo momento, adottare questo pseudonimo. Inoltre, adoro la lettera erre (morde, mi ricorda il vetro che si infrange e taglia, è una lettera particolare, penso al rotacismo, alla sua importanza, per esempio, nella lingua latina… e un altro cerchio si chiude con Appio Claudio Cieco…) e “Brina Maurer” ne contiene ben tre.

Solo di recente ho scoperto che “Maurer” significa “muratore” in tedesco (proprio grazie a un tuo articolo, pubblicato sulla rivista “Il sarto di Ulm”). L’avevo sostituito al cognome “Turco” anche a causa del rapporto piuttosto conflittuale con mio padre. Ma alla fine mi sono ritrovata con un “cognome d’arte” che significa proprio quello che mio padre faceva per vivere!

Ho cercato a lungo di tenere separata la sfera creativa da quella privata e dal mio essere donna. Volevo scrivere opere che potessero far pensare a una voce maschile, come nel caso di Architetture Poesie Tridimensionali. E volevo una parola pura, pulita, che mi proteggesse dalla realtà. Per un certo periodo provai a destinare la poesia alla “bella parola” e la prosa allo squallore del mondo. Ma non funzionò a lungo.

Tra me e gli altri ho sempre avvertito la presenza di uno iato, come di una invisibile e sottile lastra di vetro. Per descrivermi brevemente, potrei usare parole di Luce d’Eramo: Io sono un’aliena.

Soltanto quando arrivò Glenn nella mia vita (un cane molto speciale), smisi di sentirmi incompresa e incompleta. Eravamo uguali e una cosa sola. Siamo la stessa anima.

Lo adottai perché aveva problemi alle anche come me. Proprio vedendo come la gente trattava lui, iniziai a sentire il dovere di espormi in prima persona. Le cattiverie che la gente diceva su di lui e davanti a lui, erano le stesse che altri avevano rivolto a me, quando ero bambina e poi ragazza e giovane donna.

Cambiai profondamente, superando almeno in parte la mia timidezza e le mie fobie e la mia naturale riservatezza, per poterlo proteggere e cercare di fare qualcosa anche per altri cani anziani e malati, per altre creature che, come lui, erano state maltrattate e abbandonate.

Non potevo più tenere separate arte e vita.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

  • L’ultimo libro che ho pubblicato – Vocabolari e altri vocabolari (Macabor, giugno 2020) – è di poesia ed è stato protagonista del primo blog tour dell’editore. Inoltre, l’opera ha avuto la fortuna di venire subito letta dal noto poeta e critico letterario Bonifacio Vincenzi e da Lucia Gaddo Zanovello, raffinata poetessa che ne ha curato la prefazione.

Ho scritto Vocabolari e altri vocabolari (Colori e altri colori di Fabrizio Dall’Aglio, Passigli 2014, è all’origine del titolo) in aprile, una poesia al giorno, sotto la pressione dell’emergenza Covid. In realtà, provavo un profondo malessere da tempo, anche se non riuscivo a metterlo a fuoco. Solo appena finito il libro, me ne sono resa conto, perché sono stata colpita da un grave lutto. Una violenta scarica elettrica del tutto inattesa, proprio come scritto nella prima poesia.

A posteriori ho compreso di essermi aggrappata alla scrittura, per continuare a strappare alla vita tutto quello che potevo. I Vocabolari sono una specie di eredità che mi è stata lasciata. Non ho voluto vedere la vita che si stava spegnendo gradatamente, sperando ci fosse ancora tempo. Anche dieci anni fa fu la scrittura ad aiutarmi a superare le fasi più critiche di un lutto. Allora fu il romanzo contaminato con la diaristica a indicarmi la strada per ritrovare quanto perduto, seppur in una nuova dimensione. Quando sento dire “finché morte non vi separi”, mi sanguinano le orecchie… Io scrivo soprattutto “perché morte non ci separi”. Ma ovviamente l’opera poi vive di vita propria.

Vocabolari e altri vocabolari è scaturito dalla convergenza di un’infinità di elementi sedimentatisi nel tempo. I diari di Glenn e Mughetto (i cani Lord Glenn e Mr. Mughy, protagonisti di molte mie opere), tenuti dal 2007 al 2020, e quanto vissuto con loro, sono stati fondamentali.

Nelle mie opere spesso il cane è centrale, però il discorso riguarda tutti gli esseri viventi; individuo costantemente corrispondenze tra ciò che fa l’uomo e ciò che fanno gli animali. L’umanità degli animali e l’animalità dell’uomo sono due facce della stessa medaglia, per me. I Vocabolari appartengono alla medesima temperie che mi ha portato a concepire Neraneve e i sette cani (Italic, 2018, prefazione di Luigi Fontanella) – poema che, in un certo senso, riassume tutto quello che ho scritto e tutto quello che potrei scrivere – e L’innocenza usurpata, libro di cui è prevista l’uscita nel 2021, ma che è stato scritto dopo Neraneve e prima dei Vocabolari. Almeno nella mia mente, queste tre opere compongono una specie di Trilogia. Per i Vocabolari ho lavorato molto sulla lingua e sulle fiabe: Il soldatino di stagno, Cenerentola, Il gatto con gli stivali, Scarpette rosse, La bella addormentata nel bosco, La piccola fiammiferaia, La Sirenetta… E ci sono tanti riferimenti a poeti e artisti come Leopardi, Pascoli, Shakespeare, l’architetto Adolf Loos, Luce d’Eramo, Magritte…

Il taglio dato al discorso complessivo ha richiesto brevità (c’è tanta “filosofia” e comunque le singole liriche non sono corte): se avessi aggiunto altre poesie, tale discorso sarebbe divenuto troppo intenso e “doloroso”.

Le pagine di Vocabolari e altri vocabolari invitano a un’accurata riflessione sul linguaggio, in difesa dei più deboli e contro ogni forma di violenza. L’attenzione viene focalizzata costantemente sulle vittime.

Emergono da un lato i meriti delle creature più generose e sensibili, dall’altro le pesanti responsabilità dell’essere umano, mentre brandelli di realtà e di notizie di cronaca si mescolano ad atmosfere fiabesche.

Diversi critici e giornalisti si sono validamente occupati di questa silloge quasi poema, anche in forma di intervista. Tra gli altri, Emanuele Bellato, Alessandro Fo, Alessia Mocci, Paolo Ruffilli, Antonio Spagnuolo, Ilaria Mattiussi.

Sicuramente il tuo articolo “Il cane, l’essere più poetico di questo mondo” contiene lo studio più approfondito, poiché hai avuto modo di porre in relazione i Vocabolari con altri miei libri, sia di narrativa che di poesia. Se ne ricava un’impressione di una conoscenza diretta e profonda dell’autore, il che mi ha molto sorpreso, perché noi non ci siamo mai incontrati e parlati di persona (nemmeno al telefono), ci siamo soltanto intravisti una volta da lontano in occasione di una premiazione.

Alessandro Fo, con il quale non avevo mai avuto contatti prima di avergli inviato i Vocabolari, accostando il mio vivere appartato a parole di Seneca, ha pure colto nel segno: “in hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem: posterorum negotium ago” (“per questo mi sono rifugiato in me stesso e ho chiuso ogni porta: per poter essere di giovamento a molti; è del bene dei posteri che mi occupo”).

Emanuele Bellato ha definito “civile” la mia poesia e, accennando a Pasolini, mi ha fatto ricordare come a volte sia possibile raggiungere certi traguardi percorrendo vie ben diverse. Infatti, ho cercato a lungo una poesia estetizzante e non “civile”, per difendermi dai traumi (per es. non posso guardare le opere cinematografiche di Pasolini, perché mi risvegliano ricordi difficilmente sopportabili), ma poi, grazie ai cani e per loro, sono riuscita a conciliare le due componenti, l’estetizzante e la “civile”.

Lavoro molto sui “luoghi comuni”, non sopporto le generalizzazioni. Di recente Cristiana Vettori ha scritto una nota davvero efficace su Neraneve e i sette cani, riassumendo bene la mia poetica, accennando al superamento degli stereotipi di genere.

3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?

In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?

  • Sono (un) poeta (non amo definirmi “poetessa”, né “una poeta”), biografa, critico letterario, romanziere, diarista. Tutto quello che scrivo sfuma nella poesia.

Non sento molto mia la dimensione del racconto; infatti, le Architetture in origine erano racconti, poi sono divenute un poema. Comunque, “Bambini di serie B”, posto come introduzione al romanzo Glenn amatissimo, si presenta come un racconto.

La scelta tra prosa e poesia avviene in modo piuttosto istintivo, è la materia stessa che richiede una certa forma e di solito è un azzardo, perché ho in mente soltanto un titolo e un’infinità di dettagli e argomenti che non so se riusciranno a stare davvero insieme. Il rischio è che o tutto si incastri bene con il resto o che sia tutto da buttare.

La dimensione del poema ora mi pare quella a me più congeniale (e per motivi non soltanto letterari), una buona soluzione tra prosa (o romanzo breve) e poesia.

Concepisco la musicalità come ritmo derivante da un equilibrio geometrico, architettonico, non da processi auditivi. L’aspetto visivo e visionario è, per me, prioritario.

Non amo ingabbiare in una tessitura metrica (sebbene gli insegnamenti di Raffaele Spongano mi abbiano a lungo fatto riflettere) i miei versi, anche se non escludo la possibilità di infrangere non solo le regole della tradizione, ma anche quelle che mi sono data personalmente (per es., per le Architetture la struttura portante è composta da tre distici per frammento, per sottolineare la tridimensionalità costruttiva).

Ai tempi dell’università riuscii a imparare la lettura metrica della poesia latina soltanto dopo averla ricondotta al mio modo di ragionare “per immagini” e calcoli. Invece gli altri compagni di studi tranquillamente procedevano “a orecchio”, senza chiedersi il perché. Sono stonata e probabilmente l’udito è il mio senso più scarso, anche se ho gusti precisi, che mi inducono a scegliere con decisione possibili abbinamenti sonori o meno.

Comunque, non seguo una teoria consolidata. È vero che preferisco i colori e le forme ai suoni e agli odori, tuttavia credo che, per un poeta o per uno scrittore, uno degli strumenti più affascinanti a disposizione siano le sinestesie. E allora mi ritorna in mente Pascoli, attraverso gli studi di Clemente Mazzotta, il quale mi ha trasmesso anche la passione per Alfieri.

4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?

  • Alle elementari, quando mi fu assegnato il primo libro da leggere, non ci potevo credere che si dovesse frammentare la lettura nell’arco di giorni, settimane o addirittura mesi: avrei voluto poter leggere qualsiasi libro in una sola giornata! Alle medie e alle superiori mi sentivo molto vicina a Leopardi, perché detestavo il mio “natio borgo selvaggio”. Quando poi scoprii Alfieri, ai tempi dell’università grazie al filologo Clemente Mazzotta, mi si spalancò un mondo del tutto inatteso e in sintonia con i miei ideali. Avevo incontrato finalmente un poeta in grado di farmi sognare! Non a caso Domenico Cara, accennando agli influssi di Alfieri nella mia opera, ha scritto di una fascinazione probabilmente non soltanto letteraria. A lungo ho scritto combattuta tra due fuochi: Alfieri (“il mio Vittorio ha le labbra verdi”) e Lord Byron (divenuto importantissimo con l’arrivo di Glenn nella mia vita).

Se scrivere è parlare, leggere è ascoltare. Di persona raramente incontro qualche altro scrittore. Amo inserire citazioni nei miei libri, rendere omaggio ad altri autori, ma di solito le scelgo a posteriori, non sono fonte di ispirazione, bensì punto di convergenza. Spesso preferisco poeti e scrittori di cui mi colpisce qualche aspetto del loro carattere o della loro biografia, anche se non va confusa l’opera con il vissuto di chi l’ha concepita.

Sento Byron con la sua zoppia (nel mio lavoro ho spesso sovrapposto la sua immagine a quella di Lord Glenn) e Luce d’Eramo con le sue vicende biografiche (anche lei fu ricoverata all’Istituto Rizzoli), e autrice di Partiranno, a me particolarmente vicini.

Degli autori che non ci sono più (ma, in realtà, in una certa misura il discorso vale pure per i viventi), preferisco non cercare di leggere (quasi) tutto, perché così ho la possibilità, nel tempo, di scoprire ancora qualcosa di nuovo.

Le voci care sono davvero tante. Leggo opere di classici e contemporanei, italiani e stranieri, capolavori famosi e scritti minori o di autori quasi sconosciuti, opere pubblicate da “grandi editori” come dall’editoria superficialmente definita “a pagamento”. Soprattutto sono vittima di Internet e divoro brandelli di tutto quello che mi capita. E rileggo a volte ossessivamente.

Per nutrire la mia anima, per trovare ispirazione, serve altrettanto il contributo di pittori, scultori, architetti ecc. Le mie letture via via sono diventate sempre più imprevedibili, legate alle occasioni più diverse, avendo, tra l’altro, collaborato, nell’arco di circa quindici anni, con una casa editrice.

Grazie a Margherita Azzi Visentini, a suo tempo, imparai ad apprezzare Alexander Pope, importante per la Storia dei Giardini, e, grazie a Guido Zucconi, Adolf Loos (a proposito di “Maurer”… “L’architetto è un muratore che ha studiato il latino”, sua celebre affermazione, e Parole nel vuoto e Ornamento e delitto vengono da me citati non di rado).

Per quanto concerne i poeti e scrittori del nostro tempo con i quali ho avuto modo di entrare in contatto, prima è venuto l’interesse per l’opera – mia o loro – e poi la conoscenza diretta o indiretta della persona. Così ho conosciuto anche mio marito. Di solito si tratta di poeti o scrittori particolarmente amanti degli animali, ovvero di tutti gli esseri viventi, e capaci di costante autocritica. Ancora mi emoziono ed entusiasmo, incredula, come un’adolescente con i suoi idoli, ricevendo quotidianamente e-mail, lettere cartacee, libri, riviste, telefonate da alcune tra le voci più significative del mio tempo!

Da alcuni anni ho trovato il coraggio di interrompere la lettura per non riprenderla più, se l’autore non riesce a farmi “divertire”, allontanare da un solco precostituito. Mi annoiano sia il cerebralismo che il sentimentalismo variamente ostentati. Ritengo che nella vita nulla sia banale, tuttavia come si guarda è determinante.

Alcuni poeti non lo sanno, ma hanno contribuito in modo significativo a non farmi abbandonare definitivamente la scrittura (scrivere, in me, ha sempre generato amore-odio, perché non mi ha consentito l’indipendenza economica).

Rappresentano un grande sogno divenuto realtà, la mia opera Architectures Three-dimensional Poems accolta nella Collana diretta da Luigi Fontanella, dopo essere rimasta per molti anni nel cassetto, e l’Introduzione a Neraneve e i sette cani, che lo stesso Luigi Fontanella ha curato. Mi cattura, una dolce malinconia, ripensando ad alcuni suoi libri. Il suo Monte Stella (Passigli, 2020) mi rammenta “Le cinque punte”, la montagna a me più cara. E grazie a Luigi Fontanella e al suo libro Il dio di New York (Passigli, 2017), ho potuto scoprire la poesia e l’infelice biografia di Pascal D’Angelo.

Un altro sogno realizzato è la nota di lettura che Alessandro Fo ha dedicato a Vocabolari e altri vocabolari. Egli è uno dei pochi poeti capaci di farmi ridere o sorridere anche mentre sento ancora l’amaro in bocca o una fitta in pieno petto. Grazie a lui ora compare Pierluigi Cappello tra le mie prossime letture. L’aver letto poesie in friulano di Cappello molti anni fa, mi aveva un po’ tolto la curiosità di avvicinarmi ad altre sue opere, perché mi ricordava troppo un mondo dal quale ho spesso cercato di allontanarmi.

In particolare, a essere del tutto sincera, mi sento piuttosto distante dalla maggior parte degli altri poeti, perché non concepisco l’infanzia come una “età dell’oro” individuale, anche se a volte è capitato che vi abbia fatto riferimento.

Non potrei scrivere se non introducessi anche elementi a me estranei nelle mie opere. La fantasia deve fondersi con il vissuto, eppure le biografie rimangono la mia passione.

La vita di ogni essere vivente è una miniera incredibile e può risultare interessantissima, se solo vengono poste le domande giuste.

Mi interessano molto le opere altrui, ma anche le vite dei loro autori.

Mi fanno sentire meno sola.

5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

  • Anche se non ci fosse stata l’epidemia di Covid-19, credo che i tempi per la stesura (definitiva) di Vocabolari e altri vocabolari fossero ormai maturi. Di certo, invece, è stato decisivo, per riuscire a trovare una tale concentrazione, l’aver dovuto rimandare la pubblicazione de L’innocenza usurpata.

Conduco da sempre vita appartata, quindi non è cambiato molto nella mia quotidianità, e ho sempre avuto molte fobie. Mi mancano terribilmente, però, le mie montagne e il mio mare, e l’illusione di avere un po’ di libertà. Inoltre, io che amavo pianificare e ripianificare qualunque cosa in continuazione, ora più che mai mi trovo costretta ad affrontare un giorno alla volta.

Percepisco qualunque tragedia collettiva come una somma di tragedie individuali.

Non credo si possa veramente affermare che non si dovrebbero più scrivere poesie dopo certe sconfitte dell’umanità.

Proprio quando i tempi sono più bui, dovremmo cercare di costruire qualcosa di bello da mettere sull’altro piatto della bilancia.

Grazie infinite a te, per l’occasione di riflessione e condivisione, e ai lettori di Dedalus!

poesia e prefazione

da

Vocabolari e altri vocabolari

 

Ogni parola, un cassetto nel ventre,

un piano di grattacielo,

una grotta nascosta,

un brillare di stelle al centro dell’inferno.

Una popolazione di lettere e sillabe democratiche,

una raccolta differenziata di pesi netti e tare.

Tu chiami amore qualcosa

che non ammette inclusione impura

nel cristallo del dire,

né il peso lordo nel gioco combinatorio.

Nel mio mondo, invece, la tua è indifferenza,

e l’odio non è nuocere, bensì non collaborare

e non aiutare a fare del male

a chi non ha spine per potersi difendere.

La sofferenza è uguale per tutti,

ma c’è chi è più uguale di altri.

Hanno strappato l’anima alla parola animale,

coloro che non amano nemmeno l’uomo.

Il bambino istintivamente adora gli animali

e, per essere rispettato,

esige che loro vengano protetti.

Qui me amat, amet et canem meum.

Parole nel vuoto:

Ornamento del dire diventa delitto,

nel vuoto di-s-senso.

Virgolette e corsivi,

per battute di dialogo e pensieri del cane protagonista,

non vengono accettati dall’editore,

poco avvezzo allo studio delle lingue straniere.

Ma l’autore sa se l’espressione sul viso di pelo

significa “mi sento così e lo tengo per me”

oppure “mi sento così e te lo dico!”!

Dubbi assalgono anche i controllori della lingua,

che devono spesso arrendersi al furor di popolo

e ai numeri dei motori di ricerca:

occorrenze di forme più o meno (s)corrette

(repetita iuvant…),

per portare nuova linfa nelle pagine

di enciclopedie e Vocabolari,

insicuri nel vestito del proprio scrivere,

dubitando addirittura dell’ausiliare giusto,

insidiati dall’ipercorrettismo.

Esistono corrispondenze

l’equivalente della parola,

l’equivalente dell’uomo –

ma il linguaggio equivalente non viene ap-prezzato:

non è farmaco di marca,

non è cane o gatto di razza.

Il lignaggio del linguaggio,

contrapposto alla ricchezza del meticciato.

E le inversioni inattese:

la religione come scienza,

la scienza come religione,

la preghiera che offende come bestemmia,

la bestemmia che vuol essere preghiera,

la folle o profetica allucinazione.

Voglio una parola

che sia violenta scarica elettrica,

pensiero per immagini,

taglio che chiude la pagina.

Non il sottovoce che non ha funzionato.

Voglio un intonaco arrotolabile,

spolverato di cipria di marmo di Carrara

e travertino romano,

per coprire queste pareti di un nuovo inizio,

perché l’errore non ricompaia.

PREFAZIONE DI LUCIA GADDO ZANOVELLO

“Voglio una parola / che sia violenta scarica elettrica, / pensiero per immagini, / taglio che chiude la pagina. / Non il sottovoce che non ha funzionato.”

Brina Maurer, qui autrice di un libro scritto nella lingua di cui si avvale chi parola non ha, denuncia con la forza aggiuntiva e unica della poesia l’inganno secondo il quale fin da piccoli ci viene fatto credere che gli animali delle altre specie sono esseri inferiori, che non meritano o non necessitano di molta considerazione, dimenticando la loro provata straordinaria sensibilità, il dolore e le emozioni che essi pure sperimentano.

Gli umani si comportano in modi diversi con gli animali, ma alcuni di loro non li rispettano e molti ancora purtroppo non si preoccupano minimamente di come vengano trattati, nemmeno quando vengono torturati. Sebbene sia considerato lodevole prestare aiuto agli umani bisognosi, quando un essere non umano avrebbe bisogno di essere soccorso viene spesso abbandonato al suo destino, e anche questa è una forma di discriminazione specista, dato che tutti gli animali hanno necessità e diritto a non essere penalizzati, sfruttati od offesi.

Negli ultimi decenni, fortunatamente, evento rivoluzionario quanto tardivo, nell’umanità va facendosi strada la consapevolezza, per qualcuno incresciosa, di essere parte non soltanto della natura, quanto soprattutto della compagine degli organismi animali, a volte persino senza variazioni di grado e di valore, comprendendo finalmente che siamo interconnessi nel profondo con la natura e con gli altri esseri viventi, che dobbiamo custodire la complessità della vita per salvare la nostra stessa esistenza sul pianeta.

Non più dunque la morale dell’uomo sovrano del mondo, ma una legge universale che ci veda parti integrate in un tutto, senza limiti di spazio e di tempo.

Vi è poi la necessità urgente, e questo ‘Vocabolario’ diviene raro e prezioso strumento a tal fine, di coltivare nell’uomo la propensione all’empatia fin dalla più tenera età, solo così si potrà aprire la strada alla giustizia, capacità di chi, sospeso il giudizio negativo della diversità, sentendosi in armonia con l’intero universo, sarà in grado di abbracciarlo totalmente, specchiandosi in esso, allora il paradiso da cui l’uomo si è dolorosamente allontanato potrà tornare sulla terra.

Verità e certezze che chiaramente legge e impara chi ha guardato a lungo negli occhi di un cane, comprendendo e assimilandone la lingua purissima, tenera e innocente.

Lucia Gaddo Zanovello

brina maurer « DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario

Brina Maurer è nata a Codroipo (Udine) il 15 dicembre 1970. Laureata in Lettere e Filosofia (Conservazione dei Beni Culturali) con lode, è stata pubblicista ed è poeta, romanziere, diarista, biografa e critico letterario. Presente nell’antologia on line Italian Poetry, ha scritto 25 libri e più di 200 articoli. Con il “Ciclo di Glenn” (oltre 1600 pagine di narrativa dedicate alla disabilità nel mondo animale) ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti nell’ambito del Premio “Franz Kafka Italia®”. Ha dedicato una Collezione di oltre quaranta diari al cagnolino Mughetto (più di 4500 pagine manoscritte). Sue poesie sono state tradotte in inglese americano e greco moderno. Ha ricevuto circa un centinaio di riconoscimenti nell’ambito dei premi letterari.

Geometrie creative

Giacomo Leopardi - A Silvia
Torre di Pisa a rischio, i cambiamenti climatici potrebbero ...
“E se avesse ragione la Torre di Pisa?” 
La frase non è mia. L’ho trovata su Facebook e mi congratulo con chi l’ha ideata e scelta.
Forse l’interrogativo se lo è posto anche Leopardi, durante il suo soggiorno pisano.
Su Leopardi e Pisa ho scritto un articolo ospitato da “L’Ottavo”, che ringrazio: Leopardi vs Leopardi .
Lo ripropongo qui.
Buona lettura e buone “geometrie creative”.
IM
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LEOPARDI VS LEOPARDI

Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

 

Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale. Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino e quello pisano. La domanda è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta. Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura monocorde descritta in molti libri scolastici in stile Bignami. Non era e non è esclusivamente il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
È anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie volutamente infantili dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito. È l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi. Ma è un lusso che non possiamo e dobbiamo permetterci.
Questa creatura complessa e multiforme arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che la circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino e vi si trattenne fino al giugno del 1828.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere:
Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione.  La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: «Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi».
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua apparente semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente, a un’ipotesi: «Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa». A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono errori, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.
Giacomo Leopardi, Pisa – Lungarno | territori del '900
 

Estinzione

Estinzione

di Marco Capponi
Edizioni Divinafollia, 2016

Risultati immagini per estinzione marco capponi

Nella copertina del libro campeggia un quadro di cui è autore lo stesso Capponi. Il quadro in apparenza è rassicurante. In apparenza, appunto. Ed è in questo aspetto esteriormente quieto, geometrico, razionale, che si nascondono profondità e ombre, spazi per riflettere sul lato oscuro della scienza, della mente umana, del presente che anela a diventare futuro diverso, manipolato, geneticamente modificato, potremmo dire. 

Capponi unisce nei suoi libri le sue due grandi passioni: la ragione e il raccontare, la logica e l’immaginazione, o meglio l’ipotesi delle conseguenze della variazione di alcuni dati e parametri di riferimento che sembrano fissi su quel microcosmo complesso e fragile che è il genere umano.

Estinzione immagina un futuro senza tempo, perfino senza morte.

Dovrebbe essere un quieto paradiso. Non è così. Perché ogni azione impone una reazione, un cambiamento nella struttura di un intero sistema, una mutazione nel suo equilibrio instabile e precario che è allo stesso tempo la sua fragilità e la sua unica forza.

L’idea alla base del romanzo è originale e coraggiosa. Capponi la esplora aggiungendovi elementi essenziali e variabili di portata assoluta: l’amore, l’odio, l’orgoglio, la ferocia, la sete di distruzione, il realismo, l’idealismo, l’eros, la poesia…

Un quadro a tutto tondo, nei cui chiaroscuri si intravede la figura umana messa a nudo, analizzata con occhio di scienziato ma anche di letterato. Conservando, a dispetto di tutto, la speranza che non si estingua del tutto la bellezza, la sua possibile, essenziale, viva presenza.

Non guasto con anticipazioni il gusto della scoperta della trama ai lettori interessati.

Mi limito a fare riferimento ad alcuni passaggi del libro, basandomi su due paragrafi della recensione di Rossella Frollà pubblicata sulla rivista Pelagos, a questo link: 

http://www.pelagosletteratura.it/2016/09/15/estinzione-di-marco-capponi/ .

«Un gruppo di scienziati lavora sotto la guida del prof. Franzinelli all’intuizione di uno di loro, Filippo Landi. Si scopre un’ «interazione ordinante» che non disperde energia e informazione ma le organizza e le concentra. Franzinelli si rende conto della possibilità di bloccare ogni processo degenerativo dei sistemi biologici oltre che raffreddare quasi gratuitamente ogni sistema termodinamico. L’«interazione ordinante» va oltre il principio classico dell’aumento dell’entropia dell’universo. Il risultato scientifico sarà quello di trattare la morte, la degenerazione della vita non più come inevitabile. Si renderà possibile la stabilità straordinaria del materiale biologico, superando l’ibernazione e addirittura favorendo il processo di riparazione delle cellule.

Alla applicazione metodologica di tale intuizione seguirà negli anni la mutazione genetica della specie umana. L’interazione ordinante si estende attraverso onde elettromagnetiche che viaggiano nella rete telematica per raggiungere tutti coloro che sono collegati ad essa. Si tratta di un cambiamento epocale che muta il rapporto degli uomini col territorio, con la loro stessa esistenza. Il fine non è più pensabile, né la fine né il tempo se non nella perpetua angoscia del possibile incidente che limita e penalizza l’evitabilità della morte naturale. Questa paura folle costringerà la nuova specie ad abbandonare completamente i mezzi di locomozione aerei e terrestri. Si apre un nuovo eterno pericoloso senso di angoscia».

Qui di seguito il link di un brano del libro letto da Ivano Marescotti.

Di nuovo buona estate a voi, razza non ancora estinta di lettori.

IM

Gradiva – numero speciale

 

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In ottima compagnia, un mio testo di cronaca “sportivo-esistenziale” sul numero 50 di Gradiva.

È un numero speciale dedicato a: CINQUANTA POETI ITALIANI PER GRADIVA. Nel fascicolo, oltre ai testi dei vari autori, un editoriale del direttore Luigi Fontanella che percorre la storia della rivista.

* * * * *

Riporto qui sotto, per chi fosse interessato, alcune informazioni sulla rivista 

 

GRADIVA

International Journal of Italian Poetry

Editor-in-Chief: Luigi Fontanella ~ Associate Editor: Michael Palma

Quote di abbonamento: 2016 | 2017

«Gradiva» è una delle più longeve riviste di poesia italiana, dedicata in particolare allo studio e alla diffusione della poesia contemporanea. Rivolta a un pubblico internazionale, pubblica testi sia di poeti italiani (con o senza traduzione in inglese) che di poeti stranieri di origine italiana, saggi, note, traduzioni, recensioni e interviste. Oltre a sezioni dedicate a testi inediti e interventi critici, comprende rubriche specifiche curate da singoli studiosi e poeti. Arricchisce la rivista una «Fototeca», archivio fotografico che documenta i principali eventi della poesia italiana, passata e presente.

«Gradiva» is one of the oldest journals of Italian poetry, and is particularly devoted to the study and promotion of contemporary literature. Addressed to an international audience, it publishes texts by Italian poets (with or without accompanying English translations), or of Italian descent, as well as essays, notes, translations, reviews, and interviews. Beyond its regular sections, with original poems and critical contributions, it includes special sections developed by scholars and poets. Among the latest features of the journal is a «Fototeca», a photographic archive documenting the most important events of the Italian poetical scene.

Da questo fascicolo in poi la rivista «Gradiva» è pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki in Firenze. Dopo questo numero, per ora ancora doppio, la rivista uscirà con cadenza semestrale. Sono molto grato a Daniele Olschki per aver accettato di pubblicare «Gradiva» che, nata nel lontano 1976, ha ormai alle spalle ben trentasette anni di vita, quasi un record per un periodico dedicato esclusivamente alla poesia e alla poetologia italiana. Questa novità trascina con sé anche un significato intensamente paradigmatico: quello di far ‘ritornare’ la nostra rivista al suo alveo materno, pur continuando a mantenere il carattere transnazionale che le è proprio. È, di fatto, a Firenze, con il suo amato/odiato concittadino Dante, che la poesia italiana trova il primo vero iniziatore, senza con questo voler disconoscere la rilevanza storica della Scuola Siciliana e di tanti altri importanti poeti toscani e non toscani che operarono prima e durante la grande stagione dantesca. Questo ritorno alle origini non è, dunque, senza un suo valore fortemente simbolico, che fra l’altro richiama alla mente due versi straordinariamente profetici di Hölderlin: «Difficilmente il suo luogo / abbandona ciò che abita vicino all’origine».
Luigi Fontanella, Premessa al volume 43/44

Prospetto illustrativo


Indicizzata da:
Thomson Reuters – WOS (Web of Science) The world’s most trusted citation index covering the leading scholarly literature

Managing Editors
Irene Marchegiani • Sylvia Morandina

Assistant to the Editor
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Ultimo fascicolo pubblicato • Last published issue
2016/2 n. 50


Casa Editrice Leo S. Olschki – Firenze
per informazioni: 
periodici@olschki.it

 

Arte e luoghi: una lettura

Una bella lettura del mio libro a cura della redazione di Arte e luoghi che ringrazio.   IM

http://arteeluoghi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2528:lo-specchio-di-leonardo&catid=67:libri&Itemid=61

Lo specchio di Leonardo

 

In libreria il nuovo romanzo di Ivano

Mugnaini ispirato alla vita di Leonardo da Vinci

Un titolo fortemente suggestivo. “Lo specchio di Leonardo” è il nuovo romanzo di Ivano Mugnaini, tra i più eclettici scrittori del panorama letterario italiano, uscito recentemente e in libreria e nei principali canali di distribuzione online.

Pubblicato dalla Eiffel edizioni, «lo spunto iniziale del romanzo – racconta lo stesso autore – è nato da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo da Vinci, alle sue scoperte, al suo inesauribile talento. Veniva mostrato Leonardo alle prese con gli specchi da lui studiati a lungo per scopi scientifici e militari. Mi sono interrogato, in quell’istante, sul rapporto del genio con la sua immagine.»

Come un fiume in piena, sono scaturiti da quelle immagini una serie di interrogativi che finivano tutti con l’indagare la personalità eclettica di Leonardo, il genio e il suo lato oscuro.

Uno su tutti. Ma cosa scatta nella mente di un genio come Leonardo quando per circostanze assolutamente fortuite si imbatte nel proprio doppio, ossia in quello che sembra essere una copia esatta di se stesso?

Questa la genesi del romanzo di Ivano Mugnaini che in punta di inchiostro prova ad entrare nei meandri del pensiero di Leonardo e della sua anima tormentata provando ad intuirne desideri e comportamenti narrando, nelle novanta pagine del romanzo, il percorso di evoluzione e trasformazione, di complicità e rivalità che si innesta tra due persone in apparenza uguali ma agli antipodi per personalità e carattere.

Lo specchio di Leonardo è un romanzo sui generis, una biografia romanzata che attinge dalla storia con avvenimenti concreti e circostanziati per mettere in scena un sottile e complesso gioco dei ruoli che svelerà un finale sorprendente.

Copia di Ivano Mugnaini - foto

 

«Lo specchio di Leonardo non è un romanzo storico né aspira ad essere un thriller sensazionalistico – scrive nella prefazione Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale di Pisa. È uno scavo in profondità nella mente di Leonardo supportato da una notevole ricostruzione del suo percorso biografico che non pretende, tuttavia, di rivelare verità storiche nuove o sorprendenti quanto di puntualizzare e di ricostruire ciò che è noto della dimensione umana del personaggio, tentando di farlo interagire con le proprie contraddizioni».

Nato a Viareggio, Ivano Mugnaini è autore di romanzi, racconti, recensioni e note critiche. Collabora con editori e riviste, tra cui anche “Arte e Luoghi” con la sua rubrica “Luoghi d’Autore” e ha curato la rubrica “ Panorami congeniali” sul sito Bompiani RCS. Tra le sue pubblicazioni la raccolta di racconti L’algebra della vita e il romanzo Limbo minore. Il suo racconto Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio mentre il romanzo breve Un’alba è stato pubblicato da Marcos Y Marcos. Scrive testi teatrali e cura il blog letterario “Dedalus”  e il suo sito .

red. Arte e Luoghi


 

Lo specchio di Leonardo di Ivano Mugnaini –     Edizioni Eiffel 2016

Disponibile in libreria ( in versione italiana) e in eBook ( in versione inglese)

oppure on line su AMAZON 

Per maggiori informazioni visita il sito www.ivanomugnaini.it e www.edizionieiffel.com .

IN ECCESSO

Propongo qui IN ECCESSO, l’altro mio racconto pubblicato, assieme a HAPPY HOUR, su “L’Immaginazione” (nr. 289, settembre – ottobre 2015). Parla di divani, stracci, lotterie esistenziali, salite, panorami e vertigini curate e sconfitte.    IM

in ecc 9

 

IN ECCESSO

Estate, pieno agosto. Il mondo intero è o appare in vacanza. Per me niente di nuovo; solo molto tempo, troppo. Seduto da solo, straccio bianco e peloso su un divano quasi bianco e quasi altrettanto peloso, scorro uno dopo l’altro i numeri della rubrica del cellulare alla ricerca di qualcuno da chiamare o a cui scrivere. Nomi vecchi e nuovi in abbondanza; ma non ce n’è uno che vada bene. Da molti ho ricevuto torti, ad altri ne ho fatti. Sono archiviati. Su cento numeri non ne trovo nessuno contattabile, specialmente ora. A meno di chiamare farmacie o assicurazioni, o un tecnico del computer con cui fingere un guasto o un’urgenza. Guardo meglio, con più cura. Ci sono in realtà cinque numeri che di solito salto istintivamente con lo sguardo: mettono in difficoltà, appartengono a persone buone. Buone, sì, ma difficili. Anzi, buone perché difficili, troppo generose. Danno e chiedono in eccesso, vogliono sapere, informarsi, interagire, vogliono cambiare il mondo, vorrebbero cambiare me.

in ecc 8
Guardando le finestre sento un’afa dolciastra e molle nelle vene. Mi accorgo che l’estate è avanzata e tra poco sarà autunno: mi accorgo che non ho niente da perdere. Invio un messaggio ai cinque samaritani. A ciascuno scrivo che ho bisogno di lui o di lei soltanto, e che solo lei o lui può trovare il modo di convincermi ad uscire di casa. Le risposte non si fanno attendere, in breve mi trovo a dover considerare cinque proposte, cinque progetti di vita. Essere membro unico di una Commissione Giudicatrice implica vantaggi e svantaggi: non c’è nessuno che ti contraddice, ma non c’è neppure nessuno con cui prendersela in caso di errore.
La sola via di uscita è stabilire criteri limpidi e univoci di valutazione: vincerà chi riuscirà a farmi fare la cosa più difficile. Come premio avrà questo straccio di vita, con la possibilità di stringerlo e strizzarlo a suo piacimento. Un trofeo di scarso valore intrinseco, ma di notevole valore simbolico, per loro, per i miei accaniti benefattori. Un po’ come il drappo del Palio di Siena per i contradaioli.

in ecc 5
Flavio mi propone di catapultarci insieme nella discoteca Technomatic di recente inaugurazione, musica moderna da far saltare per aria le casse, ma, a suo dire, nella semioscurità la nostra effettiva età anagrafica resterebbe celata, clandestina, e, di sicuro, potremmo abbordare qualche procace adolescentina capricciosa.
Piera mi prospetta una cena di classe: un revival degli anni del liceo, dei gloriosi fasti che, a sentir lei, hanno preceduto la Maturità. “Vieni tranquillamente – miagola – tanto tutti quanti abbiamo qualche capello in meno e qualche ruga in più. Nessuno ci farà caso. Ascolteremo musica dei mitici Anni Ottanta, e, se ci prenderà la nostalgia, la combatteremo raccontandoci le nostre vite, ciò che abbiamo realizzato, i resoconti, i bilanci”.
La cura che vorrebbe prescrivermi Massimo invece è molto più semplice. Si tratta di una sorta di elettroshock: andare in cerca di prostitute, una per ciascuno, e vedere volta per volta chi ha il coraggio di andare con quella più oscenamente brutta e sconcia.
Nello è di tutt’altro avviso: è convinto che ciò che può salvarmi è un ritorno alle radici. Mi invita a ripresentarmi a sorpresa al bar del paese, tra facce che mi scruterebbero come un marziano per un’ora e più, sicuro, ma, alla fine, mi inviterebbero a passare la giornata giocando a tressette e aspettando che passi qualcuno per la strada per poterne parlare male; così, senza farsi sentire.
Ilaria mi invia il messaggio più breve in assoluto, poche parole secche e luminose come fulmini. Mi chiede di riprendere la passeggiata interrotta anni prima, quella che doveva portarci alla terrazza panoramica della nostra collina.

in ecc 10
La Commissione si riunisce e delibera: apprezzabili nel complesso tutte le proposte presentate, ma, per il grado di difficoltà, e, non ultima, per l’intrinseca imperscrutabilità attuale e potenziale, viene premiata la proposta della candidata Ilaria.
Ci troviamo alle otto di mattina ai piedi della salita. L’orario lo ha scelto lei, e sembra che abbia scelto anche il clima: un sole zelante, già sveglio e caldo, in grado di illuminare ogni millimetro degli occhi e della bocca. Mi saluta con gesto breve, Ilaria, come se ci fossimo visti la sera prima, come se quattro anni di silenzio e assenza non fossero mai esistiti. Inizia a camminare, e io di fianco a lei. Non mi chiede niente, non vuole niente, ascolta solo il mio respiro, sempre più affannato. Lei sembra una gazzella, io un leone spelacchiato e asmatico. Ma, come recita uno strano proverbio, ogni mattina un leone si sveglia e sa che dovrà correre per provare a sfuggire a una gazzella. Arriviamo, passo dopo passo, al vertice della collina. Là sotto c’è il mondo. Lei si siede sul parapetto e osserva, serena, immobile, io, torturato dalle vertigini, resto a due passi di distanza. Non apre bocca neppure adesso, Ilaria, si gode la vista della pianura e della città, la fa risplendere in sé, nei suoi gesti, nelle mani, nella quiete frenetica.

in ecc 7
Mi avvicino, quasi ad occhi chiusi, tremando mi arrampico sul parapetto e mi siedo. Abbracciato a lei il tremore svanisce, assieme alla voglia di vomitare, o di provare a volare. Sono seduto sul mondo, ora. Oscillo, ma riesco a rimanere in bilico sul legno saldo; ho nelle braccia e nello stomaco solo il suo calore.

in ecc 6
Estate, pieno agosto. Il mondo intero, anche in questo nuovo anno, è o appare in vacanza. Seduto sul divano bianco e non più peloso insieme a lei, non provo neppure a toccare il cellulare. Lei controlla ogni mio messaggio e ogni chiamata: vuole sapere chi, come, dove, quando e perché. Un po’ mi fa imbestialire, e un po’ mi viene da ridere. In fondo ora di tutti i torti fatti e subiti mi importa un bel nulla. Uso il cellulare soprattutto come sveglia, per far sì che la sua musica ci richiami alla coscienza del tempo, ogni tanto, prima di tornare, con lei, al sogno di un panorama reale, che ora, nella luce e nel buio, è ancora possibile guardare.

in ecc 4in ecc 2in eccs 3