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Distanze obliterate

Distanze obliterate è un bel titolo. Proprio in virtù della sua natura quasi ossimorica: se viene obliterata la distanza non è più tale, muta nome e sostanza, diventa dialogo, avvicinamento, fertile commistione. Perché tutto ciò che è ibrido, polimorfo, è fertile per natura e per definizione.
Non è solo un titolo e non è solo un libro. Distanze obliterate è anche un progetto, anzi una realtà. È portata avanti da Alma Poesia con il sostegno di puntoacapo Editrice. È frutto delle idee di un gruppo di giovani competenti e appassionati ed è un interessante viaggio nel tempo e nello spazio, tra varie generazioni di autori e tra le diverse regioni italiane, percorse sulle onde di Internet, ma anche sui binari delle Ferrovie dello Stato, soprattutto da Alessandra Corbetta che sta accompagnando la sua creatura cartacea per paesi e città, con grande affetto e grande cura.
Il progetto di Distanze obliterate è illustrato qui di seguito nei dettagli, tramite la pagina che ho ricavato dal sito di puntoacapo Editrice.
Copio anche dalla pagina Facebook di Alessandra Corbetta alcune foto della presentazione del libro che si è tenuta a Pisa sabato scorso. Pubblico inoltre la locandina della presentazione che avrà luogo domenica prossima, 17 ottobre, a Livorno; e un riferimento al programma “Poème électronique” previsto a Genova il 16 ottobre.
Buona partecipazione agli eventi, a chi potrà e vorrà, e buona lettura di Distanze obliterate.
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In che modo la velocità della Rete, gli effetti del mediashock e tutte le affascinanti promesse del web – come accorciare le distanze o ridurre i tempi di comunicazione – hanno cambiato il modo di fare poesia e hanno influito sul senso di identità e di relazione di ciascuno? I testi raccolti in questo volume, scritti da poeti nati tra il 1940 e il 1999, provano a tracciare alcune possibili traiettorie di senso per rispondere a questa domanda e fare nascere altre quesiti capaci di alimentare consapevolmente il dibattito intorno a poesia e Rete. Il volume si articola in due sezioni: la prima è dedicata agli omaggi di poeti affermati che hanno concesso alcuni contributi inediti sul tema; la seconda ospita invece gli inediti di poeti che hanno risposto alla call per la composizione del volume e che sono stati ritenuti meritevoli di farne parte dal comitato editoriale di Alma Poesia, che si è occupato anche della stesura di commenti critici che intervallano i testi delle autrici e degli autori proposti. Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete, in un viaggio tra le generazioni, prova a riassumere in sé le diverse accezioni del rapporto poesia-Rete e a restituirle nella forma organica di questo volume, con l’auspicio che possa essere da stimolo e da supporto a studi successivi del fenomeno.

La curatela:
Alma Poesia è un blog di poesia, nato il 4 aprile 2020, fondato e diretto da Alessandra Corbetta; si configura come un progetto editoriale articolato, che si avvale di una redazione composta da persone con percorsi di studio e ruoli professionali differenti, e dell’integrazione con gli strumenti comunicativi offerti dalla Rete. A oggi Alma Poesia, oltre che di Corbetta, si compone della Crew costituita da Valentina Demuro, Francesco Destro, Luca Gamberini, Emanuele Andrea Spano e dei Contributors Alessia Bronico, Giuseppe Cavaleri, Sara Serenelli, Martina Toppi e Sara Vergari. (www.almapoesia.it)

Il caffè letterario Volta Pagina di Pisa, ieri sera ha sentito le voci delle distanze obliterate: voci di generazioni diverse, ognuna con la propria idea di cosa rappresenti la Rete e cosa la Poesia, ognuna pronta a mettersi in ascolto di quella degli altri per crescere, confrontarsi, ampliarsi.
Grazie, quindi, agli autori che hanno reso possibile tutto questo: Fernando LenaJonathan RizzoMarco Bini e Massimo Del Prete.
A Jonathan un ulteriore ringraziamento per avere organizzato questa bellissima serata con sincero altruismo e al Caffè Volta Pagina per l’attenta ospitalità❗️❤

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 5 persone, tra cui Alessandra Corbetta e Jonathan Rizzo e spazio al chiuso

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 4 persone, tra cui Jonathan Rizzo, persone sedute e spazio al chiuso

Potrebbe essere un'immagine raffigurante una o più persone e il seguente testo "Reading e presentazione del volume, DISTANZE OBLITERATE (PUNTOACAPO EDITRICE 2021) a cura di Alma Poesia DOMENICA 17/10, ORE 21.00, C/O CAFFE LETTERARIO LE CICALE OPEROSE, C.SO AMEDEO 101- LIVORNO- Interverranno Alessandra Corbetta, Sara Vergari, Francesca Del Moro,Jonathan Rizzo."

“Distanze obliterate” (Puntoacapo Editrice 2021) continua il suo viaggio:
 sabato 16 ottobre, ore 20.30, sarà a Genova, all’interno del programma di “Poème électronique”: ne parleranno l’editrice Cristina Daglio insieme a Emanuele Andrea Spano e Roberto Chiapparoli, con un focus sulle nuove tecnologie e la necessità di studiarle in relazione alle forme comunicative, comprese quelle della poesia;
 domenica 17 ottobre, ore 21.00, arriva invece a Livorno, presso il Caffè Letterario Le Cicale Operose: con me e Sara Vergari ci saranno gli autori Francesca Del Moro e Jonathan Rizzo.
Ringraziamo Ksenja Laginja, Federico Tortora e Maristella Diotaiuti per l’attenzione e l’accoglienza al nostro progetto.
E vi aspettiamo❗❤

THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole

Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM

bellissimo - Recensioni su Sunshine Skyway Bridge, Tampa - Tripadvisor

The color of sunshine

Lo Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza muri, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperti della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle. Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre da rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.
Ivano Mugnaini
 
 
 
 

A TU PER TU – Alessandra Corbetta

Risponde oggi alla domande di A TU PER TU Alessandra Corbetta, autrice giovane ma già in possesso di una personalità ben definita, capace di abbinare la passione e la creatività poetica ad un’accurata osservazione, quasi di impronta scientifica, della realtà, dei tempi, della società e degli individui che la compongono, la determinano e ne sono condizionati.
Anche in questo caso queste mie note fanno solo da “teaser” (giuro che non è una parolaccia), da stimolo ad una lettura accurata.
Sono molto interessanti gli spunti e i modi con cui Alessandra tratta argomenti complessi e di estrema attualità: la sexual objectification e le pratiche di body modification, l’esperienza del singolo, il frame sociologico e diversi altri temi.
Con grande sincerità e schiettezza ci parla anche del Covid, dei suoi effetti sul modo di vivere, di pensare e di scrivere.
Il consiglio è quello di sempre:
chi vuole e può, legga l’intervista nella sua interezza.
Io nell’ambito di questa rubrica sono solo un dispensatore di Spritz, di aperitivi.
IM

Corpo della gioventù - copertina

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM

5 domande

a

Alessandra Corbetta

 

1) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

 

Ho sempre detestato il momento delle presentazioni, anche quando ero bambina; con la crescita, ancora di più. Per i boriosi diventano un’occasione per lo sfoggio, spesso iperbolico, di sedicenti qualità e mansioni, per i timidi attimi di imbarazzo, per quelli, come me, che mal sopportano le etichette, qualcosa di inutile.

Allora dico solo che sono Alessandra Corbetta e riporto due versi di Umberto Fiori che sento molto vicini: «Potessi io / essere il prato, / non il tremore / di questo filo d’erba.»

 

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

La mia ultima pubblicazione in versi si intitola Corpo della Gioventù, ed è uscita il giugno dello scorso anno per Puntoacapo Editrice.

La raccolta parte da una riflessione di stampo sociologico, il mio ambito di afferenza accademica, sul corpo che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato lo strumento attraverso il quale indagare e rappresentare molte questioni sociali. I discorsi sulla sexual objectification e le pratiche di body modification non sono che due delle dimostrazioni più evidenti di come la corporalità funga da capro espiatorio per dire di altro. Ad esempio, ed è quello su cui Corpo della gioventù prova a interrogarsi, la difficoltà, nella nostra società occidentale, di uscire dalla giovinezza per entrare nell’adultità; il corpo, nelle modificazioni che subisce e nella sua facile esposizione, diventa il paradigma della paura nell’affrontare questa transizione e suggella la tendenza del nostro tempo a procastinare oltre misura l’inizio dell’età adulta. L’opera, nelle sue cinque sezioni Fessure, Attraverso, Rintocchi, Battenti, Esplosione, interseca a questa cornice macro l’esperienza del singolo, e quindi la dimensione micro, nella quale l’elemento autobiografico compare solo in qualità di mezzo di congiunzione al frame sociologico. Il libro è introdotto da due note, una a cura di Tomaso Kemeny, l’altra di Lamberto Garzia che evidenziano il moto di resistenza posto in essere dall’io per non adattarsi a un diktat sociale che vorrebbe imporre una cronologia unificata al tempo personale del soggetto; la postfazione, invece, realizzata da Ivan Fedeli, si concentra sulla dimensione esistenziale del corpo; scrive, infatti, Fedeli: «Il corpo assume allora dimensione esistenziale: avvolta nei corpi di tutti / nessuno è barbaro / qualcuno resiste: avvolgente in sé, si copre di carne per nascondere, come una matrioska, le fratture interne, le smagliature di un essere che è solo in funzione di ciò che percepisce, abita. Pensare alla ricerca poetica della Corbetta è, quindi, condividere l’idea di una continua evoluzione, magmatica, dell’Io in funzione di una realtà sfuggente, che si dimostra talvolta insidiosa nella metafora di una casa vuota, di uno specchio che non riconosce, di posti che non attraversano, talvolta più rassicurante, nell’idea di un porto che accoglie in silenzio proprio mentre tutto tace e diventa possibile la quiete. In questa cornice accade la poesia: essa si addensa in una forza immaginativa mai scontata, in cui l’identità personale si consuma lasciando spazio alla matrice di un’esperienza comune di spaesamento, incredulità.»

Continua la lettura di A TU PER TU – Alessandra Corbetta

I nomi delle cose

BARONI COP fronte ridotta
 

Giancarlo Baroni, I nomi  delle cose, puntoacapo, 2020

Nota di lettura di Ivano Mugnaini

«Kangarù risponde all’esploratore / che gli domanda il nome / di quel buffo animale saltellante / Kangarù ripete non capisco». L’impressione è che in questi versi ci sia il tono, il senso e anche l’esplorazione, è il caso di dirlo, del libro di Giancarlo Baroni. Tra serietà e ironia, in transito sui sentieri di una disperazione lieve e tenace, un’allegria di naufragi nei mari e nelle lande del senso, del significato delle parole, e, di conseguenza, di tutto il pianeta in costante rotazione e rivoluzione, senza che nulla cambi. Il nome delle cose nasce da un errore di comprensione. Tuttavia quel messaggio decodificato in modo inesatto viene a costituire comunque un canone condiviso. L’errore diventa norma, lemma inserito nei dizionari. La poesia, forse, ha il compito di muoversi tra i due estremi, la regola e l’eccezione, l’errore e il ritratto di una cosa e di un pensiero. Forse la poesia è quell’animale saltellante. O forse è l’esploratore che, nell’atto di non comprendere, crea l’oggetto, gli dona forma ed esistenza. O magari, al di là di tutto, Baroni voleva soltanto giocare a raccontare un episodio, un malinteso epocale. Ma si tratta di un gioco particolare, in cui, per la logica illogica degli ossimori, ancora una volta il vero equivale al suo contrario, e viceversa.
In questa “Segnalazione” proporrò alcune mie considerazioni che potrei definire, per usare un termine mutuato dalle arti visive, “impressionistiche”. In senso improprio e immediato, ossia, in questo contesto, basate su sensazioni filtrate il meno possibile. Per un’analisi ulteriore vi rimando alla nota introduttiva di Ivan Fedeli riportata qui di seguito, e, come sempre, alla lettura diretta di questo libro dotato di un taglio e di un approccio del tutto originali.
            I nomi, i vocaboli, sono i ponti e al tempo stesso le cariche di dinamite piazzate sotto le campate per farle saltare. Così come ogni espressione verbale è anche allo stesso tempo un invito ad entrare all’interno delle mura e un monito minaccioso a cui si dà voce per difendere il territorio. Nella poesia “Invincibili”, Baroni scrive «Lanciamo proiettili di fuoco / ciononostante avanzano / senza curarsi delle ustioni / come se fossero invincibili, immortali». Probabilmente avanzano perché in fondo abbiamo bisogno di dare loro un nome per poi scoprire che è il nostro stesso nome. Avanzano perché, a dispetto di ogni battaglia più o meno rituale, più o meno tragica o comica, loro, quell’entità sottintesa e ineludibile, siamo noi, i nomi con cui creiamo il nostro mondo e anche le terre nemiche, gli eserciti invasori. E la lezione di maggior rilievo, sull’erba dei campi di battaglia così come sulla carta delle pagine, è che ogni vocabolo ha più di un senso e più di un vessillo. È tutta una questione di punti di vista: «Loro sperano / che dal portone si affacci / un drappello in segno di resa / noi che all’orizzonte si sollevi / la polvere di cavalieri amici».
Come in ogni punto di confine c’è una dogana anche tra la parola e il silenzio, tra il dialogo e il conflitto. E c’è un dazio da pagare: «Niente da dichiarare / disse tacendo dei trecento / euro della salvezza / nascosti nella sacca… E questi / insisteva il doganiere questi?”. La concisione, in questo libro, specialmente nella parte iniziale, è privilegio, scelta e necessità. Baroni lascia che i simboli e le metafore emergano dai fatti, dalle azioni. Nel caso specifico citato poco sopra, lascia che anche l’interpretazione sia libera, così come le opzioni. Lascia che sia chi legge a scegliere chi o che cosa sia il doganiere. Così come, senza forzature, senza imposizioni autorali, ciascun destinatario di questi versi è chiamato a stabilire i volti del confronto e del conflitto, eternamente interrelati: «Ti osservano / quando meno te lo aspetti / quando vorresti nasconderti / dietro un riparo inesistente / quando non te ne importa niente / rannicchiato nell’angolo / in piedi al centro della cella».
Nella sezione “Un seme tra le mani”, la concisione lascia gradualmente spazio a versi più estesi, più dilatati. Ma le domande permangono, ineludibili. Anche e forse soprattutto quelle deliberatamente sottaciute: «Detesti a tal punto il dolore / che del tuo hai scelto di non parlare. / Dici succederà anche troppo / quando da sottoterra dovrai raccontare / i motivi della tua morte / alle anime numerose che in ascolto / a turno riferiranno i loro. / Perlomeno ti auguri si possa / ogni tanto variare / inventando una versione inedita / immaginando qualche vicenda avventurosa / che renda più sopportabile l’aldilà». Il vero e l’immaginazione, dunque. Con la parola come unico modo per contrastare, inventando storie irreali, perfino il tedio di un tempo senza fine.
Eliotianamente, Baroni, immagina e in gran parte teme il risveglio dopo il letargo vitale e forse anche mortale. «Quel che diventeremo lo sappiamo / non serve aggiungere. La terra / seppellita altra terra la trascina / fino a svegliarci. Chissà per quante volte / ancora subiremo, aspettando / tenacemente che l’universo cambi. Come di cenere / soffocata composti e desiderio».
Da questo panorama descritto con schiettezza ma senza compiacimento e senza asprezze fini a loro stesse, Baroni, salva, paradossalmente (ma forse neppure troppo) ciò che non ha nome, se non nell’ambito di territori che risultano indefinibili: l’emozione e lo stupore di fronte ad una bellezza che condensa in sé il bene e il male, il confine ed il suo superamento. Nelle sezioni “L’amore ha la stessa verità” e “Le trappole di Rauschenberg”, vengono chiamati in causa personaggi della letteratura e artisti accomunati dalla complessità, dalla loro natura contraddittoria e fuori dagli schemi. «Al posto delle mele bacate / di grappoli bianchi e rossi / del fico maturo che mostra / il viola della polpa / la cesta di frutta contiene / la testa del Battista. Firmo col sangue / il mio autoritratto». Parole, queste, di Caravaggio, emblematico rappresentante della categoria dei “maledetti”, dalla ragione e dal senso comune. Sono parole che condensano la voce e lo sguardo di coloro che hanno imboccato e percorso strade laterali, strette e insidiose, coloro che hanno voluto e dovuto trovare un modo diverso per evocare i nomi delle cose.
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Nota di Ivan Fedeli

In bilico tra Valerio Magrelli e Luciano Erba, Baroni osserva la realtà con occhio da vedetta e il suo sguardo restituisce quadri di vita mai scontati o dati per certi. C’è una sorta di ironia di fondo che, talvolta, agisce in profondità e, senza corrodere, opacizza il fare umano e cerca una parola definitiva, un lasciapassare, con cui restituire un intero a tante situazioni frammentarie, senza sbocco. Una poesia arguta, quella di Baroni, fatta di scatti cerebrali, ipotesi, situazioni limite (l’uscio, la frontiera, il fronte, le zone franche): qui l’uomo si trova di fronte a uno specchio e dubita di sé e del suo riflesso. È nella terra di nessuno, insomma, che si svolge la storia e la scommessa è quella di trovare un confine. Ne deriva una sorta di situazione metafisica dove resistere con mandel’stamniano rigore.
Lo stile, nitido, dà unità ad un lavoro serio e originale. Il poeta emerge dalle pagine e coincide con l’uomo: è la preoccupazione del mondo che porta a scrivere e la pietas si insinua nei versi, quasi un’ombra cercasse di dare riparo. Autore riconoscibile e maturo, Baroni ne I nomi delle cose crea un sistema chiuso con il lettore, in cui il diaframma della scrittura è facilmente penetrabile per chi, con occhio vigile a sua volta, sa riconoscere i segni di una fragilità umana da tenere cara e proteggere, cosa questa mai scontata.

 

  Giancarlo Baroni, I nomi delle cose
Nota di Ivan Fedeli, pp. 130, € 15,00
ISBN 978-88-6679-239-0
 
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NOTE BIOGRAFICHE

Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016) e Le anime di Marco Polo (Book, 2015). Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. Sue poesie sono state tradotte in lingua inglese dal poeta Max Mazzoli e in francese dalla poetessa Marilyne Bertoncini. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: Sguardi dell’arteBologna e Due volti di Parma; tutti e tre fuori commercio.