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Rai News: una lettura de “Lo specchio di Leonardo”

Ivano Mugnaini

“Lo specchio di Leonardo”

http://poesia.blog.rainews.it/2016/11/ivano-mugnaini-lo-specchio-di-leonardo/

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di Daniele Campanari

Essere come Leonardo significa somigliare a uno specchio, ma non uno di quelli in cui siamo abituati a rifletterci per superbia o esibizionismo: uno specchio identico a un uomo. Ivano Mugnaini lo ha chiamato proprio “Lo specchio di Leonardo” (Eiffel Edizioni, Caserta, 2016) il suo libro e, senza inganni programmati, fa sapere che il protagonista è tale e quale al pittore. Da Vinci – proprio lui, il famoso uomo che ha dipinto l’altrettanto nota Gioconda – prende però soltanto una parte della scena; l’altra, quella che resta, è affidata a un alter ego: un personaggio che Leonardo “sfrutta” per stare da solo e scoprire i sentimenti pur senza togliere tempo alla vita, oppure per portare a termine i suoi scopi. Quali? Non è questo il momento per dirlo – tantomeno lo spazio – e forse neppure Mugnaini lo dice: lascia che sia il lettore a farsi un’idea, a chiarire se Leonardo è impegnato con le sue opere o c’è qualcosa di più, di personale: “Nonostante tutto questo, non molto tempo dopo il fallimento della statua equestre, Ludovico il Moro mi diede il compito di affrescare l’immagine dell’Ultima Cena il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, chiesa particolarmente cara alla sua casata. Mi impartì l’ordine in modo diretto e naturale, come se mi avesse richiesto di dipingere con una mano di bianco un muro di cinta o una parete annerita dal fumo di un camino. Ero io però, non lui, a dover passare giorni e giorni in quel luogo di preghiere e dolori, tra monaci vecchi e giovani che si muovevano troppo lenti o troppo frenetici, nascondendo nella tela del saio corpi assaliti da rimpianti e desideri. […]” (pag.35).

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Le pagine, alle quali Mugnani dice di “tenere particolarmente”, chiariscono chi potrebbe essere “il genio” e nascono “da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo” dove si mostrano gli studi scientifici e militari fatti con gli specchi. L’esordio è affidato a uno scenario tipico del tempo: un cavallo traina una carrozza mentre all’interno si narra il riposo di Leonardo e il suo identico. La qualità del racconto sta anche tra le parole che compongono un linguaggio non esagaeratamente moderno: scelta corretta dell’autore che dimostra di saper fare. D’altronde, Da Vinci non vive tra i fatti del mondo contemporaneo, non deve mica rispondere ai referendum costituzionali e non è neanche iscritto a Facebook. Quindi, se si vuole leggere qualcosa di originale che tiene il passo, lo si può dire leggendo il racconto di Mugnaini. Si badi bene, racconto e non romanzo, perché la vicenda si conclude a 87 pagine tra le quali è stato tracciato un inedito Da Vinci. Inedito perché mai scritto in questo modo e probabilmente assorbito dal lettore che avrà la possibilità di dire di aver conosciuto uno dei migliori profili del maestro di Anchiano.

Ivano Mugnaini è autore di romanzi, racconti, recensioni e note critiche. Collabora con riviste ed editori. Ha curato la rubrica “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS. Tra le sue pubblicazioni la raccolta di racconti L’algebra della vita e il romanzo Limbo minore. Il suo racconto Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio e il suo romanzo breve Un’alba da Marcos y Marcos. Cura il blog letterario “Dedalus”, e il sito www.ivanomugnaini.it

Il sorriso di Monna Lisa

Nella visione del professor Andrea Salvini, Leonardo, dal “vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze scivola dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza”. Una visione corredata da riferimenti a vari libri fondamentali del Novecento.
Una nuova “lettura allo specchio” di sicuro valore e spessore di cui ringrazio.  IM

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Andrea Salvini su

“Lo specchio di Leonardo” di Ivano Mugnaini (Eiffel edizioni, 2016)

L’idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che, ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare, quasi all’inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all’universo pirandelliano: “E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri. Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per questo mondo malato” (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della “Coscienza” sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo approfonditi studi storici e artistici.

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Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un “io narrante” che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell’«io» del grande Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che si trova nell’animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle “Memorie di Adriano” della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar, rafforza nel lettore l’impressione di onnipotenza dell’io narrante.

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Il Leonardo di Mugnaini ci sembra ripercorrere un cammino simile, connotato da una onnipotenza intellettuale, diversa da quella di Adriano. All’inizio manipola il povero Manrico senza difficoltà, lo convince a diventare il suo doppio, anzi, il suo specchio. Segue quindi la fuga a precipizio dal proprio ruolo che ci appare come una vera e propria discesa agli inferi. Leonardo cerca anzitutto la trasgressione in una casa di prostituzione a Firenze. Poi passa una notte spensierata a Venezia con Emilia, una delle figure forse più tragiche del romanzo: Leonardo non esita ad abbandonarla, pur sapendola innocente, alla terribile giustizia veneziana1, dando prova di un perfetto egoismo narcisistico. Il fondo viene toccato poco dopo, con la narrazione a Manrico della violenza abietta compiuta in gioventù ai danni di Jacopo Saltarelli in compagnia dei giovani‑bene di Firenze, che poi, grazie all’intervento personale del Magnifico Lorenzo, possono anche concedersi il lusso di sfuggire elegantemente ai rigori della legge. Leonardo ci appare a questo punto una figura disgustosamente impunita, ma ecco che nel suo “specchio” avviene qualcosa. Manrico comincia a rivelarsi tutt’altro che ottuso e docile: scopre di avere un’arma per ricattare in futuro proprio Leonardo, anche se, per il momento, abbiamo solo un’allusione oscura: “Quello che mi ha detto, Maestro, è una cosa grossa. Io, lo sa bene, sono un contadino, tutto sommato, e figlio di contadini; ho fatto il copista, certo, ma resto un ignorante e so di esserlo. Però perfino io capisco che quella notte è accaduto qualcosa che non si cancella. La ringrazio per avermi fatto questa confidenza. Ma si ricordi, la prego, ora e nel futuro, una cosa: non sono stato io a chiederle di raccontarmi di quel fatto e di quel processo” (p. 47).

Leonardo non sembra percepire il cambiamento avvenuto nello “specchio”, in colui che gli ha reso possibile fare ciò che ad un personaggio pubblico, prigioniero della sua dignità, non sarebbe stato possibile. Comincia ad essere assillato dal pensiero del tempo che si consuma e della morte che si avvicina e continua il suo viaggio, stavolta da solo, lasciando Manrico a vivere la sua vita di artista ricercato e osannato. Si alternano vari quadri, vari incontri, tutti contrassegnati da immagini di morte, di fallimento, di sopraffazione. Il mondo appare irredimibile, ma, ad un certo momento Leonardo sembra avere un’illuminazione: “Ho iniziato questo viaggio, la fuga da me stesso e dalla mia immagine, per ribellione, per un moto di rabbia contro il mondo e contro di me. Ora, a metà del cammino, mi trovo di fronte a un paradosso: negli occhi umili che ho incontrato, e non di rado ferito, c’è la più quieta e la più possente tra tutte le forze, la più inattesa e autentica forma di rivolta: la bontà” (p. 57).

Fin dall’inizio il Leonardo di Mugnaini viene rappresentato come un essere in profondo dissidio con se stesso; l’Autore, però, non ci sembra precisare mai fino in fondo la natura di tale dissidio. All’inizio sembrano prevalere motivi psicanalitici, legati all’abbandono da parte della madre, ma poi su di essi si innestano vari altri motivi, tutti contrassegnati da una profonda e amara sfiducia verso se stessi e il mondo. La scoperta della presenza della bontà non cambia l’animo di Leonardo: egli rientra nella sua casa fiorentina per accogliere proprio sua madre, la donna che lo aveva abbandonato, che rimane con lui negli ultimi giorni di vita. Tra i due non si apre alcun confronto pacificatore e risolutivo: la madre di Leonardo muore e basta, senza che vi sia stata nessun dialogo liberatorio, nessuna confessione, nessun perdono. Leonardo tenta allora di tornare indietro, di rinunciare al suo assurdo gioco indagatorio: “Non era più tempo di pagliacciate, per rispetto della morte e della vita dovevo ritrovare la follia più autentica, la verità” (p. 63). Tenta di sbarazzarsi di Manrico riconducendolo là dove lo aveva incontrato, ma non si accorge che sta commettendo un errore. Manrico, infatti, rivela, quasi di sfuggita, ma inequivocabilmente, di essere stato una sorta di “convitato di pietra” alla mensa di Leonardo: “Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto. Con un solo gesto mi fece capire che non era con lui che mi dovevo scusare. Mi fece intendere che aveva raccolto molto, ed altrettanto teneva custodito dentro di sé, destinato a dare nuovi frutti” (p. 65). Così Leonardo scivola inconsapevolmente dall’onnipotenza all’impotenza: crede di poter tornare al suo interminabile investigare e rimuginare di studioso, ma Manrico una sera bussa alla sua porta e lì comincia la sua riscossa. Leonardo cede da codardo ad un basso ricatto e consente a Manrico di realizzare la propria autentica natura: il sosia non era solo un sosia, era qualcuno che non aveva avuto le occasioni del suo fortunato “doppio”. Tutto questo ci ha fatto pensare alla scena finale del “Ritratto di Dorian Gray” di Wilde. Il ritratto uccide Dorian nel momento in cui sembra destinato alla distruzione, così come Manrico diventa artista più sublime di Leonardo nel momento in cui sembra destinato a sparire per sempre dalla scena della Storia: è lui che realizza il sorriso della “Gioconda” e sta per trionfare su Michelangelo nella decorazione del salone dei Cinquecento a Firenze con “La battaglia di Anghiari”. Leonardo lo terrà ancora con sé a Roma, muto assistente del suo interminabile colloquio con se stesso, collaboratore sfruttato e mai ricompensato per la propria creatività. Cercherà ancora di liberarsene, ma il suo “doppio”, dopo aver escogitato una vendetta ancora più tremenda del precedente ricatto, riuscirà a diventare definitivamente Leonardo, quello che lavorerà nei suoi ultimi anni alla corte francese. Se volessimo ancora richiamarci a Pirandello, quando si è usciti dal proprio ruolo, dalla propria “maschera”, non è più possibile rientrarvi: Mattia Pascal non può risuscitare, Enrico IV non può tornare indietro nel tempo a rivivere il suo amore perduto e via dicendo. Manrico appare perfettamente consapevole di questo e lo rivela a Leonardo quando torna dalle sue montagne : “Senza mai smettere di sorridere, mi disse che aveva provato con tutte le forze ad ambientarsi di nuovo nelle sue montagne, ma non gli era stato possibile. Nulla era più lo stesso, e soprattutto lui era cambiato” (p. 67). Il genio è sconfitto, il copista povero e ignorante è il vero trionfatore: la sicumera iniziale di Leonardo è stata battuta dalla tenacia, forse un po’ furbesca, di un montanaro.

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Concludiamo, per ora almeno, le nostre considerazioni, tornando a dire che queste non possono essere che provvisorie. Speriamo quindi in nuovi contributi critici su questo testo, che non può lasciare indifferenti, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione della vera natura del dissidio interiore di Leonardo, davvero sfuggente come il sorriso di Monna Lisa.

Andrea Salvini

1 Ci se ne può fare un’idea leggendo “La mia fuga dai Piombi” di Giacomo Casanova.

LO SPECCHIO, IL DOPPIO, LE MASCHERE

Trascrivo qui di seguito il saggio di Marco Righetti sul tema dello specchio, del doppio e delle maschere, ispirato dalla lettura del mio romanzo “Lo specchio di Leonardo”.
È stato pubblicato originariamente su Poetarum Silva, a questo link: https://poetarumsilva.com/2016/07/19/lo-specchio-il-doppio-le-maschere-di-marco-righetti/ .
Merita una lettura, a mio avviso, nonostante sia piuttosto lungo e corposo, per l’ampiezza e l’accuratezza del lavoro e per la ricchezza e la varietà delle citazioni e dei riferimenti intertestuali, letterari ed artistici.

Grazie a Marco, ad Anna Maria Curci per l’ attento e prezioso lavoro di editing svolto sul testo, e a Poetarum Silva per l’ospitalità.

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Lo specchio, il doppio, le maschere, saggio breve di Marco Righetti sul romanzo Lo specchio di Leonardo di Ivano Mugnaini.

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 Lo spunto iniziale del romanzo è nato da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo da Vinci, alle sue scoperte, al suo inesauribile talento. Veniva mostrato Leonardo alle prese con gli specchi da lui studiati a lungo per scopi scientifici e militari. Mi sono interrogato, in quell’istante, sul rapporto del genio con la sua immagine. Ho provato ad immaginare il divario tra ciò che appariva al mondo, la sua eclatante gloria e la scintillante fama, e ciò che di intimo sentiva dentro di sé, nella sua interiorità autentica. Ho pensato al contrasto tra i suoi veri desideri e ciò che era costretto a realizzare in qualità di persona soggetta alle ambizioni dei potenti del suo tempo, signori, notabili, politicanti e ricchi mecenati. Non ultimo, ho pensato al contrasto tra il bianco e il nero, il buio e la luce, il bene e la malvagità che anche Leonardo, come ogni altro uomo, ospitava dentro di sé: il lato in ombra, i chiaroscuri e i contrasti più laceranti forzatamente nascosti per motivi di opportunità e per mantenere vivo il suo prestigio.
Ho pensato cosa avrebbe fatto Leonardo se si fosse trovato, per qualche accadimento favorevole, ad essere finalmente libero di agire secondo le sue più profonde e sincere inclinazioni. Come si sarebbe comportato, quali rivalse avrebbe cercato, quali piaceri e quali verità, anche nell’ambito più delicato e significativo, l’amore.
L’accadimento favorevole è l’incontro casuale con un suo sosia, una persona identica a lui per l’aspetto fisico ma diversissima come carattere, inclinazioni, modo di vedere e di pensare.
L’incontro inatteso con il suo “doppio”, Manrico, un copista ottuso e acuto, ingenuo e profondo, gli dà la possibilità di progettare per sé la più complessa delle opere, la vita, un’esistenza diversa, autentica. Leonardo decide di affidare al sosia il ruolo del genio saggio, conscio, adatto al ruolo e al mondo, per poter fuggire da sé dedicandosi finalmente alla scoperta della vera follia, le passioni, il sesso, la sincerità, il bene e il male. Il percorso di trasformazione è ritmato dai quadri più significativi di Leonardo, lasciati volutamente incompiuti oppure abbandonati per eccesso di coinvolgimento, un dialogo mai concluso, un dubbio mai risolto.
L’affresco de 
La Battaglia di Anghiari, innanzitutto, dipinto a fianco del rivale, Michelangelo, e lasciato a metà nel momento in cui, anche grazie a Manrico, scopre il senso reale di quella celebrazione di un massacro che gli era stata commissionata dal partito al potere.
Ma soprattutto il gesto del sosia, un atto di passione, anche schiettamente sessuale, fornirà la soluzione, e insieme un ulteriore elemento di dubbio, al quadro più amato e odiato, 
La Gioconda. Dopo una serie di prove e avventure in cui, ancora una volta, la montagna più alta da scalare si rivela la verità, la fedeltà nei confronti delle proprie idee e convinzioni, Leonardo si avvicina al proprio doppio, per poi distaccarsene, e alla fine avvicinarsi ancora, sentendo una beffarda, dolorosa affinità. A Manrico Leonardo rivela i suoi ricordi più oscuri e tormentati, le violenze, le colpe, i peccati, i torti commessi e subiti, gli attimi in cui è stato vittima e carnefice. A fianco di ogni passo, ogni svolta del sentiero, c’è la lotta per la comprensione di ciò che davvero conta: la bellezza, la dignità umana, il mistero del tempo, della bontà, dell’amore. Lo scontro vitale più aspro è quello tra la complessità e la linearità, i dettagli e la prospettiva, gli incontri e le memorie essenziali: uomini e donne conosciuti per caso e traditi per una vita intera, o il ricordo della madre, fonte per lui di un conflitto mai risolto.
Alla fine tuttavia il nodo da sciogliere, il vero resoconto, è quello con se stesso e con il proprio alter ego: nell’istante in cui Manrico lo tradisce, facendolo accusare di un grave crimine, Leonardo acquisisce paradossalmente la forza e la chiarezza della visione d’insieme, e riesce finalmente a trovare la chiave che risolve il mistero, tramutandolo in un’immagine speculare che si riflette e si moltiplica generando nuove forme, nuova vita.”

Questa la densa, ammiccante, affabulante nota dell’autore, a corredo del suo romanzo. Il sorprendente, polisemico testo del Mugnaini fa subito piazza pulita di qualunque anche eventuale somiglianza a plot di facile accatto costruiti sul personaggio Leonardo, e mi riferisco anzitutto al popolarissimo e storicamente inattendibile Codice Da Vinci.
Lo specchio di Leonardo è un romanzo che non fa leva sulla tendenza mainstream a decomporre ed alterare la realtà storica in nome di ciò che il lettore si vuol sentir dire. Ciò non toglie che, dall’Anonimo Gaddiano, prima biografia nota di Leonardo, ai recenti Da Vinci’s Demons (nota serie televisiva statunitense che abilmente mescola elementi storici con altri fantastici), e Da Vinci innamorato, finzione teatrale del drammaturgo argentino Lázaro Droznes, la riflessione letteraria sul genio toscano e mondiale sia perenne fonte di interesse presso il pubblico. Il non-finito è insomma non solo quanto emerge dalla visione dei quadri leonardeschi, è piuttosto la stessa vita di Leonardo ad essere non-finita e a nutrire di curiosità il nostro stesso sentire davanti all’uomo Leonardo, alla sua interiorità, al suo mondo.
Il Leonardo di Mugnaini è figura accesa da dubbi, inquieta, scettica, non-finita, appunto. Al sommo pittore non basta più la tecnica del ritratto doppio per raccontare la sua vita. Per ritratti doppi si intendono quelli che alla rappresentazione di un volto abbinavano – sul retro del quadro o su un supporto esterno – un’altra immagine, un cartiglio, un’allegoria che chiarisse ulteriori aspetti dell’immagine principale, una sorta di ritratto in due puntate. Ed è quello che accade nel rovescio del celebre 
Ritratto di Ginevra Benci, opera di Leonardo, in cui il cartiglio (di cui peraltro non è affatto certa l’attribuzione) recita ‘Virtutem forma decorat’. L’interpretazione prevalente, ‘la bellezza adorna la virtù’, è un ritratto interiore che completa l’immagine dipinta: il percorso inaugurato dal ritratto di Ginevra aveva bisogno di un suo seguito narrativo, di una sorta di secondo tempo, a cui affidare il disvelamento di significati nascosti (e in ciò sta la ragione della sua collocazione coperta). Al Leonardo del romanzo non basta più il divino potere (della pittura) di creare la realtà e ingannare l’osservatore e attrarlo a sé. La pittura non riesce a garantirgli altro che fama e dipendenza dai committenti, annullando la sua vera natura, le sue inclinazioni. Si tratta anche qui di un percorso di disvelamento: questo testo, allora, è il secondo tempo dopo il Leonardo pubblico, il seguito, appunto, narrativo, che – da un punto di vista squisitamente romanzesco – spieghi, rispecchi e integri il ritratto consueto del genio vinciano.
L’invenzione narrativa di Mugnaini nasce dunque proprio qui, in quell’ampio imbuto buio dove precipitano le nostre supposizioni sull’uomo Leonardo e ci chiediamo chi veramente egli fu, quale il rapporto con gli altri, col mondo che lo circondava, con sé stesso. Fondamentale è quanto l’autore mette in bocca al suo protagonista, l’osservazione che ‘il mondo non ha nulla di geometrico, è un orrido gomitolo di ossa, tendini e sangue raggrumato, destini e pulsioni che si inseguono scalciando come muli. Dietro ogni aspetto di quest’epoca in cui mi è capitato di nascere e vivere c’è lo spettro della violenza, camuffata o palese: un’epoca in cui piccoli e grandi tiranni vestiti da signori liberali fanno il bello e il cattivo tempo, e su ogni pensiero non ortodosso vigila la mannaia subdola e spietata dell’Inquisizione Spagnola, mentre i papi uccidono i cardinali e i principi i padri e i fratelli. È, anche questa, l’età del dubbio.’
In queste coordinate, siamo nel 1498, si muove il romanzo. Nel Rinascimento la finzione non aveva ancora preso le distanze dalla realtà, era ammessa se palese, se così evidente da non generare dubbi sul rapporto col reale: nessuno avrebbe mai creduto verosimile il personaggio di Morgante (la prima edizione dell’omonimo poema comico del Pulci è del 1478) né maggior credibilità poteva avere il mezzo gigante Margutte. O si pensi alle invenzioni dell’
Orlando Furioso(mentre pare fosse solo frutto della fantasia di uno studioso settecentesco la sdegnata e celebre reazione del dedicatario del poema, il cardinale Ippolito d’Este: ‘Dove mai, Messer Lodovico, avete voi ritrovate tante corbellerie?’): invenzioni troppo comiche, assurde, caleidoscopiche per essere credibili come reali. Nelle arti figurative il discorso è parzialmente diverso: vi era infatti ben delineata la vocazione ad arricchire la rappresentazione con elementi architettonici che rendessero ambiguo il confine fra realtà e finzione (basti pensare ai finti pilastri e alle finte cornici dipinte da un Filippino Lippi, alla finta galleria prospettica del Bramante per la realizzazione di Santa Maria a Milano, alla Camera degli Sposi terminata dal Mantegna quando Leonardo aveva poco più di vent’anni, e in cui il Mantegna arriva a celare nel fogliame l’autoritratto). Nel Rinascimento l’imitazione della realtà si arricchisce dunque dell’inganno prospettico e illusionistico, è il trionfo del trompe-l’oeil.
Orbene il Leonardo narrato da Mugnaini esaspera il rapporto fra realtà e finzione a favore di quest’ultima. Non è solo la vertiginosa trasformazione del paesaggio di sfondo alla Gioconda, una sorta di tempo atmosferico in continua mutazione, è qualcos’altro. Fin dalle prime pagine scorgiamo il Nostro intento a servirsi dello specchio e della pittura per realizzare un ‘controgioco’ nascosto, ‘quadri che osservati allo specchio rivelassero salti mortali di simboli e parole, sciarade e indovinelli, tracce di rivolta riconoscibili ad un occhio attento come i gesti di un prigioniero che lancia al di là delle sbarre indicazioni cifrate per la propria fuga e quella degli altri’. Così la pittura diventa una sorta di metalinguaggio, una via attraverso cui Leonardo possa realizzare la sua metà nascosta, annientata per compiacere ai desideri bellici di Ludovico Sforza (si era presentato al duca di Milano come creatore di macchine per distruzione), tanto da ‘ruinare omni rocca nemica’ (come scrive il Leonardo storico nella lettera inviata al duca di Milano). Servendo i potenti, Leonardo ha nel contempo ‘annientato metà della sua anima, l’arte e la bellezza, soffocando in sé l’amore per l’umanità’.
La pittura dunque come specchio difforme dall’immagine riflessa, perché arricchito di ulteriori particolari tali da beffare i destinatari committenti del ritratto. Tale ‘controgioco’ è storicamente più che giustificato, e dunque è tanto più interessante ai nostri occhi di lettori, se si pensa che Lillian Schwartz invitò a riconoscere nella 
Gioconda l’immagine rovesciata di Leonardo, Digby Quested propose di adottare il metodo speculare per la migliore lettura di tutta la sua opera pittorica, mentre secondo Vittoria Haziel Leonardo avrebbe impresso il suo ritratto nel volto della Sindone di Torino. Fra l’altro è di questi giorni la scoperta che il genio di Anchiano avrebbe nascosto il suo profilo sotto l’ascella di una nobildonna milanese ritratta nel Codice Atlantico. Del resto che lui fosse abile a mascherare il reale, a camuffarlo, lo provano anche le sue qualità di scenografo, ingegnere teatrale e costumista per i festeggiamenti, i balletti di corte, gli allestimenti scenici (della Danae di Baldassarre Taccone e più tardi dell’Orfeo di Poliziano).
Leonardo, io narrante che parla a noi ma cerca la chiave per capire i fatti, non riesce a contenere la volontà di rivincita sull’apparenza, il suo desiderio di ingannare l’osservatore attraverso l’unico mezzo legittimo e non sindacabile, non punibile con l’uccisione violenta (viene citata la Congiura dei Pazzi), cioè l’intelligenza: sarebbe stato questo il suo ‘trionfo muto e immenso’, l’intelligenza come ’arma di creazione, non di distruzione, rivolta contro’ i potenti, e ‘non a loro favore’. Per tal via il Leonardo del romanzo partecipa a pieno titolo alla ridda di simboli e di codici di cui era costellata la pittura cinquecentesca, non diversamente dai codici filosofici che permettevano di celebrare l’amore casto di Bernardo Bembo per Ginevra Benci senza minimamente porre in dubbio il fatto che entrambi fossero legati in matrimonio ai rispettivi consorti. Di qui la valenza, tutta da riscoprire, dell’ermellino nel ritratto della dama che lo tiene in braccio, altro esempio di rispecchiamento del protagonista, e di riflessione sull’ambiguità della stessa dama.
L’intelligenza della pittura diventa qui espressione privilegiata per sovvertire i luoghi comuni, per rilanciare l’interpretazione del pittore. Non dimentichiamo che nel periodo storico considerato le forme di interpretazione del reale erano essenzialmente il ritratto e lo specchio, in campo figurativo, il dialogo in ambito letterario. Partendo da quest’ultimo, basti pensare agli 
Asolani, in forma di dialogo a più voci (editio princeps nel 1505) e più tardi alle Prose della volgar lingua, entrambi di Pietro Bembo (personalità cardine, emblematica di tutto il pensiero umanistico-rinascimentale, anche in merito all’annosa questione della lingua). Gli Asolani e le Prose hanno la forma di dialoghi (di chiara ascendenza platonica) ma sono essenzialmente un ritratto dell’autore, che – sul palcoscenico della letteratura – si specchia e si sdoppia, anzi si triplica nella prima opera e si quadruplica nella seconda, assumendo di volta in volta maschere diverse, e ciò per meglio chiarire il suo pensiero e illustrarlo alla ristretta cerchia del pubblico in grado di comprenderlo (anzi di leggerlo, visto che si tratta di opere in volgare); come a dire che gli attori sono 3 o 4 ma chi parla è sempre l’autore. Analogamente, nel medesimo periodo in ambito figurativo assistiamo allo sviluppo dell’autoritratto, e qui occorre subito premettere che proprio a cavallo fra ‘400 e ‘500 si afferma l’idea che ogni pittura, e soprattutto ogni ritratto, sia un autoritratto; già Cosimo de’ Medici affermava che ‘ogni dipintore dipigne sé’. Ed è proprio Leonardo – negli appunti riorganizzati come Trattato della pittura – a legare l’immagine dello specchio a quella dell’autoritratto: ‘L’ingegno del pittore vuol essere a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto, e di tante similitudini si empie quante sono le cose che gli sono contrapposte’. Dunque la pittura è lo specchio attraverso cui guardare dentro di sé, superando la forma corporea e risalendo neoplatonicamente all’anima, la pittura-specchio è via per conoscersi e correggersi. Del resto la pittura ha un’origine interiore, prima c’è l’idea poi la sua realizzazione, tale per cui ‘chi pinge figura, se non può esser lei non la può porre’, dice il Leonardo storico (sulla scorta di un’immagine tratta direttamente dal Convivio dantesco), per cui ci deve essere comunanza fra la propria natura e quello che si ha in mente di dipingere, e il mezzo per realizzare questa comunanza è la trasformazione dell’io nell’oggetto del ritratto. Di qui però il rischio di riprodurre sui quadri i propri stessi difetti corporei e le proprie inclinazioni caratteriali, finendo col dipingere sempre la stessa immagine che si ha di sé. Fin qui, appunto, il Leonardo pervenutoci dai codici.
Ma è quello che accade al protagonista del testo, il quale deliberatamente mette se stesso nella rappresentazione dell’
Ultima Cena, fino a raggiungere il vero e proprio ritratto-specchio, quell’ultimo San Giovanni Battista in cui si identifica: ‘Guardai la tela con disperato amore. Una cosa era andata a segno, anche se in modo del tutto diverso rispetto ai progetti studiati e preparati fin nei minimi dettagli: volevo realizzare uno specchio, e c’ero riuscito. Guardavo Giovanni, spaurito e smembrato, e vedevo me stesso. Ma gli occhi, divisi da quel corpo sanguinolento, erano limpidi, quieti, a loro modo appagati’.
Dunque lo specchio è ‘il maestro dei pittori’ perché mostra la conformità, l’aderenza alla realtà: ‘Quella pittura è più laudabile la quale ha più conformità con la cosa imitata’ leggiamo nel Trattato citato. Ma la conformità non condurrà mai all’identità con la cosa ritratta, perché la pittura è sempre una finzione, un’immagine della realtà. Il fine della pittura diventa allora la bellezza, che sarà data dal rilievo che avrà l’immagine rappresentata, e dal suo movimento. Al Leonardo storico interessa soprattutto il movimento, fisico e interiore, quello appropriato agli ‘accidenti mentali’ del soggetto raffigurato. È quanto mette in atto il Leonardo di Mugnaini, attento a dare alle sue opere il movimento interiore, la visione dell’interiorità. È anche per questo, sembra suggerirci Mugnaini, che l’incompiutezza è una costante delle opere del maestro: ‘Resta inespresso e indefinito il gesto, la collocazione, la prospettiva da cui osservo dall’esterno e da dentro, dal corpo vivo del quadro, l’enigma della vita’. Ed è proprio in tale aderenza all’interiorità, e al velo con cui Leonardo la rappresenta e nello stesso tempo la cela, una delle ragioni dell’eternità e del mistero di Madonna Gioconda (e, più generalmente, dell’intera opera di Leonardo): ‘ciascuno vi trovava, con limpida convinzione, qualcosa di suo, un gesto, un’espressione, uno slancio dell’animo’, troviamo scritto nel romanzo.
In un altro importante passo del testo Leonardo parla della relazione fra pittura e poesia, ‘Così come la pittura è una poesia che si vede e non si sente, la poesia è pittura che si sente e non si vede.’ La correlazione fra le due arti, l’ ut pictura poesis, viene direttamente dal mondo classico, la troviamo in Simonide, poi nella 
Rhetorica ad Herennium, quindi viene formulata da Orazio nell’Ars poetica, verrà ripresa poi da Luciano e corre nel Rinascimento come un topos, fino a divenire una teoria umanistica della pittura. Poesia come specchio della pittura.
Ma più generalmente nel romanzo – al di là del richiamo contingente agli specchi per le macchine da guerra (e di là dallo studio sulla lavorazione degli specchi piani e concavi di cui il Leonardo storico si occuperà nell’ultimo soggiorno a Roma) – il tema dello specchio è lo scacco che Leonardo infligge a se stesso, pur di confrontarsi-scontrarsi-riappacificarsi con la sua immagine e con sé.
Ed è senza dubbio Manrico, il sosia ottuso e bravissimo, a costituire il più importante specchio, quello che permette a Leonardo di vedersi continuamente, di studiarsi, di odiarsi e di ritrovarsi. Siamo lontani dalla proiezione di sé in un fantasma frutto della propria schizofrenia, come nel 
Sosia dostoevskiano, o dai timori del protagonista del Compagno segreto di Conrad, che a un certo punto teme che il clandestino, e dunque il suo doppio, sia solo frutto della sua mente. Come in The Duel dello stesso Conrad, Manrico e Leonardo sono invece due figure ben concrete, opposte e complementari, l’uno è necessario all’altro, Manrico è l’altro Leonardo che misteriosamente svolge la migliore funzione dialettica nello sviluppo dei nodi irrisolti dell’uomo Leonardo. Manrico è l’inizio del nuovo Leonardo, dopo il Leonardo storico ‘non-finito’, è la possibilità per Leonardo di raggiungere la sua metà mancata, di realizzare il suo daimon (neoplatonicamente) o, più semplicemente come si esprime nel testo, il suo destino. L’ambivalenza Leonardo-Manrico colloca a pieno diritto il romanzo nell’area del doppio, tema vastissimo che con direttrici diversissime spazia dalla Elena della tragicommedia euripidea fino al recente L’uomo duplicato di Saramago, passando per decine di opere (che non sto qui a elencare, considerata l’economia di questo studio, e reperibili facilmente in qualunque testo specifico) fra cui Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila di Pirandello.
È un’intima necessità quella che vive il Leonardo di Mugnaini, il timore di scoprire la verità e il desiderio di raggiungerla. Di qui la cifra stilistica calibrata sul personaggio: l’intero romanzo è attraversato da coppie di termini antitetici che affermano un concetto, un’idea, una sensazione e le tolgono contemporaneamente ogni assolutezza, creando delle impasse logiche che attraggono lo stesso lettore in un gioco di specchi e spingono la vicenda principale verso il sottile limite tra sanità e follia, come espressamente avverte il protagonista.
È un Leonardo del tutto disincantato a sentire l’urgenza del motto, prima pindarico e poi di Ireneo di Lione, ‘Diventa ciò che sei’. Come il Giuliano dell’ 
Imperatore Giuliano di Ibsen, che si chiede cosa sia la felicità se non il vivere in conformità a se stesso, come Céline che nel Viaggio al termine della notte afferma che soffriamo perché cerchiamo a ogni costo di diventare noi stessi prima di morire, Leonardo sente il bisogno di essere fedele alle sue native inclinazioni di essere umano che vuole conoscere la vita senza gli onori e gli oneri impostigli dalla sua pubblica fama di creatore. Ma è un uomo che, anche in questa nuova, insospettata direzione, non si pacifica in quella che Márai chiama la virtù di assecondare se stesso, tutt’altro. A spingerlo nella tormentata ricerca del suo stesso ubi consistam è la constatazione di vivere una vita che non è la sua. Ecco perché appena vede ‘un altro’ sé, ‘stesso corpo, stessa faccia ed espressione’ concepisce all’istante il suo progetto, il ‘folle volo’. Ma a differenza dell’Ulisse dantesco, privo della rivelazione divina e tuttavia realizzatore della sua umanità, questo Leonardo è conscio dell’esistenza dell’anima, ma allora la sua follia è in rapporto al disegno di scindersi in due pur di giungere al grado di consapevolezza ultima su se stesso e su come gli altri lo vedono. L’immagine che si è lentamente costruito ha avuto il sopravvento ed è diventata lui stesso, la maschera ha imprigionato chi l’ha costruita, e ha cancellato ‘con una mano di bianco’ il suo passato, le sue passioni più vere. La follia di Leonardo è di voler usare Manrico per proiettarsi in uno specchio e osservare quello che accade, e il voler così comprendere gli altri in sé e sé negli altri. Ma è la stessa dinamica di attrazione e repulsione fra le due ‘metà’ di Leonardo, quella pubblica-Manrico, quella privata-Leonardo, a spingere i protagonisti verso lo smarrimento della lucidità. Come a dire che l’esigenza esistenziale che fa compiere a Leonardo il gran passo dello sdoppiamento viene poi clamorosamente smentita nei suoi effetti. È una situazione pirandelliana.
Torniamo a Manrico, che costituisce per Leonardo la grande occasione per liberarsi dal senso di piacere che lo coglie quando lacera i corpi caldi di animali e cristiani. Manrico è l’occasione per un atto di bontà o di cattiveria: ‘dare a uno sconosciuto, del tutto inadeguato, forse felice nella sua landa selvaggia, la possibilità di diventare un personaggio come Leonardo.’
Ma questa assegnazione di un ruolo a Manrico fa sì che Leonardo inizi a vedere nel sosia un pupazzo, una marionetta, mentre lui, finalmente privo di catene, ‘avrebbe viaggiato nel mondo della memoria e dentro di sé, applicandosi alla dissezione della sua mente e dei suoi desideri con i coltelli affilati del tempo e della sincerità’, ove il gioco di metafore, costante nel romanzo, costituisce un coefficiente di accelerazione, di sintesi e spinta verso intuizioni fulminanti: Manrico è anche una lente per scrutare il cuore degli altri, le falsità, i commenti velenosi.
In realtà lo sviluppo dei fatti non segue la direzione prevista. Come Vitangelo Moscarda (il protagonista di 
Uno, nessuno e centomila) Leonardo non accetta le maschere che gli altri gli hanno imposto, perché gli impediscono di vivere, di capire chi lui sia veramente. A differenza di Moscarda, però, Leonardo crede di sapere qualcosa del suo io vero, ma finirà per ingannarsi, perché appunto la dialettica dei ruoli in corso fra Leonardo e Manrico renderà l’io di entrambi in continua evoluzione, ed è questo uno dei punti di forza narrativa e psicologica del testo.
Come Mattia Pascal, è alla ricerca di un’identità esistenziale che tuttavia, per motivi legati alla situazione innescata, rimarrà costantemente frustrata. Come Mattia Pascal anche Leonardo si chiede chi sia lui nella nuova vita dopo lo sdoppiamento. E anche qui c’è il problema del nuovo aspetto che vuole darsi. Ma mentre Adriano Meis, a seguito della sua libertà assoluta, senza radici, scopre l’incertezza, la delusione, tanto da diventare ‘forestiero della vita’, perché la sua libertà illimitata gli impedisce di iniziare a vivere e gli suscita il rimpianto dei beni che non aveva goduto come Mattia, il nuovo Leonardo spiega al suo sosia che l’estraneità a se stesso la provava già prima di conoscerlo: già allora aveva addosso la pelle di un altro, si sentiva ‘un asino in cerca di ombre e strapiombi’, e qui ci vien da pensare al Lucio-asino nell’ Asino d’oro apuleiano che prega la luna di renderlo a se stesso.
La sostituzione di persona non dà infatti i risultati sperati, è così che Leonardo decide di seguire Manrico-Leonardo-pubblico a Milano, Mantova, Venezia in qualità di umile servitore. E a Venezia incontra una donna che odora di sabbia e mare e si abbandona a lei, si lascia sommergere da questo battesimo, e quasi come un novello Vitangelo Moscarda ‘diventa lei’, diventa l’esperienza stessa che sta vivendo, come pura coscienza senza più nome.
Intanto il rapporto con Manrico si fa più esigente. Il sosia, non solo specchio ma persona egli stesso reclama una somiglianza, un’identità maggiore: ecco che Leonardo gli confida l’episodio scabroso vissuto in gioventù, il suo rapporto carnale col giovane Saltarelli, pagina di grande maestria. Nel ritorno da Venezia in Toscana incontrano una donna che a Leonardo ricorda l’immagine delle persone a lui più care, e che tuttavia ha ‘una faccia peggiore della morte, un urlo scavato nella roccia’ (un’immagine vivida come la Vecchia del Giorgione, la Vecchia di Lodovico Carracci, o le streghe dipinte più tardi da un Frans Hals): è allora che, vedendosi vecchio anche lui, si rende conto che il tentativo di ‘portare fuori pista il mondo attraverso il trucco del doppio’ non è servito a nulla, che Manrico non è affatto uno specchio per vedere più nitidamente ma ‘un punto d’appoggio mite e rassicurante’ che lo distoglie dalle domande autentiche. Di qui la necessità di allontanarlo da sé per rinascere, ritrovarsi.
Nel viaggio di fuga da sé stesso e da Manrico incontra personaggi come Cecco il beccaio, Matteo e Giorgio, l’assassino mite, che gli rivelano ‘immagini di una verità che stride, urla, sogghigna’, il vero volto della vita nella morte, perché solo imparando a vivere si impara a morire (come dice il Leonardo storico). Allora l’unico frutto del suo sdoppiamento e della rabbia contro il mondo e se stesso, è la scoperta che la vera trasgressione del suo secolo è la bontà, che sorride e non giudica (e qui si fa evidente l’eco del celebre passo paolino nella 
prima Lettera ai Corinzi a proposito della carità) e che è a un passo dalla poesia: ‘La bontà è la poesia: disgraziata, testarda, indistruttibile; neppure tutti i marchingegni di morte e distruzione che ho ideato potrebbero abbatterla. La poesia è la bontà perché conosce perfettamente anche il suo opposto. Eppure, per una scelta che non ha alcuno scopo pratico, nessuna convenienza, nessun calcolo, si schiera dal lato del bersaglio.’ Subito dopo la bontà è la realtà del dolore ad emergere, la materia prima di cui Leonardo sente di essere costituito: se tradisse questo dolore si dissolverebbe.
A poco a poco il viaggio del Leonardo privato sta aggregando una realtà nuova, una diversa, progressiva coscienza di sé, e questo proprio nel momento in cui non usa nessuno specchio ma, semplicemente, attinge alla vita vera, alla memoria, al corso stesso dell’esistenza. Morta nel frattempo la madre, non gli resta allora altro che diventare se stesso, frantumare le maschere, quella concreta, cioè la faccia e l’abito mentale assunti, e quella fittizia, cioè l’immagine che ha collocato nella testa e nel corpo di Manrico. Il rispetto della morte e della vita gli impone ormai di trovare la follia più autentica, la verità. E la riflessione è immediata: ‘La mia immagine riflessa, il tentativo vano di sfuggire allo specchio tramite un altro specchio, era il fardello più gravoso, la prova di un fallimento. Dovevo liberarmi da quell’ombra che stava divorando a poco a poco la carne e la mente. Il gioco si era fatto letale, la beffa si ritorceva contro se stessa.’
Leonardo riaccompagna Manrico al suo villaggio, ma sono cambiati entrambi: Manrico ha un sogno in più, lui ha dentro di sé un’illusione in meno. ‘Era come se uno scialbo incubo si accingesse ad ingoiare i resti mortali di una fiaba in un immenso sbadiglio. Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto.’
Tornato nel suo studio fiorentino riprende a indagare morte e vita, ma assapora ancora una volta la certezza della sconfitta quando scopre di aver messo se stesso in ogni personaggio dell’affresco dell’
Ultima Cena (trasgredendo le raccomandazioni del Leonardo storico): è sempre Leonardo il carnefice e la vittima di se stesso, il doppio che lo mette in difficoltà ora è il suo altro io. Ma sorprendentemente torna il doppio autentico, anche Manrico ha subito quella che potremmo chiamare la ‘fascinazione del raddoppio’, secondo un processo moltiplicatore che ha felici possibilità narrative: Manrico gli confessa che è ‘come se il suo vero essere fosse rimasto a Firenze, immerso nella bellezza e nella vita, in cammino su una strada ancora da compiere.’ Ora vuole ‘diventare un artista, non rimanere un’immagine priva di sostanza.’ Manrico sente che il suo ‘originale’ è lì, con Leonardo. Il sosia vuole diventare Leonardo proprio quando quest’ultimo decide di non esserlo più. Per raggiungere lo scopo il copista orchestra un abile ricatto. A cui Leonardo cede, anche perché si rende conto che forse l’occasione è propizia, che si è servito male del suo sosia, usandolo come un fantoccio inanimato, e ognuno è rimasto ciò che era. ‘Le analogie e le diversità dovevano sommarsi, incrociarsi e scontrarsi, generando il fuoco di un nuovo modo di sentire.’
È qui che inizia forse la parte più toccante del lungo racconto, l’incontro dei due con Madonna Gioconda. Tutto l’episodio è presentato come il contatto non con un’immagine ma con una persona viva, c’è un serpeggiante erotismo nella descrizione, una palpabile attesa di qualcosa di terreno, di corporeo, che sta per avvenire. E come un epilogo imprescindibile si giunge al momento della vera e propria fecondazione di Gioconda ad opera di Manrico. ‘Aveva gioito quella notte, e goduto, sentendosi sporca, e immacolata. Manrico aveva fecondato la mia donna. Sorrideva, Gioconda, e sorrisi anch’io, percependo nella carne un dolore che sazia, che ti umilia e ti lascia sopra un pavimento gelido, ridotto a brandelli come uno straccio di antichi orgogli.’ D’altra parte che il ritratto di una donna potesse esercitare un fascino erotico lo dice espressamente il Leonardo storico nel 
Paragone delle arti nel citato Trattato.
Naturalmente Leonardo, amante tradito, incassa il colpo e mette Manrico con le spalle al muro: ‘Non sarà certo per qualche pennellata assestata con foga casuale che ti cederò il volto della donna che ho odiato e amato per un’esistenza intera. No, vecchio mio, Gioconda resta di Messer Leonardo, in qualità di legittima consorte e metà, oscura e chiarissima, pia e maledetta’.
I due personaggi ormai si somigliano sempre più, si capiscono al volo, hanno lo stesso ghigno. Il rapporto si infiamma. Con la scusa di lasciarlo ad imparare, Leonardo tiene praticamente Manrico segregato nella bottega, mentre lui va a raccogliere gli onori per il quadro. La novità è che Manrico è troppo bravo, ha del genio, e di fronte a questa verità Leonardo inorridisce. Eppure per l’attrazione inscindibile che lo lega al suo altro da sé, Leonardo carceriere del suo sosia si presenta a lui. Dunque è ancora con Manrico che si confida, gli rivela l’umiliazione nel vedere Michelangelo realizzare la Battaglia di Cascina, mentre la sua
 Battaglia di Anghiari rimane solo ‘un tremulo abbozzo’.  E Manrico passa al comando, diventa sempre più importante il suo ruolo, tanto che la sua energia è per Leonardo il più prezioso dei regali: gli fa percepire con chiarezza ciò che lui, Leonardo, è e ciò che non è.
Manrico è ormai immedesimato in Leonardo, al punto da desiderare di andare sulla pubblica piazza a confessare il misfatto commesso dal maestro in gioventù, non più per ricatto – come aveva fatto una prima volta – ma con sincera convinzione, assumendosi ‘il rimorso per ciò che non aveva commesso’. È un chiaro segno di squilibrio, di una follia che ormai contagia reciprocamente i due. Di fronte poi alla 
Madonna con Bambino dipinta da Leonardo è Manrico a sentirsi tradito, escluso dalla ricerca pittorica del maestro, è Manrico a provare gioia, dolore, risentimento feroce: ‘Mi odiò, con tutte le sue forze, ma con gli stessi occhi di quel fanciullo che ha dalla sua tutto il tempo che vuole per regalare spazio e fiato al disegno della sua vendetta.’ E Manrico consumerà la sua vendetta quando Leonardo lo metterà nuovamente alla porta, definitivamente, rivelandogli di averlo trattenuto in gabbia solo per il suo tornaconto.
Dopo l’ultima invenzione termina il testo, con le sue vedute prospettiche, i suoi percorsi, le sue densità sanguigne, vivide, le incursioni spiazzanti, le intuizioni, i giochi interiori, i conflitti irrisolti e quelli sorti nel corso della vicenda. La tensione si scioglie, i colori si depositano sulla tela della nostra pupilla per un coagulo definitivo: ‘tutto torna, e nulla è uguale a come dovrebbe essere’.

 

Destinazioni libri – intervista

Destinazioni libri – intervista

 

Alcune osservazioni su tennis, surf, Internet, ma anche su libri, autori, esordi, personaggi, generi, gusti letterari e “Lo specchio di Leonardo”.
Una mia chiacchierata sulla scrittura con Alessandra Monaco del blog Destinazione Libri 
https://destinazionelibri.com/2016/06/22/ivano-mugnaini/

Chiacchierare con alcuni autori è davvero un piacere e immediatamente si abbattono quelle barriere che forse possono esserci per il “non ci siamo mai visti”, non ci conosciamo. Forse la passione per quello che si fa, porta immediatamente a rilassarsi e parlare come se davvero ci si conosce da parecchio tempo.
Un autore, Ivano, presentatomi da Annalaura, lei dal fiuto raffinato per i buoni libri. Anche questa volta ha colto in pieno l’essenza e il messaggio di questo autore.
Questa la nostra chiacchierata…
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Foto Recanati

Ciao Ivano, benvenuto nel nostro blog, Destinazione libri. Inizierei subito chiedendoti di raccontarci qualche cosa di te, chi sei nella vita di tutti i giorni, cosa fai oltre a scrivere?
Ciao a te Alessandra. Ti ringrazio per l’ospitalità in questo spazio riservato ai libri e ai lettori, specie rara e preziosa, più del panda, che ormai è salvo, per fortuna. I lettori in Italia sono un gruppo tenace ma non numerosissimo, al contrario. Almeno non numeroso quanto dovrebbero e potrebbero essere. Quindi gli spazi come il tuo creano delle riserve in cui la specie dei lettori si conserva, e, fattore ancora più importante, si moltiplica.
Per fare bella figura rispondendo alla tua prima domanda potrei millantare attività mirabolanti, scalatore estremo, paracadutista d’alta quota, esploratore di giungle vergini. Non è così: quando non scrivo… passo altro tempo al computer, per traduzioni, collaborazioni editoriali, articoli, recensioni, e anche per divertimento. Oppure vado al cinema, frequento i miei pochissimi ma buoni amici e pratico sport poco avventurosi e poco originali, calcio, calcetto, tennis (anche se quest’ultimo più che farlo lo guardo in televisione: vedo Federer, faccio un confronto sulle capacità tecniche, e mi dico che è meglio tornare al computer a scrivere).

Quanti libri hai pubblicato?
Ho pubblicato le raccolte di racconti LA CASA GIALLA e L’ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE e i libri di poesie CONTROTEMPO, INADEGUATO ALL’ETERNO e IL TEMPO SALVATO. Il mio racconto DESAPARECIDOS è stato pubblicato da Marsilio e il mio racconto UN’ALBA è stato pubblicato da Marcos Y Marcos. Di recente pubblicazione i miei romanzi IL SANGUE DEI SOGNI e LO SPECCHIO DI LEONARDO, di cui parliamo qui oggi.

Di cosa parla il tuo libro, Lo specchio di Leonardo?
Senza entrare troppo nei dettagli e nello specifico della trama per non rovinare la sorpresa a chi lo vorrà leggere, posso dire che Lo specchio di Leonardo si colloca in quello spazio che unisce realtà e immaginazione, passato e presente. La vita di Leonardo da Vinci è descritta seguendo riferimenti esatti, sia sul piano biografico che per la cronologia dei suoi più noti capolavori di artista e scienziato. Ma, a fianco di questi dati di fatto, sovrapposta e intrecciata, si innesta una trama che ha come perno la scoperta casuale di un sosia, una replica in carne ed ossa, fedele e perfetta, del genio fiorentino. Un “doppio”, identico a lui come aspetto esteriore ma diversissimo come mentalità, carattere e visione del mondo. Da qui il “folle volo”: l’idea dello scambio di persona e dell’inversione dei ruoli. È questa l’invenzione più estrema di Leonardo: lasciare al proprio sosia il suo ruolo di savio e docile artista al servizio dei potenti e dei ricchi mecenati e fuggire via, verso la vita vera, la sensualità autenticamente sfrenata e gli studi liberi ed eretici.
Con conseguenze importanti, avventure e disavventure, illusioni e delusioni che si dipanano passo passo fino alla sorpresa finale.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro?
Lo spunto iniziale del romanzo è nato da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo da Vinci, alle sue scoperte, al suo inesauribile talento. Veniva mostrato alle prese con gli specchi da lui studiati a lungo per scopi scientifici e militari. Mi sono interrogato, in quell’istante, sul rapporto del genio con la sua immagine. Ho provato ad immaginare il divario tra ciò che appariva al mondo, la gloria e la fama, e ciò che sentiva dentro di sé. Ho pensato al contrasto tra i suoi veri desideri e ciò che era costretto a realizzare in qualità di persona soggetta alle ambizioni dei potenti del suo tempo, signori, notabili, politicanti e ricchi mecenati.
Ho pensato cosa avrebbe fatto se si fosse trovato, per qualche accadimento favorevole, ad essere finalmente libero di agire secondo le sue più profonde e sincere inclinazioni. Come si sarebbe comportato, quali rivalse avrebbe cercato, quali piaceri e quali verità, anche nell’ambito più delicato e significativo, l’amore.

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Come definiresti il tuo libro?
Un romanzo di fantasia unita all’approfondimento psicologico. La vicenda biografica, la storia (con la maiuscola e la minuscola) e l’arte si affiancano ad una vicenda frutto di pura immaginazione che può fornire spunti di riflessione sulla natura del genio ma soprattutto può dare la conferma che qualsiasi uomo, anche il più grande, ha difetti, imperfezioni, vizi, manie e desideri che lo rendono identico, nel profondo, a tutti gli altri.

Qual‘è stata la parte più difficile quando hai scritto il libro?
Forse far combaciare la parte inventata con la vicenda reale, con i dati concreti della biografia e delle opere di Leonardo. In questo mi sono stati di aiuto ottimi libri di storia dell’arte, biografici e di psicologia.


Il personaggio che ti ha dato più filo da torcere quando dovevi descriverlo?
Direi un paio: Lorenzo il Magnifico prima di tutto, modello di perfezione apparente, in grado di esercitare una strana forma di attrazione e repulsione. L’altro Jacopo Saltarelli, il giovane fiorentino che subisce un atto di violenza, un autentico stupro, da parte di un gruppo di aristocratici fiorentini di cui faceva parte anche Leonardo. In questo caso si trattava di descrivere la pena e l’ingiustizia senza cadere nella retorica. Anche qui mi sono basato su alcuni documenti, tra cui anche gli atti del processo conservati negli archivi fiorentini.


Ti trovi alla fine del tuo libro, dove finalmente metti il tuo ultimo punto: che sensazione provi? 
Da una parte di sollievo. Scrivere è anche una corsa, alternarsi di scatti da centometrista a cadenze costanti, da maratoneta. Quindi la parola fine dovrebbe essere una liberazione. Ma c’è di più, per fortuna: ci si affeziona ai personaggi e il distacco è anche una pena. Si preferisce un arrivederci ad un addio.

Il rapporto con i lettori per un autore è importante, com’è il tuo?
Finora buono. Con numerosi lettori si è creata una corrispondenza, un dialogo. Ci scriviamo, mi danno pareri, opinioni, a volte spunti ulteriori. In genere tutto ciò si crea grazie ad affinità elettive, un modo simile di vedere il mondo e la vita. Ma ho un buon rapporto anche con alcuni lettori “critici”, nel senso che non apprezzano del tutto, o per niente, il mio stile e i contenuti. Ci facciamo belle risate: loro propongono soluzioni alternative, io rispondo che sono interessanti. Poi continuo a fare di testa mia.
Però, battute a parte, leggo tutto, con interesse, qualsiasi commento e interazione sono graditi.
E, a questo proposito, se qualcuno che legge questo articolo (e/o il romanzo) e vuole contattarmi, mi farà molto piacere ricevere le sue impressioni.
I miei recapiti sono questi: il sito,  
http://www.ivanomugnaini.it (dove è possibile trovare molte informazioni e numerosi testi) e la mia mail, ivanomugnaini@gmail.com .


Che rapporto hai con i social? 
Buono, nel complesso buono. Ho molti “contatti”, anche se so che c’è una bella differenza tra “contatti” e “amici”. Anche se sui social ho conosciuto molte persone che poi sono diventate effettivamente amici importanti per me. Sui social c’è di tutto. È un mare che contiene pesci di ogni forma, tipo e comportamento. Saperlo aiuta ad orientarsi e a cercare il meglio. Che c’è. C’è anche molto di buono tra ondate insulse, se si sa filtrare e selezionare.
Quindi tornando alla domanda numero uno, posso dire che faccio anche un altro sport: il surf. Sulle onde di Internet, provando ad evitare squali e pesci palla velenosi, e cercando qualche specie affine.

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Ivano noi ci occupiamo di esordienti, ma tu leggi esordienti?
Li leggo. Anche abbastanza spesso. Avendo la fortuna di collaborare con alcuni editori, mi vengono inviati manoscritti di autori esordienti, giovani e meno giovani. Inoltre, qualche anno fa, ho organizzato un concorso per racconti e ho ricevuto numerosi testi inediti, di cui molti di autori nuovi.
In qualche occasione, nella quantità, in mezzo al mucchio, per così dire, si trovano delle prove molto convincenti. Se c’è talento spesso la prima prova è quella in cui l’entusiasmo si abbina ad una capacità tecnica già buona. Ne vengono fuori storie fresche, vive e originali. In alcuni casi, per quanto paradossale possa sembrare, la prova d’esordio di un autore è e rimane una delle più convincenti.

Scriveresti un genere completamente opposto da quello che hai scritto?
Non posso dire di avere un genere specifico. O meglio, spazio in vari ambiti, scrivo anche poesia, articoli e critica, e, per quanto riguarda la narrativa, ho scritto racconti di vario tono e contenuto. Più che un mio genere, posso dire di avere un mio modo di scrivere e raccontare, un taglio personale che mi è proprio. Non è escluso, quindi, che possa sperimentare anche ulteriori generi, mi piace esplorare. Alcune volte, per gioco o su sollecitazione di amici o di editori, mi sono avventurato in territori narrativi in cui non avrei mai pensato di entrare, e non mi sono trovato male.
Per il momento escludo solo il rosa, e lo splatter…
Ma mai dire mai… (Quest’ultimo “mai dire mai” però, per il momento, è una battuta).

Un libro che non leggeresti mai… cosa deve avere o cosa manca? 
Non so se c’è un libro che non leggerei mai. Almeno non in modo pregiudiziale, per così dire. Ciascun libro è un mondo, e a volte anche in quelli che orbitano in altre galassie si può trovare qualcosa. Meglio magari un libro con idee diverse dalle mie, come temi e stile, ma sincero e sentito, piuttosto che, magari, un libro ben confezionato ma vuoto. Preferisco un libro non perfetto ma autentico piuttosto che uno tornito e limato ma che non trasmette niente.
Direi quindi che non ho una regola prestabilita: dovrei vedere caso per caso.

Come definisci il tuo modo di scrivere?
Non è facile riassumerlo in una formula.
Posso dire che cerco sempre di raccontare qualcosa. Non amo ciò che è puramente descrittivo o estetizzante.
Tento, a volte, di inserire, quando la trama lo consente, anche qualche cadenza poetica nella narrativa. Come inserire un canzone, o un brano lirico, in una narrazione, in una sequenza di eventi in cui si rispecchia il senso, e a volte il mistero, dell’esistenza.

A quale pubblico sono destinati i tuoi libri?
Anche qui la risposta non è agevole. Non scrivo per un “target” specifico e predefinito. Credo e spero che i miei lettori siano vari e diversi l’uno dall’altro. Il mio non è un linguaggio lineare e minimale. Ma rifuggo anche dallo sfoggio di complicazione fine a se stessa. Recentemente in un concorso letterario europeo proprio Lo specchio di Leonardo è stato letto e premiato da alcuni degli studenti liceali più brillanti di varie scuole italiane. È stato bello vedere che i giovani, spesso ingiustamente considerati “leggeri” o impreparati, hanno apprezzato una storia non facile, basata sulla psicologia, sulla storia e sull’arte. Allo stesso modo le mie narrazioni sono apprezzate da persone di tutte le età: giovani, mature e in alcuni casi molto mature. In un’altra occasione, dopo aver letto un mio racconto scritto in prima persona ambientato in una casa di riposo, una lettrice ultraottantenne mi ha scritto complimentandosi con me perché alla mia età scrivevo ancora racconti. Ho provato a dirle che non ero un suo coetaneo (anche se speravo di diventarlo un giorno) e che avevo vari decenni di meno. Non c’è stato verso: per lei ero un ospite dell’ospizio che aveva scritto un racconto autobiografico. Va bene anche così.

libri

Cosa ti piacerebbe rimanga al lettore di questo libro?
Ogni lettore trova qualcosa di personale, a seconda delle sue esperienze, del suo mondo interiore.
Ho avuto vari riscontri, finora, e ognuno ha evidenziato aspetti diversi, tutti interessanti per me, in qualche caso sorprendenti, angolature che non avevo preso in considerazione, o comunque non nel modo che mi è stato comunicato.
In generale posso dire che spero che dopo aver completato la lettura del romanzo possa restare al lettore il senso del mistero della vita, l’eterno contrasto tra bene e male, bellezza e violenza, vita e morte. Tra uomini in lotta tra di loro, ma anche all’interno di ogni singolo individuo.

Quanto sei presente tu nei tuoi personaggi? 
Molto. Nonostante tutto, nonostante le maschere e i filtri, ogni personaggio, anche il più negativo, contiene, per analogia o per contrasto, qualcosa che ho visto o che ho vissuto, fuori, tra la gente, o dentro di me.


Stai pensando ad un prossimo libro? 
Ho a disposizione vari racconti inediti, che vorrei pubblicare.
Credo molto nel racconto, anche se purtroppo questo genere, amatissimo in molte altre nazioni, nel mondo anglosassone in particolare, ma non solo, in Italia non è molto apprezzato. O meglio, molti editori non lo considerano un genere prioritario.
Spero di trovare un editore disposto a scommettere sui miei racconti.
Se lo trovo, sarò lieto di parlarne qui, se vorrete.
C’è, inoltre, un altro progetto a cui tengo molto. È in cantiere e spero possa concretizzarsi entro quest’anno. Si tratta di un libro di articoli dedicati a grandi scrittori del Novecento e ai loro luoghi di nascita, di vita e lavoro e di “elezione”. I borghi, le città e gli angoli del mondo in cui sono nati, da cui hanno tratto ispirazione e che hanno scelto come loro patria ideale.
Il libro avrà come titolo “Viaggi al centro dell’autore” e conterrà articoli e saggi brevi pubblicati nella rubrica omonima nel mio sito, a questo link: 
http://www.ivanomugnaini.it/rubrica-viaggi-al-centro-dellautore/.
Sarà un’occasione per rileggere e riscoprire grandi autori della nostra letteratura attraverso le tracce che hanno lasciato nei luoghi che li hanno ospitati e ispirati.

viaggi

Quanto è importante la copertina per il tuo libro?
La copertina è l’immagine chiave, la vetrina su cui si affaccia il lettore.
Nella copertina de Lo specchio di Leonardo c’è un volto diviso a metà, metà Leonardo, metà Gioconda: il maschile e il femminile, la bellezza e il tormento della mente, la gioventù e l’avanzare dell’età. Conflitti fatali, ma anche un’attrazione arcana, potentissima.
La copertina contiene la chiave cifrata della sciarada, l’enigma che, pagina dopo pagina, viene mostrato, indagato e risolto nel libro.

La domanda che non ti abbiamo fatto e che ti aspettavi? 
Sinceramente (e ti assicuro che non si tratta di un modo per schivare l’ostacolo) non c’è: le domande sono state varie, originali e mi hanno portato a parlare di molti punti chiave, di me e del romanzo.
Ti ringraziamo Ivano, per essere stato con noi, per averci dato la possibilità di parlare di te e presto ti rivedremo protagonista sempre in queste pagine, per parlare del tuo libro a cura di Annalaura, che come sempre ringrazio.
 
Buona lettura
Alessandra
 

Letture allo specchio (2): Maria Zimotti

Due volti di donna Dama ermellino

In questo romanzo agile e corposo l’autore ci porta nel passato alternativo di un Leonardo da Vinci in crisi di identità. Nel 1498 Leonardo da Vinci è una star acclamata. Nel corso di un viaggio tempestoso, descritto con tratti che evocano fin dall’incipit l’angoscia esistenziale che lo accompagnerà per tutto il testo, incontra un suo sosia.

Il gioco del doppio è presto fatto. Grazie a questo stratagemma Leonardo entrerà in profondità dentro se stesso utilizzando il sosia come camera di compensazione delle sue confessioni più recondite coltivando l’illusione di poter essere finalmente libero dall’immagine di sé che il mondo conosce.

Come in uno specchio, i ruoli si confonderanno alimentando i dubbi, piuttosto che risolverli.

Il lettore si trova di fronte ad un testo colto ma scorrevole che può tendere all’universalità dello stile e del contenuto per l’utilizzo di un linguaggio moderno ma non anacronistico rispetto alle vicende narrate.

Tra i diversi aspetti da sottolineare rispetto ai molteplici spunti di riflessione offerti al lettore, una in particolare secondo me vale la pena evidenziare.

In un passaggio fondamentale del testo nel quale Leonardo da Vinci fa partecipe il suo sosia, Manrico, della sua impasse rispetto al perfezionamento di uno dei dipinti che diverrà poi il simbolo stesso della sua opera, ovvero La Gioconda, è descritto mirabilmente il processo della creazione artistica dal quale si evince come ciò che fa di un’opera d’arte un capolavoro, un “quadro che parla”, è l’espressione della sua carnalità che sovrasta i secoli intatta.

Perché leggere questo libro?

Viviamo in un’epoca di surplus di produzione di testi nella sola scelta dei quali le sinapsi vanno in tilt. Anche all’interno della pubblicazione di narrativa, a livello autoriale, molto probabilmente non solo per volontà degli autori, la letteratura è diventata autoreferenziale, persa più in discussioni sterili dell’ambiente letterario che nella vera connessione con il desiderio di dire, di dire parole nuove.

In questo testo, come anche in altri di Ivano Mugnaini, ci sono parole nuove perché antiche, perché di sempre, e vi è una stretta connessione con la poesia (non a caso un’altra pietra miliare del libro è una definizione della poesia che si può tranquillamente mettere tra i preferiti delle citazioni in tema) che inserisce, come del resto detto da altri, il brivido della poesia nella narrativa, che è una caratteristica della prosa di Mugnaini.

Scegliere testi come questo è addentrarsi nelle “vie traverse” della letteratura, la letteratura “che conta”, fatta di uomini e donne la cui scrittura è libera di esercitare la vera tensione emotiva, cercando di realizzare l’alchimia tra il contenuto e la forma offrendo al lettore prima di qualsiasi altra cosa uno stile che non è maniera ma genuina espressione e sperimentazione, aldilà delle mode.