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A TU PER TU – Michele Nigro

Leggendo le risposte di Michele Nigro alle domande di A TU PER TU mi sono venute in mente in particolare due considerazioni. La prima riguarda l’atteggiamento dell’autore nei confronti di ciò che scrive. E la considerazione ha sia una valore specifico che più ampio. Nigro si definisce “un artigiano”, scrive libri intitolati “Pomeriggi perduti” e “Poesie minori. Pensieri minimi” e ha diretto la rivista letteraria “Nugae”, che, tradotto, equivale all’incirca a inezie, bagatelle, cose da poco. Qualcuno in modo più esplicito userebbe una parola con due zeta. Ebbene, a differenza di molti che si autoincensano e in realtà scrivono cose “con due zeta”, Nigro, che si esercita da anni nell’arte dell’understatement, ha una cura meticolosa e appassionata per la parola, mai banale, mai incolore e indolore. E poi, beh, c’è motivo di consolazione se anche gente come Catullo, Orazio e Petrarca hanno definito “nugae” alcuni loro scritti.  La seconda considerazione la introduco citando un passaggio di una delle risposte di Nigro: “Il termine poeta è stato confinato a identificare solo ed esclusivamente il componitore di versi, ma per fortuna non è così: poeta, nella sua accezione creativa, è anche il narratore”. Personalmente ho trovato questo spunto interessante, in grado di generare un potenziale dibattito tra chi concorda e chi dissente. Lo stesso vale anche per altre osservazioni di Nigro inserite nell’ambito delle risposte. L’invito è quello di sempre: leggete se avete tempo e modo l’intervista e chissà che non vi venga voglia di leggere anche altro.
Buone letture, IM
                          A TU PER TU
                       UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM

5 domande

a

Michele Nigro

 

1) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie a te per questa opportunità. Non mi sono mai fidato degli autoritratti: peccano di omissioni o di adulterazioni dell’io. Volendo autodefinirmi dal punto di vista prettamente letterario posso dire con onestà e serenità che, pur non essendo un letterato, credo di essere almeno un artigiano della parola, un cercatore di senso e di verità prima di tutto per me stesso e magari anche per uno sparuto gruppo di lettori. Se la narrativa breve mi ha fornito qualche piccola soddisfazione soprattutto in passato, è la ricerca poetica a piantare i veri paletti lungo il confine della mia terra interiore. Una ricerca in fieri che sicuramente sposterà questo confine verso altre direzioni creative.

 

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Il mio ultimo libro è una raccolta di poesie intitolata “Pomeriggi perduti” (ed. Kolibris, 2019) con la prefazione del poeta Stefano Serri. Avevo bisogno, come già accaduto con la prima raccolta “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0, 2016), di materializzare i miei versi, di poterli toccare, di osservarli fissati su carta non per un effimero capriccio autoreferenziale, dopo essere stato (e lo sono ancora) un fautore della cosiddetta web poetry: importante e per certi versi rivoluzionario è stato l’approdo, non recente, della poesia in internet; molti lettori mainstream hanno scoperto poeti sconosciuti o di nicchia, molti poeti sconosciuti hanno potuto far veicolare i propri versi al di là di una cernita editoriale diventata poco credibile nelle intenzioni letterarie e più orientata verso esigenze commerciali o di “autorevolezza” di autori già affermati.

In questa seconda raccolta, a differenza della prima più didascalica e discorsiva, ho diluito con sobrietà e con una maggiore asciuttezza stilistica ricordi, eventi esistenziali, sensazioni estemporanee, persone e personaggi da immortalare, escursioni filosofiche nel quotidiano, verità interiori bisognose di essere fermate nel tempo, capisaldi della vita che andavano onorati, luoghi importanti che da sempre nutrono il corpo e l’anima; e poi la poesia, oggetto di se stessa.

Il concetto di aspettativa, soprattutto in poesia, dovrebbe essere abolito: è deleterio, consuma le energie genuine dell’autore, ne inquina gli intenti inizialmente puri, lo rende schiavo di idee malsane. Come scrivo proprio in una poesia della raccolta, Aspirazione: “Che le parole / dalla silloge di maggio / siano fortuiti guanciali / su cui riposare / senza fretta, / conforto alla vita / appigli regalati / a sconosciute anime. […]Balsami scritti / anche per uno solo / dei lettori raminghi, / parentesi tra gli orrori del mondo / oasi di riflessione per cuore di donna…”. Bisogna curare la propria creatura, promuoverla, ma senza creare catene con essa, ed è bello anche vedere i propri versi tradotti in altre lingue (come mi è capitato con alcuni componimenti tratti da questa raccolta e tradotti in inglese, spagnolo e portoghese): la sensazione di leggersi con altri suoni di linguaggi usati in luoghi diversi del mondo è liberatoria; si ha la consapevolezza che qualcosa di tuo, di intimo, appartenga a un territorio, non solo geografico, più vasto di quello a cui si è abituati; che quel qualcosa, come un figlio, se ne vada in giro per il pianeta.

Ho particolarmente apprezzato un passaggio in una recensione a “Pomeriggi perduti” che apparirà a dicembre su una giovane e interessante rivista letteraria, e del cui autore mi riservo di non fare il nome per una questione di correttezza nei confronti della testata che ci ospiterà: “… Risponde a un’eco classica la poesia che Nigro modula su filatrici moderne…”. Credo che in questa frase lapidaria – estrapolata da un lavoro critico ben più ampio – siano riassunti non solo la descrizione della mia ricerca poetica, che giustamente oscilla tra una tradizione che “condiziona” e inevitabilmente permea il testo, e l’evoluzione del linguaggio quotidiano – al di là di ogni vacuo sperimentalismo – che non può lasciare indifferente il poeta, ma anche il raggiungimento (inconsapevole?) di quello che potrebbe essere definito uno stile. Proprio, personalissimo, disorganizzato, non generalizzabile e non rappresentativo, sicuramente destinato a tramontare o quantomeno a diluirsi in un’epoca, a non lasciare traccia o a evolvere in qualcos’altro. Forse a ritornare nel flusso arcaico e immemore delle parole nate con il mondo.

 

3) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?

In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?

Mi piacciono le contaminazioni (termine non molto amato in questo periodo!), non riuscirei a essere un purista coerente. In passato mi sono cimentato nella scrittura di racconti, anche di genere fantascientifico, e di tanto in tanto, come se mi assegnassi da solo un esercizio, li ri-edito, li rimastico, perché credo che la riscrittura, il rivedere con occhi evoluti le proprie parole, sia molto più importante che sfornare spasmodicamente nuovi testi. Lo stesso vale anche in poesia, ecco perché credo, sì, nella pubblicazione delle raccolte, senza per questo esasperarne gli obiettivi finali: spesso poesie di differenti sillogi convergono in un nuovo progetto che le accomuna, che le trasforma riassegnandole, donando al lettore attento un nuovo approccio, un rinnovato punto di vista sullo stesso componimento collocato in un contesto diverso.

In trascorse occasioni ho avuto modo di intercalare la poesia in flussi narrativi: occorreva farlo non solo per interrompere lo schema del testo, ma soprattutto per fornire liricità a una storia che non aveva intenzione di evolvere in maniera didascalica e descrittiva. Quando l’ho fatto in un contesto fantascientifico, compiendo certi innesti tra prosa e poesia, ho cominciato ad assaporare il significato di un ibridismo che per molti è sacrilegio.

In un futuro progetto riguardante la mia terra di origine – la Lucania -, che non so quando riuscirò a realizzare perché richiederà tempo e stanzialità (per titillare un genius loci senza il quale farei ben poco!), la commistione tra poesia e prosa sarà la regola, la struttura non casuale dell’intero edificio.

La specializzazione è una gran bella virtù, ma quando il purismo diventa fanatismo, allora vuol dire che è giunto il momento di prendere le distanze da certe posizioni. Il termine poeta è stato confinato a identificare solo ed esclusivamente il componitore di versi, ma per fortuna non è così: poeta, nella sua accezione creativa, è anche il narratore.

 

4) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra gli autori classici che tra quelli contemporanei?

Pur essendo un individualista in senso lato, non solo artisticamente, recentemente ho lanciato dal mio blog un’iniziativa intitolata “Scambiamoci i libri!” tendente a stimolare appunto uno scambio di testi editi tra autori di poesia; non solo uno scambio di recensioni, in una reciprocità obbligata, bensì un modo per conoscere e ri-conoscersi, per tastare il polso della poesia italiana contemporanea, almeno tra quelli che pur avendo superato il livello “esordiente” non hanno ancora raggiunto un certo tipo di visibilità automatica come accade a pochi eletti. Come motto avrei voluto usare “Leggiamoci da vivi!” ma temevo di risultare macabro e di ricevere uno scaramantico feedback negativo: il fatto è che la retorica dell’autore morto, e il fascino derivante dal trapasso che inesorabilmente determina la positiva rivalutazione d’ufficio dei suoi versi, è una sciagura per il poeta longevo.

Il rapporto con gli altri autori è altalenante e dipende dalla chimica che si viene a creare: con la maggior parte ci si ignora (anche se, grazie ai tanto vituperati social, le occasioni di interazione si sono moltiplicate), con altri si interagisce proficuamente in vista di una reciproca promozione; rari sono i casi in cui si verifica un’autentica e profonda compenetrazione tra le poetiche, stimolata da un reale interessamento per l’altro: quando questo avviene è meraviglioso e le parti ne escono arricchite.

Non amo le gang bang poetiche, sia quelle fisiche che le cartacee; non amo le “agende dei poeti” organizzate a fine anno in una sorta di martirologio letterario. In passato sono volontariamente caduto nel tranello di antologie concepite per spillare soldi, ma l’esperienza è ciò che ci permette di accantonare certi vissuti per non ripeterli. L’individualismo deve essere usato come un filtro qualitativo e non percepito come una condanna.

I miei punti di riferimento oscillano tra passato e presente: mi piace spulciare tra la storia, ma non resto prigioniero di alcun tempo: ho amato Edgar Lee Masters, Walt Whitman, Pablo Neruda… Non so quanto la lettura dei grandi del passato influisca sulla ricerca di una propria voce e francamente non m’interessa saperlo: a volte qualche recensore scorge sprazzi di somiglianza, individua piccole analogie con autori importanti, ma la cosa non mi eccita.

Il “difetto” dei contemporanei è sempre lo stesso: sono vivi. Riconoscerne l’influsso sul mio presente richiede sforzo, maturità, lavoro analitico onesto: doti che non sempre mi riconosco anche se le mie recensioni sono apprezzate. Ma è un’operazione che va svolta: per contrastare il solone che è in noi.

 

5) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

 

Da un punto di vista strettamente personale i vari lockdown non hanno cambiato più di tanto le mie abitudini, tranne per alcune libertà a cui ho dovuto rinunciare come tutti, e che con troppa superficialità davo per scontate: nel senso che conducevo già una vita piuttosto riservata, equilibrata, non bisognosa di eccessi, e avevo già attuato da anni un certo distanziamento culturale prim’ancora che fisico e sociale come esigono le disposizioni in materia di prevenzione. Per “culturale” non intendo il numero di libri letti, bensì certe scelte qualitative (più che quantitative) dal punto di vista esistenziale che non mi hanno fatto percepire alcuna deprivazione. Mi mancano i viaggi e le folle nei concerti rock, questo sì, lo ammetto: ma so che torneremo a spostarci liberamente e a rivalutare la qualità del nostro viaggiare, caso mai rispolverando un localismo per troppo tempo snobbato in nome della falsa filosofia delle grandi mete.

Le mancanze registrate dalla massa e i vari isterismi che ne sono conseguiti hanno interessato soprattutto chi aveva strutturato la propria esistenza su falsi valori e su esigenze effimere. Al netto delle morti e dei disagi economici che si stanno verificando purtroppo in quasi tutte le nazioni del pianeta, per me la quarantena è stata una vera e propria manna: ho letto e scritto di più (soprattutto in riferimento a elementi culturali che ben si amalgamavano con le vicende in corso), non ho ricevuto le visite di rompiscatole, ho ascoltato musica e visto film che aspettavano di essere visti, ho partecipato a eventi culturali via social, ho coltivato nel mio piccolo le cose che fino ad allora avevo trascurato… Certo, il prezzo di questa manna è stato ed è altissimo.

Forte e interessante è stato il dibattito scaturito all’indomani della pubblicazione su “Poliscritture” di un mio articolo intitolato Elogio del post apocalittico: alla maggioranza delle persone dà fastidio collocare quest’epoca storica difficile nell’ambito di un’evoluzione in atto, che lo si voglia o no; potrà sembrare cinico, ma chi è avvezzo alla fantascienza distopica è arrivato preparato all’appuntamento e ha avuto un approccio differente nei confronti della pandemia da Covid19: tutto quello che stiamo vivendo, e molto altro ancora che mi auguro di non vivere, è stato ampiamente “profetizzato”, analizzato e descritto dal punto di vista narrativo in numerosi romanzi di genere. Si tratta di “scenari noti”.

Quella che manca (ed è bastata un’estate di rilassamento per tornare a scatenarci come se nulla fosse accaduto) è una seria riflessione, sia personale che comunitaria, sull’evoluzione del nostro modus vivendi, sul non ritorno a quella parte di “normalità” deleteria. Non nutro troppe speranze sul cambiamento delle abitudini dell’umanità, se queste non sono incoraggiate da cambiamenti drastici derivanti da decisioni prese a monte: gli opportunismi del capitalismo sono alimentati dalla nostra pigrizia e ci nascondiamo dietro l’invenzione di “dittature sanitarie”; un mio articolo, pubblicato sul blog in piena quarantena, s’intitola proprio “Cast Away” e la retorica del saremo migliori. Una retorica che ha alimentato e sta alimentando un linguaggio pubblicitario speranzoso e mirante esclusivamente a un tornaconto economico: parole come “ricominciare”, “rinascita”, “resilienza”, “ritornare”, “riabbracciarsi”, “risollevarsi”, “rialzarsi”, espressioni come “ce la faremo”, “andrà tutto bene”, rappresentano i cavalli di battaglia di una neolingua post-pandemica di stampo commerciale che ci terrà compagnia per molto tempo.

Credo molto di più nei micro-cambiamenti individuali che diventano lentamente esempi diffusi o da diffondere. Che diventano cultura. L’ideale sarebbe evolvere senza esserne costretti da decreti o pandemie.

Sarò sincero: non credo molto nella qualità letteraria delle cose scritte sull’onda emotiva causata dalla pandemia; è un evento non metabolizzato perché ancora in atto, e non abbiamo la visione d’insieme, la distanza temporale necessaria a scriverne in maniera equilibrata. So che stanno nascendo antologie dedicate e molti autori prolifici sfornano romanzi ambientati nell’era covid come se fosse una pagina storica ormai superata e digerita. Io dico che sarebbe molto più onesto attendere, anche anni, far sedimentare gli eventi e lasciare che l’argomento penetri lentamente, senza nominarlo, nella nostra prosa e nella futura poetica.

Poesie da

Pomeriggi perduti

 

Privé

Quel vostro club privé

dopolavoro per manovali

vogliosi, poco spirituali

tantra occidentale,

con l’ingresso, lembi di un’inguaribile

ferita

a volte nascosto

da fitta vegetazione capigliata

altre ancora glabro come un glande

che accoglie tra

pioggia calma che bagna

senza giungere da nubi

il sentiero reso facile

al viandante eretto

ma non eretico.

Un ariete di carne e sangue

per sfondare porte

aperte, umide di

desiderio lasciato libero,

ed entrare nella

calda stanza

di una finta immortalità.

Al termine

di movenze mai spiegate

bianchi muezzin

dall’alto di minareti a tempo

annunceranno il segreto

della vita umana in questo mondo.

***

Caffè Albania

Ricordi il caffè degli albanesi,

l’angolo cieco e sicuro di Roma dove

s’intrecciavano le mani rassegnate

degli amanti

prima di un altro addio?

Quella dolce gioia dolorosa

poetica fonte di parole che

hanno scavato a lungo in noi

stanotte ha trovato conforto

non in nuove carezze di donna

come tu pensi

ma nel suono lieve di una fontana

lontana, circondata dal silenzio

del buio stellato e delle amicizie spente.

Attendevo da anni

di riscoprire quel rito giovanile

dell’acqua bevuta in città deserte

tornando dai goliardici viavai

che precedono l’alba

di rinnovate speranze.

***

Bisaccia

Era il tranquillo  fumo

di sospirati sigari lucani

che, fuggendo dalla città

mi accoglieva d’estate

disteso su balconi isolati.

Sul confine tra antiche terre

torno a respirare

un’aria filtrata dalla pietra,

all’ombra serale

del castello ducale.

In una casa bassa

aperta sul paese

strusciante di anime in altura

due vecchi senza più desideri

e stanchi di vita

con le spalle rivolte al mondo

guardano la tivvù.

Non li scalfiscono

le letture dei poeti.

Michele Nigro, nato nel 1971 in provincia di Napoli, vive a Battipaglia (Sa) dal 1978. Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli per giornali e riviste. Ha diretto la rivista letteraria “Nugae – scritti autografi” fino al 2009. Ha partecipato in passato a numerosi concorsi letterari ed è presente con suoi scritti in antologie e periodici. Nel 2016 è uscita la sua prima raccolta poetica – che ama definire “raccolta di formazione” – intitolata “Nessuno nasce pulito” (edizioni nugae 2.0). Ha pubblicato “Esperimenti”, raccolta di racconti; il mini-saggio “La bistecca di Matrix”; nel 2013 la prima edizione del racconto lungo “Call Center”, nel 2018 la seconda edizione “Call Center – reloaded” e la raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”. Nel 2019, per i tipi delle Edizioni Kolibris, viene pubblicata la raccolta di poesie intitolata “Pomeriggi perduti” (collana di poesia italiana contemporanea “Chiara”), che è anche il nome del suo blog. È del 2020 il volume 2 della raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”. Alcune sue poesie sono state tradotte in portoghese, inglese e spagnolo.

Le distrazioni del viaggio

 

Il 30 novembre nell’ambito degli incontri letterari organizzati dall’Associazione AstrolabioCultura presieduto da Valeria Serofilli ho avuto modo di dialogare con Annalisa Ciampalini riguardo al suo libro Le distrazioni del viaggio. Ne sono nate domande, curiosità e interrogativi a cui Annalisa ha risposto in modo sempre originale, mai scontato, abbinando lucidità di visione e passione espositiva. Riporto qui di seguito le mie domande (anche quelle da un milione di euro, interessi compresi) e le risposte dell’autrice, sempre all’altezza.
Buona lettura, IM

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Risultati immagini per annalisa ciampalini le distrazioni del viaggio

Pisa 30 novembre 2018

Annalisa Ciampalini, Le distrazioni del viaggio, Samuele editore, 2018

1 ) La prima considerazione è di carattere fisico, spaziale, ma sappiamo che tutto nella scrittura ha un senso e risvolti tematici e simbolici.

Il tuo volume è condensato, l’impressione è che tu abbia voluto offrire il frutto di lunghe e accurate “decantazioni”.

È una tua caratteristica costante la scrittura sintetica, densa, deliberatamente racchiusa nell’arco di versi brevi, oppure è correlata alla genesi specifica di questo libro?

La scelta della concisione è legata anche ai tuoi studi, al tuo legame con la matematica o si tratta di percorsi paralleli senza punti di incontro?

I tuoi modelli letterari, infine, hanno influenzato questa tua caratteristica?

A: Sicuramente la mia formazione scientifica ha contribuito all’essenzialità del modo di esprimermi, a volte rintracciabile anche in prosa. I modelli letterari, ossia gli scrittori e i poeti che leggo con assiduità e che amo, credo influenzino soprattutto l’atmosfera dei miei componimenti piuttosto che la scelta del verso. Spesso di certi poeti mi affascinano il ritmo e la melodia che le parole formano e assieme a questo il sentimento di uno stato d’animo che pur non essendo mio, mi pare di sfiorare. È anche da simili stati emotivi che la mia poesia prende vita. In questa raccolta i componimenti sono più brevi rispetto ai precedenti, questo perché ho scelto di lasciare inespressa la connessione tra le esperienze terrene e quotidiane dell’individuo e la sua parte spirituale che in questo libro viene privilegiata.

 

2 ) L’esergo del libro, proprio di tutti i volumi della collana Scilla di Samuele editore, riporta versi di Paolo Ruffilli, con una sua personale variazione sul tema del “carpe diem”. Come ti collochi rispetto alla tradizione, sia quella classica che quella contemporanea? C’è un’influenza diretta o si tratta solo di spunti, di occasioni di riflessione?

 

A: L’editore Alessandro Canzian ha deciso di adottare i bei versi di Ruffilli come motto per la collana Scilla. Sono stati scelti con cognizione di causa, e io mi ci rispecchio in quanto credo che il concepimento di un verso sia un atto breve e raro, un attimo particolare in cui decidiamo di cogliere qualcosa che non ci appartiene del tutto e di farlo nostro. Ad ogni modo, nell’ultimo verso, Ruffilli riporta quasi per intero il paradigma del verbo carpere, e non possiamo non pensare ad Orazio. Sono affezionata alle Odi di Orazio che risuonano ancora dentro di me dopo averle lette al liceo rispettando la metrica latina. Orazio ci dona una riflessione esistenziale profonda, da cui deriva un’esortazione a vivere la gioia dell’attimo presente, senza che venga offuscata dall’incertezza e dalla preoccupazione per il futuro, in quanto niente possiamo sapere dei giorni a venire. Sono perfettamente d’accordo con questa visione della realtà. Non condivido invece l’idea di vivere solo per il presente, non ricordando il passato e non considerando i progetti per il futuro.

 

3 ) Ci sono riferimenti nel tuo libro ad ambiti di studio scientifico, a tratti psicanalitico, in particolare c’è uno scavo accurato del rapporto complesso tra l’io e il mondo esterno, gli altri, e l’indagine sulle “aree grigie dell’ignoto”. Ma ci sono, in modo indiretto ma percepibile, riferimenti anche ad altre arti: il rapporto tra luce e buio, tenebra e visione, ricordano, ad esempio, certi quadri di Caravaggio. Si tratta di semplici riferimenti casuali o sono fonti di ispirazione?

A: Caravaggio è un pittore che amo molto, che mi suggestiona profondamente e mi fa sognare. Non ho scritto nessuna poesia del libro pensando o guardando un’opera precisa di Caravaggio, ma sicuramente l’alternarsi del buio con la luce è un’immagine che mi ispira molto, mi dà il brivido necessario per scrivere. La luce della conoscenza, le aree grigie dell’ignoto, e il confine sempre mutevole tra queste due regioni che mai troveranno una netta separazione sono linfa vitale per i miei versi. E in Caravaggio la luce è piena e le tenebre profonde, troviamo passione e mistero che si lasciano guardare, che ci invitano a lanciare lo sguardo oltre i margini che delimitano l’opera.

 

4 ) “Le finestre al mattino / ci guardano, sognano il viaggio che faremo”, scrivi nella lirica di pagina 42.

Calderon de la Barca sosteneva che “la vita è sogno”. Alcuni secoli dopo Garcia Lorca replicava che “la vita non è sogno”. Tu come ti collochi? Da quale parte ti schieri?

A: Non sono portata a condividere pienamente l’affermazione di Calderon de la Barca, e non perché la consideri in assoluto eccessiva o errata, ma perché percepisco il sogno e la vita in modo profondamente diverso. I sogni non sottostanno alla pesantezza delle leggi fisiche, ad esempio, nei sogni certe cose possono trasformarsi inaspettatamente in altre senza che vi siano cause o conseguenze precise, in una leggerezza anomala. Io nella vita avverto pesantezza e gioia, l’inerzia che si oppone al mutamento, o il mutamento spiazzante che richiede fermezza d’animo e grande coraggio. Invece mi pare che il sogno abbia caratteristiche differenti, che si accordano con una levità non propria della vita. Ad ogni modo esiste l’immaginazione e tramite quella possiamo concepire la vita come vogliamo. Durante il tempo di lettura di una poesia, la vita può essere percepita nella modalità che più ci aggrada, adeguandoci alle sensazioni ispirate dai versi.

 

5 ) Nella prefazione al libro Monica Guerra osserva che “la lingua dei numeri non è mai esercizio scientifico nei versi di Annalisa Ciampalini, bensì metafora del vano”. Come consideri e come vivi il rapporto tra il mondo dei numeri e quello delle parole?

A: Nel mio modo di vedere vi è un profondo rapporto. Se come mondo dei numeri intendiamo la matematica, in essa, proprio come nella letteratura, l’immaginazione ha un ruolo fondamentale. La risoluzione di un esercizio significativo in matematica richiede una buona dose di immaginazione, la stessa materia prima che si impiega nella stesura di un romanzo, nella scrittura di un componimento poetico. Credo che l’immaginazione sia una delle facoltà più rilevanti del genere umano, quella cosa che permette alla mente di fare dei veri salti. La matematica, come la letteratura, le scienze e le arti in generale nascono anche grazie all’immaginazione. I vari ambiti differiscono per conoscenze, per tecnica, ma l’immaginazione è comune.

 

6 ) Il tema del paesaggio è centrale nel tuo libro.

Ma è un paesaggio, per fortuna, che non è mai solamente sfondo o occasione per realizzare dei quadretti di maniera o delle nature morte tramite i versi.

Quando e come accade, a tuo parere, che il paesaggio diventa specchio dell’uomo?

A: Credo che il paesaggio che ci circonda e l’essere umano stabiliscano una relazione fin dal loro primo incontro. La retina del neonato è in primo luogo impressionata dall’immagine materna e poi dalle altre figure significative che gli ruotano attorno. Il paesaggio non ha sembianze umane, ma ha un’immagine ben precisa che il bambino osserva quotidianamente. Immagino che fin dalla prima infanzia, quando la mente è molto attiva nello stabilire corrispondenze tra oggetti e nomi, e poi concetti, si cominci a dare un significato preciso al disegno del paesaggio. L’andamento della linea dell’orizzonte, la salita di una strada, la vista del mare possono assumere significati che corrispondono allo stato d’animo di una persona o ai pensieri. Credo che il motivo per cui il paesaggio ricorre molto spesso nelle poesie sia anche questo: già Leopardi nel suo Zibaldone ci dice in modo mirabile la corrispondenza tra un paesaggio e l’idea di indefinito. Quindi il paesaggio è specchio dell’uomo, inteso soprattutto come essere pensante e vivificato dalle emozioni.

 

7 ) Ci sono riferimenti nel libro a poeti come Bruno Galluccio (anche lui di formazione scientifica), e a Rainer Maria Rilke e torna in modo ricorrente Tomas Tranströmer che identica la mente come il luogo in cui il vuoto si congiunge con il pieno.

Una domanda da un milione di dollari (o euro): di cosa è possibile riempire il vuoto, nella poesia e nella vita? Ossia, cosa resta, alla fine di tutto?

A: È davvero una domanda da un milione di euro. Forse ognuno di noi è chiamato a trovare un senso per la propria vita, probabilmente vi sono individui che lo fanno senza nemmeno pensarci, quasi fosse un esercizio imposto ed eseguito meccanicamente. Una pratica spontanea, come respirare. Per altre persone risulta più difficile, e sebbene la vita sia piena di cose da fare resta sempre contaminata dal vuoto. La presenza del vuoto, all’interno di una vita, può anche essere accettata, vista come necessaria e non temuta. Nella poesia il vuoto può essere una condizione imprescindibile affinché si crei una scrittura piena di significato. La scrittura di Tranströmer, che tu hai citato e che io amo, prende spesso inizio da un’esperienza di vuoto, entità che per noi è invisibile. Ma la poesia, a volte, trova senso proprio quando vuol nominare l’invisibile, dare corpo all’immateriale.

 

8 ) Il titolo del libro è efficace e particolare.

Distrazioni è un vocabolo che racchiude in sé più significati. Quali ti sono più cari e quali hanno fatto sì che venisse scelto come parola cardine del tuo libro?

A: “Distrarmi dal mio viaggio/ appiattirmi lungo il tuo occhio”. Questi sono i versi che aprono la prima sezione della raccolta e che si intitola “Fuori da noi”. Distrazione indica, nel caso del titolo del libro, l’istante anomalo in cui l’ego perde forza e siamo inclini a vedere l’altra persona in modo diverso, quasi fosse parte di noi. Il termine viaggio è da interpretare come la sequenza degli istanti che formano una vita. Quindi il titolo del libro vuol dare significato a quei rarissimi momenti in cui ci distraiamo dalla nostra esistenza che perciò diventa fragile e indifesa, penetrabile da altre esistenze. Processo, questo, che può non verificarsi mai, oppure può avvenire spontaneamente, senza che vi sia una ricerca.

 

9 ) Nella poesia di pagina 20 si leggono questi versi: “il tuo pensiero lento / cerca un rumore bianco, / t’inchioda nell’ossessione di un ricordo”. Quello del tempo è il punto chiave, in poesia e non solo.

Qual è il tuo rapporto con il tempo? Come lo definisci e come lo vivi.

 A: Il mio modo di concepire il tempo è forse quello più scontato: un tempo lineare, con gli istanti posizionati su una semiretta, un tempo che non torna mai indietro, una serie di processi irreversibili. Ma alla fine non conta molto la definizione che ci sembra più razionale o la concezione astratta, l’importante è come si vive. Sono una persona ansiosa e il tempo non mi basta mai. Vorrei vivere più di una vita, assaporare i sentimenti degli altri, sentirne il gusto delle emozioni. Come dire: una vita è troppo poco. L’immaginazione, la scrittura, l’arte in generale e le persone reali mi aprono mondi sempre nuovi, mi aiutano a vivere con curiosità il tempo che passa. Poi c’è il tempo di lettura: la durata di lettura di una poesia o di un romanzo è un tempo che obbedisce a splendide leggi ignote.

 

10) A pagina 27 si parla di un dio che “tace sempre”. Che rapporto hai con il mistero di questo silenzio continuamente da interpretare?

A: Forse un silenzio assoluto non c’è mai stato, immagino che qualche rumore abbia sempre risuonato nell’universo. Certo è che il linguaggio dell’uomo, quello che usiamo in poesia, nasce dal silenzio; prima del suono della parola originale vi era silenzio. A volte chi scrive avverte l’urgenza di andare oltre la parola più usata, di ricercarne l’origine remota, quel suono inarticolato e breve al confine col silenzio e che a un certo punto iniziò a significare qualcosa. La poesia, poi, è anche il luogo del non detto: servono spazi bianchi e parole taciute affinché il lettore possa trovare un posto dove accomodarsi e iniziare a far parte del testo.

 

11 ) La tua poesia di pagina 48 evoca “la mente” e qualche verso dopo “un miracolo semplice di corpi caldi”. Tra carnalità e pensiero c’è uno iato, un divario, o sono parte di un tutto condiviso?

A: In questa raccolta la mente e il corpo sono divisi; divisi in quanto differenti e in quanto collocati in spazi diversi. La mente occupa gli spazi alti, il corpo è confinato a occupare i piani bassi a causa delle leggi fisiche a cui è soggetto, leggi che poi diventano anche simboli. La “casa rasoterra” è il luogo del corpo, un luogo in cui imperversa il tempo e l’usura, ma anche luogo di attesa, di tensione verso l’alto. Verso i pensieri che ci salvano e che sfioriamo appena.

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Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta L’istante si dilata con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta L’assenza edita da Ladolfi Editore. Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore. Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro Pierino Porcospino e l’analista selvaggio (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori. Il suo ultimo libro è Le distrazioni del viaggio (Samuele Ed. 2018)

 

 

LO SPECCHIO, IL DOPPIO, LE MASCHERE

Trascrivo qui di seguito il saggio di Marco Righetti sul tema dello specchio, del doppio e delle maschere, ispirato dalla lettura del mio romanzo “Lo specchio di Leonardo”.
È stato pubblicato originariamente su Poetarum Silva, a questo link: https://poetarumsilva.com/2016/07/19/lo-specchio-il-doppio-le-maschere-di-marco-righetti/ .
Merita una lettura, a mio avviso, nonostante sia piuttosto lungo e corposo, per l’ampiezza e l’accuratezza del lavoro e per la ricchezza e la varietà delle citazioni e dei riferimenti intertestuali, letterari ed artistici.

Grazie a Marco, ad Anna Maria Curci per l’ attento e prezioso lavoro di editing svolto sul testo, e a Poetarum Silva per l’ospitalità.

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Lo specchio, il doppio, le maschere, saggio breve di Marco Righetti sul romanzo Lo specchio di Leonardo di Ivano Mugnaini.

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 Lo spunto iniziale del romanzo è nato da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo da Vinci, alle sue scoperte, al suo inesauribile talento. Veniva mostrato Leonardo alle prese con gli specchi da lui studiati a lungo per scopi scientifici e militari. Mi sono interrogato, in quell’istante, sul rapporto del genio con la sua immagine. Ho provato ad immaginare il divario tra ciò che appariva al mondo, la sua eclatante gloria e la scintillante fama, e ciò che di intimo sentiva dentro di sé, nella sua interiorità autentica. Ho pensato al contrasto tra i suoi veri desideri e ciò che era costretto a realizzare in qualità di persona soggetta alle ambizioni dei potenti del suo tempo, signori, notabili, politicanti e ricchi mecenati. Non ultimo, ho pensato al contrasto tra il bianco e il nero, il buio e la luce, il bene e la malvagità che anche Leonardo, come ogni altro uomo, ospitava dentro di sé: il lato in ombra, i chiaroscuri e i contrasti più laceranti forzatamente nascosti per motivi di opportunità e per mantenere vivo il suo prestigio.
Ho pensato cosa avrebbe fatto Leonardo se si fosse trovato, per qualche accadimento favorevole, ad essere finalmente libero di agire secondo le sue più profonde e sincere inclinazioni. Come si sarebbe comportato, quali rivalse avrebbe cercato, quali piaceri e quali verità, anche nell’ambito più delicato e significativo, l’amore.
L’accadimento favorevole è l’incontro casuale con un suo sosia, una persona identica a lui per l’aspetto fisico ma diversissima come carattere, inclinazioni, modo di vedere e di pensare.
L’incontro inatteso con il suo “doppio”, Manrico, un copista ottuso e acuto, ingenuo e profondo, gli dà la possibilità di progettare per sé la più complessa delle opere, la vita, un’esistenza diversa, autentica. Leonardo decide di affidare al sosia il ruolo del genio saggio, conscio, adatto al ruolo e al mondo, per poter fuggire da sé dedicandosi finalmente alla scoperta della vera follia, le passioni, il sesso, la sincerità, il bene e il male. Il percorso di trasformazione è ritmato dai quadri più significativi di Leonardo, lasciati volutamente incompiuti oppure abbandonati per eccesso di coinvolgimento, un dialogo mai concluso, un dubbio mai risolto.
L’affresco de 
La Battaglia di Anghiari, innanzitutto, dipinto a fianco del rivale, Michelangelo, e lasciato a metà nel momento in cui, anche grazie a Manrico, scopre il senso reale di quella celebrazione di un massacro che gli era stata commissionata dal partito al potere.
Ma soprattutto il gesto del sosia, un atto di passione, anche schiettamente sessuale, fornirà la soluzione, e insieme un ulteriore elemento di dubbio, al quadro più amato e odiato, 
La Gioconda. Dopo una serie di prove e avventure in cui, ancora una volta, la montagna più alta da scalare si rivela la verità, la fedeltà nei confronti delle proprie idee e convinzioni, Leonardo si avvicina al proprio doppio, per poi distaccarsene, e alla fine avvicinarsi ancora, sentendo una beffarda, dolorosa affinità. A Manrico Leonardo rivela i suoi ricordi più oscuri e tormentati, le violenze, le colpe, i peccati, i torti commessi e subiti, gli attimi in cui è stato vittima e carnefice. A fianco di ogni passo, ogni svolta del sentiero, c’è la lotta per la comprensione di ciò che davvero conta: la bellezza, la dignità umana, il mistero del tempo, della bontà, dell’amore. Lo scontro vitale più aspro è quello tra la complessità e la linearità, i dettagli e la prospettiva, gli incontri e le memorie essenziali: uomini e donne conosciuti per caso e traditi per una vita intera, o il ricordo della madre, fonte per lui di un conflitto mai risolto.
Alla fine tuttavia il nodo da sciogliere, il vero resoconto, è quello con se stesso e con il proprio alter ego: nell’istante in cui Manrico lo tradisce, facendolo accusare di un grave crimine, Leonardo acquisisce paradossalmente la forza e la chiarezza della visione d’insieme, e riesce finalmente a trovare la chiave che risolve il mistero, tramutandolo in un’immagine speculare che si riflette e si moltiplica generando nuove forme, nuova vita.”

Questa la densa, ammiccante, affabulante nota dell’autore, a corredo del suo romanzo. Il sorprendente, polisemico testo del Mugnaini fa subito piazza pulita di qualunque anche eventuale somiglianza a plot di facile accatto costruiti sul personaggio Leonardo, e mi riferisco anzitutto al popolarissimo e storicamente inattendibile Codice Da Vinci.
Lo specchio di Leonardo è un romanzo che non fa leva sulla tendenza mainstream a decomporre ed alterare la realtà storica in nome di ciò che il lettore si vuol sentir dire. Ciò non toglie che, dall’Anonimo Gaddiano, prima biografia nota di Leonardo, ai recenti Da Vinci’s Demons (nota serie televisiva statunitense che abilmente mescola elementi storici con altri fantastici), e Da Vinci innamorato, finzione teatrale del drammaturgo argentino Lázaro Droznes, la riflessione letteraria sul genio toscano e mondiale sia perenne fonte di interesse presso il pubblico. Il non-finito è insomma non solo quanto emerge dalla visione dei quadri leonardeschi, è piuttosto la stessa vita di Leonardo ad essere non-finita e a nutrire di curiosità il nostro stesso sentire davanti all’uomo Leonardo, alla sua interiorità, al suo mondo.
Il Leonardo di Mugnaini è figura accesa da dubbi, inquieta, scettica, non-finita, appunto. Al sommo pittore non basta più la tecnica del ritratto doppio per raccontare la sua vita. Per ritratti doppi si intendono quelli che alla rappresentazione di un volto abbinavano – sul retro del quadro o su un supporto esterno – un’altra immagine, un cartiglio, un’allegoria che chiarisse ulteriori aspetti dell’immagine principale, una sorta di ritratto in due puntate. Ed è quello che accade nel rovescio del celebre 
Ritratto di Ginevra Benci, opera di Leonardo, in cui il cartiglio (di cui peraltro non è affatto certa l’attribuzione) recita ‘Virtutem forma decorat’. L’interpretazione prevalente, ‘la bellezza adorna la virtù’, è un ritratto interiore che completa l’immagine dipinta: il percorso inaugurato dal ritratto di Ginevra aveva bisogno di un suo seguito narrativo, di una sorta di secondo tempo, a cui affidare il disvelamento di significati nascosti (e in ciò sta la ragione della sua collocazione coperta). Al Leonardo del romanzo non basta più il divino potere (della pittura) di creare la realtà e ingannare l’osservatore e attrarlo a sé. La pittura non riesce a garantirgli altro che fama e dipendenza dai committenti, annullando la sua vera natura, le sue inclinazioni. Si tratta anche qui di un percorso di disvelamento: questo testo, allora, è il secondo tempo dopo il Leonardo pubblico, il seguito, appunto, narrativo, che – da un punto di vista squisitamente romanzesco – spieghi, rispecchi e integri il ritratto consueto del genio vinciano.
L’invenzione narrativa di Mugnaini nasce dunque proprio qui, in quell’ampio imbuto buio dove precipitano le nostre supposizioni sull’uomo Leonardo e ci chiediamo chi veramente egli fu, quale il rapporto con gli altri, col mondo che lo circondava, con sé stesso. Fondamentale è quanto l’autore mette in bocca al suo protagonista, l’osservazione che ‘il mondo non ha nulla di geometrico, è un orrido gomitolo di ossa, tendini e sangue raggrumato, destini e pulsioni che si inseguono scalciando come muli. Dietro ogni aspetto di quest’epoca in cui mi è capitato di nascere e vivere c’è lo spettro della violenza, camuffata o palese: un’epoca in cui piccoli e grandi tiranni vestiti da signori liberali fanno il bello e il cattivo tempo, e su ogni pensiero non ortodosso vigila la mannaia subdola e spietata dell’Inquisizione Spagnola, mentre i papi uccidono i cardinali e i principi i padri e i fratelli. È, anche questa, l’età del dubbio.’
In queste coordinate, siamo nel 1498, si muove il romanzo. Nel Rinascimento la finzione non aveva ancora preso le distanze dalla realtà, era ammessa se palese, se così evidente da non generare dubbi sul rapporto col reale: nessuno avrebbe mai creduto verosimile il personaggio di Morgante (la prima edizione dell’omonimo poema comico del Pulci è del 1478) né maggior credibilità poteva avere il mezzo gigante Margutte. O si pensi alle invenzioni dell’
Orlando Furioso(mentre pare fosse solo frutto della fantasia di uno studioso settecentesco la sdegnata e celebre reazione del dedicatario del poema, il cardinale Ippolito d’Este: ‘Dove mai, Messer Lodovico, avete voi ritrovate tante corbellerie?’): invenzioni troppo comiche, assurde, caleidoscopiche per essere credibili come reali. Nelle arti figurative il discorso è parzialmente diverso: vi era infatti ben delineata la vocazione ad arricchire la rappresentazione con elementi architettonici che rendessero ambiguo il confine fra realtà e finzione (basti pensare ai finti pilastri e alle finte cornici dipinte da un Filippino Lippi, alla finta galleria prospettica del Bramante per la realizzazione di Santa Maria a Milano, alla Camera degli Sposi terminata dal Mantegna quando Leonardo aveva poco più di vent’anni, e in cui il Mantegna arriva a celare nel fogliame l’autoritratto). Nel Rinascimento l’imitazione della realtà si arricchisce dunque dell’inganno prospettico e illusionistico, è il trionfo del trompe-l’oeil.
Orbene il Leonardo narrato da Mugnaini esaspera il rapporto fra realtà e finzione a favore di quest’ultima. Non è solo la vertiginosa trasformazione del paesaggio di sfondo alla Gioconda, una sorta di tempo atmosferico in continua mutazione, è qualcos’altro. Fin dalle prime pagine scorgiamo il Nostro intento a servirsi dello specchio e della pittura per realizzare un ‘controgioco’ nascosto, ‘quadri che osservati allo specchio rivelassero salti mortali di simboli e parole, sciarade e indovinelli, tracce di rivolta riconoscibili ad un occhio attento come i gesti di un prigioniero che lancia al di là delle sbarre indicazioni cifrate per la propria fuga e quella degli altri’. Così la pittura diventa una sorta di metalinguaggio, una via attraverso cui Leonardo possa realizzare la sua metà nascosta, annientata per compiacere ai desideri bellici di Ludovico Sforza (si era presentato al duca di Milano come creatore di macchine per distruzione), tanto da ‘ruinare omni rocca nemica’ (come scrive il Leonardo storico nella lettera inviata al duca di Milano). Servendo i potenti, Leonardo ha nel contempo ‘annientato metà della sua anima, l’arte e la bellezza, soffocando in sé l’amore per l’umanità’.
La pittura dunque come specchio difforme dall’immagine riflessa, perché arricchito di ulteriori particolari tali da beffare i destinatari committenti del ritratto. Tale ‘controgioco’ è storicamente più che giustificato, e dunque è tanto più interessante ai nostri occhi di lettori, se si pensa che Lillian Schwartz invitò a riconoscere nella 
Gioconda l’immagine rovesciata di Leonardo, Digby Quested propose di adottare il metodo speculare per la migliore lettura di tutta la sua opera pittorica, mentre secondo Vittoria Haziel Leonardo avrebbe impresso il suo ritratto nel volto della Sindone di Torino. Fra l’altro è di questi giorni la scoperta che il genio di Anchiano avrebbe nascosto il suo profilo sotto l’ascella di una nobildonna milanese ritratta nel Codice Atlantico. Del resto che lui fosse abile a mascherare il reale, a camuffarlo, lo provano anche le sue qualità di scenografo, ingegnere teatrale e costumista per i festeggiamenti, i balletti di corte, gli allestimenti scenici (della Danae di Baldassarre Taccone e più tardi dell’Orfeo di Poliziano).
Leonardo, io narrante che parla a noi ma cerca la chiave per capire i fatti, non riesce a contenere la volontà di rivincita sull’apparenza, il suo desiderio di ingannare l’osservatore attraverso l’unico mezzo legittimo e non sindacabile, non punibile con l’uccisione violenta (viene citata la Congiura dei Pazzi), cioè l’intelligenza: sarebbe stato questo il suo ‘trionfo muto e immenso’, l’intelligenza come ’arma di creazione, non di distruzione, rivolta contro’ i potenti, e ‘non a loro favore’. Per tal via il Leonardo del romanzo partecipa a pieno titolo alla ridda di simboli e di codici di cui era costellata la pittura cinquecentesca, non diversamente dai codici filosofici che permettevano di celebrare l’amore casto di Bernardo Bembo per Ginevra Benci senza minimamente porre in dubbio il fatto che entrambi fossero legati in matrimonio ai rispettivi consorti. Di qui la valenza, tutta da riscoprire, dell’ermellino nel ritratto della dama che lo tiene in braccio, altro esempio di rispecchiamento del protagonista, e di riflessione sull’ambiguità della stessa dama.
L’intelligenza della pittura diventa qui espressione privilegiata per sovvertire i luoghi comuni, per rilanciare l’interpretazione del pittore. Non dimentichiamo che nel periodo storico considerato le forme di interpretazione del reale erano essenzialmente il ritratto e lo specchio, in campo figurativo, il dialogo in ambito letterario. Partendo da quest’ultimo, basti pensare agli 
Asolani, in forma di dialogo a più voci (editio princeps nel 1505) e più tardi alle Prose della volgar lingua, entrambi di Pietro Bembo (personalità cardine, emblematica di tutto il pensiero umanistico-rinascimentale, anche in merito all’annosa questione della lingua). Gli Asolani e le Prose hanno la forma di dialoghi (di chiara ascendenza platonica) ma sono essenzialmente un ritratto dell’autore, che – sul palcoscenico della letteratura – si specchia e si sdoppia, anzi si triplica nella prima opera e si quadruplica nella seconda, assumendo di volta in volta maschere diverse, e ciò per meglio chiarire il suo pensiero e illustrarlo alla ristretta cerchia del pubblico in grado di comprenderlo (anzi di leggerlo, visto che si tratta di opere in volgare); come a dire che gli attori sono 3 o 4 ma chi parla è sempre l’autore. Analogamente, nel medesimo periodo in ambito figurativo assistiamo allo sviluppo dell’autoritratto, e qui occorre subito premettere che proprio a cavallo fra ‘400 e ‘500 si afferma l’idea che ogni pittura, e soprattutto ogni ritratto, sia un autoritratto; già Cosimo de’ Medici affermava che ‘ogni dipintore dipigne sé’. Ed è proprio Leonardo – negli appunti riorganizzati come Trattato della pittura – a legare l’immagine dello specchio a quella dell’autoritratto: ‘L’ingegno del pittore vuol essere a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto, e di tante similitudini si empie quante sono le cose che gli sono contrapposte’. Dunque la pittura è lo specchio attraverso cui guardare dentro di sé, superando la forma corporea e risalendo neoplatonicamente all’anima, la pittura-specchio è via per conoscersi e correggersi. Del resto la pittura ha un’origine interiore, prima c’è l’idea poi la sua realizzazione, tale per cui ‘chi pinge figura, se non può esser lei non la può porre’, dice il Leonardo storico (sulla scorta di un’immagine tratta direttamente dal Convivio dantesco), per cui ci deve essere comunanza fra la propria natura e quello che si ha in mente di dipingere, e il mezzo per realizzare questa comunanza è la trasformazione dell’io nell’oggetto del ritratto. Di qui però il rischio di riprodurre sui quadri i propri stessi difetti corporei e le proprie inclinazioni caratteriali, finendo col dipingere sempre la stessa immagine che si ha di sé. Fin qui, appunto, il Leonardo pervenutoci dai codici.
Ma è quello che accade al protagonista del testo, il quale deliberatamente mette se stesso nella rappresentazione dell’
Ultima Cena, fino a raggiungere il vero e proprio ritratto-specchio, quell’ultimo San Giovanni Battista in cui si identifica: ‘Guardai la tela con disperato amore. Una cosa era andata a segno, anche se in modo del tutto diverso rispetto ai progetti studiati e preparati fin nei minimi dettagli: volevo realizzare uno specchio, e c’ero riuscito. Guardavo Giovanni, spaurito e smembrato, e vedevo me stesso. Ma gli occhi, divisi da quel corpo sanguinolento, erano limpidi, quieti, a loro modo appagati’.
Dunque lo specchio è ‘il maestro dei pittori’ perché mostra la conformità, l’aderenza alla realtà: ‘Quella pittura è più laudabile la quale ha più conformità con la cosa imitata’ leggiamo nel Trattato citato. Ma la conformità non condurrà mai all’identità con la cosa ritratta, perché la pittura è sempre una finzione, un’immagine della realtà. Il fine della pittura diventa allora la bellezza, che sarà data dal rilievo che avrà l’immagine rappresentata, e dal suo movimento. Al Leonardo storico interessa soprattutto il movimento, fisico e interiore, quello appropriato agli ‘accidenti mentali’ del soggetto raffigurato. È quanto mette in atto il Leonardo di Mugnaini, attento a dare alle sue opere il movimento interiore, la visione dell’interiorità. È anche per questo, sembra suggerirci Mugnaini, che l’incompiutezza è una costante delle opere del maestro: ‘Resta inespresso e indefinito il gesto, la collocazione, la prospettiva da cui osservo dall’esterno e da dentro, dal corpo vivo del quadro, l’enigma della vita’. Ed è proprio in tale aderenza all’interiorità, e al velo con cui Leonardo la rappresenta e nello stesso tempo la cela, una delle ragioni dell’eternità e del mistero di Madonna Gioconda (e, più generalmente, dell’intera opera di Leonardo): ‘ciascuno vi trovava, con limpida convinzione, qualcosa di suo, un gesto, un’espressione, uno slancio dell’animo’, troviamo scritto nel romanzo.
In un altro importante passo del testo Leonardo parla della relazione fra pittura e poesia, ‘Così come la pittura è una poesia che si vede e non si sente, la poesia è pittura che si sente e non si vede.’ La correlazione fra le due arti, l’ ut pictura poesis, viene direttamente dal mondo classico, la troviamo in Simonide, poi nella 
Rhetorica ad Herennium, quindi viene formulata da Orazio nell’Ars poetica, verrà ripresa poi da Luciano e corre nel Rinascimento come un topos, fino a divenire una teoria umanistica della pittura. Poesia come specchio della pittura.
Ma più generalmente nel romanzo – al di là del richiamo contingente agli specchi per le macchine da guerra (e di là dallo studio sulla lavorazione degli specchi piani e concavi di cui il Leonardo storico si occuperà nell’ultimo soggiorno a Roma) – il tema dello specchio è lo scacco che Leonardo infligge a se stesso, pur di confrontarsi-scontrarsi-riappacificarsi con la sua immagine e con sé.
Ed è senza dubbio Manrico, il sosia ottuso e bravissimo, a costituire il più importante specchio, quello che permette a Leonardo di vedersi continuamente, di studiarsi, di odiarsi e di ritrovarsi. Siamo lontani dalla proiezione di sé in un fantasma frutto della propria schizofrenia, come nel 
Sosia dostoevskiano, o dai timori del protagonista del Compagno segreto di Conrad, che a un certo punto teme che il clandestino, e dunque il suo doppio, sia solo frutto della sua mente. Come in The Duel dello stesso Conrad, Manrico e Leonardo sono invece due figure ben concrete, opposte e complementari, l’uno è necessario all’altro, Manrico è l’altro Leonardo che misteriosamente svolge la migliore funzione dialettica nello sviluppo dei nodi irrisolti dell’uomo Leonardo. Manrico è l’inizio del nuovo Leonardo, dopo il Leonardo storico ‘non-finito’, è la possibilità per Leonardo di raggiungere la sua metà mancata, di realizzare il suo daimon (neoplatonicamente) o, più semplicemente come si esprime nel testo, il suo destino. L’ambivalenza Leonardo-Manrico colloca a pieno diritto il romanzo nell’area del doppio, tema vastissimo che con direttrici diversissime spazia dalla Elena della tragicommedia euripidea fino al recente L’uomo duplicato di Saramago, passando per decine di opere (che non sto qui a elencare, considerata l’economia di questo studio, e reperibili facilmente in qualunque testo specifico) fra cui Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila di Pirandello.
È un’intima necessità quella che vive il Leonardo di Mugnaini, il timore di scoprire la verità e il desiderio di raggiungerla. Di qui la cifra stilistica calibrata sul personaggio: l’intero romanzo è attraversato da coppie di termini antitetici che affermano un concetto, un’idea, una sensazione e le tolgono contemporaneamente ogni assolutezza, creando delle impasse logiche che attraggono lo stesso lettore in un gioco di specchi e spingono la vicenda principale verso il sottile limite tra sanità e follia, come espressamente avverte il protagonista.
È un Leonardo del tutto disincantato a sentire l’urgenza del motto, prima pindarico e poi di Ireneo di Lione, ‘Diventa ciò che sei’. Come il Giuliano dell’ 
Imperatore Giuliano di Ibsen, che si chiede cosa sia la felicità se non il vivere in conformità a se stesso, come Céline che nel Viaggio al termine della notte afferma che soffriamo perché cerchiamo a ogni costo di diventare noi stessi prima di morire, Leonardo sente il bisogno di essere fedele alle sue native inclinazioni di essere umano che vuole conoscere la vita senza gli onori e gli oneri impostigli dalla sua pubblica fama di creatore. Ma è un uomo che, anche in questa nuova, insospettata direzione, non si pacifica in quella che Márai chiama la virtù di assecondare se stesso, tutt’altro. A spingerlo nella tormentata ricerca del suo stesso ubi consistam è la constatazione di vivere una vita che non è la sua. Ecco perché appena vede ‘un altro’ sé, ‘stesso corpo, stessa faccia ed espressione’ concepisce all’istante il suo progetto, il ‘folle volo’. Ma a differenza dell’Ulisse dantesco, privo della rivelazione divina e tuttavia realizzatore della sua umanità, questo Leonardo è conscio dell’esistenza dell’anima, ma allora la sua follia è in rapporto al disegno di scindersi in due pur di giungere al grado di consapevolezza ultima su se stesso e su come gli altri lo vedono. L’immagine che si è lentamente costruito ha avuto il sopravvento ed è diventata lui stesso, la maschera ha imprigionato chi l’ha costruita, e ha cancellato ‘con una mano di bianco’ il suo passato, le sue passioni più vere. La follia di Leonardo è di voler usare Manrico per proiettarsi in uno specchio e osservare quello che accade, e il voler così comprendere gli altri in sé e sé negli altri. Ma è la stessa dinamica di attrazione e repulsione fra le due ‘metà’ di Leonardo, quella pubblica-Manrico, quella privata-Leonardo, a spingere i protagonisti verso lo smarrimento della lucidità. Come a dire che l’esigenza esistenziale che fa compiere a Leonardo il gran passo dello sdoppiamento viene poi clamorosamente smentita nei suoi effetti. È una situazione pirandelliana.
Torniamo a Manrico, che costituisce per Leonardo la grande occasione per liberarsi dal senso di piacere che lo coglie quando lacera i corpi caldi di animali e cristiani. Manrico è l’occasione per un atto di bontà o di cattiveria: ‘dare a uno sconosciuto, del tutto inadeguato, forse felice nella sua landa selvaggia, la possibilità di diventare un personaggio come Leonardo.’
Ma questa assegnazione di un ruolo a Manrico fa sì che Leonardo inizi a vedere nel sosia un pupazzo, una marionetta, mentre lui, finalmente privo di catene, ‘avrebbe viaggiato nel mondo della memoria e dentro di sé, applicandosi alla dissezione della sua mente e dei suoi desideri con i coltelli affilati del tempo e della sincerità’, ove il gioco di metafore, costante nel romanzo, costituisce un coefficiente di accelerazione, di sintesi e spinta verso intuizioni fulminanti: Manrico è anche una lente per scrutare il cuore degli altri, le falsità, i commenti velenosi.
In realtà lo sviluppo dei fatti non segue la direzione prevista. Come Vitangelo Moscarda (il protagonista di 
Uno, nessuno e centomila) Leonardo non accetta le maschere che gli altri gli hanno imposto, perché gli impediscono di vivere, di capire chi lui sia veramente. A differenza di Moscarda, però, Leonardo crede di sapere qualcosa del suo io vero, ma finirà per ingannarsi, perché appunto la dialettica dei ruoli in corso fra Leonardo e Manrico renderà l’io di entrambi in continua evoluzione, ed è questo uno dei punti di forza narrativa e psicologica del testo.
Come Mattia Pascal, è alla ricerca di un’identità esistenziale che tuttavia, per motivi legati alla situazione innescata, rimarrà costantemente frustrata. Come Mattia Pascal anche Leonardo si chiede chi sia lui nella nuova vita dopo lo sdoppiamento. E anche qui c’è il problema del nuovo aspetto che vuole darsi. Ma mentre Adriano Meis, a seguito della sua libertà assoluta, senza radici, scopre l’incertezza, la delusione, tanto da diventare ‘forestiero della vita’, perché la sua libertà illimitata gli impedisce di iniziare a vivere e gli suscita il rimpianto dei beni che non aveva goduto come Mattia, il nuovo Leonardo spiega al suo sosia che l’estraneità a se stesso la provava già prima di conoscerlo: già allora aveva addosso la pelle di un altro, si sentiva ‘un asino in cerca di ombre e strapiombi’, e qui ci vien da pensare al Lucio-asino nell’ Asino d’oro apuleiano che prega la luna di renderlo a se stesso.
La sostituzione di persona non dà infatti i risultati sperati, è così che Leonardo decide di seguire Manrico-Leonardo-pubblico a Milano, Mantova, Venezia in qualità di umile servitore. E a Venezia incontra una donna che odora di sabbia e mare e si abbandona a lei, si lascia sommergere da questo battesimo, e quasi come un novello Vitangelo Moscarda ‘diventa lei’, diventa l’esperienza stessa che sta vivendo, come pura coscienza senza più nome.
Intanto il rapporto con Manrico si fa più esigente. Il sosia, non solo specchio ma persona egli stesso reclama una somiglianza, un’identità maggiore: ecco che Leonardo gli confida l’episodio scabroso vissuto in gioventù, il suo rapporto carnale col giovane Saltarelli, pagina di grande maestria. Nel ritorno da Venezia in Toscana incontrano una donna che a Leonardo ricorda l’immagine delle persone a lui più care, e che tuttavia ha ‘una faccia peggiore della morte, un urlo scavato nella roccia’ (un’immagine vivida come la Vecchia del Giorgione, la Vecchia di Lodovico Carracci, o le streghe dipinte più tardi da un Frans Hals): è allora che, vedendosi vecchio anche lui, si rende conto che il tentativo di ‘portare fuori pista il mondo attraverso il trucco del doppio’ non è servito a nulla, che Manrico non è affatto uno specchio per vedere più nitidamente ma ‘un punto d’appoggio mite e rassicurante’ che lo distoglie dalle domande autentiche. Di qui la necessità di allontanarlo da sé per rinascere, ritrovarsi.
Nel viaggio di fuga da sé stesso e da Manrico incontra personaggi come Cecco il beccaio, Matteo e Giorgio, l’assassino mite, che gli rivelano ‘immagini di una verità che stride, urla, sogghigna’, il vero volto della vita nella morte, perché solo imparando a vivere si impara a morire (come dice il Leonardo storico). Allora l’unico frutto del suo sdoppiamento e della rabbia contro il mondo e se stesso, è la scoperta che la vera trasgressione del suo secolo è la bontà, che sorride e non giudica (e qui si fa evidente l’eco del celebre passo paolino nella 
prima Lettera ai Corinzi a proposito della carità) e che è a un passo dalla poesia: ‘La bontà è la poesia: disgraziata, testarda, indistruttibile; neppure tutti i marchingegni di morte e distruzione che ho ideato potrebbero abbatterla. La poesia è la bontà perché conosce perfettamente anche il suo opposto. Eppure, per una scelta che non ha alcuno scopo pratico, nessuna convenienza, nessun calcolo, si schiera dal lato del bersaglio.’ Subito dopo la bontà è la realtà del dolore ad emergere, la materia prima di cui Leonardo sente di essere costituito: se tradisse questo dolore si dissolverebbe.
A poco a poco il viaggio del Leonardo privato sta aggregando una realtà nuova, una diversa, progressiva coscienza di sé, e questo proprio nel momento in cui non usa nessuno specchio ma, semplicemente, attinge alla vita vera, alla memoria, al corso stesso dell’esistenza. Morta nel frattempo la madre, non gli resta allora altro che diventare se stesso, frantumare le maschere, quella concreta, cioè la faccia e l’abito mentale assunti, e quella fittizia, cioè l’immagine che ha collocato nella testa e nel corpo di Manrico. Il rispetto della morte e della vita gli impone ormai di trovare la follia più autentica, la verità. E la riflessione è immediata: ‘La mia immagine riflessa, il tentativo vano di sfuggire allo specchio tramite un altro specchio, era il fardello più gravoso, la prova di un fallimento. Dovevo liberarmi da quell’ombra che stava divorando a poco a poco la carne e la mente. Il gioco si era fatto letale, la beffa si ritorceva contro se stessa.’
Leonardo riaccompagna Manrico al suo villaggio, ma sono cambiati entrambi: Manrico ha un sogno in più, lui ha dentro di sé un’illusione in meno. ‘Era come se uno scialbo incubo si accingesse ad ingoiare i resti mortali di una fiaba in un immenso sbadiglio. Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto.’
Tornato nel suo studio fiorentino riprende a indagare morte e vita, ma assapora ancora una volta la certezza della sconfitta quando scopre di aver messo se stesso in ogni personaggio dell’affresco dell’
Ultima Cena (trasgredendo le raccomandazioni del Leonardo storico): è sempre Leonardo il carnefice e la vittima di se stesso, il doppio che lo mette in difficoltà ora è il suo altro io. Ma sorprendentemente torna il doppio autentico, anche Manrico ha subito quella che potremmo chiamare la ‘fascinazione del raddoppio’, secondo un processo moltiplicatore che ha felici possibilità narrative: Manrico gli confessa che è ‘come se il suo vero essere fosse rimasto a Firenze, immerso nella bellezza e nella vita, in cammino su una strada ancora da compiere.’ Ora vuole ‘diventare un artista, non rimanere un’immagine priva di sostanza.’ Manrico sente che il suo ‘originale’ è lì, con Leonardo. Il sosia vuole diventare Leonardo proprio quando quest’ultimo decide di non esserlo più. Per raggiungere lo scopo il copista orchestra un abile ricatto. A cui Leonardo cede, anche perché si rende conto che forse l’occasione è propizia, che si è servito male del suo sosia, usandolo come un fantoccio inanimato, e ognuno è rimasto ciò che era. ‘Le analogie e le diversità dovevano sommarsi, incrociarsi e scontrarsi, generando il fuoco di un nuovo modo di sentire.’
È qui che inizia forse la parte più toccante del lungo racconto, l’incontro dei due con Madonna Gioconda. Tutto l’episodio è presentato come il contatto non con un’immagine ma con una persona viva, c’è un serpeggiante erotismo nella descrizione, una palpabile attesa di qualcosa di terreno, di corporeo, che sta per avvenire. E come un epilogo imprescindibile si giunge al momento della vera e propria fecondazione di Gioconda ad opera di Manrico. ‘Aveva gioito quella notte, e goduto, sentendosi sporca, e immacolata. Manrico aveva fecondato la mia donna. Sorrideva, Gioconda, e sorrisi anch’io, percependo nella carne un dolore che sazia, che ti umilia e ti lascia sopra un pavimento gelido, ridotto a brandelli come uno straccio di antichi orgogli.’ D’altra parte che il ritratto di una donna potesse esercitare un fascino erotico lo dice espressamente il Leonardo storico nel 
Paragone delle arti nel citato Trattato.
Naturalmente Leonardo, amante tradito, incassa il colpo e mette Manrico con le spalle al muro: ‘Non sarà certo per qualche pennellata assestata con foga casuale che ti cederò il volto della donna che ho odiato e amato per un’esistenza intera. No, vecchio mio, Gioconda resta di Messer Leonardo, in qualità di legittima consorte e metà, oscura e chiarissima, pia e maledetta’.
I due personaggi ormai si somigliano sempre più, si capiscono al volo, hanno lo stesso ghigno. Il rapporto si infiamma. Con la scusa di lasciarlo ad imparare, Leonardo tiene praticamente Manrico segregato nella bottega, mentre lui va a raccogliere gli onori per il quadro. La novità è che Manrico è troppo bravo, ha del genio, e di fronte a questa verità Leonardo inorridisce. Eppure per l’attrazione inscindibile che lo lega al suo altro da sé, Leonardo carceriere del suo sosia si presenta a lui. Dunque è ancora con Manrico che si confida, gli rivela l’umiliazione nel vedere Michelangelo realizzare la Battaglia di Cascina, mentre la sua
 Battaglia di Anghiari rimane solo ‘un tremulo abbozzo’.  E Manrico passa al comando, diventa sempre più importante il suo ruolo, tanto che la sua energia è per Leonardo il più prezioso dei regali: gli fa percepire con chiarezza ciò che lui, Leonardo, è e ciò che non è.
Manrico è ormai immedesimato in Leonardo, al punto da desiderare di andare sulla pubblica piazza a confessare il misfatto commesso dal maestro in gioventù, non più per ricatto – come aveva fatto una prima volta – ma con sincera convinzione, assumendosi ‘il rimorso per ciò che non aveva commesso’. È un chiaro segno di squilibrio, di una follia che ormai contagia reciprocamente i due. Di fronte poi alla 
Madonna con Bambino dipinta da Leonardo è Manrico a sentirsi tradito, escluso dalla ricerca pittorica del maestro, è Manrico a provare gioia, dolore, risentimento feroce: ‘Mi odiò, con tutte le sue forze, ma con gli stessi occhi di quel fanciullo che ha dalla sua tutto il tempo che vuole per regalare spazio e fiato al disegno della sua vendetta.’ E Manrico consumerà la sua vendetta quando Leonardo lo metterà nuovamente alla porta, definitivamente, rivelandogli di averlo trattenuto in gabbia solo per il suo tornaconto.
Dopo l’ultima invenzione termina il testo, con le sue vedute prospettiche, i suoi percorsi, le sue densità sanguigne, vivide, le incursioni spiazzanti, le intuizioni, i giochi interiori, i conflitti irrisolti e quelli sorti nel corso della vicenda. La tensione si scioglie, i colori si depositano sulla tela della nostra pupilla per un coagulo definitivo: ‘tutto torna, e nulla è uguale a come dovrebbe essere’.