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A TU PER TU – Chiara Zanetti

Molti gli spunti di interesse che nascono dalle risposte di Chiara Zanetti alle cinque domande della rubrica A TU PER TU.
Di Chiara mi ha sempre colpito la capacità di abbinare la ricerca di leggerezza, divertimento e convivialità ad un’efficienza che verrebbe da definire di stampo “teutonico”. Ma non c’è bisogno di andare oltre confine. Diciamo un’efficienza che anche noi abitanti di questa strana Penisola a tratti sappiamo avere, quando ci svegliamo dal lato giusto.
Chiara non ha cercato scorciatoie: ha saputo ottenere risultati con dedizione e applicazione, mai ottusa o asettica, sempre all’insegna della gentilezza e del dialogo.
Anche nelle risposte all’intervista ha confermato queste caratteristiche: con grande sincerità e chiarezza ci parla di sé e dello “specchio in forma di parole” di un libro in cui, scrutando dentro se stessa e dentro un proprio “lutto”, finisce per parlare di tutti noi, di quello che fatalmente perdiamo, senza mai perderlo del tutto, forse, della fragilità e della persistenza, dell’interiorità, della paura (attuale, oggi e sempre) e della tenace volontà di guardarsi dentro trasformando la perdita e lo smarrimento in ricerca di espressione e di dialogo.
Anche in questo caso, se volete e potete, leggete le risposte nella loro interezza e nel contesto che ben delinea i chiaroscuri, il buio e la ricerca di spiragli di luce.
IM

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

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5 domande

a

Chiara Zanetti

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve autoritratto in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Caro Ivano, grazie per l’ospitalità. Sai, nella mia vita sono sempre stata dalla parte dell’intervistatrice, della giornalista e mai il contrario, salvo un paio di importanti eccezioni.

Un mio autoritratto… Forse un’isola, circondata da pareti di mare, ma in continua ricerca di scambi con la terraferma. È significativo, peraltro, il mio rapporto con le periferie e l’insularità come identità liminale, ma non è questo il momento di dilungarmi in merito…

Caso vuole che stessi parlando proprio ieri con un caro amico scrittore di come i dipinti che alcuni artisti hanno realizzato ispirandosi alla mia figura siano in realtà troppo semplici per cogliere la mia essenza profonda. Credo infatti di essere (come tutti o quasi, in realtà) una persona complessa, densa di sfumature, contraddizioni, iperboli, svalutazioni…. Ma anche accrescitivi, vezzeggiativi, diminutivi. Una sorta di grammatica della persona… E non scordiamoci del binomio con l’analisi! Mi piace molto tentare di capire il mondo, questo è tutto quello che so di me e che ha ispirato il percorso che mi accingo a cominciare a gennaio 2021, ovvero il Master triennale in Counseling presso Aspic.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto lessenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sulliniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

La mia unica opera edita – al momento – è Testamento blu, uscita lo scorso 20 novembre con Echos.

Eravamo nel pieno del primo lockdown quando iniziai a scriverla, e anche l’agenzia di reclutamento per cui lavoravo al tempo era chiusa. Ero a casa, del tutto non abituata a trovarmici costantemente… Io amo scrivere, da sempre, come adoro leggere. Inoltre, mi ero appena imbarcata in una nuova relazione sentimentale dopo il fallimento del rapporto più lungo e sostanzioso della mia vita, finito nell’ottobre del 2018. Quasi due anni, direte, che significa… Beh, per me, molto, visto e considerato che è stato il lasso di tempo necessario per elaborare questo e altri “lutti”. Mi sono guardata dentro e ho pensato, sull’onda anche di una vocazione alle relazioni d’aiuto, perché non scrivere un saggio introspettivo in cui parlare di questo enorme buco nero (come credo ce ne siano nella maggioranza delle storie umane) e dare un esempio a cui appellarsi a chi si trova in difficoltà su vari fronti? E poi il gioco era fatto, ormai, ho colto la palla al balzo e ho iniziato a buttare giù il primo capitolo… Ne sono seguiti altri e infine è avvenuto il sodalizio con un artista che stimo molto per bravura e profondità di vedute, Andrea Lelario, a cui ho proposto di realizzare le illustrazioni del mio libro.

Il titolo mi sembra abbastanza indicativo… Il blu era per Wassily Kandinsky la tonalità dell’approfondimento e, in quanto al sostantivo, esso rimanda a ciò che lascio in eredità ai lettori, che può essere poco o può essere tanto, ma sarà sempre qualcosa.

Nella sua prefazione al testo, Vittorio Raschetti scrive: “Occorre passare per molti solitudini per trovare sentieri non ancora tracciati che portano nei pressi del vero. Perché non arrivare a nulla è diverso da arrivare al nulla. Solo nei segni più labili e nelle tracce più evanescenti è possibile salvarsi, solamente nella fragilità e nella persistenza di ciò che sembra già condannato a scomparire”, e penso qualifichi molto questo manoscritto, che mi ha procurato gioie e pianti.

Aspettative non ne ho. Nessuna velleità letteraria, sogno di successo, speranza di lucro o desiderio di entrare nel novero dell’intellighenzia italiana. Nel mio libro dipingo la mia interiorità ed è tutto ciò che mi importa, se qualcuno vi si può rispecchiare. Per accennare al mio rapporto intimo con questo testo, sicuramente farei riferimento anche alla paura… Timore che possa non piacere o deludere qualcuno.

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La parola e il sogno

La parola e il sogno
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Ripubblico volentieri un articolo originariamente uscito su Carteggi Letterari, rivista on line a cui altrettanto volentieri collaboro, https://www.carteggiletterari.it/2019/06/12/sogniloqui-di-stefano-taccone-iod-edizioni-2018-recensione-di-ivano-mugnaini/
Parla di un agile ma interessante libro che con divertita e serissima lievità si avventura nel regno dell’onirico, del bizzarro, dell’improbabile ma assolutamente vero, o verosimile: la vita, o la sua immagine riflessa in uno specchio.
Buona lettura, se potete e volete.
Buona estate a tutte e a tutti, IM

 

SOGNILOQUI di Stefano Taccone, IOD Edizioni, 2018 – recensione

Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze ed ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza.
Ciascuno ha in mente modelli rappresentativi e in qualche modo emblematici di questa tendenza espressiva che spazia dalle arti figurative a quelle in apparenza disgiunte dalla materia tangibile. Nei racconti di questo suo recente volume, Stefano Taccone ha avuto il merito, o forse l’istinto, di seguire la propria strada, un sentiero autonomo e sui generis, nel senso migliore del termine. Ha dosato gli “ingredienti” di questa mistura senza seguire alla lettera le dosi indicate nelle ricette e senza preoccuparsi troppo dei tempi, delle quantità e delle indicazioni di massima contenute nei volumi di riferimento.
Il prodotto di tale “esperimento”, condotto con divertita ma attenta cura, è un volume agile e godibile, gradevolmente spiazzante, come certe facciate barocche, lievi e tuttavia solide, giocose e in qualche modo cupe e solenni, come la vita. L’impressione è che l’autore abbia scritto questo libro con un sorriso serissimo. Come uno studioso che cerca modi per stupire, o almeno per spiazzare il proprio referente, ma allo stesso tempo è concentrato affinché tutto, anche l’incredibile e l’assurdo, anzi, soprattutto l’incredibile e l’assurdo, risultino assolutamente credibili. Veri, o talmente fittizi da essere o sembrare (che differenza fa?) più veri del vero.
Il titolo, come spesso accade, è una potente calamita, e, in una certa maniera, una prima chiave, seppure anch’essa volutamente storta, sghemba, al punto che non si comprende bene quale sia il lato giusto, o se vi sia un solo modo per adoperarla, o nessuno, o tutti insieme. “Sogniloqui” è una parola complessa e composita, adeguata vetrina, questo è certo, per i racconti a cui fa da titolo. Sogni ed eloqui, o soliloqui, o semplicente “loqui”, ossia, forse, un modo con cui dare voce ai sogni, parlarne, o lasciarli parlare. I sogni, intrinsecamente irrazionali, sfuggenti, incoercibili, vengono messi a confronto, incasellati, incanalati tra le pareti del linguaggio che, di per sé, per poter avere un senso e una funzione deve al contrario seguire schemi, regole, codici univoci. Da questo attrito, da questo costante braccio di ferro tra le due istanze contrapposte, nasce il carattere bizzarro e tuttavia lineare delle tranches de vie descritte da Taccone.
Se fossero quadri, questi racconti, verrebbe fatto di pensare a Dalì, a quegli orologi molli, liquefatti, a quei numeri tanto precisi da rimanere leggibili anche dopo il dissolvimento dei colori e dei contorni. Identici in apparenza ma in un tempo altro, in una logica altra. Sarebbe interessante calcolare quante volte, nei racconti di Soliloqui, compaiono riferimenti, diretti o indiretti ai numeri, al calcolo di distanze, misure, quantità. Siamo di fronte ad una specie di aritmetica della follia, o della bizzarria, del sublime irrazionale che tuttavia pretende di essere misurato al millimetro, come per un vestito sartoriale, o per una solenne e sarcastica cassa da morto. E il funerale non si sa bene di chi sia: se della logica o della pazzia, del tempo, della pretesa dell’uomo di trovare un senso, una direzione, una formula riassuntiva e risolutoria del caos di cui è parte integrante ma forse neppure essenziale.
I numeri ci accompagnano passo dopo passo, come ombre ghignanti, dalla prima all’ultima pagina. Fin dal primo racconto, dal titolo umoristicamente raggelante, “Tagliatelle millimetrate”. Una vicenda in cui il protagonista ha come grido di battaglia “Misuro tutto!”. Lo confessa o forse se ne vanta, o, anche in questo caso, entrambe le cose simultaneamente. Forse è il personaggio che l’autore teme di essere o di diventare, oppure, semplicemente, come Dante, opportunamente citato nel racconto, è il primo adeguato Cerbero di se stesso che subisce la pena del contrappasso per la colpa ineluttabile dei suoi personalissimi “sogniloqui”.La letteratura si fa specchio di uno specchio che forse è la vita. E resta il dubbio, essenziale, fondamentale, riguardo alla deformazione di quella superficie riflettente. Se sia connaturata, ossia propria delle cose osservate, o se abbia origine nella mente e negli occhi di chi osserva il mondo, pensandolo, potremmo dire generandolo attraverso il pensiero.
Il pensiero e la parola. Il racconto iniziale del libro si conclude con “La prova è finita!”, e poco più oltre “Il supplizio è finito! Sospiro di sollievo!”. Vengono alla mente Pirandello, Beckett, e tutta la schiera di scrittori e drammaturghi che hanno usato la parola per esprimere lo scardinamento mentale e sociale, l’emergere dell’assurdo non come occasionale emergenza ma come condizione costante e immutabile. La parola dunque è supplizio, ma anche il solo modo per esprimere tale oppressione e forse perfino per uscirne, osando guardarsi vivere, avendo tale coraggio.
Il linguaggio utilizzato in questo libro riflette adeguatamente le antinomie a cui si è fatto cenno: a brani elegantemente fluidi e cadenzati fanno da contrappunto passaggi scabri, come se l’urgenza espressiva aggredisse i personaggi, le loro voci e i loro pensieri. L’umorismo aggiunge alla dicotomia ritmica quella del senso e del significato, la connotazione e la denotazione, il sentimento del contrario. Tutto, senza irriverenza, ma con giocosa serietà, entra nel vortice dell’umorismo:  ilterzo racconto ha per titolo “Girella cumana” e la Sibilla, a suo modo, sorride anche lei. Ed è interessante l’ingresso dell’arte figurativa nell’ambito della scrittura e della dimensione autobiografica nella finzione. Lo spunto e il mezzo sono le interazioni, i filtri e le modulazioni necessarie per rendere il tutto allo stesso tempo reale e fittizio, cronaca e metafora. “La scena a cui ho appena assistito – scrive Taccone – mi ricorda un’opera, Fermare il loop, realizzata da un mio amico artista – Luigi Urso, in arte Ur5o – quasi dieci anni fa per una mostra collettiva che curai a Milano”. Sia il titolo della mostra a cui si fa riferimento sia l’unione tra arte e vita risultano in qualche emblematici, o almeno ampiamente rappresentativi, non solo del sapore del racconto specifico ma dell’intero libro.
Molti racconti hanno un che di kafkiano, in senso ampio ma non meno aspro. Il racconto “Girella cumana” si chiude anch’esso con una fuga e con il sollievo che si prova quando tutto ha fine, quando l’incubo finisce: “Non mi resta che alzarmi del letto, prepararmi e scendere giù al palazzo, affinché possa mettere fine, forse, a tutta questa sequela di misteri”. Probabilmente la sequela di misteri è il succo del discorso, forse dell’esistenza stessa, la ricerca di un senso che senso non ha. Siamo già scarafaggi; e il processo, per cose che non conosciamo e che non sappiamo di avere commesso, non ha un inizio e neppure una fine. Ci si risveglia da un incubo e in realtà è lì che il vero incubo inizia.
Forse (ed è necessario sottolineare ancora una volta la natura ipotetica dell’affermazione), una chiave, una sintesi, uno squarcio interpretativo potenziale, è racchiuso nel secondo paragrafo del racconto “Rete negli occhi”. In una serie di domande e in una descrizione oggettiva: “Cosa è successo? Mi stropiccio gli occhi ma non va via! Quel piano ottico rimane intonso! Che fare? Ben presto mi accorgo che c’è anche una freccetta, come quella che azionerebbe un qualsiasi mouse da computer, e con la forza del pensiero posso portarla dove desidero”. Un efficace ritratto del nostro tempo, della condizione attuale. Nessuna risposta se non la possibilità di spostare il fulcro dell’informazione, o meglio della ricerca di informazione, quell’intertestualità che non di rado è immensa varietà senza alcun porto certo, interminabile viaggio circolare in un mare di mondi possibili tutti veri e tutti fittizi. Al punto che, poco più avanti, un paio di pagine oltre, la voce narrante ci confessa di non essere più certo neppure di avere una testa, delle braccia e delle mani. L’incubo è accorgerci di essere noi stessi una rete nella rete, soggetti a virus che, agevolmente, da informatici diventano fisiologici, attaccano direttamente i nostri tessuti, la nostra presunta essenza reale. E sempre di più, se noi assomigliamo ai nostri computer, le macchine assomigliano a noi. “Il suo portatile è stranissimo”, si osserva a pagina 39, e la sovrapposizione tra la persona e il personal computer è assoluta. I tessuti corporei e i circuiti diventano una cosa sola, arrivano a corrispondere.
Le soluzioni, o almeno le vie di fuga e di potenziale salvezza, sfociano nel mare immaginario, futuro e futuribile, di un’eventuale evacuazione collettiva, o nel rifugio estremo, quello della consapevolezza di essere sull’orlo di un baratro che è allo stesso tempo ecologico ed etico. La presa di coscienza che “Edenlandia” in realtà è un nome grottesco dato ad un potenziale Inferno può condurre ad una reazione salvifica, in senso stretto e in senso lato.
Una delle caratteristiche di maggior rilievo di questo libro è la capacità di far riflettere su temi importanti con una deliberata leggerezza, senza pedanterie e senza proporre panacee più o meno miracolose o miracolistiche. Taccone esplora il surreale per parlare del reale, il grottesco per far sì che dallo specchio, magari nel bel mezzo di un riso, ci compaia un’immagine del degrado in cui rischiamo di adagiarci, compiaciuti, ilari e smarriti. Questi racconti affabulano, spiazzano, deliberatamente, spostando il focus su dettagli e situazioni in apparenza irreali, o improbabili, dietro cui in realtà ci è dato di cogliere una concreta e autentica istantanea di ciò che siamo e che rischiamo sempre di più di diventare se non interrompiamo la tendenza, se non apriamo varchi differenti nella rete che tessiamo e dai cui siamo fagocitati, se non ricreiamo spazi vivibili, sia fisici che mentali, più autenticamente umani.
Non è un caso forse che le ultimissime parole del libro siano: “mantenere intatto il suo autentico significato: quello di un sacrificio compiuto per amore dell’umanità”. Tra realismo e fantasia, tra il sogno e il vero, in un realismo che si espande nei territori del grottesco ma resta sempre vivido e attuale, Taccone si pone, e ci pone, le domande che contano. Compie la scelta, tra diritto e necessità, di non rinunciare a temi essenziali e vitali, ad un “idealismo” che non è mai, qui, tediosa teoria né astratta utopia. Nei Sogniloqui sorridiamo, divaghiamo, ma, alla fine, cogliamola nostra autentica immagine.
Ivano Mugnaini

 

Stefano Taccone (Napoli, 1981) è dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità(2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “OperaViva Magazine”. Sogniloqui è la sua prima raccolta di racconti.

“Leonardo” alla Casa di Dante – Firenze

Dante Alighieri fotoLeonardo Foto

Società delle Belle Arti – Circolo degli Artisti – “Casa di Dante”

Via Santa Margherita, 1 Firenze –Tel. 055 218402 – www.circoloartisticasadante.com

Martedì 14 marzo 2017 – ore 17

Per il ciclo di Pianeta Poesia

Incontro con IVANO MUGNAINI

Autore di “LO SPECCHIO DI LEONARDO” –

(Edizioni Eiffel, Caserta 2016)

Intervengono Giuseppe Baldassarre, Annalisa Macchia

Sarà presente l’Autore

La S.V. è invitata

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L’opera

Il libro di Mugnaini è un romanzo, anzi una biografia romanzata simpatetica e allucinata, attraversata dai brividi dell’approssimarsi alla verità, dal timore di non poterla raggiungere. Ma ogni biografia (e, aggiungo, ogni autobiografia) è il romanzo che il suo protagonista non ha avuto il tempo o il coraggio di scrivere. Lo specchio di Leonardo è un sogno della Storia e, come tutti i sogni che si sono avverati, parla un linguaggio fatto di poesia e di sapiente accostamento al vero”.

Giuseppe Panella.

Foto Bianco e nero - IM

L’autore

Ivano Mugnaini si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Pisa con una tesi sul teatro rinascimentale europeo. È autore di romanzi e racconti, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste, sia cartacee che on line, tra cui “Nuova Prosa”, “Gradiva”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Samgha”, “L’ Immaginazione”. Cura il blog letterario DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario, www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com, in cui pubblica con un commento introduttivo liriche e prose di alcune delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo, sia autori affermati che voci nuove. Ha curato, dal 2000 al 2012, le rubriche “L’ombra del vero” e “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS, www.bompiani.rcslibri.it/speakerscorner, al cui interno ha proposto suoi racconti e sue “rivisitazioni” in forma di racconto di film e classici letterari. Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche su RAIRadiouno. Collabora, sia come autore che come consulente, con alcune case editrici. Dirige, assieme a Mauro Ferrari, la collana di narrativa AltreScritture per puntoacapo editrice. Cura, assieme a Luca Ragagnin e a Mauro Ferrari, i “Quaderni Dedalus”, annuari di narrativa contemporanea.

Suoi testi sono stati inseriti nella rassegna di spettacoli del Gruppo Teatrale STED di Modena diretto dai registi Davide Bulgarelli e Tony Contartesi. Gli spettacoli dai titoli “Confessioni”, “La carne” e “Le nozze” sono stati proposti in prima nazionale a Modena e in seguito rappresentati a livello nazionale.

Collabora, come autori di testi e recensioni, con alcune associazioni culturali, tra cui l’Associazione “AstrolabioCultura” di Pisa, diretta da Valeria Serofilli. Nel corso delle ultime stagioni sono stati presentati presso lo storico Caffè letterario dell’Ussero di Pisa scrittori, poeti e case editrici e sono stati realizzati spettacoli di prosa e recitazioni di poesie, così come perfomances a tema dedicate ad artisti e letterati, tra cui Van Gogh, Rimbaud, Verlaine, Campana ed altri.

Ha presentato sue prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie nazionali tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico” , e brani letterari abbinati ad opere artistiche all’interno della Biennale d’Arte di Venezia. Ha partecipato inoltre con testi e saggi alle serate organizzate dalla rivista “La Clessidra” di Alessandria incentrate su letture e dibattiti sulla letteratura contemporanea.

È autore di racconti premiati o segnalati in concorsi letterari, tra i quali: Premio “Nuove Lettere”; Premio “Eraldo Miscia – Città di Lanciano”; Premio “Città di Sassuolo”; Premio “Luigi Antonelli – Castilenti”; Premio “I Siracusani” (SR); Premio “Memoria del Mare”; “Premio “D. Rea”.

Ha pubblicato le raccolta di racconti La casa gialla e L’algebra della vita, i romanzi Il miele dei servi e Limbo minore e i libri di poesie Controtempo, Inadeguato all’eterno e Il tempo salvato. Il suo racconto Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio e il suo racconto Un’alba è stato pubblicato da Marcos Y Marcos.

LA VITA È SOGNO (?)

 LA VITA È SOGNO 

Riflessioni su Calderon de la Barca



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Il punto interrogativo, in questo caso più che mai, è necessario, ed anche prezioso. Un gancetto affilato che penetra nelle carni come una spilla, d’accordo, ma anche, a ben vedere, un amo con cui pescare qualcosa di cui nutrirsi. La domanda se la sono posti tutti, in qualche istante particolare o nel corso di una vita intera. Pedro Calderon de la Barca, nato a Madrid nel 1600, è noto ancora oggi anche e soprattutto per il testo in cui afferma che la vita altro che non è che un’entità illusoria, un sogno contraddetto dalla ragione. Lui, in realtà, di dubbi non sembra averne avuti. Ma l’affermazione contiene un’ipotesi. Il sogno è, di per sé, qualcosa di incerto, di irrazionale. Nessuno ne conosce bene i meccanismi, la natura e i confini. Quindi equiparare la vita al sogno, equivale, in un certo senso, a compiere l’operazione contraria. In quest’ottica, paradossalmente, l’affermazione di Garcia Lorca, autore di un testo in cui sostiene con uguale solennità che La vita non è sogno, non è troppo distante dall’assunto di base. Che dire? Ora più che mai siamo di fronte all’apoteosi dell’impalpabile. Il che, in fin dei conti, conferma e ribadisce il trionfo del teatro, la vita che si guarda allo specchio, e, nell’atto di guardarsi, rivive. O magari vive davvero. O smette di vivere, per iniziare a sognare. Chissà.

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         Nessuna umana certezza, anche stavolta. Che sia questo il bello, o almeno una delle componenti essenziali del gioco? Qualche certezza, almeno sul piano strettamente biografico, la si trova nelle vicende di questo autore spagnolo, Calderon de la Barca, distante anni luce dal panorama letterario attuale, eppure, tramite radici o echi che si diffondono all’interno di altre correnti e risonanze, è giunto in qualche modo fino a noi. Il suo esordio in qualità di drammaturgo risale al 1623, anno in cui propose al pubblico la commedia Amor, honor y poder. Ebbene sì, Amore, Onore e Potere. Personalmente a questo punto mi vengono in mente le facce di molti autori moderni di telenovelas, magari sudamericani, o di molti autori di discorsi politici, molto più nostrani, i quali, di fronte a tale mirabile titolo, si chiedono, sconsolati, come mai non è venuto in mente a loro. Battute a parte, il buon de la Barca, evidentemente già conosceva assai bene gli ingredienti giusti per attrarre l’attenzione popolare. Allo stesso tempo già iniziava a far lavorare sulla scena, facendoli interagire, i motori di base di quella commedia (tragicomica) che è la vita. Sogno o realtà che sia. Anche l’ambiente in cui opera l’autore spagnolo è emblematico. I suoi drammi sacri e profani venivano allestiti e rappresentati in occasione delle feste di corte e per l’inaugurazione del palazzo reale. Anche in questo caso la commistione tra arte e mondanità è assoluta, e diviene un elemento in più, quasi una componente tematica, un personaggio ulteriore, un’allegoria nell’allegoria che aggiunge al testo elementi di riflessione e significazione.

         Il linguaggio di Calderon de la Barca è ricco, sovrabbondante, lussureggiante: il trionfo del barocco, quello che esplodeva anche a livello architettonico, in colossali metafore di marmo e di pietra. E’ tuttavia a livello di contenuti e invenzioni sceniche che la fioritura appare più rigogliosa. Il teatro calderoniano contiene in nuce tutte le possibilità sceniche. E’ indicativo, in tal senso, il titolo di un suo lavoro, El gran teatro del mundo. Tutto diviene teatro, lo ingloba e ne viene assorbito. Rafforzando ulteriormente la visione di partenza, quella della natura onirica dell’esistere. C’è un pulsare incessante di vita nei lavori di Calderon. Un pullulare di spunti, azioni, ragionamenti, intrecci. Nel suo Il mago prodigioso del 1637, ci sono, per ammissione dello stesso Goethe, alcuni dei meccanismi che in seguito avrebbero dato origine al Faust.

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         È tuttavia La vita è sogno, dramma composto tra il 1631 e il 1634, il capolavoro indiscusso dell’autore madrileno. Della sottolineatura dell’essenza onirica dell’esperienza si è detto. L’elemento in più che l’autore inserisce e rende portante, fondamentale, è un altro: il sogno potrebbe condurre a prendere tutto con filosofica lievità, per non dire incuranza. L’intento calderoniano al contrario appare proprio quello di indicare che, nonostante tutto sia sogno, anzi, proprio per questa ragione, solo la coerente responsabilità umana nelle azioni può dare un significato non effimero all’esistenza. Difficile, certo. Da razionalizzare e, soprattutto, da mettere in pratica. Ma c’è una coerenza interna. L’ambiente e l’epoca in cui l’autore si trovò ad operare lo hanno influenzato in modo evidente, conducendolo ad una visione del mondo che, tuttavia, almeno per certi aspetti, conserva un suo senso. Non posso evitare neppure stavolta di dedicare un pensiero ai politici. Non sappiamo con certezza se la vita sia sogno o meno, d’accordo, ma la responsabilità, la coerenza, il rispetto dei diritti e delle necessità primarie dell’uomo, sono e restano sacre. Come tali andrebbero trattate. In ogni parte di questo Gran Teatro del Mondo.

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         È il caso tuttavia di tornare al nostro Calderon, il quale, ne La vita è sogno, raggiunge le vette più alte dell’elaborazione di intrecci barocchi, colpi di scena, invenzioni che si susseguono a ritmo serrato. La figura principale è quella del Principe Sigismondo, figlio di Basilio, re di Polonia, a cui è stato vaticinato un regno insanguinato dalla crudeltà dell’erede. Sigismondo quindi, fin dalla nascita, è escluso dalla vita di corte e chiuso in un castello. Pur con le necessarie distinzioni, non solo a livello di contenuto, viene fatto di pensare ad Amleto. Al termine di lunghe peripezie, tuttavia, al contrario di ciò che accade nel capolavoro shakespeariano, si ha la riconciliazione finale. Il principe implora dal padre il perdono per un tentativo di rivolta, un episodio in cui si è messo alla guida del popolo per tentare di conquistare il potere. Il padre perdona Sigismondo, il quale, nel momento in cui ammette le proprie colpe, ha l’impressione di aprire finalmente gli occhi, risvegliandosi. Ogni sogno umano può essere inizio di un risveglio, ogni risveglio l’inizio di un sogno, sembra volerci suggerire l’autore.

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         Per i contenuti, e per la morale di fondo, il testo di Calderon de la Barca rivela oggi tutti i suoi anni. E’ distante, si colloca in un’epoca lontana, non solo dal punto di vista cronologico. E’ un testo scritto con onestà da un uomo imbevuto dei principi che aveva assorbito. Uno che, di sicuro, non possedeva lo scarto necessario, il genio assoluto, quello di un Dante o di uno Shakespeare, per intenderci, per assimilare in sé l’ideologia e la morale del suo tempo, per poi lasciarsi tutto alle spalle, andando oltre. Andando ovunque, in ogni tempo, in ogni mente umana di qualsiasi momento storico.

         Tuttavia, se mettiamo da parte la dipendenza stretta dell’autore dai condizionamenti del suo ambiente, resta, anche oggi, un testo vivo, una sorta di albero strano, pieno di radici e di rami attorcigliati. Arabeschi che, ancora oggi, attraggono l’occhio, in qualche misura, portandolo a visualizzare, per analogia e non di rado per contrasto, allegorie, riflessioni, valutazioni sui percorsi e sui panorami del percorso esistenziale. Resta l’immagine di un teatro che rivela nel modo più evidente e a volte ingenuamente geniale la sua natura di favola colorata e confusa, specchio deformato, ma nemmeno troppo, della vita. Quella vita che, Calderon de la Barca continua a dircelo, è e rimane sostanzialmente sogno. L’ossimoro degli ossimori. Qualcuno potrebbe dire che se l’autore fosse vissuto oggi avrebbe scritto un testo dal titolo La vita è incubo. Forse è così. O forse no. Gli orrori non mancavano di certo neanche nella sua epoca, nel mondo che gli è toccato in sorte. Il trucco forse (e la necessità), è continuare a sognare, vedendo e immaginando architetture fisiche e mentali lussureggianti. Senza scordarci, magari, la responsabilità fondamentalmente umana di provare, nonostante tutto, a trasformare il sogno in realtà.

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Il dono

Un dono, atipico, poco “correct”, tra sogno e incubo, più incubo che sogno a dire il vero, se mi è concesso l’ossimoro.
 Buona lettura, e, senza alcun ossimoro stavolta, buon 2017 a tutte le visitatrici e i visitatori di questo angolo dell’immenso oceano del web.    IM

***

Il dono

Libertà va cercando, 

ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta

.                   Dante, Purgatorio, I, 70-2

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         Le sei e trenta della mattina di Natale. Mi hanno svegliato di soprassalto i vicini di casa. Erano già in piedi ad aprire i regali e a cantare a squarciagola “Jingle Bells”. Pur di non sentirli sono scappato fuori di corsa. Ho ancora il pigiama sotto i pantaloni. Sulle strade e nelle vene, il gelo. Cerco perlomeno il privilegio della solitudine: viaggiare in carreggiate vuote, quasi all’inglese, sulla corsia opposta rispetto al normale. Ci sono gli altri, però. Numerose macchine, lanciate in direzione contraria o analoga. Mi viene da chiedermi perché. Dove vanno? Con quale diritto invadono il mio spazio, la mia follia fuori tempo e fuori orario?

          Lo so, è assurdo. Ma non posso fare a meno di pensarlo. Così come non posso evitare di fuggire, ora. Lontano da tutti, ad ogni costo. Mi infilo in un dedalo di viuzze che non conosco. Ho tutto il tempo che voglio. E assolutamente nessun impegno o appuntamento. Mi ritrovo in una strada sterrata. Solchi sempre più profondi all’altezza delle ruote e sempre più alti l’erba e il pietrisco al centro. Non c’è uno spazio vuoto grande abbastanza per fare manovra. Vado avanti per chilometri. Dietro di me il nulla, una pianura desolata e sconosciuta. Costeggio la siepe di una villa enorme. Presagisco la presenza di una muta di cani da guardia. Mi si affiancano, puntuali, spalancando le fauci fin quasi a mordere la rete. Mi inseguono fino all’ingresso. Mi preparo a fare retromarcia nel vialetto antistante l’entrata, più velocemente possibile, per tornare indietro, sulla strada statale. Ma, contro ogni attesa, il cancello automatico mi si spalanca di fronte. Sarebbe una ragione di più per scappare rapido come un fulmine, se fossi lucido. Oggi però è un giorno speciale. Sarà la stanchezza, la follia generata dalle musiche e dalle campane, dallo spumante e dall’overdose di pandoro, ma decido di premere sull’acceleratore ed entro.

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       Guido tra muro e muro, nei vialetti minuscoli che separano le varie palazzine e le dependance. Sfioro la calce con gli specchietti. La tensione, paradossalmente, svanisce. Lascia il posto alla concentrazione, alla voglia di uscire dal labirinto. Mi ritrovo finalmente in un prato amplissimo, quasi un piazzale da luna-park senza giostre e baracconi. Rimango fermo. Il centro esatto di un gigantesco bersaglio. Immobile, sotto sguardi invisibili. Minuti di silenzio assoluto. Poi una voce, secca, poderosa, amplificata da un megafono. “Eccolo il regalo per te, amore!”. Chissà come e perché mi viene da pensare che le parole siano rivolte a me. Penso a uno scherzo, qualcosa di simile a una “Candid camera”. Invece, qualche attimo dopo, esce fuori un ragazzino di circa dieci anni, con una giacca elegante e un cravattino rosso. Tra le mani stringe un enorme fucile ad acqua giallo e viola. Il suo regalo sono io! D’altronde, si sa, oggi è Natale.

          Spruzza la macchina da ogni lato, urlando e sghignazzando. Dopo un po’ cambia espressione, guarda sconsolato verso le finestre della villa, e comincia a frignare: “Papi, non mi diverto così! Non mi piace. Mi annoio lo stesso, papino!”

          Riecheggia di nuovo il megafono.

          “Sì, Gerardo bello, tieni raggione. Tieni raggione, a papà. Vedrai che chisto ti piacerà!”.

          Si fiondano nella piazza due fuoristrada da cui escono scagnozzi in doppiopetto. Sostituiscono il mitra ad acqua di plastica con uno in acciaio verniciato di nero. Molto più realistico. Anzi, reale.

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          Mi fanno cenno di aprire il finestrino e uno di loro mi borbotta in un orecchio: “Gerardo si deve divertire! Adesso ti diamo cinque minuti di vantaggio, poi ti veniamo a cercare con le Land Rover. Nel parco della villa c’è un’uscita con uno sbocco verso l’esterno. Se sei fortunato la trovi e scappi in direzione della superstrada. Quello sarebbe il tuo Natale. Se non la trovi ti troviamo noi. E quello sarà il Natale di Gerardo. È bravo quanto noi a sparare. Si esercita fin da quando aveva cinque anni. Vai mò. Ah, dimenticavo: nella villa ci sono una ventina di uscite. Tutte sbarrate e invalicabili tranne una. L’estensione del parco è di un’infinità di ettari. È il quinto della regione per estensione. Vengono anche quelli del WWF, il sabato e la domenica, perché qui svernano diverse specie rare di uccelli migratori. Il padrone concede il permesso di ingresso per osservarli e studiarli. Eh sì, è proprio una gran brava persona. A proposito: i tuoi cinque minuti cominciano… ora! Buona fortuna! E buon Natale!”.

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          Metto in moto e ingrano le marce. Rapido, ma non frenetico. Sparisco alla vista, lontano dalle finestre. Le strade sterrate sono deserte, ora. Vuote. Completamente. Solo qualche cerbiatto mi osserva, e qualche poiana. L’uscita giusta la cerco, sì, ma senza particolare convinzione. Anzi, mi viene da pensare che se la trovassi mi dispiacerebbe, quasi. È bello girare a vuoto in questo silenzio, questo intrico di terra, erba e acqua, sotto alberi secolari. Non so quanto durerà, ma è proprio un gran bel regalo. Non solo per Gerardo. Anche per me.

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