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On the other side of the moon – Cronache di estinzioni

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On the other side of the moon

Osservazioni e note di viaggio
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Cronache di estinzioni

di Lucetta Frisa

Cronache di estinzioni. Si intitola così il libro che vi propongo oggi in questo spazio riservato alle segnalazioni di libri, spesso atipici (per loro merito e nostra fortuna) che ho letto con piacere. Questa rubrica di segnalazioni si chiama “Letti sulla luna”, e, nel caso specifico di questo libro, il luogo in cui idealmente sfogliamo le pagine appare quanto mai adeguato.
Ci siamo estinti, ci dice l’autrice, Lucetta Frisa. Più che una previsione per il futuro, la cronaca è un commento in fieri, se non addirittura un resoconto di eventi che già hanno avuto luogo. Ma immaginiamolo come il commento di una partita. Un match tra la bellezza del mondo e la stupidità umana. Anzi, potremmo sintetizzarla in questo modo: in diretta dallo stadio Azteca, il Peggio dell’Atletico Sapiens Sapiens contro il Resto del Bello del Mondo.
Questo non è tuttavia, è bene chiarirlo, solo un resoconto di eventi catastrofici, disastri ecologici e altre esiziali amenità. È un libro in cui l’autrice si chiede, e ci chiede, se abbia senso continuare ad essere come siamo e a vivere come viviamo.
Una domanda da un milione di dollari, o di talleri, a seconda delle epoche, in quanto è su questo interrogativo che si gioca da sempre il senso del fare poesia. Piera Mattei in una recensione al libro apparsa su “Perigeion” ha scritto: «Cronache di estinzioni è la raccolta poetica di Lucetta Frisa che più ho amato». Al di là delle classifiche, concordo anch’io sul fatto che questo libro abbia concesso a Lucetta di esprimere al meglio la gamma dei temi, dei modi e degli sguardi su sé stessa e sulla vita che le sono cari e consoni.
Ho incontrato Lucetta Frisa in varie occasioni. L’impressione dominante è una solarità assoluta e una grande capacità di dialogo, in grado di mettere a proprio agio perfino i timidi più ostinati. Eppure, nella sua tendenza alla giovialità c’è una parte della mente e del cuore che osserva e annota. Collocata on the other side of the moon, nella parte più silenziosa dei luoghi e dei tempi, la Lucetta cronista estrae il taccuino e scrive. Si appunta gesti, azioni, comportamenti e soprattutto il materiale di base, il combustibile che può accendere un falò nel buio ma anche generare tragicomici incendi: le parole. L’ironia è la bussola volutamente sbalestrata che la Frisa usa per salvare sé stessa e la barca degli esseri viventi a lei cari dai più funesti naufragi. È quella scialuppa che ti consente di porti le domande che davvero contano, che poi essenzialmente sono quelle che ci hanno insegnato a non fare. I saggi, i sapienti, gli astuti, sanno bene che quelle domande sono pericolose. Scardinano l’asse delle cose così come sono. Quindi per potersele porre, bisogna avere una parte “clandestina”, un pezzo del cervello e del cuore che risiede sulla Luna e vive di salvifiche ironie. «La luna è schizzata fuori orbita / stufa di stare dove stava / rotolata acciambellata nello spazio vuoto / inciampata dentro i buchi neri / giù giù / un tuffo / fino al salotto». Ecco, questi, oltre ad essere i versi iniziali della lirica di pagina 58, sono anche un “ritratto di poetessa con galassie”.
«L’antichità naturale nella poesia permette a Frisa di governare lo scazzo proprio dentro le fastose e festose risultanze oggi in voga. Una slogatura articolare non è metafora assistenziale, ma quest’evento dà modo di indirizzare gli strali agli agenti nemici letterari e non». Il brano qui citato è tratto dalla prefazione al libro a firma di Elio Grasso. Ci consente di dare alcune informazioni e fare alcuni rilievi. La Frisa, avendo ottimi amici, nella sua mugugnante e generosa Genova e non solo, ha scelto due adeguatissime cornici per i suoi versi. La prefazione di Grasso e un altro lavoro di cesello, collocato in fondo, dal lato opposto ma illuminato dallo stesso acume e dallo stesso sobrio e intenso affetto nei confronti dell’autrice: un lunare e stralunato, godibilissimo racconto di Mauro Macario. Da leggere, anch’esso. Parla del libro e dell’autrice collocandoli in una futuribile Ghenovas, una città in cui tutto è talmente diverso da oggi da essere in fondo uguale. Siamo già nel futuro presente, o nel presente senza futuro, in mano a ronde di cyborg che vigilano affinché nessuno si possa emozionare. Ma Mauro Macario riesce a leggere clandestinamente il libro e ne propone una sintesi che è un esatto messaggio-missaggio: «un mix di prosa, poesia, pamphlet lirico e velate richieste di soccorso».
La caratteristica di maggior rilievo che mi sembra si confermi anche in Cronache di estinzioni è la libertà. Lo hanno detto e narrato con diverso approccio ma in modo concorde anche Grasso e Macario. Libertà in senso ampio, conquistata anno per anno, a caro prezzo, ma sempre senza scordarsi il sorriso, la risata fragorosa ma mai cattiva e la irrinunciabile ironia. Libertà nel senso di capacità di dire ciò che vuole e sente di voler dire, e scrivere. Sembra cosa da poco. Potrebbe apparire scontata. Qualcuno potrebbe obiettare che chiunque, qui, può dire e scrivere ciò che vuole. Mica siamo a Ghenovas nel 2087 circondati da ronde di cyborg! Siamo sicuri? Voglio dire, quanti di noi scelgono i temi dei propri scritti perché premono sul cuore e non perché premono ai critici alla moda, quelli che fanno chic come le giacche di lino e le camicie firmate. Quanti, nella realtà, prima ancora che nella scrittura, esprimono i sentimenti scomodi, ingombranti, senza sottoporli a mille filtri a protezione 50? La Frisa questo privilegio-diritto o diritto-privilegio, se lo è ritagliato. In questo libro esordisce con la poesia “Per mia madre”, e, a metà circa, osserva «Forse le persone che nella vita contano / stanno tranquille e modeste nell’invisibile / ma la spiaggia assalita dalle alghe / non mi piace e non mi piacciono / i cari fantasmi e gli eventi troppo lontani». La conclusione della lirica è questa: «È il momento di andarmene da qui / per rivivere gli attimi di luce / la gloria della loro solare illusione / insieme a te che davvero fosti reale / e ora, incerta, molto incerta, mi sorridi».
La retorica, gli stilemi, il politically correct (o come caspita si voglia definirlo), qui vanno a ramengo. Si fanno da parte. Anzi no, vengono messi da parte, affinché la voce sia sincera e la luce faccia chiarore davvero, per quanto è dato di vedere ad un essere vivente.
Questo libro spazia tra detriti e vulcani e il contrasto tra vita e morte, buio e luce, energia e stasi, pervade l’intera gamma dei componimenti. Ma l’opposizione non è mai semplice, non è lineare ed univoca. La Lucetta ci ricorda, tramite i versi, che «nelle incolmabili distanze / si fa esercizio d’immaginazione». Parlando di città, di luoghi familiari e lontani, di fenomeni climatici e naturali, si finisce per parlare dell’uomo, del genere umano, del legame con lo spazio vitale che gli è stato dato e che ha scelto di trasformare, con ostinato zelo, a sua immagine e somiglianza. L’uomo ha voluto provare che effetto fa sentirsi dio, padrone assoluto del pianeta. Il risultato sarebbe comico, se potessimo permetterci di osservarlo da qualche terrazza panoramica di un altro bel pianetino, magari davanti ad un tavolo di vetro con un prosecco della Valle di Marte, doc e d’annata. Sulla temperatura, beh, non è possibile garantire il meglio.
Se non basta la geofisica come monito, si prova con la Storia. A pagina 33 c’è una poesia che parla della London Valour, la nave naufragata a Genova il nove aprile 1970. Naufragata tra i moli del porto. Il meccanismo delle associazioni, davvero libere, è il caso di ribadirlo, e aspramente sincere, porta la Frisa a queste considerazioni: «Allora non è vero che chi sta al riparo si salva. / Le raccomandazioni di mia madre furono irreali: / se fa freddo copriti, prendi l’ombrello se piove / se traversi la strada fai attenzione. Allora / non c’è scampo quando qualcosa che deve accadere / accade?».
Il nodo è in questo interrogativo. Amleto avrebbe detto that is the question. Il dubbio per antonomasia viene analizzato, scannerizzato con attenzione. Alla fine ne deriva una risposta che è domanda ulteriore: «Chi può raggiungere lo stato postumo / di questo atroce presente se non fuggendo da lui? / E dove? / L’ironia ci tiene in vita per un po’ impedendo / le smanie di assoluto. Ma non basta. / Occorre molto tempo verticale e lo spazio / esatto / tra terra / e cielo».
Nel libro lo iato tra terra e cielo viene rafforzato anche da una riga bianca.
Alcune considerazioni conclusive, ma prima un invito. L’agile libro di Lucetta Frisa (corredato dalle due preziose cornici di artista di cui si è detto) consta di una settantina di pagine. Ovunque si trovi il potenziale lettore, sulla Terra, sulla Luna, su Marte o su qualche luogo ulteriore non ancora mappato, la lettura del suddetto libro potrebbe far bene. Non per rispondere alle domande, ma per tracciare una rotta emotiva, alla faccia dei cyborg di cui sopra.
Potrebbe servire a chiederci se vale la pena sentirci forti ed efficienti distruggendo ciò che davvero conta e in fondo ciò che davvero siamo. Più in generale potrebbe essere utile per chiederci dove si trovi, dove esattamente sia collocato, “il tempo verticale”. Forse ce lo potrebbe dire tra un sorriso e una battuta autoironica la Frisa. O magari ci direbbe che neppure lei ne ha idea. Non ne ha idea, neppure pallida come la luna. Ci confermerebbe, Lucetta Frisa, che nella sua vita ha sempre agito d’istinto, fregandosene di quelli saggi e di quelli precisi, e pensando e scrivendo ciò che davvero la toccava nel profondo, quello che la faceva stare meglio, almeno per un po’.
Ecco forse agli interrogativi di questo libro non c’è una risposta. O forse, nell’atto di dire che la risposta non esiste, implicitamente si traccia una strada.
Una via di fuga. Perché la fuga è necessaria, praticamente sempre. Ma la vera fuga, quella autenticamente libera, è quella che consente di scappare via senza in realtà muoverci dal luogo imperfetto e dal presente atroce che sono il solo luogo e il solo tempo che abbiamo.
Per vivere. Per tentare di vivere. Ogni volta che il vento si alza.

 

                                                                                                                                 Ivano Mugnaini
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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.