Figlie uniche

Una mia recensione al libro Figlie uniche,  di Claudia Marin.
Buona lettura, IM

Figlie uniche, copertina

Claudia Marin, Figlie uniche, Iride, 2021

Figlie uniche è fluido, scorrevole, divertente, ironico, in grado di sdrammatizzare in tutti i modi possibili le ferite della vita, the slings and arrows of outrageous fortune. Si legge con un sorriso, desiderosi di scoprire come procede, paragrafo dopo paragrafo, con rapida voracità. Ma, attenzione, qualcosa resta. Non scorre via anodino e indolore. Perché quell’acqua chiara, fresca, a tratti dolce e a tratti amara, si fa specchio di esistenze possibili, forse reali, forse del tutto inventate, ma di sicuro verosimili, umanissime. Parla simultaneamente di un universo circoscritto e dello spazio e del tempo che ciascuno vive dentro di sé, tra analogie e contrasti, nello scorrere ininterrotto che cambia e ci trasforma.
Costanza, la protagonista, avrebbe tutto per essere contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il rapporto complesso e conflittuale con la madre la condiziona, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.
L’accadimento che genera il mutamento mettendo in moto una progressiva “agnizione”, è la nascita della figlia di Costanza. La protagonista si rende conto, razionalmente e per istinto, che in seguito a quell’evento niente sarà più come prima. Dovrà abbandonare la rassicurante condizione di trentenne ancora protetta e viziata da moine adolescenziali e dovrà finalmente guardare negli occhi le sue debolezze, le malattie reali e quelle immaginarie, ma anche i punti di forza, le energie nascoste proprio nei luoghi che teme di attraversare, nelle verità che ha paura di cercare e di scoprire.
Lo specchio, è opportuno ribadirlo, è uno dei simboli più rilevanti della vicenda narrata. Una metafora lineare e stratificata, a livelli multipli, non di rado contrapposti. Sofia, la figlia di Costanza, è l’immagine della madre ma è al tempo stesso una proiezione anche di Celeste, sua nonna. È una sorta di ponte tibetano, danzante, inebriato e inebriante, complicato da attraversare, percorso da scosse e venti giovanili, da energie e cupezze, da intelligenza e ingenuità. Grazie a questo ponte, Costanza e Celeste troveranno modo di avvicinarsi, esitanti, ognuna con il suo passo, ognuna con i suoi testardissimi orgogli, con una sfida che volta dopo volta si rinnova.
Questo romanzo racchiude un microcosmo femminile. Un universo assolutamente intimo, fatto di gesti e di pensieri, di confessioni aspre e desideri di dolcezza. Il vetro riflettente, liscio e aspro, è il romanzo stesso. Una superficie in cui tre volti si sovrappongono ma in cui ogni lettrice (ma in fondo anche ogni lettore) può riconoscersi trovando qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, della difficoltà a ritagliarsi uno spazio autonomo nel mondo, in quello familiare e in quello esterno.
La malattia irrompe nella trama mettendo ulteriormente a nudo caratteri e rapporti personali. Costanza si ammala di melanoma. Allo stesso tempo deve pensare a proteggere sua figlia dai suoi dolori personali e da quelli che la malattia comporta. Celeste, in quei frangenti, senza rinnegare se stessa, rivela la parte più umana della sua personalità. Quella che era emersa dai racconti della sua infanzia trascorsa in un orfanotrofio, prima della fama che l’avrebbe portata di colpo in Francia, in compagnia di un amore che costituisce anche il nodo da sciogliere del romanzo, il mistero concernente l’identità del padre di Costanza. Sì, perché questo libro sembra nascere “in presa diretta” da dialoghi immediati e realistici, ma possiede anche una struttura interna ben curata ed elaborata in grado di condurre a progressive rivelazioni o anche, per scelta e necessità, a soluzioni aperte, ad altri sviluppi ancora da vivere e da immaginare.
Il romanzo, come detto, spazia tra presente e passato con un costante gioco di rimandi. A sua volta ricalca le rifrazioni da cui trae origine: i volti delle tre donne, le loro tre generazioni e personalità ben distinte, si scontrano, si respingono, si accostano in un bacio finalmente tenero, senza orgogli, per poi respingersi e cercarsi di nuovo. I tre personaggi principali, in eterno conflitto, a ben pensare e a ben sentire, non hanno misura, non hanno senso e non hanno amore, se non una nell’altra e per l’altra.
Ne deriva un duplice processo: in primo luogo la personalità della protagonista, Costanza, compressa tra orgogli e paure, tra la voglia di gettarsi nella vita come in una piscina, finalmente libera e coraggiosa, e, sul fronte opposto, il timore dell’ignoto, dell’imponderabile. Altra sfaccettatura, strettamente correlata alla prima, è la complessa coesistenza delle tre protagoniste, tre esseri fieramente autonomi, e, come suggerisce il titolo, unici.
Il finale del romanzo, ineluttabilmente aperto, offrirà un punto di vista per cogliere allo stesso tempo le singole parti e la figura d’insieme. Lasciando spazio ad ulteriori prospettive, ad altre ottiche, tra cui, determinante, quella del lettore, chiamato non solo a scegliere un proprio personale punto di osservazione ma anche ad entrare in prima persona all’interno della cornice, portando con sé le proprie paure e i propri desideri: le proprie, irrinunciabili, unicità.
  Ivano Mugnaini

 

claudia-marin-libro-figlie-uniche-recensione

Claudia Marin

Napoletana con ascendenze venete, vive a Roma. Giornalista per il Quotidiano Nazionale, da sempre è ostaggio della follia della scrittura creativa. Fin dai banchi delle elementari, quando si inventava gli «amici immaginari», ha scritto, riscritto, sovrascritto e cancellato storie e racconti. Stavolta ha deciso di venire allo scoperto: ed ecco Figlie uniche.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *