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Cucendo i fili della vita – rec. a “La sarta”, di Marilena La Rosa

La sarta, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse la ricama e rammenda con la fantasia, nella terra di nessuno tra verità e immaginazione.
Ho letto con piacere questo libro e altrettanto volentieri ne ho scritto.
Ci conduce lungo un sentiero poco battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina “con una M gigante sulla maglia” o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, “versi che si baciano”.
Buona lettura, IM

 

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.Saranno volta per volta le stesse domande.Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

immagine copertina

5 domande

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Marilena La Rosa

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Questa è senz’altro la domanda più difficile. Provo a rispondere.

Sono nata e vissuta ad Acireale, che non è un fatto da poco, perché la mia è una città colta, elegante, di una bellezza struggente ma è anche la patria del cavolo trunzo la cui caratteristica principale pare sia legata indissolubilmente al dna degli abitanti (e quindi anche al mio): è duro come è dura la loro e la mia testa. Quindi, sono testarda e ho modo frequentemente di mostrare questa “dote” – che misteriosamente non tutti sembrano apprezzare – , nelle scelte, nelle relazioni familiari e sociali, nel raggiungere gli obiettivi. Nel bene e nel male, insomma. Mi sono poi trasferita a Palermo e qui ho incontrato un altro tipo di bellezza, quella sfrontata, maestosa, abbagliante del barocco o cupa, possente e austera del gotico-normanno. E nelle contraddizioni di Palermo mi sono persa e poi ritrovata e Palermo è riuscita così a diventare metafora piena della mia vita. Posso giurare, quindi, che l’ambiente condiziona l’esistenza. Anche quello familiare, ovviamente. Sono cresciuta con una mamma che mi raccontava i miti e le tragedie greche, ho conosciuto Dafne, Polifemo e Medea prima di Cappuccetto Rosso o Cenerentola. E quindi ho sempre letto e sono cresciuta fra i libri e le conversazioni a tavola avevano il sentore di un’interrogazione agli Esami di Stato: “Chi ha scritto le poesie a Casarsa?”, chiedeva mia madre mentre faceva scivolare una cucchiaiata di purè nel piatto.

Credo che con questo imprinting, il mio futuro fosse irreparabilmente condizionato: mi sono laureata in Lettere e ho iniziato a insegnare all’età di ventitrè anni. In una scuola serale. In una scuola serale frequentata da adulti lavoratori a cui dovevo parlare di Dante e Petrarca. Ed è stato bellissimo.

Da lì è stato tutto un crescendo di attività, ricerche, scritture, viaggi, studi, successi, sconfitte, gioie e pianti.

Ho scritto e scrivo tanto e mi dedico a quello che amo: la mia famiglia, i miei alunni, i miei libri. E trovo il tempo per guardare il cielo stellato, il mare d’inverno, i cuccioli di gatto o le albe trasparenti. E per il cioccolato. Per quello trovo sempre tempo.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Si scrive per vivere e sopravvivere, per tendere all’infinito, per piacere, per presunzione, per romanticismo, per vanità, per lasciare o per centrare un segno. Si scrive perché grumi di idee, parole ed emozioni possano concretizzarsi e ordinarsi in segni striscianti sulla carta. Si scrive per dire “ci sono” e perché dicano “c’era”. Si scrive anche per gioco, per sfida, per evasione. E anche per divertimento.

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Goliarda Sapienza e la scomoda arte dell’anticonformismo

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Ci sono libri e autori che non vengono piegati dalle leggi del tempo e del mondo. Restano ai margini per un certo periodo, può trattarsi di anni o addirittura di decenni, perché precorrono il sentire di un’epoca, e questo dono, prima di essere compreso, è un fardello, o perfino una colpa, agli occhi dei più.

Se oggi Goliarda Sapienza è nota e riconosciuta tra le scrittrici più significative del ‘900, si deve al passaparola e a quello spirito libero, quasi anarchico, di coloro che leggono senza pregiudizi, non certo ai paludati, prudenti e non di rado miopi membri dell’intellighenzia.

Parlare e scrivere di Goliarda Sapienza vuol dire capire le ragioni di un fenomeno letterario che è cresciuto in modo autonomo, con una progressione costante, tuttora in corso, e si è diffuso a macchia d’olio all’estero, dopo che per anni, in vita, la figura dell’autrice è passata sotto silenzio, snobbata se non ignorata dall’editoria italiana. La personalità singolare, la vita controversa e fuori dagli schemi e uno stile appassionato sono il marchio di una scrittura che ha trovato nel capolavoro L’Arte della Gioia una sintesi in grado di affascinare i lettori di vari paesi.

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Il mio personale excursus sulla figura di Goliarda Sapienza, scrittrice e poetessa ma anche attrice e sceneggiatrice, seguirà le tappe e il percorso di questi “viaggi al centro dell’autore”: prenderà le mosse dai luoghi che ne hanno segnato più profondamente la vita e l’opera, quelli con cui ha interagito, ricevendone vita e restituendola, strappando al silenzio e alla follia i segni dell’arte della gioia, e del dolore, riprodotti con una penna coraggiosa e sincera.

L’incipit de L’arte della gioia riassume perfettamente l’istinto e la deliberata ricerca della sincerità, il volto nudo delle cose: “Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente.”

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Goliarda Sapienza nasce il 10 maggio 1924 a Catania. La madre, Maria Giudice, è una sindacalista nota e impegnata, prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino, mentre il padre, il catanese Peppino Sapienza, è un avvocato dedito principalmente alle cause della povera gente. Sarà l’educazione anarchica del padre a segnare un’impronta profonda sul suo modo di guardare alla vita, lo sguardo intenso, l’angolazione sghemba, di taglio, sprazzo di luce su una ferita. Come le crepe sulla terra assolata, sulle pietre antiche e sugli umili sentieri della sua Sicilia, quasi imperturbabile al tempo, immersa in un sole pigro e possente, tra apatie e passioni, istantanei scatti felini e un’afa atavica. In un’epoca che gravava come un macigno su un popolo oppresso da un regime autoritario che si innestava su connivenze e oppressioni già profondamente radicate, Goliarda ebbe il modo, la sorte e il merito di ritagliarsi spazi di libertà, lontana dai vincoli sociali, svincolata persino dal frequentare la scuola per evitare qualsiasi forma di imposizione e di influenza del regime fascista.

Dentro i primi scritti di Goliarda, sullo sfondo, come un vulcano solo in apparenza immobile e spento, ma anche dentro, all’interno, nel nucleo caldo in espansione, c’è la Sicilia. Impregna e fa ardere i suoi primi versi, quelle diciotto poesie brevi in lingua siciliana oggi raccolte nella silloge Siciliane pubblicata da Angelo Scandurra. Si tratta di una “serie di fogli non inframmezzati da altri componimenti in italiano” nei quali Goliarda esprime il dolore per la morte della madre, testimoniando l’amore, il rimpianto, la rabbia, le luci e le ombre di un rapporto conflittuale e sofferto: anche lei, la madre, come la Sicilia, è il suolo imprescindibile delle radici da cui si fugge e a cui si ritorna, un desiderio di altrove che si porta dentro, ossimoro spaziale e logico, sete di vita e di espressione. Queste poesie rappresentano l’imprinting della giovane e atipica poetessa chiamata affettuosamente “Iuzza”. La sua identità è segnata dalla vita della sua Catania, dal quartiere Berrillo in cui ha vissuto, con i vicoli e i bassi intorno a via Pistone, tra il lavoro dei pupari e le loro storie di un passato mitizzato, reso attuale nel suo infantile eroismo affiancato alle vicende e ai sogni resi racconto tra dramma e ingenuità, come le pellicole del cinema Mirone in cui Goliarda trascorreva interi pomeriggi. C’è una frase di Goliarda Sapienza, che recita: «Palermo sull’isola assediata due volte, dai monti e al di là dei monti dal mare. Catania insonne di gelsomini, di stelle e occhi di bambini». La poesia della parola fa incontrare gli estremi, dissolve le distanze e per un istante le tramuta in un sensuale abbraccio.

Anche negli altri suoi testi, da “Filo di mezzogiorno”, a “Certezza del dubbio”, fino a ”Arte della gioia” eLettera aperta”, non c’è pagina che non abbia echi della sua terra.

Nel titolo del film documentario realizzato da Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, “L’Anti Gattopardo. Catania racconta Goliarda Sapienza”, c’è una possibile chiave di lettura per penetrare all’interno del mondo complesso e poliedrico dell’autrice. Innanzitutto il suo essere “contro”, schierata sul fronte avverso: non per sfoggio, non per maniera o cliché, non per diventare essa stessa un personaggio ribelle da cinema o da teatrino dei pupi, una donzella che si agita e grida contro bellicosi e violenti spadaccini. L’opposizione di Goliarda al mondo era innata, genuina, vissuta con una specie di malinconia assolata, una gioia che è arte ma anche sole che abbronza, assorbito dalle pelle in modo spontaneo, una forza vitale che porta verso un luogo altro. Quasi senza rabbia, perché il gesto e il moto sono tanto naturali da non richiedere neppure di essere espressi con atteggiamenti esteriori.

Il documentario ripercorre le tappe e i luoghi della vita della scrittrice etnea, dagli inizi della sua carriera di attrice teatrale a quella cinematografica. Parla anche del passaggio dalla speranza di gloria alla miseria e al periodo trascorso in carcere per furto. Ad alcuni dei luoghi cardine della sua ispirazione di artista e di persona ho già fatto cenno: l’antico Laboratorio Puparo Insanguine e il cinema Mirone; ad essi si aggiunge Ognina, la baia dove andava a nuotare e infine la spiaggia della Plaia, dove a volte raccoglieva le reti con i pescatori. A volte piene, queste ultime, a differenza di quella simbolica della sua vita, segnata dalla ricerca di un successo e di un’affermazione mai raggiunti sia nel campo teatrale che in quello letterario.

Oltre la Sicilia, nel percorso esistenziale di Goliarda Sapienza c’è Roma. Vi arriva sedicenne insieme alla famiglia e vi trascorre mezzo secolo. Spinta dal padre che ne intuiva il talento artistico, si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Per un periodo intraprende anche la carriera teatrale, conservando anche in questo ambito il legame con le radici grazie alla predilezione per i lavori pirandelliani. Lavorò sporadicamente anche nel cinema, dapprima con Alessandro Blasetti per poi limitarsi a piccole apparizioni, come in Senso di Luchino Visconti.

Nel mondo del cinema trova anche uno dei suoi più intensi legami sentimentali, quello con il regista Citto Maselli durato 18 anni. Negli ultimi anni della sua vita insegna recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Dopo aver abbandonato la carriera di attrice sin dai primi anni ’60, iniziò a dedicarsi alla scrittura. Il suo primo romanzo, Lettera aperta, del 1967,, racconta l’infanzia catanese, seguito da Il filo di mezzogiorno (1969) resoconto della terapia psicanalitica con il medico messinese Ignazio Majore.

Nel 1980 finì in carcere, per un furto di oggetti in casa di amiche. Sempre in carcere continuò l’opera di scrittrice pubblicando però molto poco, fatta eccezione per alcune sue opere come L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, pubblicato grazie all’incontro con il conterraneo poeta ed editore Beppe Costa, che si batté a lungo per lei. Costa tentò senza successo di farle assegnare il vitalizio della Legge Bacchelli, né riuscì a ottenere la ristampa delle sue opere. Sapienza riuscì comunque a pubblicare, con la sua casa editrice Pellicanolibri, Le certezze del dubbio, 1987, premiata successivamente in occasione del Premio Casalotti 1994.

I numerosi rifiuti editoriali non ne abbatterono la determinazione, portata avanti tra entusiasmi e forme gravi di depressione che la indussero per ben due volte al tentativo di suicidio. Alcuni versi di una sua poesia testimoniano la tenacia del passo pur nella consapevolezza degli ostacoli: “Vorrei al ritmo del verso/ abbandonarmi/ ma il tempo stringe/ e devo correre ancora.”

Per un’analisi critica di questi versi tratti dalla raccolta Ancestrale, così come per una lettura approfondita di vari spunti che in questi appunti di viaggio sono stati appena accennati, si consigliano saggi e articoli presenti in alcuni libri e anche in rete. Di particolare rilievo e interesse, per il lungo e pregevole lavoro dedicato alla figura e all’opera di Goliarda Sapienza, gli articoli di Fabio Michieli, tra cui https://poetarumsilva.com/2013/11/07/ancestrale-di-goliarda-sapienza-appunti-di-lettura-con-una-nota-impropriamente-filologica/ e di Alessandra Trevisan, tra i più qualificati studiosi dell’autrice. Si vedano ad esempio, riguardo alla Trevisan, i seguenti link: http://www.veneziatoday.it/eventi/goliarda-sapeinza-loggia-noale-12-aprile-2016.html e https://poetarumsilva.com/2016/02/18/voce-di-donna-voce-di-goliarda-sapienza-a-bologna-in-lettere/ (quest’ultimo riferimento riguarda uno spettacolo teatrale dedicato alla scrittrice siciliana e realizzato assieme ad Anna Toscano e Fabio Michieli). Per una panoramica dell’ampia e costante attenzione riservata da Poetarum Silva a Goliarda Sapienza è utile anche la lettura di questo recente articolo: https://poetarumsilva.com/2016/05/23/goliarda-sapienza-o-dellessere-outsider-2/ .

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Vorrei al ritmo del verso/ abbandonarmi/ ma il tempo stringe/ e devo correre ancora”, dicevamo, citando i versi emblematici di Ancestrale. Nell’ambito di questi contrasti, nella tenacia che parte da una sola certezza, quella del dubbio, riesce a portare a termine la sua opera più emblematica L’arte della gioia. Un titolo che rivela segni e significati: la gioia come arte, quindi come ricerca, tensione, aspirazione alla bellezza. Un luogo da conquistare più che un suolo di cui si possa vantare il possesso. In questo suo libro l’autrice trasfuse il suo senso di libertà e di rivolta contro qualsiasi convenzione . “Non sapevo che il buio non è nero. Che il giorno non è Bianco. Che la luce acceca. E il fermarsi è correre. Ancora di più”, dichiara, in alcuni suoi versi, adatti anche a parlare del suo libro, oltre che del suo modo di vedere e di pensare.

Il romanzo narra la storia di Modesta ciò che incontra sulla sua strada ma anche il coraggio di uscire dai sentieri già segnati per andare incontro a ciò che davvero sente e di cui ha bisogno, l’essenzialità ruvida e sublime di un’esistenza vissuta con sincera passione, nel bene e nel male.

Modesta è un personaggio che vive senza fuggire. Guarda in faccia le sfide, cercando continuamente un equilibrio tra corpo e pensiero e dimostrando in definitiva la propria individuale conquista di tale obiettivo.

Modesta è un paradossale quanto sincero alter ego (un nome quasi ossimorico, antitetico in un certo senso rispetto ai suoi nomi anagrafici, Goliarda e Sapienza). Identica a quella dell’autrice è però la volontà del personaggio di condurre le sue battaglie in modo coraggioso, al di là dei dogmi, senza Dio né padroni.

Dopo aver lottato per anni per veder pubblicato il suo romanzo, Goliarda Sapienza si rese conto che non ci sarebbe riuscita, se non molto tardi, quando ormai il suo percorso esistenziale era concluso. Ma trasforma questa apparente sconfitta in un preso di coscienza amara ma non vinta, una poetica della solitudine e del mistero del senso delle cose: “Ogni individuo ha il diritto al segreto e alla morte. È per questo che ho scritto, per chiedere a voi di ridarmi questo diritto […]. Vi chiedo solo questo: non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte, la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto».

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Einaudi si sta occupando, ora, della pubblicazione degli scritti inediti lasciati dall’autrice, nello specifico il romanzo Io, Jean Gabin (2010) e una selezione di pensieri tratti dai diari raccolti nel volume Il vizio di parlare a me stessa (2011), e in La mia parte di gioia (2013).

Ciò che l’autrice ci lascia, utile e attuale, oggi più che mai, è la capacità e il bisogno , il coraggio e la volontà di restare lontana dagli stereotipi comodi e suadenti. L’arte della gioia ha detto qualcuno è un libro che “insegna a desiderare”. La gioia viene vista come un diritto, e tutto ciò è intrinsecamente rivoluzionario. Una delle pochissime utopie ancora vive, oggi più che mai. Tanto improbabile quanto vitale, nel senso stretto del termine. Un diritto quest’ultimo che troppo spesso si tende a negare o a limitare, per convenzioni religiose o ideologiche, o per vigliaccheria, ma che riemerge prepotentemente come una delle leve più importanti dell’agire umano.

È questo diritto-dovere che questa autrice atipica evoca, certa solo del dubbio, e, nonostante questo, o forse in virtù di questo, tanto più consapevole di ciò che dà forma e misura alle maglie larghe e a quelle strette della rete spietata e fascinosa che è il destino. Goliarda Sapienza ha compreso ciò che ha percepito. Ha pagato lo scotto di questa ispirazione inebriante, questa ondata di sensazioni che ti travolge mentre ti porta oltre i confini, al di là delle Colonne d’Ercole del già detto e del già stabilito, delle regole e dei paletti posti tra i diversi territori esistenziali degli individui. Tutto ciò che durante la sua vita le ha causato problemi, isolamento e frustrazione, la ha anche resa forte nella sua incoercibile autenticità. Ciò che in vita l’ha fatta additare come diversa, ora contribuisce a nutrire la curiosità dei lettori nei suoi confronti, la sete di abbeverarsi alla fonte della sua strana gioia e della sua arte alchemica e misteriosa. Perché probabilmente ogni lettore ha l’orrore di guardare negli occhi la gioia che acceca e rende folli, ma, osservandola nello specchio di chi ha osato cercarla al posto suo, vi trova il suo stesso sguardo e il viaggio nel mare tempestoso e mitico che ciascuno, in cuor suo, sogna di intraprendere.

Sulle tracce di un siciliano europeo: Tomasi di Lampedusa

Tomasi di Lampedusa

“C’era una volta un principe…” colto, fiero, nato a Palermo, siciliano doc e al contempo cittadino del mondo. Difficile dire dove inizi il Principe di Lampedusa e dove finisca quello di Salina. Per tutti è il Gattopardo, il romanzo icona che continua ad affascinare generazioni e le cui orme sono profondamente impresse nel nostro DNA.
Ma l’uomo, lo scrittore, il letterato e il viaggiatore possono essere riassunti nella sola figura del “Principe”?
Il punto interrogativo è d’obbligo quando si tratta di discernere tra l’uomo e il personaggio letterario e ancor più allorché si cerca di trovare una chiave di lettura di un autore celebre per un unico, grande romanzo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è una figura a tutto tondo che non può essere letta solo alla luce del suo celeberrimo libro o per la sicilianità che incarna e descrive. Egli fu molto di più e, attraverso l’esplorazione delle sue rotte storiche, geografiche e biografiche, si tenterà di tracciare un ritratto diverso dell’autore, lontano dalle cornici di maniera, barocche ma tarlate e inconsistenti. Ne risulteranno i tratti di uno scrittore e di un uomo ricco di sfaccettature e di polifoniche voci.
Lampedusa, dunque. Non è forse casuale rilevare che quello che per lui fu il punto di partenza, oggi per molti è un punto di arrivo, il traguardo di una speranza. Lampedusa è una propaggine d’Europa nel cuore del Mediterraneo, terra di confine e di approdo nota per sbarchi, annegamenti e traffici di vite umane dalle coste della vicina Africa. La storia cambia ma restano, pur nelle differenze, delle costanti, le caratteristiche immutabili degli esseri umani, gli stati d’animo, le miserie e le grandezze, il bisogno di un suolo di certezze e sul fronte opposto il fluire del mutamento che sradica e sconvolge.
Per queste e per altre misteriose ragioni, per questo miscuglio di antico e moderno, poetico e razionale, antropologico e filosofico, Tomasi rimane a tutt’oggi un autore attuale, ancora in grado di far coesistere caratteristiche differenti generando punti di vista contrastanti, influenze e dibattiti tra i lettori e i critici. Il suo Gattopardo è diventato con il passare degli anni molto di più di un romanzo di successo e di una popolarissima pellicola. Si è trasformato in un’icona, uno spunto infinito per citazioni. È diventato un modo di dire, il simbolo di un’epoca e di un modo di pensare, identificabile quasi con il marchio del copyright, come l’aspirina o la coca cola.
Come spesso accade però, nella letteratura, nella vita e lungo quel punto ventoso e oscillante che le unisce e le divide, tra le parole e la verità, tra l’uomo e l’opera, c’è un bel tratto di mare. Nel caso specifico di Tomasi, le onde in questione sono quelle tra Scilla e Cariddi, tra la Sicilia e il Continente, non solo l’Italia, ma l’Europa.

Come accadde ad un altro siciliano dal carattere complesso e multiforme, Luigi Pirandello, anche Tomasi fa rotta verso il nord.
In cinque anni di intensi viaggi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ebbe modo di conoscere a fondo alcune delle principali capitali europee. Cercava lo spirito autentico dei luoghi e dei popoli, il volto vero da confrontare con quello del suo Mediterraneo. Scoprì la bellezza mite di Parigi e si trovò particolarmente a suo agio a Londra, città che trovò ricca di bonomia. Esplorò però anche il fascino più cupo e intrigante di Berlino. Visitò musei, ma anche le vie trafficate dal popolo e i tracciati già resi mitici da grandi libri del passato. Frequentò salotti alla moda ma anche locali di ricreazione e fu attratto da tutto, assimilando con vivida curiosità. Viaggiava con un repertorio di citazioni e scriveva lettere di rigogliosa fantasia in cui confermava la sua sete di conoscenza. Anche lui, seppure molto distante da un altro affabulatore immaginifico quale fu D’annunzio, ci teneva a dare di sé un’immagine spettacolare. Questa sua insaziabile verve ha trovato una sintesi ampia ed efficace nel suo “Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930” .
Tomasi di Lampedusa, schivo, raffinato, studioso vorace di letterature comparate, dà l’impressione di viaggiare per scelta, per divertimento e per arricchimento interiore, per il bisogno di staccarsi da radici profonde che lo nutrono e lo bloccano allo stesso tempo. Viaggia per la volontà di rendere la sua cultura effettivamente europea. Per essere un uomo di mondo prima ancora di essere scrittore. Non per sfoggio o per aristocratico orgoglio, ma per una sete sincera di conoscenza.
Duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, Giuseppe Tomasi nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Frequenta il liceo classico a Roma dove si iscriverà anche alla facoltà di Giurisprudenza, senza però laurearsi perché chiamato alle armi. Partecipa alla disfatta di Caporetto e viene fatto prigioniero dagli austriaci. Conosce quindi l’orrore della guerra, la più cruda e vera, quella che annulla il divario tra nobili, borghesi e uomini del popolo. Quella che rende evidente e crudelmente vera la fragilità della condizione umana, la ferocia del tempo e della Storia ma anche la forza di restare aggrappati ad una Bellezza che rappresenta la sola fonte di sopravvivenza dell’umanità.
Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite del cugino, il poeta Lucio Piccolo. Grazie a lui ebbe occasione di frequentare ambienti letterari di alto livello, come nel 1954 in occasione di un convegno letterario a San Pellegrino Terme in cui conobbe, tra gli altri, Eugenio Montale e Maria Bellonci.
Al ritorno da quel viaggio, come un vulcano giunto al livello di pressione giusto, Tomasi inizia a scrivere Il Gattopardo, il romanzo di una vita, di molte vite reali e possibili. Verrà terminato due anni dopo, nel 1956.
Il suo romanzo viene definito come un esempio di “poesia in forma di prosa”. Perché la forma poetica possiede la capacità di mettere in contatto e sintetizzare istanze e sensazioni contraddittorie tramite la coincidentia oppositorum. L’ancorarsi al passato era un gioco di specchi per parlare del presente e del futuro.
E tuttavia, fu proprio questa sua strana ambivalenza tra moderno e antico che provocò il rifiuto del libro da parte di molte autorevoli case editrici a cui era stato presentato. Respinto prima dalla Mondadori e poi da Einaudi sempre ad opera di Vittorini che era il selezionatore delle opere, il romanzo fu scoperto e apprezzato da Bassani che lo propose alla Feltrinelli che lo pubblicò. E fu un successo strepitoso. Purtroppo Tomasi di Lampedusa era già morto nell’amarezza e nello sconforto di non aver potuto vedere pubblicata la sua opera. Un episodio questo che getta ombre sulla critica letteraria e sull’editoria, purtroppo non del tutto archiviabile ai tempi d’oggi.
Il Gattopardo è un caso più unico che raro. Tomasi di Lampedusa era un outsider per quanto riguarda il mondo letterario ufficiale, nel quale permaneva in vizio antico della chiusura al nuovo, non importa di quale provenienza.
Ma qui ed ora, dopo che la vicenda si è comunque conclusa con il successo clamoroso del libro di cui l’autore non ha potuto beneficiare in vita, è possibile forse tentare di cogliere elementi dello scrittore e dell’opera di più ampio respiro.
Tomasi di Lampedusa è stato sì, per dirla con Montale, “l’autore di un solo libro”, ma in questo volume ha racchiuso una vita intera di esperienze di respiro europeo, assimilate senza preconcetti, con passione autentica. Il Gattopardo è la risultante di un lavoro di accumulazione di note e sensazioni durato anni, scritto con una forma espressiva capace di coniugare la sintesi metaforica della poesia e l’esattezza documentaria del romanzo storico. Il romanzo era allo stesso tempo imbevuto di stilemi classici e proiettato verso forme e prospettive nuove. Era in anticipo sui tempi, pur parlando di un’epoca già passata. Collocato in questa terra di confine, il libro ebbe bisogno di una lenta assimilazione prima di essere percepito dai critici come opera di assoluto valore. Il resto è storia: della letteratura e della cinematografia.
Il Gattopardo è il risultato di un innesto in gran parte inusitato: la cultura europea impiantata sui rami antichi e nodosi della Sicilia, il vento nordico sui silenzi e l’aria ferma di troppi secoli di inazione, come sottolineava il Principe di Salina in un celebre passaggio: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Nel Gattopardo il romanzo trascende il romanzo. Il libro è così ricco di contenuti da prestarsi a molteplici e parallele chiavi di lettura: storica, filosofica, psicologica, sociale, geo-politica. Ma è anche un libro coraggioso, in cui lo sguardo sui retaggi culturali che hanno creato l’humus mafioso è assolutamente schietto.
Come nelle stratificazioni geologiche, questo libro va ben oltre l’affresco storico, oltre il racconto, oltre i personaggi, i luoghi, i costumi. In questo contesto si inserisce la citazione per eccellenza, lo stemma che campeggia sul romanzo e lo identifica in modo immediato:
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Il Gattopardo racconta l’umanità, i dubbi e le speranze di uomini e donne del proprio tempo di fronte ad un mondo che cambia e ridefinisce valori, canoni e stili. Racconta come gli uomini si pongono di fronte al cambiamento e come le identità, le storie e la cultura si misurino col tempo.
Considerare Il Gattopardo un libro conservatore è un atteggiamento in gran parte miope: c’è, viva e presente, la consapevolezza dei mali storici della Sicilia. Vista non come microcosmo a sé stante ma come emblema di un modo di vivere e di pensare antico che si trova nella necessità di guardare con occhi diversi a tempi nuovi. C’è una forma di critica sociale forte ed evidente nel libro. L’amore per la propria terra non è cieco.
I personaggi del romanzo sublimemente avvolti di umanità, sono cesellati nella loro ambivalenza. Questa con ogni probabilità è la parola chiave: ambivalenza. Il romanzo si colloca ad un punto di snodo fondamentale della storia italiana e non solo. Quel momento in cui ci si rende conto che una certa società, un determinato sistema di vita e di pensiero è destinato ad essere superato dai tempi, dalla Storia. Tomasi tuttavia non lo vive con un atteggiamento passivo e rassegnato. Non è un cantore acritico del passato, non esalta incondizionatamente i tempi andati, les neiges d’antan. Il fulcro del suo pensiero è la volontà di portare nei nuovi tempi quanto di meglio c’è nella tradizione e nel legame autentico che deriva dalla terra d’origine. È anche grazie a Tomasi di Lampedusa se gli italiani hanno coscienza del loro grande dono e della loro condanna.
Lo sguardo distante, malinconico e nostalgico del Principe di Salina da un lato, lo stile narrativo dell’Autore-Principe, non devono trarre in inganno. Il libro urla verità senza tempo, svela le illusioni, le trappole e i miraggi dei cambiamenti repentini, i pericoli dei furbi e dei voltagabbana, denuncia l’immobilismo al pari del progressismo, insegna a guardare oltre l’apparenza, oltre il contingente, in un’ottica per dirla alla Leibniz, sub specie aeternitate.
Il Gattopardo è un’opera dall’altissimo valore educativo intergenerazionale, perché ogni epoca, così come ogni uomo, è sospeso tra due estremi, un presente che muta ad ogni istante e un passato che sfugge, scivola via, tende a diventare irriconoscibile. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. In questa dichiarazione, all’interno di questa tensione, si trova forse la chiave del successo e del fascino intramontabile del romanzo e del suo autore: il senso della finitezza umana ma anche la volontà di ritagliarsi con tenacia uno spazio all’interno del disegno imperscrutabile del tempo.