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MARLOWE VS SHAKESPEARE

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 DRAMATIS PERSONAE:

SHAK : William Shakespeare
BURB : Richard Burbage, principale interprete dei maggiori lavori teatrali di Shakespeare
MARY : Mary Winifred Burbage, moglie di Richard Burbage

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SHAK : La notizia è ufficiale: è morto Christopher Marlowe. Uno dei due maggiori autori del suo tempo. L’altro è ancora vivo, e, spero, lo rimarrà ancora a lungo!
BURB : E’ possibile William che tu non riesca a comportarti come si deve neppure di fronte alla morte?
SHAK : Come no? Ci riesco perfettamente. Faccio ciò che si deve. Ciò che si adatta alla morte. Anzi, esattamente il contrario. Se resto me stesso, se non cambio, rimane vivo anche Christopher. Se scherzo come se fosse in vita, e lo amo e lo odio come prima, Christopher c’è ancora. E ancora sopravvivono i suoi scritti, le sue parole. E’ qui, con noi, lo è stato, lo è e lo sarà. Sì, viva quel figlio di un cane di Christopher Marlowe!
[Esce Shakespeare, cantando versi sconci]     
BURB : Non riesco a capirlo. È un uomo fatto di nulla, di fiato, di aria impalpabile.
MARY : Ogni uomo è fatto a suo modo. William è le sue parole.
BURB : È stato lui ad ucciderlo! Ne sono convinto. Ora più che mai.
MARY : Ma cosa dici, Richard?
BURB : So bene cosa dico, lo so alla perfezione. William ha sempre odiato Marlowe. Lo ha sempre considerato un ostacolo, un impedimento. Ora, togliendolo di mezzo, si è spianato la strada per la gloria e il successo. Marlowe era l’unico in grado di tenergli testa. Anzi, forse gli era superiore per ispirazione e inventiva. William lo ha fatto assassinare da un sicario in una rissa di taverna. Marlowe era facile all’ira, è stato facile attirarlo in un tranello.
MARY : Stai dicendo cose senza senso, Richard.
BURB : Magari fosse così! Ne sarei felice. Ma si tratta solo della verità. La realtà nuda e cruda. Tolto di mezzo il rivale, William può volare solitario nei cieli della fama. Era un pollastro di campagna, un gallinaccio impolverato di Stratford, ancora mezzo sporco di letame. Ora, grazie al teatro, grazie a me, alla voce e alla faccia che gli presto da anni, si è potuto rivestire di piume nobili d’aquila e di falco. E di falco ha sviluppato anche gli artigli e la cupidigia. Ha eliminato Marlowe senza alcuna esitazione. Un taglio netto alla gola, una ferita mortale. Ma William è un falco astuto, civilizzato. Non si è sporcato di sangue. Lo ha fatto fuori per interposta persona.
MARY : Non credo a una sola parola di quello che dici! Marlowe è sempre stato una testa calda. Non ha fatto altro che mischiarsi ai delinquenti, alla peggiore feccia. È chiaro che presto o tardi un incidente del genere poteva accadergli. Si è trattato solo di una disgrazia, e Marlowe ha fatto di tutto per andarsela a cercare. Perché ti accanisci contro William? Sono certa che anche lui, a suo modo, soffre per la scomparsa di Marlowe. Come puoi accusarlo in questo modo? E perché proprio adesso? Hai sempre amato William, lo hai sempre rispettato. Cosa è cambiato ora?
BURB : Non è cambiato niente, è questo il punto. Solo che, in questo preciso istante, mi ha colto un senso di vertigine, la coscienza del vuoto. Mi sento sull’orlo di un baratro, e l’aria, adesso, pesa come pietra. Sono stanco di recitare. La morte trasforma le cose. Ti penetra dentro e ti cambia, anche quando non è la tua. Perché la morte è di tutti, identica, democratica, giusta, inesorabile. Marlowe lo conoscevo appena. Non ho mai recitato in un suo dramma, non ho mai parlato con lui. Però ho ascoltato le sue parole. Le ho fatte mie. I suoi versi, le ambizioni, le tragedie, le miserie e le grandezze. Sera dopo sera, mentre davo vita a Enrico IV, a Riccardo III e a Tito Andronico, dentro di me sentivo crescere l’urlo di rabbia di Faust e Tamerlano, la loro sete di potere e di conquista. Diventavo Marlowe, mentre recitavo, frase per frase, i testi cesellati da William.
MARY : È normale, Richard. Sei un attore, ma hai diritto anche tu, come tutti, ai tuoi pensieri e ai sogni al di fuori della scena. È giusto conservare spazio per il mondo autentico, le passioni reali, le verità.
BURB : Già, è normale. Ma mio padre mi ha portato su un palcoscenico molto prima che fossi in grado di parlare e camminare. Facevo la parte del neonato rapito dai pirati. Mi infagottavano in un drappo azzurro e mi sballottavano da una parte all’altra. Dalle braccia dell’attrice che impersonava mia madre a quelle dei guitti vestiti da bucanieri. Piangevo, atterrito. Una recitazione perfetta, del tutto adeguata al ruolo. Ecco, posso dirti che i primi versi che ho recitato sono stati i singhiozzi di un pianto. E quelle sono state le prime e le uniche volte in cui la mia parte è stata sincera. Le sole volte in cui la finzione ha combaciato con la vita. Solo che non avevo coscienza, ero un bimbetto frignante, incapace di pensare. Capace soltanto di sentire paura e dolore. Ho potuto ragionare solo in seguito su quella beffarda ironia. Solo più tardi, quando ero già un attorino giovane, solerte, rispettoso del testo alla virgola, attento al ritmo, alle pause, alle entrate in scena e alle uscite imposte dal copione. Sono stato sincero, in vita mia, solo quando non lo sapevo. Quando esprimevo la sofferenza per istinto, come un qualsiasi animale. Dopo, per anni, per lunghe stagioni di esordi e di repliche, sono stato sempre e soltanto un fantoccio. Pieno di vento e orgoglio, carico di gesti e follie generate da altre mani, altre menti. Sangue e inchiostro alieno. Sono stato William Shakespeare, per anni interi. I suoi eroi, i bellimbusti, i condottieri, i Romani, gli Ebrei, i Veneziani, i vincitori e vinti della sua fantasia. Tutti trionfanti, alla fine, gli uni e gli altri. Acclamati dal pubblico, osannati, imitati. Sono stato William Shakespeare. Restando me stesso, però, un sacco vuoto colmo di echi nudi di parole. Poi, un giorno, è giunta a me la voce di Marlowe. Ho scoperto che esisteva qualcosa, qualcuno in grado di coprire quell’eco con un grido possente. Qualcuno più forte, più folle, più dotato di disperato talento. Ho lasciato che la voce di Christopher crescesse in me, sera dopo sera, spettacolo dopo spettacolo in un vitale e distruttivo controcanto.
MARY : Ora capisco la ragione del tuo dolore. Ma non puoi lasciarti accecare dalla rabbia. Marlowe è morto, ma restano le sue parole, le invenzioni, la verità. La verità, sì. Bisogna averne rispetto, conservarne la natura, lo spirito profondo. Non puoi accusare William. C’è un confine netto tra realtà e finzione, ragione e follia. È la verità, che ti piaccia o no. Bella o brutta, dolce o agra come veleno, è necessario riconoscerla, rispettarla; è il solo dio, la verità, che si concede alla nostra vista. Si tratta di chinare la testa, guardarlo negli occhi un istante, e venerarlo una vita intera.
BURB : Hai ragione. Hai sempre ragione, Mary. Bisogna venerare la verità. È un comandamento, una necessità. Allora, finalmente, mi inchino. Grazie a te ne trovo la forza. Mi genufletto, davanti a te, che sei il mio amore, la sola persona in cui posso specchiarmi senza vedere il baratro della distanza e dell’indifferenza. Dono a te la mia verità, ad occhi chiusi, piangendo, come quando ero un fagotto di carne conteso da braccia sconosciute sulle tavole di un palcoscenico. Piangendo e gridando, ti regalo la verità che desideri. Ma è un dono che faccio soprattutto a me, ad essere onesto. Liberandomene, mi sgravo del fardello di me stesso.
Christopher Marlowe l’ho ucciso io. Sì, io, Richard Burbage, attore ricco e famoso. Non è stato difficile, in fondo. Ho solo indossato un travestimento in più, un tabarro scuro con un cappuccio che mi copriva la faccia lasciando scoperti solo gli occhi. Ho impersonato la parte di un cupo e taciturno sicario. Ho provocato Christopher quel tanto che è bastato per costringerlo a reagire. L’ho sopraffatto, colpendolo più volte ai fianchi, al petto, al cuore. Ho guardato il suo sangue colare a fiotti. Sono scappato via, gettando il mantello tra gli arbusti di una boscaglia. Sono andato a passi lenti, poi, da aristocratico in gita di piacere, fino alla cittadina più vicina. Ho preso una carrozza e sono tornato a casa, sereno, pulito.
 Tutto facile. Anche raccontarti, fin qui, cosa ho fatto. Più complesso, molto di più,  è parlarti dei perché. Potrei dirti che per William ho provato immediatamente un’istintiva antipatia. Mi è sempre risultato indigesto, lontano, incompatibile con il mio modo di vedere e pensare. Christopher, invece, lo amavo. O meglio, cominciavo ad amarlo. Sentivo nascere in me quella passione, quella comunanza che ti fa riconoscere nell’altro, fino a sentirlo dentro, percependo te stesso in lui. Cominciavo ad amarlo. E ho dovuto fermare quell’amore. Ad ogni costo. Perché sarebbe accaduto come con William: mi sarei accorto di non essere nulla al suo confronto. Il paragone mi avrebbe annichilito. Solo che, nel suo caso, l’amore sarebbe stato un ulteriore carico, un macigno in più. Posso sopportare di essere il fantoccio di stracci di qualcuno che mi sta indifferente o che odio, ma non riesco ad esserlo nei confronti di qualcuno che amo. L’abisso di distanze tra il desiderio e la realtà mi avrebbe schiacciato, tramutando la mia mente in poltiglia. L’ho ucciso per salvarmi. C’è qualcosa di più forte della pietà umana, dei dettami della morale; qualcosa di più forte dell’orrore, e perfino dell’amore: l’egoismo, il grido assordante dell’istinto di sopravvivenza. Chiamala come vuoi, anche solo pazzia, magari. Qualunque nome gli diamo, non muta la sua essenza.
È questa la verità che volevi. La sola, l’unica che mi è stata data in sorte in questo “racconto pieno di rumore e furia narrato da un idiota”. Ecco, vedi, neppure in questo momento riesco a smettere di recitare. Sono e rimango un attore, è condanna e privilegio. Forse anche tutto ciò che ti ho confessato è una fandonia. Il mio tentativo personale di creare una vicenda di cui, per una volta, sono anche il regista e l’autore. Certo, magari è così. Decidi tu. Il compito è tuo, adesso. Ora sei anche tu un’attrice, amore mio. Attrice e sceneggiatrice costretta a far combaciare la faccia con la trama. Quella che pensi di architettare pagina dopo pagina, atto dopo atto, e che spesso, al contrario, si scrive da sola. La vicenda nasce nell’atto di recitarla, mentre, magari, pensi a qualcos’altro, o provi a sperare un epilogo diverso. Ma questa è un’altra storia, vecchia, risaputa. Riguarda ciò che rimane, ciò che si salva, e che, spesso, non salva te.
“Il resto è silenzio”, scrive il grande William Shakespeare. E, come sempre o quasi, ha ragione lui. Il silenzio è cosa buona e giusta, è pietoso, generoso. Lo affermo io, contro il mio interesse, io che vivo di fiato e suono di parole. Il silenzio è pietoso, ma tu, amore mio, hai voluto ascoltare il frastuono di metallo della verità. Ora anche tu ne ascolti il clamore. Devi muoverti, correre su tavole impolverate, per non sentirlo più, o fingere con te stessa di non sentirlo. Devi scegliere anche tu, da questo preciso istante, la verità che vuoi e puoi sostenere, quella che ti consentirà di campare, venendo a patti con la vita, fino alla scommessa scontata e persa con qualche sollievo, la morte.
Scegli tu la verità, Mary. Traccia il confine, la linea rossa di vernice e sangue tra realtà e finzione. Adesso siamo davvero uniti per il bene e per il male, amore mio. Facciamo la stessa strada, sotto un cielo che ti scruta senza mollarti un istante. Fai la tua scelta. Dovrai decidere anche tu quale realtà percorrere, da quale cammino lasciarti attraversare. Anche tu ora, come me, dovrai dire a te stessa, istante dopo istante, se sei bugiarda oppure assassina”.
William Shakespeare 2Richard Burbage, amico di William Shakespeare

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LA SUA CANZONE – Un hommage

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SUR MA VIE

LA MIA CANZONE

Mi hanno fatto perfino un monumento. Una pietra scura, tozza, priva di espressione e sorriso. Non mi ci riconosco. O forse sì. Forse il mediocre scultore con reminiscenze di antico realismo ha saputo cogliere i segni del mio essere, il monolito goffo del destino.
        Mi hanno fatto un monumento a Erevan, città di gelo e sangue che non si riesce a lavare via. Mia madre quando era poco più che una ragazza è riuscita a sfuggire ai massacri, agli stermini condotti con studiata ferocia dai Turchi. Io, con questa faccia che mi ritrovo da sempre e che adesso cerco di guardare allo specchio meno che posso, non sono riuscito a sfuggire ai cocktail, alle chiacchiere e alle risatine chiocce e taglienti sulla Croisette di Cannes bombardata dai flash e da stormi di mondanità scagliata sui buffet.
        Ho vissuto e campato con questa voce densa di pianto tra piatti di foie gras e bottiglie di vino di Borgogna. La Francia in cui sono nato e in cui ho vissuto da sempre preferisce coccolarmi e tenermi nel ghetto della pietà. Per loro sono e resto un armeno. Un profugo, eternamente tale. Sono un profugo, anche a casa mia, nella mia patria. Ho avuto successo, gloria e argent per la mia voce vibrante di commozione, radicata nel ricordo di sofferenze ataviche. Così mentre canto canzoni d’amore e perfino giocose loro tranquillizzano le coscienze e tutta la loro solidarietà e la loro pena diventano melodiche, addomesticate. La coscienza danza serena un ballo lento o briosamente ritmato.
        Io sono il Frank Sinatra di Francia, così hanno detto e scritto. Ho giocato a interpretare il ruolo dell’istrione, di modo che ciascuno potesse sentirsi più buono e più quieto. Come se ciascuno potesse dire a se stesso, nella sua testa, se lui, Aznavour, il dolore fatto persona, la figura seria e cupa dello struggimento, canta come un cardellino, allora possiamo stare tranquilli. Non è successo niente in Armenia, nessuna strage, nessun genocidio. Non è accaduto niente, così come non è accaduto ad Auschwitz, o a Plaza de Mayo. Forse hanno ragione quelli che dicono che non è stata altro che una normale prassi della Storia. Hanno ragione, o, almeno, possiamo smettere di interrogarci al riguardo e tornare di buona voglia e buona lena a pensare alle baguette, a Zidane, al can can e alla Bardot ancora giovane, soda e sorridente.
        Ora, dopo una vita di corse, aerei, alberghi, applausi e successi, dopo aver cenato con Edith Piaf e Giscard D’Estaing e con parecchi altri presidenti, assessori, ambasciatori e mafiosi ben vestiti, devo recitare la parte più impegnativa.
        Non posso fuggire più. Il mio viaggio di profugo di lusso sta per finire. Mi resta poco tempo e ho tra le dita poche note.
        A Erevan c’è un aeroporto. Perfino a Erevan ce n’è uno. Ci posso arrivare in poche ore. L’importante per me è restare lontano dalla piazza dove hanno collocato il mio monumento, devo tenermi a distanza dai viali ufficiali e rettilinei. Voglio entrare nei vicoli della gente vera, sporchi, vitali, pieni di odori e umori. Lì, forse, se sarò abile, fortunato e finalmente sincero, potrò trovare ciò che cerco: la mia canzone. Gli accordi della mia vita. Una canzone mia, non costruita, confezionata e infiocchettata da altri. Versi e musica per dire, per dirmi, cosa realmente sono e cosa davvero  sento. Un lusso, lo so. La verità è un bene prezioso e impegnativo. Ma ora è la mia meta. Non posso più esitare. Devo scrivere. La troverò, e sarà il mio testamento.
        Prima di partire per l’Armenia mi sono chiesto a lungo con chi avrei  dovuto compiere questo viaggio. Ho pensato subito alla mia donna, alla persona che più amo. Ma sarebbe stato troppo facile, e con lei, inoltre, avrei continuato a recitare. Non l’amore, ma la protezione dal dolore. Avrei recitato la parte del cantante-turista che trasforma tutto in un soggetto ideale per una foto o per un selfie. No, con lei non avrei potuto partire.
        Ho pensato anche ad un amico. Mi avrebbe accompagnato con entusiasmo. Un amico con idee diverse dalle mie avrei dovuto cercare di convincerlo di avere ragione, un amico con le mie stesse idee avrebbe passato il tempo a darmi ragione. Solo. Non c’era e non c’è altra soluzione: si è soli di fronte alla verità, al sogno, alla morte, a tutto ciò che davvero conta e vale.
        Sono qui, ora, nella città a cui appartengo senza averla scelta, ma a cui sono legato da un cordone ombelicale mai reciso. Sono uno sconosciuto per la gente, non mi riconoscono, non hanno idea di chi io sia. E questo per me è fonte di allegria autentica. Posso andare in cerca dei brandelli di versi dispersi nelle strade e nei bar. Parlo con i poeti. Mi commuovono e si commuovono parlando degli anni, sempre attuali, mai oltrepassati, in cui qualcuno ha tentato di cancellare un popolo, un modo di vita, un pensiero. Parlo con gli scienziati e con gli storici, mi raccontano i dettagli, le cifre della strage, la tendenza dei carnefici e dei loro alleati e complici a negare i fatti. Mi scorrono nella mente immagini di corpi di donne vestite di nero, corpi inerti lungo le strade dove camminavano in cerca di lavoro, amore, sopravvivenza, occhi spenti in un orrore che cerca vanamente una risposta.
        Non la trovo. Sono destinato a non scrivere e non cantare la mia canzone. Non c’è. Il resto è silenzio. Le mie note autentiche sono silenzio.
        Prendo un taxi per tornare all’aeroporto. Il tassista mi scruta senza dire una parola. Mi porta in un dedalo di vicoli. Si giustifica dicendo che l’arteria principale è troppo affollata nelle ore di punta. Rallenta e quasi si ferma di fronte a un gruppo di ragazzi che urlano e scherzano davanti a un portone. Apro il finestrino e ascolto. Uno di loro sta cantando. Canta una mia canzone. Canta me. Chiedo al tassista di fermarsi, lo prego di farlo, gli intimo di farlo. Lui però accelera gradualmente e si allontana. Mi dice che è tardi, rischio di perdere l’aereo. Cerco i suoi occhi per guardarlo con infinito disprezzo. Ha la stessa faccia di mio padre e di mia madre, la dolcezza e la forza che lacera, il presente e il passato. “Mi dispiace, Maestro, è tardi”, sibila. In quella parola, Maestro, c’è un sarcasmo sereno e implacabile, la certezza che non ho capito niente di niente.
        Volto la testa di scatto e cerco di guardare dal lunotto il ragazzo che cantava. Adesso ride. Canta ancora, lo sento, ma mi ha voltato le spalle. Canta e ride con i suoi compagni. Non mi vede più, non esisto più per lui.
        Rido anch’io, adesso. Rido e canto: S’il chante, je m’en fou de la mélancolie. Il a sa jeunesse, et je suis encore ici.
        Rido ancora, e annoto mentalmente le note e le parole della mia assurda e vitale canzone.
        Adesso riconosco anche il pezzo del mio repertorio cantato dal ragazzo. Era “Sur ma vie”, Sulla mia vita. La mia vita è diventata sua.  È diventata sa vie. La sua gioventù. La capacità di giocare su vicoli di fango e immondizia, conservando in sé il ricordo di tutto il dolore e la voglia di correre ancora e gridare, nonostante tutto. La mia canzone “Sur ma vie”  è diventata, maintenant et ici, sur sa vie. Ed è molto meglio. Molto meglio così.

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Giacomo Leopardi, 29 giugno 1798

In occasione della ricorrenza della nascita di Leopardi, ripubblico un articolo sui suoi luoghi, sognati e poi finalmente veduti, il mondo, la bellezza, e, in alcuni momenti, la felicità: vista, scritta, vissuta.

 Viaggi al centro dell’autoreA silviaIl giovane favolosoIvano MugnainiLeopardiLungarnoPisa

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Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, chiamerebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
È anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. È l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito” (12 novembre 1827).

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Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.


Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.