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Moravia e la sua Roma

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La prima esplorazione sulla Roma di Moravia che ha inaugurato la rubrica “Viaggi al centro dell’autore” è risultata vincitrice del premio ‪#‎InWebWeTravel‬ 2015 sezione Lazio nell’ambito del Festival della Letteratura di viaggio.‪ #‎LetteraturadiViaggio‬ .

Grazie alla giuria e a chi in questo progetto ha creduto fin dall’inizio…

 

In occasione dell’anniversario della morte di Alberto Moravia, avvenuta il 26 settembre 1990, mi accingo a ricordarlo riproponendo un mio articolo in cui parlo di Roma, di quella Roma vissuta ed interiorizzata dallo scrittore che ne fa non semplicemente lo sfondo dei suoi romanzi ma uno specchio della società e dei suoi profondi cambiamenti.

Da via Sgambati dove Moravia ebbe i natali in zona Pinciana alla sua casa a Lungotevere Vittoria. Per Moravia Roma è un misto di vitalità e decadimento, un humus letterario nel quale immergere le sue storie, i suoi personaggi, le contraddizioni di una società che si va progressivamente disgregando e corrompendo.

Così ebbe a scrivere Moravia su Roma: “Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città”.   «Una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case», una città che ha tentato sempre invano di trasformarsi in una vera capitale europea senza riuscirci poiché sempre un po’ provinciale.

Una città costretta dalla Storia ad assumere un ruolo internazionale senza essere mai in grado di staccarsi dalle radici antiche, fino a costituire un reticolo sconfinato di rioni e quartieri, quasi cittadine adiacenti, repliche infinite di un modello antico, un ibrido immenso.

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Ma forse proprio per questa natura ambigua, accattivante e straniante, gentile e spietata, rozza e raffinata, Moravia trova a Roma lo spazio ideale, lo specchio per la sua stessa indole, umana e letteraria. Lo scrittore Alberto Pincherle era allo stesso tempo aristocratico e immerso nella carnalità, o almeno nel desiderio della carnalità, come un gourmet cerebrale e combattuto che non tocca gli oggetti ma si inebria in segreto di odori e profumi, senza confessarlo neppure a se stesso. Pincherle, mezzo marchigiano e mezzo veneto, per metà nordico e per metà dell’Italia centrale, con una voglia di solarità contrastata da uno Stato Pontificio ancora presente a dispetto dei secoli, trova a Roma l’oggetto ideale per il suo amore e il suo odio. Perché si può odiare solo ciò che si ama profondamente, ciò che ci assomiglia, e quindi ci spaventa, nell’atto stesso di attrarci in modo irresistibile. Moravia, costretto a fare i conti con la sua origine borghese, vissuta come privilegio e colpa, messa a confronto in modo ineluttabile con la radice schiettamente popolare del suo amico-collega Pasolini, a Roma, negli ambienti della sinistra fedele ai dettami ideologici, vive da straniero, come il protagonista del romanzo di Camus, alla ricerca di una verità autentica che sfugge continuamente. Non gli resta allora che utilizzare le armi che ha a disposizione, la parola, la scrittura, la fuga e il ritorno.

Moravia ridisegna la città nei suoi libri e nei suoi scritti. Non per trasformarla in un’improbabile Arcadia moderna. Per tramutarla, piuttosto, in un luogo vivibile, per lui e per tutti gli esseri complessi e multiformi, gli stranieri che necessitano radici e gli indifferenti che provano, a ben vedere e sentire, profonde passioni. Riscrive la toponomastica della città, ma in modo che ogni luogo reale sia riconoscibile. In pratica allontana la donna amata ma senza lasciarla uscire dal raggio del suo abbraccio e del suo sguardo.

Lo stesso avviene anche con le sue innumerevoli fughe, i viaggi all’estero, lunghi, infiniti, in luoghi esotici veri, difficili, non da cartolina illustrata. L’India, la Cina, l’Africa, luoghi fertili di umanità sofferente e vitalissima. Distanti, dal suo mondo, dal suo elegante Lungotevere Vittoria.

Eppure, l’eterno ritorno, una volta ritrovata la macchina da scrivere, è quello nei luoghi angusti della città eterna. Moravia rifugge i grandi spazi, ha bisogno di concepire storie che si svolgono tra le stanze di un appartamento, i corridoi, le stanze da letto. Si immerge nelle vastità del mondo per poi ritornare a pensare ai microappartamenti romani, là dove si svolgono guerre invisibili e micidiali, là dove l’umanità combatte le battaglie evolutive, quelle per la sopravvivenza, quelle della resistenza all’assurdo, alla pressione annichilente dei rapporti interpersonali, a quella noia invisibile e strisciante che avvelena la voglia di vivere.

La Roma di Moravia non è mai quella da dépliant turistico ma neppure quella dei quartieri degradati,  con il cemento grigio e grezzo che divora prati periferici.

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La sua Roma è allo stesso tempo un’idea e un ascensore reale, di metallo, che conduce ad una casa reale, borghese, con tutto il bene e tutto il male che può contenere, sia l’abitazione borghese che la parola che la definisce.

Per questa ragione Moravia e Roma sono un binomio così forte, perché è una simbiosi autentica, fatta di attrazione e paura. Roma è l’amante imperfetta da cui lo scrittore e l’uomo Moravia si staccano per poi ritornare, nel momento stesso in cui si accorge di non essersene mai allontanato veramente, neppure a migliaia di chilometri di distanza.

Roma è l’amante che cambia con gli anni, restando alla fine se stessa. Quella che si vorrebbe vedere mutare veramente, lasciando dietro di sé le meschinità, le minuscole e becere ruberie, le furbizie da poco e gli intrallazzi autolesionistici. L’amante che si spera possa cambiare dentro, e invece muta solo pelle, diventando solo ricoperta di plastica dai colori fosforescenti. Dentro, rimane la stessa. Ma tutto ciò non cambia l’amore nei suoi confronti. Non lo muta di segno né di intensità. Perché quella imperfezione, quel mutamento fittizio e sofferto, è lo specchio delle contraddizioni che Moravia sente e percepisce intensamente in ciò che vive e ciò che scrive.

Per Alberto Moravia Roma è il luogo dove ritornare dai suoi continui viaggi che lo videro protagonista fino agli ultimissimi anni di vita.

I viaggi gli permisero di sperimentare il cosmopolitismo, di confrontarsi, di conoscere grandi personalità politiche quali Nehru, Tito, Arafat, Ceausescu e Castro e che egli seppe far rivivere in molti articoli e libri ad essi dedicati.

La vita romana di Moravia si muove per il centro tra le case di via Sgambati al quartiere Pinciano, via dell’Oca a Ripetta e quella ultima sul Lungotevere della Vittoria. Difficile da inquadrare tanto è distante la Roma dei salotti da quella delle vecchie borgate o delle attuali zone dormitorio. La città  è un arcipelago e il punto di vista di Moravia è necessariamente parziale. Eppure, proprio per questa ambivalenza intrinseca, il suo modo di narrare, il suo approccio con la materia descritta nei suoi libri, forniscono una delle rare immagini in grado di riassumere in un’unica cornice i volti contrapposti, le diverse nature, gli errori e gli orrori, le debolezze e gli slanci, sia della sua specifica città di elezione sia, in un contesto più ampio, di tutti gli esseri che, tra città e borghi, mura soffocanti e progetti di orizzonti, provano a tramutare la noia in vita e il disprezzo in attenzione.

Roma, anche grazie a Moravia, rimane un sentimento che ti lega senza alcuna catena. Non una destinazione, un’icona, un topos, ma parte integrante di chi la vive e l’ha scelta, volente o nolente, come suo “fondale”.

 Ivano Mugnaini

Questo specifico articolo, così come molti altri saggi e testi che ho scritto da un anno a questa parte, sono stati ispirati, coordinati e realizzati grazie alla collaborazione di un’autrice che mi ha chiesto di rimanere anonima finché non sarà portato a termine il progetto editoriale connesso e a cui va la mia gratitudine.

VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE

Un viaggio è un’opportunità unica per conoscere, scoprire, stupirsi, apprendere ma anche un modo per ricordare, per non dimenticare. In questa rubrica, non parlerò di viaggi o di luoghi ma di scrittori, letterati e poeti che con la loro opera hanno impresso una traccia forte sul territorio, l’ambiente ed il contesto che li ha ospitati o che essi hanno eletto come loro topos ideale, fonte di ispirazione e di ricerca.

Il misterioso fascino di una donna “fuori moda”: Elsa Morante

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“Ci muovevamo sperduti, come attraverso un fragore prorompente, che ci urtava, ci avvicinava e ci separava, vietandoci d’incontrarci mai.”
La frase sopra riportata può essere considerata una sintesi emblematica della scrittura della Morante nonché uno spaccato dei diversi punti di vista tormentati che caratterizzano i suoi lavori. E’ un’autrice nella cui produzione i motivi autobiografici, come vedremo, sono sempre significativi e rivelatori. La mia chiave di lettura cerca di indagare come e quanto le vicende personali dell’autrice si intersechino con le vicende e gli eventi del mondo e in quale misura riescano a farsene specchio.
Di sicuro la Morante è stata ed è una scrittrice complessa. Per scelta e per istinto ha coltivato forti elementi di ambiguità, in particolare l’androginia, che rende problematica la cifra realistica dei romanzi. La lotta fra immaginario e reale è il tema chiave, il nodo da sciogliere.
Leggendo le pagine della Morante si percepisce netta un’enorme ansia espressiva. Ciò la conduce ad un’adesione a modelli narrativi consolidati appartenenti alla tradizione, ma, nei suoi esiti migliori, li oltrepassa, li supera in virtù di un sentire dolorosamente netto e di un senso dell’oppressione mentale e morale del tutto sinceri e moderni.
Partendo da questi punti di riferimento si può tentare di intraprendere questo nuovo viaggio letterario. La Morante spazia tra filastrocche e favole per bambini, poesie e racconti brevi ma anche alcuni dei più celebri, e in gran parte amari, romanzi italiani del ‘900: Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La Storia, Aracoeli. Ebbene, nelle pagine dei suoi romanzi, nei contorni di isole, paesaggi e personaggi, nelle pieghe di esistenze in bilico sopraffatte dalla Storia, si scorge il profilo di una donna libera, sopra le righe e fuori dagli schemi, capace di sfuggire sistematicamente stereotipi ed etichette preconfezionate. Forse davvero “una grande solitaria”, come la definì Franco Fortini. Ma soprattutto una scrittrice che ha saputo lasciare un segno pur prescindendo dall’identificazione con le correnti letterarie del suo tempo.
Le sue opere non sono solo la trasposizione del suo pensiero ma il frutto dei conflitti interiori e delle vicende personali e storiche in cui si trovò a vivere.
La prima tappa del percorso che tentiamo di tracciare non può che essere Roma, la sua città natale. Figlia naturale d’una maestra ebrea e di un impiegato delle poste, alla nascita fu riconosciuta da Augusto Morante, sorvegliante in un istituto di correzione giovanile. Trascorre la sua infanzia a Testaccio, in questa famiglia insolita dai segreti ingombranti. Inizia a scrivere filastrocche e favole per bambini, poesie e racconti brevi che a partire dal 1933 e fino all’inizio della seconda guerra mondiale, furono via via pubblicati su varie riviste tra cui il “Corriere dei piccoli” e “Oggi”. Pubblicava usando spesso, come si è accennato, pseudonimi maschili: Antonio Carrera e Lorenzo Diodati. Già da qui l’ambiguità che caratterizza la sua carriera letteraria e quel suo piglio di farsi chiamare “scrittore”, quella voglia di essere ricondotta ad un universale rispetto alla specificità di una letteratura femminile.
Fu costretta a confrontarsi fin dall’adolescenza con luoghi e situazioni che la indussero ad esplorare  i lati oscuri della psiche. Tali esperienze la porteranno ad affermare anni dopo, quando era già una scrittrice affermata, che “bisogna scrivere solo libri che cambiano il mondo”. Cambiare il mondo per cambiare se stessa.
Nel 1936, grazie al pittore Giuseppe Capogrossi, Elsa Morante conosce Alberto Moravia con cui si sposa nel 1941, anno in cui pubblica con Garzanti sua prima raccolta di racconti, Il gioco segreto.
Filo conduttore dei racconti sono le trasformazioni e le metamorfosi dei personaggi: il gioco, serissimo e lieve, consiste nella sopravvivenza dell’umanità.
Assieme al marito Moravia frequenta alcuni intellettuali e artisti di assoluto rilievo tra cui Pier Paolo Pasolini, Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani, Sandro Penna, Enzo Siciliano. Ma, come spesso accade nella sua vicenda esistenziale gli estremi coincidono e si sovrappongono: la fase dell’incontro corrisponde a quella della fuga. Durante la seconda guerra mondiale, per sfuggire alle rappresaglie dei nazisti, la Morante e Moravia si rifugiarono vicino a Fondi, un paesino in provincia di Latina.
Qui la Morante inizia la stesura di Menzogna e sortilegio ma questa difficile esperienza sarà anche alla base della successiva scrittura de La Storia.
Nel 1957 pubblica L’Isola di Arturo, nato e scritto totalmente a Procida, con cui vince il Premio Strega. E’ la storia della difficile maturazione di un ragazzo che vive quasi segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, accanto all’imponente presenza del penitenziario.
Dal romanzo scaturirà cinque anni dopo il film di Damiano Damiani. Il romanzo ha la struttura di una fiaba ma anche qui la realtà fa sentire la sua presenza e la sua voce. Il materiale letterario della scrittrice si nutre di se stesso, di letteratura, il romanzo si innerva in altri infiniti romanzi meravigliosi immaginati da Arturo, una metaesistenza basata su una vasta metaletteratura.
Per poter finalmente parlare del capolavoro della Morante, La storia, è necessario fare un passo indietro, tornando al periodo dell’esilio a Fondi, circondata e minacciata dalla violenza del mondo. Nel borgo in provincia di Latina, in quello che lei stessa definirà “una specie di porcile” lei e Moravia daranno vita a due delle loro opere più significative. A Fondi Moravia concepì La ciociara proprio mentre la sua compagna maturava il disegno di quello che sarà poi il suo punto di arrivo, La storia.
La Morante, iniziando il processo creativo che la porta a realizzare il suo libro più significativo, si scopre in grado finalmente di rovesciare il cannocchiale. Dal microcosmo passa al macrocosmo, abbandona l’isola ed abbraccia il mare aperto, con la sua globale fascinazione e crudeltà.
La storia è il romanzo della Morante. Tutto il resto del suo mondo appare in qualche modo preparatorio, propedeutico. Ne La storia trovano compimento gli anni e le esperienze, le poesie imperfette e i lavori di formazione, le isole utopiche dissolte dalle deflagrazioni della guerra e della verità. Ma nel suo romanzo più significativo il “realismo magico” trova il compimento nella forza della sincerità: gli umili, i vinti, quelli che la scrittrice ama e dalla cui parte si schiera, non prevalgono, non possono sperare in nessun successo, rivalsa o provvidenza. I promessi sposi sono lontani, fondamenta possenti ma ricoperte dalla macerie degli anni e degli eventi. I vinti vengono sballottati sugli scogli, e non c’è più alcuna isola di miti generosi e assolati che possa accoglierli.
Nel periodo del rifugio in quello che venne poi definito, una sorta di porcile, vicino a Fondi Elsa Morante trova la dimensione giusta, la compenetrazione con il mondo contadino che accoglie e protegge lei e Moravia senza pretendere niente in cambio. Con il trascorrere degli anni trasferirà e collocherà le emozioni percepite a Fondi nell’ambito a lei più naturale, la città di Roma, con i quartieri che conosce a menadito, con il modo di vivere, di pensare e di reagire alle sciagure che ha radici antiche e a cui lei aggiunge nuova vita e attualità.
Inizia a guardare le cose come sono. Senza tentare di edulcorare la ferocia con la fiaba né di contaminare la bellezza della resistenza con la retorica.
Uscito nel ’74, negli anni delle ideologie e delle avanguardie, “la storia” della Morante si allontana dai canoni stilistici del tempo confermando la sua originalità, la sua natura di atipica e vorace autodidatta. Disorienta ma indaga su vicende di dolore e riscatto in cui tutti si possono riconoscere.
Questo suo essere una voce fuori dal coro e dalle correnti le valse non poche ostilità dividendo la critica, indipendentemente dal significativo riscontro di pubblico del libro. Alcuni le rimproverarono di non essere al passo con i tempi, di aver conservato una struttura narrativa ancora ottocentesca. Altri la esaltarono considerandola in grado di attraversare territori letterari diversificati vivificandoli, dando loro un’impronta nuova. Ai due estremi contrapposti si collocano coloro che la considerarono segnata da un populismo di maniera e chi al contrario apprezzò la sua capacità di dare voce ad una passionale coralità.
La figura di Elsa Morante continua ancora oggi a dividere.
Dopo trionfi e delusioni, fughe e ritorni, il motto della Morante, la sua stella polare, “bisogna scrivere solo libri che cambiano il mondo” trova compimento puntuale nell’atto del suo tradimento: La storia è un libro che cambia il mondo nel momento esatto in cui smette di volerlo cambiare e inizia a raccontarlo così com’è, tra sangue e sogno, fiaba e massacro.
Ancora oggi, nonostante le schiere di lettori, le innumerevoli edizioni e riedizioni, i convegni e i dibattiti a lei dedicati, Elsa Morante resta una figura a se stante, aliena dalle correnti e dagli schemi prestabiliti. Il costante collocarsi fuori moda da parte della scrittrice, la rende complesso e controverso oggetto di studio e di valutazione, ma, sul fronte opposto, la strappa alle mode effimere e contingenti. Diceva a proposito di moda una che certamente se ne intendeva, Madame Coco Chanel: ” La moda passa ma lo stile resta”. Nel caso di Elsa Morante è stato proprio così. La forza della sua narrativa risiede ancora oggi nella complessità che rifiuta, per scelta e per istinto, soluzioni univoche e rassicuranti.

TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.

Ivano Mugnaini

Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

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In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini, il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente, si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.
I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini_borgata_RomaPasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”.Pasolini-mamma-romaMamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:
Io sono una forza del Passato.
 Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
- coma i pras di rosada -
di timp antic a trima.

(…Casarsa
- come i prati di rugiada -
trema di tempo antico.) (B, I, 17)
Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.
Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.

Roma è davvero solo un fondale?

 

 

moravia

 

La prima esplorazione sulla Roma di Moravia che ha inaugurato la rubrica “Viaggi al centro dell’autore” è risultata vincitrice del premio ‪#‎InWebWeTravel‬ 2015 sezione Lazio nell’ambito del Festival della Letteratura di viaggio.‪#‎LetteraturadiViaggio‬ .

 

Roma è davvero solo un fondale?

In occasione dell’anniversario della morte di Alberto Moravia, avvenuta il 26 settembre 1990, mi accingo a scrivere di Roma, di quella Roma vissuta ed interiorizzata dallo scrittore che ne fa non semplicemente lo sfondo dei suoi romanzi ma uno specchio della società e dei suoi profondi cambiamenti. Da via Sgambati dove Moravia ebbe i natali in zona Pinciana alla sua casa a Lungotevere Vittoria. Per Moravia Roma è un misto di vitalità e decadimento, un humus letterario nel quale immergere le sue storie, i suoi personaggi, le contraddizioni di una società che si va progressivamente disgregando e corrompendo.

Così ebbe a scrivere Moravia su Roma: “Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città”. «Una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case», una città che ha tentato sempre invano di trasformarsi in una vera capitale europea senza riuscirci poiché sempre un po’ provinciale.

Una città costretta dalla Storia ad assumere un ruolo internazionale senza essere mai in grado di staccarsi dalle radici antiche, fino a costituire un reticolo sconfinato di rioni e quartieri, quasi cittadine adiacenti, repliche infinite di un modello antico, un ibrido immenso.

Elsa Morante 5

Ma forse proprio per questa natura ambigua, accattivante e straniante, gentile e spietata, rozza e raffinata, Moravia trova a Roma lo spazio ideale, lo specchio per la sua stessa indole, umana e letteraria. Lo scrittore Alberto Pincherle era allo stesso tempo aristocratico e immerso nella carnalità, o almeno nel desiderio della carnalità, come un gourmet cerebrale e combattuto che non tocca gli oggetti ma si inebria in segreto di odori e profumi, senza confessarlo neppure a se stesso. Pincherle, mezzo marchigiano e mezzo veneto, per metà nordico e per metà dell’Italia centrale, con una voglia di solarità contrastata da uno Stato Pontificio ancora presente a dispetto dei secoli, trova a Roma l’oggetto ideale per il suo amore e il suo odio. Perché si può odiare solo ciò che si ama profondamente, ciò che ci assomiglia, e quindi ci spaventa, nell’atto stesso di attrarci in modo irresistibile. Moravia, costretto a fare i conti con la sua origine borghese, vissuta come privilegio e colpa, messa a confronto in modo ineluttabile con la radice schiettamente popolare del suo amico-collega Pasolini, a Roma, negli ambienti della sinistra fedele ai dettami ideologici, vive da straniero, come il protagonista del romanzo di Camus, alla ricerca di una verità autentica che sfugge continuamente. Non gli resta allora che utilizzare le armi che ha a disposizione, la parola, la scrittura, la fuga e il ritorno.

Moravia photo 1

Moravia ridisegna la città nei suoi libri e nei suoi scritti. Non per trasformarla in un’improbabile Arcadia moderna. Per tramutarla, piuttosto, in un luogo vivibile, per lui e per tutti gli esseri complessi e multiformi, gli stranieri che necessitano radici e gli indifferenti che provano, a ben vedere e sentire, profonde passioni. Riscrive la toponomastica della città, ma in modo che ogni luogo reale sia riconoscibile. In pratica allontana la donna amata ma senza lasciarla uscire dal raggio del suo abbraccio e del suo sguardo.

Lo stesso avviene anche con le sue innumerevoli fughe, i viaggi all’estero, lunghi, infiniti, in luoghi esotici veri, difficili, non da cartolina illustrata. L’India, la Cina, l’Africa, luoghi fertili di umanità sofferente e vitalissima. Distanti, dal suo mondo, dal suo elegante Lungotevere Vittoria.

Eppure, l’eterno ritorno, una volta ritrovata la macchina da scrivere, è quello nei luoghi angusti della città eterna. Moravia rifugge i grandi spazi, ha bisogno di concepire storie che si svolgono tra le stanze di un appartamento, i corridoi, le stanze da letto. Si immerge nelle vastità del mondo per poi ritornare a pensare ai microappartamenti romani, là dove si svolgono guerre invisibili e micidiali, là dove l’umanità combatte le battaglie evolutive, quelle per la sopravvivenza, quelle della resistenza all’assurdo, alla pressione annichilente dei rapporti interpersonali, a quella noia invisibile e strisciante che avvelena la voglia di vivere.

La Roma di Moravia non è mai quella da dépliant turistico ma neppure quella dei quartieri degradati, con il cemento grigio e grezzo che divora prati periferici.

La sua Roma è allo stesso tempo un’idea e un ascensore reale, di metallo, che conduce ad una casa reale, borghese, con tutto il bene e tutto il male che può contenere, sia l’abitazione borghese che la parola che la definisce.

Per questa ragione Moravia e Roma sono un binomio così forte, perché è una simbiosi autentica, fatta di attrazione e paura. Roma è l’amante imperfetta da cui lo scrittore e l’uomo Moravia si staccano per poi ritornare, nel momento stesso in cui si accorge di non essersene mai allontanato veramente, neppure a migliaia di chilometri di distanza.

Roma è l’amante che cambia con gli anni, restando alla fine se stessa. Quella che si vorrebbe vedere mutare veramente, lasciando dietro di sé le meschinità, le minuscole e becere ruberie, le furbizie da poco e gli intrallazzi autolesionistici. L’amante che si spera possa cambiare dentro, e invece muta solo pelle, diventando solo ricoperta di plastica dai colori fosforescenti. Dentro, rimane la stessa. Ma tutto ciò non cambia l’amore nei suoi confronti. Non lo muta di segno né di intensità. Perché quella imperfezione, quel mutamento fittizio e sofferto, è lo specchio delle contraddizioni che Moravia sente e percepisce intensamente in ciò che vive e ciò che scrive.

Moravia photo 2

Per Alberto Moravia Roma è il luogo dove ritornare dai suoi continui viaggi che lo videro protagonista fino agli ultimissimi anni di vita.

I viaggi gli permisero di sperimentare il cosmopolitismo, di confrontarsi, di conoscere grandi personalità politiche quali Nehru, Tito, Arafat, Ceausescu e Castro e che egli seppe far rivivere in molti articoli e libri ad essi dedicati.

La vita romana di Moravia si muove per il centro tra le case di via Sgambati al quartiere Pinciano, via dell’Oca a Ripetta e quella ultima sul Lungotevere della Vittoria. Difficile da inquadrare tanto è distante la Roma dei salotti da quella delle vecchie borgate o delle attuali zone dormitorio. La città è un arcipelago e il punto di vista di Moravia è necessariamente parziale. Eppure, proprio per questa ambivalenza intrinseca, il suo modo di narrare, il suo approccio con la materia descritta nei suoi libri, forniscono una delle rare immagini in grado di riassumere in un’unica cornice i volti contrapposti, le diverse nature, gli errori e gli orrori, le debolezze e gli slanci, sia della sua specifica città di elezione sia, in un contesto più ampio, di tutti gli esseri che, tra città e borghi, mura soffocanti e progetti di orizzonti, provano a tramutare la noia in vita e il disprezzo in attenzione.

Roma, anche grazie a Moravia, rimane un sentimento che ti lega senza alcuna catena. Non una destinazione, un’icona, un topos, ma parte integrante di chi la vive e l’ha scelta, volente o nolente, come suo “fondale”.