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PETITE SUITE – per ringraziare la pioggia del mattino

Claude Debussy / Paul Verlaine | Clair de Lune, 1869 | Tutt'Art@ | Pittura  • Scultura • Poesia • Musica
 

PETITE SUITE

PER RINGRAZIARE LA PIOGGIA DEL MATTINO

 

                                       “Così che il mondo

                                        si vede come socchiudendo gli occhi

                                        nuotar nel biondo”

                                                Eugenio Montale, MINSTRELS                                                                               da C.  Debussy,  in Ossi di  seppia, 1927

 
            Ritornello rimbalzi/ tra le vetrate d’afa dell’estate. / Acre groppo di note soffocate, / riso che non esplode / ma trapunge le ore vuote. / Musica senza rumore / che nasce dalle strade, / s’innalza a stento e ricade / e inumidisce gli occhi, così che il mondo / si vede come socchiudendo gli occhi / nuotar nel biondo”. Sono questi i versi che vorrei scrivere, se fossi un poeta. Un giorno qualcuno, ne sono certo, tramite queste parole darà forma e voce alle mie note. Aspre, acri, nuove. Come il pensiero di lei, timore e attrazione infinita per l’occhio di tigre in molli rotondità. Morte in artigli di rosa.
            La mia musica è modellata su di lei, l’immagine, la presenza in me di lei. L’essenza. Violenze travestite da delicatezze inaudite. Non cercate le colonne della costruzione. Le ho tolte. Il dolore è la regola. Il piacere è la regola. La musica è libera ed è dappertutto. A tratti anche sulla carta. Qualcuno, un mio amico, o nemico, non so, mi ha detto che la gente dovrebbe morire per la musica. La gente muore per un sacco di sciocchezze: capricci manicomiali di qualche potente, interessi biechi camuffati da ideali. Dovrebbe morire, la gente, per la musica. La musica salva molte più vite.
            Se dovessi ritrarla proverei a tracciare le curve di un arabesco. Il più spirituale dei disegni, ma anche il più sinuoso, il più avvolgente. Dà un senso di spavento e di fuga, di caduta, oppure di languore, in particolar modo sensuale. È inclinazione verso il basso, crollo, tuffo in abissi d’aria e d’acqua. Ad occhi chiusi, giù, verso il suolo, che poi è il solo modo di elevarsi, vedere il cielo in uno specchio umano. L’arabesco è mistero, ebbrezza lineare e arcana, come la musica di Bali e Giava.
            Quando si scrive musica, o poesia, credo, o qualsiasi altra forma di dannazione e salvezza tramite l’espressione del sé, non si può ascoltare i consigli di nessuno, se non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del mondo. Nella storia di un individuo, nella storia di ciascun individuo. Come disse Cézanne, “Je travaille sur le motif”. Una cosa intima, personale, che rende vana qualsiasi analisi formale e teorica. L’intimità è segreta, insondabile. Resta celata, tenacemente. Il riso non esplode, non c’è ostentazione di rabbia, di gioia, di pena.
            I familiari e i conoscenti dicono che sono equilibrato, suadente, sorridente. Così mi descrivono. Mi vedono solare, libero di danzare sul sentiero dell’esistenza. Si sbagliano di grosso. Sono solo un servo. Il pianista di Madame von Meck. La megera che ha già vampirizzato prima delle mie le braccia esili di Ciajkovskij. Sono un pianista privato, certo. Privato della libertà. Insegnante e musicista tuttofare. Praticamente un maggiordomo, nulla di più. Insegno alle figlie ricche e sceme della mia patronne scale incerte e infinite, note e accordi ordinari, mentre loro pensano ai modi più originali per togliersi di dosso alla svelta i corpetti mentre sono con i fidanzati o con qualche chaperon d’occasione.
            Sogno L’après-midi d’un faune, l’ira, la furia, passione che lacera e sbava e crea e sfida a duello l’eterno. Ma sono qui, un impiegato qualunque, come mio padre, non di più. Di meno, semmai, senza seme, senza senso, fosse pure senso comune, senso della famiglia, senso di qualche senso possibile, giusto o sbagliato che sia.
            Tra le vetrate d’afa dell’estate, anche oggi risa e grida inesorabili. Chiudo le imposte della stanza senza neppure più il colpo di grancassa della rabbia che fa sentire con un sobbalzo la presenza del cuore. Serro con cura ammiccando furtivo agli occhi bruni del buio. Pochi attimi dopo, con un tempismo degno di Mozart, sento il suono di lei. I passi ritmati sul selciato. Due appoggi lievi ed un terzo più deciso, come un tacco sottile che trafigge il silenzio, lo beffa, lo irride. Poi, sotto la mia finestra, la voce. Come per caso, per capriccio, per destino, non ne ho idea. Al di là dei vetri e delle persiane sbarrate, la sua voce. Nel sole e nella pioggia, ogni giorno. Canta. E, ne sono certo, balla. Innocente e spietata Salomè. Vuole la mia testa, non c’è dubbio. In un certo senso l’ha già ottenuta. Calda, sanguinante, sopra il vassoio d’argento del pomeriggio. Ha già reciso i pensieri, le vene del collo, i respiri. Sono roba sua. Completamente. Il bello è che di lei invece non ho nulla. Canta, sicuro. Ma il resto è ipotesi, scommessa. Canta per me, mi dico. E un attimo dopo mi viene da ridere. Quale diritto ho di pensarlo? Forse canta per sé, per il volo di una tortora, per il bacio del sole, per regalare una manciata di vita ad un barbone. Per la musica. Per cantare.
            Vive di musica. Questo ho bisogno di crederlo, ne ho necessità. È una cantante, si nutre di note, come me. Cosa canta? Liriche sublimi o canzonette da tabarin? Se solo desse fiato ad una nota in più, capirei. Ma si ferma sempre sul bordo, con un piede sospeso nel vuoto. Si blocca ad un solo centimetro, un filo, un alito dalla comprensione, dalla scoperta.
            Che è? Forse è Bitilis, fanciulla e donna delusa dall’amore degli uomini votata al Circolo di Saffo a Mitilene, quindi esule, prostituta e ragazza sacra. Oppure è semplicemente una Cortigiana egizia, Pioggia del mattino, Danzatrice con i crotali, Tomba senza nome, Acqua pura di fonte. 
            L’ho ascoltata meglio. Nudo accanto alla finestra, l’orecchio teso, il petto che vibrava più silenzioso del respiro, ho catturato la chiave, l’ho stretta tra le dita. Come un padre individua nella folla le teste dei figli, come un amante percepisce con gli occhi e con il corpo i fianchi e il seno dell’amata.
            Canta note mie! La mia musica! Fonte e sbocco, fiume in un mare che da me nasce e a me ritorna. Canta me. Quindi è mia. Lo so, detto e concepito in questo modo suona come pazzia. Ma l’equilibrato, suadente e sorridente Claude Debussy non esiste. Non è mai esistito. Esiste il folle Debussy dalle finestre chiuse anche di giorno. Il servo del pentagramma e di se stesso necessita aria, carne rosa che freme.
            Si chiama Emma, come Madame Bovary. Languida e micidiale tessitrice di sogni. Mi appartiene, mi spetta. Se la follia possiede me, mi fa schiavo, mi fa vivere e mi uccide, anch’io, per contrappasso, ho diritti su di lei. Di vita e di morte.
            Jeux. Giochi. Quelli di cui è composta la materia dell’esistere. Giochi mortalmente seri. Ironici, e quindi belli, violenti, allegri, maestosi. Con ciò che abbiamo, molecole del tutto e del niente. Dolore, carezze, parole.
            Io, il vero me stesso, l’autentico Debussy, volevo essere un poeta. Era ed è il mio destino più vero l’esagerazione, avidità di voluttuose ferite, bocca spalancata verso un cielo assetato di pioggia e di miele. O sopra i seni sodi di una fanciulla in fiore.
            Sono qui invece, chino sul bianco e sul nero identici a loro stessi. Un lacchè in frac. Con l’immancabile inchino finale. Loro applaudono e io fremo, corro con la mente verso note altre, quelle che loro non capiranno, giudicheranno troppo vecchie o troppo moderne. La mia è una scrittura musicale ebbra e geometrica, se così posso dire. Sogno la trama impalpabile, la tela di ragno che divora il mondo e se stessa di Baudelaire, la malinconia lacerata di Rimbaud. Rifuggo con tutte le forze, con le pazzie che possiedo e mi possiedono, ciò che “blesse mon coeur d’une langueur monotone”.
            La mente, ecco, la mente. Erigere un monumento di note alla gabbia che può essere giardino, labirinto perduto di gioia e d’orrore. Ritrovarsi. Ritrovare lei. Le darò un altro nome, lo merita. Le parole corrono, spaziano dentro i suoi confini. La chiamerò Amaryllis. Un omaggio a Lycidas, il giovane reso immortale da Milton, il ragazzo morto povero di anni e infinitamente ricco di sogni. Forse un poeta. Nella sua terra ideale, lo spazio che nessuna onda salmastra, nessuna morte per acqua, potrà strappargli, Lycidas sognava di mettersi in viaggio verso il luogo in cui è possibile “to sport with Amaryllis in the shade”. Intrattenersi con Amaryllis nell’ombra. Non solo un contatto di corpi. Un connubio tra luce e oscurità, calore e gelo, creazione e distruzione. Rinnovamento. Vita giovane percorsa dal vento dell’ovest.
            Già, il vento, fame di respiro. Apro la finestra della mia stanza. Uno spiraglio dapprima, poi la spalanco del tutto. Non lo facevo da anni. Uscire. Dalla casa. Da me. Tra gli sguardi e le grida dei ragazzi che fuggono a frotte dalle scuole, spinte, sputi, bestemmie, risate.
Inseguirla. Al di là del portone del suo palazzo chiuso a metà. Spingerlo ascoltando il rumore delle scarpe sulla ghiaia e sul marmo. Come entrare in punta di piedi nella Città Proibita, l’Oriente che ho nel sangue, ricordo di qualcosa di sconosciuto custodito dentro da sempre. Oppure, semplicemente, entrare in un cortile che sa di basilico e gerani rossi sui davanzali. Corri amore, incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo,/ è questo l’attimo, è questo il momento,/ porta solo le tue labbra ed un’arancia;/ non esitare, vola sulle tue scarpe più belle/ quelle leggere, di tela rosa e bianca,/ incontriamoci adesso,  in un albergo di provincia/ anche senza il mare.
            Sono queste le parole che le dirò, se riuscirò a incontrarla. Lei le ascolterà in silenzio, bella e serena da fare paura. Dirà che le piacciono, forse, che suonano bene, come tasti ottimamente accordati. Mi offrirà la sua amicizia. Qualcosa di grande, di prezioso. Sorriderà benevola e si proclamerà mia amica. Un dono immenso. Che a me, adesso, fa orrore. Anche l’immenso è poco, a volte. Ora come non mai vorrei essere un poeta come il mio amico Verlaine per dirglielo, per farglielo capire, sentire nelle vene. Vorrei, ma so solo suonare. Dare fiato a note che spingono con i gomiti negli angoli della testa per scappare via. Da quando lei è dentro i pensieri, nelle voragini spalancate di ogni attimo, sento in me l’interminabile refrain del Preludio a L’après-midi d’un faune. Un violino che insiste, recide l’aria. Non c’è amicizia possibile per un fauno. Non esiste, non è concepibile. C’è solo amore, aspro, sublime, oltre, sopra, più forte della ragione, della logica, di se stesso. Claire de lune per dolcissimi licantropi. E la luna, si sa, è fascinosa, sfuggente.
            Per conquistare la luna, forse, bisogna essere più folli e più saggi di lei. Avere il coraggio della verità. La più estrema delle bugie. Dire parole nitide, cristalline, pioggia sulle foglie tenere di un giardino. Me lo ha detto lei stessa del resto, con uno sguardo prolungato, lanciato come per caso ma in realtà con un fine preciso. Con pazienza, come si insegna a un bambino a camminare: “Se ami qualcuno diglielo. Esporrai le mani e la faccia, ma potrai forse avere un bacio, contatto effimero di una vita intera. Sarai nudo di fronte all’ignoto, l’imperscrutabile, l’ineluttabile”.
            La realtà, l’incubo, la fantasia. Lago di cristallo in cui nuota un pesce dorato. Poisson d’or, libero, luccicante. Nuotare con la mente oltre il chiasso dei ricordi e delle paure. Sognare pesci d’oro, fabbricarli anticipando il tempo, sbalordendolo, stralunando la luna. Ancora lei. La danzatrice di Delfi, Il velo, Il vento sulla pianura, Suoni e profumi che ruotano nell’aria della sera, Lei che ha veduto il vento dell’ovest, La fanciulla dai capelli di lino, La serenata interrotta, La cattedrale inghiottita, La danza di Puck di questo mio sogno di mezza estate.
            Note mie. Le storie che ho provato a raccontare. Ora le appartengono. Tutto è suo ora. Condiviso fino a non distinguerlo più. Ho capito adesso che la musica più vera è la più semplice. La vita, la poesia. Incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo”. Ho compreso. O forse ho smesso di comprendere. Per iniziare a sentire. Accordi, arpeggi complessi, gradi cromatici, sonorità opposte.
            È una domenica particolare, questa. Nessuna carrozza in giro, poca gente, sguardi sfuggenti, labbra a metà tra terrore e beffa. Forse stanno attendendo tutti l’invasione di un esercito nemico, lo scoppio di un’epidemia di colera, una serie di sgomberi di case pericolanti. Sanno qualcosa ma tacciono, sornioni. Solo io procedo ignaro, a testa bassa verso la meta. Le mie mani sono troppo calde e troppo rapide. Ho timore di guardarle, vederle vecchie, sentirle vive. Il senso dell’esistenza è sgomento, coscienza di essere carne soggetta alle mandibole di un tarlo. Avanzo, c’è una sola direzione. Sguardi troppo diretti, insistenti. Progetto la più paradossale delle fughe, il ritorno. Ma il pensiero della mia stanza ora è stridore. Il pianoforte suona da solo, digrigna note affilate. Mi consentirà di accarezzarlo di nuovo solo se avrò nelle dita il tepore delle dita di lei.
            Proseguo ripetendomi una cantilena che mi stordisce e pungola: Sognare il proprio sogno/ come se fossi destinato soltanto/ a qualcosa di grande, / un abisso, un incanto. / Sognare…
            Ascolto. Dalla sua casa risuona ancora la mia musica. Pagata col sangue, la follia, esilio dalla gente, dall’esistenza. Vorrei che tacesse, che restasse muta in un silenzio da squarciare in due. Riprendere ognuno il proprio onirico moncherino e tornare al proprio mondo. Ma nel ritmo della sua voce c’è una stretta al cuore. Acciaio, lana, miele di labbra dischiuse. C’è aria di morte nelle strade, e afa, senza argini. In me c’è una forma di pace desiderosa di guerra.
            Spingo il portone. Entro. È buio, denso, più spesso e ostinato del mio. Vibra su frequenze che non conosco. Come una lama attraversa l’aria avida di sangue, di tessuti. Anche le sue finestre sono sbarrate. Forse un sarcastico omaggio a me, o magari un richiamo, una trappola, specchio per allodole a cui tranciare le ali. Sorrido, spossato, spalancando la bocca. La sensazione di non poter uscire mai più da qui si fa certezza, orrore esilarante. Le dita della Morte giocano a fare il solletico ai muscoli tesi. Come per effetto di un riflesso spontaneo, spalanco gli occhi. Un filo di luce penetra da una fessura della serranda. Illumina qualcosa di bianco, lucente. L’avorio di un pianoforte. Dita calde di sole lo sfiorano e danno vita anche ai tasti neri. La luce della notte ora non è più un ossimoro. È brivido reale che corre e squassa. Osservo le mani di lei, a lungo, per attimi sconfinati. Non se ne accorge. O forse mi lascia fare nascondendo nella fluidità ammaliante del ritmo il sussulto lieve dei sorrisi. Si sposta in avanti come per abbracciare lo strumento. La nudità del corpo toglie il fiato al buio. Muore, con me, nell’istante in cui sento nella carne l’urlo del sangue che vola lontano, più rapido di un trillo che spazia da lato a lato, dall’estremo all’estremo, dagli accordi più sottili ai più cupi, compromesso senza regole con il tempo, i codici della chimica e della genetica, pulviscolo puro e vitale che entra nei polmoni assieme al profumo di lei.
            Guardo i suoi fianchi e le mani. Non vedo più le mie, e le ritrovo. Affamate di pelle, silenzi, parole. Piove, adesso. L’afa è svanita, smarrita, divorata dalle mosche che nutre e da cui è generata. Piove. O forse è solo saliva, sudore, stille di linfa vitale. Non importa. La notte è un concerto a quattro mani su pentagrammi di odori, fruscii, dita e labbra sulle corde innumerevoli di un’arpa.
            Il tetto risuona davvero, adesso, della danza dell’acqua. Prosegue, negli abbracci, la Petite Suite. Preludio di un gioco crudele e sublime che ora ha un volto, un senso, la chiave di un accordo inseguito da sempre.
            La Pioggia del mattino, ora, è promessa d’infinito.
 

                                                                                                    Ivano Mugnaini

Clair de Lune' con lettere | Spartiti esclusivi per pianoforte |  Letter-Notes incluse | Piano With Kent

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

CHOPIN – Il buio e l’aurora

Per la rubrica RITRATTI IMPROPRI, una follia primaverile: dare voce alla musica di Chopin, al suo Ultimo Notturno.
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CHOPIN- Il buio e l’aurora

L’uomo è un dio

quando sogna,

un mendicante

quando riflette

F. Hölderlin, Iperione

La mia corsa con la vita prosegue da sempre. Fin dal momento in cui ho percepito per la prima volta i suoni e le immagini. Ho iniziato a comporre da bambino. “Il nuovo Mozart”, mi chiamavano, “il talento più precoce dell’epoca”. Certo. Più precoce della gioventù. Non ho avuto il tempo di imparare a non imparare, la follia priva di scopo e utilità. Ora devo dare misura al mio amore per il buio. Tentare una sintesi tra verità e menzogna. Me lo impone il tempo, ancora lui. Devo scrivere il mio ultimo “Notturno”, la lettera di addio al mondo e a me stesso.

Non ho mai amato parlare di me. Ma devo raccontarmi, adesso, con parole che siano cristalline anche per gli altri. Rapide a svanire come un tramonto inghiottito dalla notte. Con qualcosa che resta: il senso, l’assenza di una logica, la bellezza che non sai afferrare anche se le corri incontro. È lei che viene da te, a sorpresa, a tradimento, dolorosa, lieve. La risposta. Forse.

Mi chiamo Fryderyk Chopin. La mia terra è la Polonia, anche se molti mi considerano francese. Molti, a dire il vero, mi considerano un’infinità di cose che non sono. Non è colpa loro. O, almeno, non è solo loro, la colpa. Una loro affermazione, comunque, la condivido. “Non somigli a nessuno”, mi ripetono. Ineccepibile. Posso assicurarvi che non è stata una scelta. Direi piuttosto una necessità. Ho dovuto staccare i contatti con il passato e il presente. Per inventare un suono solo mio. Ha ragione Schumann quando sostiene che la mia musica si riconosce perfino nelle pause, nell’alternanza di presenza e assenza, concreto e immaginario. Lì, in quegli spazi vuoti, ho stillato l’essenza: ciò che amo infinitamente e ciò che odio con tutto me stesso.

Ho avuto poche certezze. Ancora più raramente ho saputo renderle nitide. Avrei dato la vita per essere capace di lottare per ciò in cui credo. Per l’indipendenza del mio paese soggiogato dall’oppressione straniera, innanzitutto. Ma hanno ritenuto che fossi sprecato su un campo di battaglia o dietro una barricata. “Pensa quale perdita! Per la musica! Per l’arte!”. E così sono fuggito, di paese in paese, suonando e sorridendo senza tregua, strozzato da camicie inamidate e dai lacci della sconfitta, la viltà, l’esilio. Ho accettato un gioco che mi faceva comodo; mi uccideva in modo liscio, nel caldo delle stanze, nell’ovatta degli sguardi. Ho lasciato che il mio corpo si indebolisse progressivamente, le braccia sempre più esili, le spalle ossute, i polmoni consunti. Faceva chic, mi dava un contegno da vero artista. Soffrire, sì, ma in saloni di lusso con il caminetto acceso e i vassoi d’argento stracolmi di pasticcini profumati. Lontano dal fango e dal sangue, dal battito di piombo dei fucili che feriva l’aria delle trincee dove morivano i miei fratelli.

Sono nato e vissuto in un’epoca di guerra, di sopraffazione. Liberare il mio popolo avrebbe significato liberare l’intera umanità. Liberare me. Me, in ogni uomo. Non ho mai amato la folla, questo è vero. Ma ho provato affetto per i singoli individui, per ciò che di grande e sacro si trova, a tratti, in ciascuno.

Ho amato le donne, immensamente. Diverse tra loro, ognuna un profumo, un angolo della bocca, un riso, concerto di divine sciocchezze e carnali verità. Un ghigno aspro e bambino che si apre in un abbraccio. Ferita e balsamo.

Maria, prima di tutto e di tutte. L’ho conosciuta nella splendida Dresda. Mi ha sorriso timida e sfrontata, lei, la più piccola delle sorelle Wodzinskj. “Troppo giovane per te”, mi dicevano. Ma non l’avevano ascoltata cantare, non l’avevano sentita, loro. Era l’eterno femminino, l’amore di sempre strappato con la fantasia alle dita del nulla. Maria, il mio dolore. Un fascicolo di lettere scritte con l’entusiasmo della gioventù. L’ingenuità che racchiude il solo senso concesso ad un uomo. Tutta la speranza di vita nel pensiero di lei. Ora quelle lettere le ho legate con un nastro su cui ho scritto due scarne parole: “My sorrow”, il mio dolore. Per follia ulteriore, o per un misero tentativo di fuga, le ho scritte in inglese. Come se esprimerle in una lingua non mia le rendesse meno vere, meno spietate. Un po’ come camuffare un violino con un contrabbasso. Tentativo vano, velleitario.

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Il vero è riemerso, con un colpo di tamburo sgraziato. I genitori di lei mi hanno respinto, non mi hanno ritenuto all’altezza di sposarla, di darle la felicità. La ragione ufficiale che hanno addotto è stata la gracilità del mio fisico e l’instabilità della mia salute. In realtà hanno saputo guardare più a fondo. Sono andati ben oltre le costole, le vene e il respiro. Hanno colto l’esilità della mia normalità: l’incapacità di stare in piedi, lontano dal pianoforte, nel vento gelido della vita vera.

Al termine della notte del mio dolore è comparsa lei, Aurore. Ricca, colta, matura. L’esatto opposto di Maria, accomunata al mio primo amore solo dal fascino lacerante, il potere di scrutarmi nella mente. Aurore Dupin, alias George Sand. Alias tutto e alias niente. Lei sola. Ineluttabile. Mi avrebbe amato, Aurore, senza il mio “talento”? La domanda è assurda, fuori logica, fuori spartito. È giusto chiedermi, semmai, cosa so io, cosa ho compreso di lei. La sua età, il suo nome, ogni cosa è incerta. Non il suo corpo, l’affetto ruvido e tenero che mi ha dato incondizionatamente.

Mi ha portato fuori da me. Nel sole, nell’aria, nell’umidità che mi hanno salvato, uccidendomi, e mi hanno ucciso, salvandomi. Nell’isola di Maiorca. Alla fine, nonostante le ottime intenzioni, si è rivelato il luogo meno adatto al mondo per me, per i miei polmoni minati dal male. Sono morto a poco a poco. Morto di vita, di risa, di abbracci leggeri e disperati fino a perdere il confine dei corpi, fino a non sapere più se stringevo Aurore, George, il bene, il male, me stesso, l’opposto di me. Ignoravo con ebbrezza infinita quale fosse l’ordine, il punto cardinale, verdetto di una bussola che non segnava alcun punto fisso. Lei era lì. L’oceano e l’isola della mia vita. Tutto il resto era silenzio. Ero libero. Anche di morire, certo. Facendo del mio corpo un pentagramma di linfa che freme. Non più solo l’idea, la scansione del tempo su frequenze impalpabili. Ero divenuto l’antipode, il contrario di me. E l’autentico me stesso. Una musica: carne e vibrazioni.

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Ho scordato l’amore per l’isolamento, le labbra della solitudine. Ho lasciato che a succhiarmi goccia a goccia il sangue fosse la donna che lo rendeva caldo, ustionante, grido fluido nelle vene. Ho smesso, con Aurore, di essere romanticamente spento, alloro su rovine fatiscenti. Ho potuto sussurrare, sbraitare, ascoltare frasi rosse e taglienti come lame su guance di passione. Ho composto, sulla carta e sulla pelle, slanci disperati e suadenti. Un vigore sfociato in violenze sane, avide di scorrere sempre e soltanto nell’alveo dell’amore. Mi sono sentito, con lei, un insieme di voci. Per questa ragione ho voluto servirmi raramente dell’orchestra nelle mie composizioni. Un pianoforte è tutto, contiene in sé gli estremi. Basta sfiorarlo o penetrarlo nel profondo. Aurore è stata il mio pianoforte. L’universo alla portata delle braccia.

Solo un poeta poteva essere in grado di comprendere, cogliere l’ossimoro, la miscela esplosiva di creazione e distruzione. Tale alchimia l’ha ritratta tramite le parole Charles Baudelaire. Ha colto l’arcano, il dettaglio e la prospettiva, definendo la mia musica “leggera e appassionata come un falco scintillante che volteggia sugli orrori dell’abisso”.

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Le note, il piano, il rimpianto e la felicità del ricordo di Maria. E ancora, dentro e al di sopra di tutto, Aurore, la luce del mio abisso. L’ho amata fino a odiarla. Disprezzandola con amore sconfinato, quando mi sfuggiva, si chiudeva nelle mura del suo egoismo, i suoi racconti, storie a me estranee. Ma perfino il suo egoismo era una forma d’amore. L’ho capito, adesso. Aurore mi ha strappato alla culla dei miei sogni, la vita perfetta e fatua che mi era toccata in sorte. Avrei voluto dirle ciò che merita, le frasi che cerco di pronunciare da sempre, quelle che mai, neppure ora, saprei dirle fissandola negli occhi. “Ti sei la porta del Paradiso. Per te rinuncerei alla fama, al genio, qualunque cosa sia. A tutto”. Forse riderebbe, si commuoverebbe, o magari mi farebbe tacere con un bacio più eloquente di ogni discorso. Con lei ho imparato ad apprezzare le cose semplici, il vino, le castagne, le danze del popolo, mazurche sanguigne accompagnate da stille di sudore che sa di abbracci, grappoli da spremere, farina da impastare con le mani.

Aurore è diventata la mia patria, lo confesso, non senza vergogna. Ho pagato. L’esilio è una morsa che stritola in silenzio. Spezza le ossa, soprattutto in certi momenti di serenità falsa, stranita. Lei è sempre al mio fianco. Dura, dolcissima. Mi ha strappato alle prigioni della mente portandomi nei confini della sua terra. A Nohant, nella Francia che per me è destino, sogno che torna a farsi terra. Là ho potuto comporre a ritmi folli, in una febbre che bruciava e faceva musica del dolore di un’impudica felicità. Ho scritto finché ho potuto, provando a tenere il passo del cuore. Alla fine l’inverno è tornato. Il figlio di Aurore, il suo amore legittimo, mi ha allontanato da Nohant. Ed ha richiamato la madre a sé, al suo mondo. Mi sono riaccostato alla mia patria polacca e alla patria finale, la meta di ogni viaggio, dando il mio ultimo concerto a Londra per i rifugiati polacchi. Il cerchio si è chiuso. La verità ha raggiunto il sogno. Hanno sincronizzato gli attacchi e gli accordi, il battere e il levare.

È tempo per me di tirare le fila, cogliere le Corrispondenze profonde. Mi permetto un ultimo Scherzo, un gioco estremo, quasi amichevole, con Madame La Morte. Proprio a lei dedicherò il mio Ultimo Notturno. Non perché lei rappresenti la fine ineluttabile del cammino. Anzi. Proprio perché, paradossalmente ma neppure troppo, il suo nulla non conclude, non risolve. Non perché io speri in sconti di pena o in prospettive ulteriori. Semplicemente perché, nonostante la sua presenza ingombrante, maldestra, l’uomo continua a volare, falco scintillante su paradisi e abissi.

Scriverò a lei, alla nera signora, la mia lettera finale. Per dirle che i miei ultimi componimenti saranno dedicati a “Le printemps” e a “Le souhaite d’une jeune fille”. Alla Primavera e al Desiderio di una Ragazza. Potrà avermi solo da vivo, la morte. E l’ultimissimo componimento sarà “Chant du Tombeau”. Anche la tomba sarà un Canto. Perché è vero, ancora una volta i poeti danno voce alla realtà più intensa e scomoda: “L’uomo è un dio quando sogna e un mendicante quando riflette”. Si può trovare l’alba anche nel buio, la luce nel Notturno più cupo.

Con la morte sarò sincero. Lo merita. Lei lo è di sicuro, schietta, diretta. Lo sarò anch’io. Finalmente me stesso. Mi scoverà, la sua mano ossuta, mi farà venire allo scoperto e mi trascinerà via. Solo in parte però. Resterà la musica, Maria, Aurore, la purezza, la passione. Con loro sono riuscito a dire cos’è un tramonto, la neve sulle colline, l’afa che toglie il fiato, il gelo e il tepore del sangue. Malinconie che corteggiano gioie fanciulle. E se anche non fossi riuscito a dirlo appieno, ad esprimerlo in modo compiuto, ho ancora note da intrecciare, un Notturno da completare. Capace di echeggiare dentro di me. La comprensione dell’ineffabile: una musica che sfida l’abisso. Ali fragili e tenaci spaziano nell’orizzonte oscuro e luminoso di un pianoforte.