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Il tuo nemico – una recensione

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Se amate il minimalismo non leggete questo libro. Se amate narrazioni comode, rilassanti neppure. Questo libro si rivolge a coloro che sono pronti a mettersi in gioco e chiamarsi in causa.

Il succo del romanzo, o meglio il nodo, è correlato all’incontro-scontro tra democrazia e cibernetica, tra la società “reale” e i territori ancora in gran parte inesplorati del virtuale.

 Gregorio, il protagonista del romanzo, è uno dei tanti diversi di cui dovrebbe essere fatto un mondo di uguali. La sua diversità sta nel fatto di non accettare “the way of the world”, il mondo e la strada che ha preso e in cui, con corridoi di cemento e di asfalto in apparenza lisci e comodi, vuole portarci. Una delle domande che si pone e che ci pone questo libro è chi ci ha condotto su questa strada, come e perché.”

Ripropongo qui nel mio sito alcuni stralci della mia recensione a questo romanzo di cui vi consiglio la lettura.

La recensione è stata pubblicata originariamente a questo link: http://www.zestletteraturasostenibile.com/il-tuo-nemico-michele-vaccari/ dove è possibile leggerla in versione integrale. IM

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Michele Vaccari
Editore: Frassinelli
Anno edizione: 2017
Pagine: 290 p. , Rilegato
  • EAN: 9788893420204

Il poliedrico e multiforme teatro della vita: un romanzo di mari, amori e misteri.

 

 

Una mia lettura del romanzo originale, lussureggiante e “debordante” di Guido Mina di Sospiro recentemente pubblicato da Ponte alle Grazie.
La recensione è uscita originariamente sul sito di Anita Likmeta, con cui collaboro per la sezione Letteratura e cultura, a questo link  https://anita.tv/2017/05/04/il-poliedrico-e-multiforme-teatro-della-vita-un-romanzo-di-mari-amori-e-misteri/ .
Buona lettura e buone avventure a tutti i naviganti. IM

 

 

 

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Mina di Sospiro gioca con le parole, con il loro mistero, con il senso e l’assenza di senso, con la vita, fatta di codici astratti e di carne palpabile e danzante, folle e assetata, a volte perfino saggiamente folle. È attratto da tutto ciò che porta e indossa la vita, sopra e sottovento, sopra e sotto i vestiti, i gesti, i sorrisi ammiccanti, l’invito a esplorare i confini e a fare un passo oltre. La vita lo incuriosisce, lo attira, gli pone di fronte uno spettacolo variegato fatto di contrasti e chiaroscuri, il sublime e il becero, il pensiero e il salto ad occhi chiusi in un vortice o in un baratro.

 

E allora lo scrittore la osserva, la corteggia, la fa bere e la fa parlare. Ha la conferma di quanto lieve e complessa sia, la vita, e che il suo significato è una sciarada con troppe soluzioni, o forse con nessuna, o entrambe le cose assieme. Non ha bisogno del re scozzese shakespeariano per confermare e confermarci quanto la vita sia “a tale told by an idiot”. Lo sa, ne ha preso atto da tempo, ma non si è fermato, non ha rinunciato a mettere le vele al vento. Anzi, si è ripetuto, come Hölderlin, che “l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette”. Ma non è sceso neppure a questo porto. Con la forza dell’istinto e di un possente vitalismo ha compreso che mischiando le due componenti in giuste dosi l’uomo può essere meno misero quando pensa e meno asceticamente incorporeo quando sogna. Basta rendere vivo il sogno, aggiungendo una porzione di follia, di avventura, di sudore, di adrenalina, di paura e attrazione: tramite un viaggio, un’esplorazione, una sfida, quindi, ancora, un gioco.

 

Sempre sapendo, con un sorriso, che non c’è niente di più intrigante e divertente del gioco, e, al tempo stesso, non c’è niente di più serio. E che il gioco non è mai gratuito, impone attenzione, coinvolgimento assoluto, per capirne le regole sancite e soprattutto quelle nascoste, le più importanti. Alla fine, bisogna essere anche disposti a perdere, a capire che non c’è niente da capire, come cantavamo negli Anni Settanta, oppure che tutto ciò che si deve comprendere è che non tutto può essere compreso, è questo è il più secco e il più dolce dei colpi di vento. La narrazione di Mina di Sospiro vive di accostamenti e contrasti. Unisce oggetti, azioni e idee come un artista materico, e non si lascia abbattere se non combaciano gli angoli, anzi, ne esulta. Sconfina con gusto, deborda e ci trascina con forza gioiosa ed esuberante a bordo di una fantasia onnivora, poliedrica, multiforme, un teatro nel teatro della vita. Il susseguirsi delle scene, delle azioni, degli spunti e degli stimoli è rapido, incalzante. L’autore mette in pratica ciò che ha scritto in suo fortunato libro sul ping pong e sulla metafisica che ne è alla base; o, meglio, applica alla scrittura anche di questa polimorfa creatura letteraria l’istinto e la ragione del gioco da lui preferito: la necessità di correre e pensare allo stesso tempo. Fino a far coincidere le due istanze, senza distinguerle, senza separarle dalla naturalezza del respiro. Perché quell’istante di riflessione fuori tempo e fuori luogo farebbe cadere a terra la pallina e con essa la magia folle della passione che tutto assorbe, dell’affabulazione che rende tutto credibile, irreale nella realtà a cui scegliamo di dare corpo.

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Racconto di pirati, a tratti di moderna cappa e spada, tra malviventi e personaggi ambigui, bizzarri e disperati, ma senza resa né tregua, il romanzo è mille cose insieme, mille generi, toni, rimandi e allusioni, senza compiacimento, senza ammiccamenti. Quindi, è soprattutto anzi unicamente se stesso, un pezzo unico, originale. Non da collocare in qualche museo o catalogo ma da porre costantemente in un flusso, sia esso quello della lettura che della fantasia. Romanzo on the road, sulla strada del mare, ha bisogno di moto costante, non può sostare. Racchiude posti e volti inventati e al contempo è un documento ricco di riferimenti a luoghi esistenti, il Jackson Memorial, Palm Beach, la Florida, le Antille, i Caraibi, Cuba e mille altri luoghi collocati a metà strada tra il mare e il mito. Tra le righe, ma anche dentro, nelle pieghe più sensibili, è il resoconto di un mondo che siede sulle sdraio a strisce multicolori in luoghi di lusso tra il sole e l’ombra densa di sotterfugi e intrighi, la zona morta, ma brulicante di umanità, tra legalità e crimine, disperazione, fantasia e il sogno costante di un altrove risolutivo, una mossa a sorpresa che cambia le carte e rovescia i tavoli. 

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Il destino, lo si sa, si nutre di logiche sbalestrate. Nella seconda parte del libro Mina di Sospiro lo fa condurre da una nave senza timone, ricca di assonanze e richiami fascinosi: “Durante questa unica e irripetibile settimana astrale, gli eventi di ogni giorno saranno influenzati e talvolta addirittura decretati dalle divinità pagane. Quali? Quelle della mitologia latina e sassone, le due culture che hanno colonizzato il nuovo mondo e che evidentemente presiedono alla pari sul mar dei Caraibi. Le stesse divinità, infine, che hanno ispirato il nome dei giorni della settimana, sia nelle lingue d’origine latina, fra le quali lo spagnolo, che in quelle d’origine sassone, fra le quali l’inglese”. Un escamotage accattivante, del tutto coerente con lo spirito e l’animo che orientano il romanzo: lo scambio costante di colpi d’approccio e di schiacciate fulminee e secche tra il caso e l’uomo, tra il rischio, la pena e il piacere di non sapere mai se saremo sopravvento o sottovento, con la sola certezza del mutare costante. Consapevoli solo che, per dirla con le parole di una delle epigrafi del libro: “Non ci sarà sortita. Tu sei dentro e la fortezza è pari all’universo dove non è diritto né rovescio né muro esterno né segreto centro”. (Jorge Luis Borges, Labirinto).

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Questo romanzo ci chiede una cosa difficile ed esaltante: lasciarsi andare alla corrente. Chiudere gli occhi e abbandonarsi alle onde, oppure spalancarli, ma lasciando spazio a ciò che non si vede immediatamente, a quel senso di mistero che è, la trama ce lo indicherà gradualmente, un oro che non si può afferrare con le dita, ma che non per questo è privo di peso, anzi, contiene in sé il peso del tempo e dello spazio di tutti i secoli e tutti i sogni che abbiamo fatto e che ancora saremo in grado di fare. La narrazione sui generis di Mina di Sospiro ha un potere straniante, ci porta in un luogo che non c’è ma che, improvvisamente, con un sorriso, riconosciamo come nostro: un posto dove siamo già stati, o, più esattamente, dove abbiamo immaginato di andare, e, quindi, dove siamo stati veramente. Il romanzo ci fa lo stesso effetto che Christopher Foley, uno dei personaggi del libro, esercita su Ruth, una delle partecipanti alla spedizione: “Era venuta a sapere di lui indirettamente, investigando la storia del Belize e della  barriera corallina che Chris aveva aiutato certi oceanografi a esplorare. Da quanto aveva sentito e in seguito letto su di lui, l’aveva colpita come un essere umano tanto illogico che, prima ancora d’averlo conosciuto, ne era già stranamente attratta. ≪Un tuffo nell’irrazionale≫  pensò mentre si convinceva della bontà della propria decisione, ≪ecco cosa fa per me. Ci sarà da divertirsi≫”.

 

Andare per salti

Una mia nota di lettura sul libro Andare per salti di Annamaria Ferramosca.

La nota è già stata pubblicata in versione integrale, comprendente anche una selezione di testi scelti dalla stessa autrice, sul portale Viadellebelledonne, a questo link https://viadellebelledonne.wordpress.com/2017/05/05/andare-per-salti-di-annamaria-ferramosca/ .

L’invito, ai dedalonauti interessati è quello di sempre: incuriosirsi, leggere, cercare il libro e altre belle cose. Le stesse che auspico per tutti voi. IM

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Andare per salti presuppone la volontà e la necessità di staccarsi dal suolo, seppure per un breve tratto. Implica un volo, uno spazio ed un tempo in cui si perde il contatto con il terreno. Annamaria Ferramosca ha percepito nei versi di questo volume un moto interno, una dinamica del sentire, ma, coerentemente con quanto ha scritto nei suoi libri precedenti e soprattutto in piena concordanza con il suo modo di percepire e di vedere, ha corretto il tiro, lo ha ampliato e modulato. Andare per salti è composto da tre sezioni: la prima, eponima, ricalca il titolo del libro, la seconda prosegue con “Per tumulti” e l’ultima va ”Per spazi inaccessibili”. Si ha l’impressione di una progressiva volontà di recuperare il legame con la superficie terrestre, imperfetta, pietrosa ma imprescindibile. Il tumulto richiama l’effetto di un sommovimento tellurico. Un terremoto, sia del suolo che del cuore. Gli spazi inaccessibili sono quelli intricati di una giungla, una boscaglia, non certo quelli sgombri ed eterei del cielo. La Ferramosca, anche in questo libro, percorre con coerenza i cerchi e le curve del percorso letterario ed esistenziale che le è proprio. Cammina in punta di piedi ma con forza e tenacia sul filo esile e vitale sospeso tra il corporeo e l’incorporeo, il carnale e l’etereo, tra la paura e la necessità di sporcarsi le mani con la sabbia e con il fango, con il sudore e con il sangue, con la feroce attrazione dell’imperfezione.
In quest’ottica, partendo da questa prospettiva, anche il linguaggio va adattato, ristrutturato e rimodellato, reso strumento duttile e duplice, atto a tracciare sottili linee azzurre nell’etere ma anche all’occorrenza lettere rosse, dense di sangue, piene della goffa e umanissima sostanza del dolore. “Questa sera ruota la vena/ dell’universo e io esco, come vedi,/ dalla mia pietra per parlarti ancora/ della vita, di me e di te, della tua vita/ che osservo dai grandi notturni”. Sono questi i versi, tratti da Incontri e agguati di Milo De Angelis, scelti dall’autrice, con una cura e un’attenzione che non è difficile immaginare, come epigrafe, come stanza d’ingresso per questo suo libro. Esco dalla mia pietra, recita uno dei versi. Da una pietra si esce come, in quale modo, con quale forza e quale strumento? Annamaria Ferramosca in questo libro sembra dirci che dalla pietra si può uscire vivi, senza essere diventati pietra noi stessi, almeno non del tutto. Si esce, forse, se si è capaci di comprendere che non c’è una sola vita da raccontare. C’è anche la vita altrui da dire, da rendere verso, parola. Dalla pietra di una tomba che è già realtà all’atto del nascere ci si salva parlando agli altri della propria vita e della loro, simultaneamente, cercando di andare oltre il confine, superandolo con il tumulto di un cuore che si spezza e rischia di spegnersi da un attimo all’altro ma che, nonostante questo, non smette di camminare e sorridere, a dispetto di tutto, esplorando e rendendo propri gli spazi inaccessibili del significato, di un significato possibile, giusto o sbagliato ma umano, il luogo dove il senso diventa sentimento. “Schizzo via dalla giunglamercato/ obliquando rallento prendo fiato/ rispondo alla domanda muta/ del venditore ambulante/ – è da un po’ che mi fissa perplesso -/ sai la fine mi tiene d’occhio e voglio/ andare senza direzione/ come un bambino fare splash nelle pozzanghere/ se vuoi se hai tempo appena/ il tiglio smette di gocciolare/ ti racconto una stupida vita/ come stupisce come istupidisce”. In questi versi della lirica d’esordio del libro l’autrice, con i mezzi, gli utensili a lei più cari, tesse un filo che unisce passato e presente, la sua produzione precedente e questo suo libro attuale, lo specchio del momento. Un collage tra parole che vengono agglutinate, come in “giunglamercato”, conservando ciascuna un proprio senso che tuttavia diventa nuovo nell’attimo dell’accostarsi, nel gusto mai spento della voluttà del dire. Stesso discorso per i vocaboli creati ex novo, come con i pezzi di un Lego colorato e dalle infinite possibilità, come nel caso di “obliquando”. Ma il gioco della Ferramosca è sempre serissimo, nella forma e nella sostanza. Viene fatto di immaginare un taglio dolce ma severo perfino nel sorriso che le si apre sulla bocca quando fa “splash nelle pozzanghere”. È una delle caratteristiche che rendono riconoscibile la poetica dell’autrice: la serietà nel gioco e la giocosità nella serietà. La commedia della vita che racconta con i suoi versi alterna, potremmo dire “obliqua”, attimi di levità in cui tuttavia non smette di percepire che il mondo è storto, sbilenco, fuori asse, e istanti di ragionamento che non vuole mai rendere del tutto agri. L’ironia, in questo libro, ha sempre un fondo di amarezza per la deriva umana, osservata, percepita, descritta.
Questo libro è, in parte, una sorta di canto notturno della Ferramosca, scritto con la percezione di una ferita, con la minaccia di un buio incombente. Ma l’autrice anche qui, perfino nella penombra del corpo e dei pensieri, riesce a non dimenticare le voci altrui, e la sua “bambina delle meraviglie” che dorme, serena. Comprende, e ci fa comprendere, che la bambina è altra da sé, vive una vita propria, indipendente da lei. Ha il suo luminoso tempo dell’infanzia, Nicole, e avrà un futuro anche quando non potrà e non potremo più guardarla, proteggerla con lo sguardo e con i pensieri. La bambina è altra da sé ma è anche lei, Annamaria Ferramosca, in grado di conservare uno spiraglio di stupore, e la forza di un salto, illogico e salvifico, perfino al di sopra del “terribile che infuria”, del “solito sgomento” che rende illusoria la speranza.
Il trucco è semplice, tutto sommato: dimenticare, volutamente, ricordarsi di scordare lo “zaino zavorra”. Sapendo che dentro quello zaino c’è tutto ciò che conta e che in realtà quello che c’è conta poco o niente. Non contano le “de-finizioni”, ciò che pone termine alle potenzialità infinite dell’essere e dell’esprimere. Non conta ciò che minaccia e chiama a sé, nel mistero dell’oltre. Non contano perché la bambina è ancora splendidamente “irrubata” dal mondo, è un luogo del tempo in cui il tempo stesso non può arrivare, non può irrompere e non può infrangere. Questo è il fuoco del libro, l’essenza, il succo spremuto da giorni di ascolto e visione, di paura e di attesa. Ed ha un sapore lieve al palato, nonostante la speranza che si fa sempre più esile, che parla come una Sibilla chiusa in un’ampolla. “Nessuno è reale piove sempre/ nella pioggia sbavano i segni/ ma le pagine accidenti quelle sono/ insperate di bellezza/ disperante bellezza irraggiungibile”, scrive. In questo gioco oscillante di ossimori, quasi danza su un filo sospeso, c’è il richiamo mai spento, determinante, imprescindibile: quello di Nicole, la bambina, alunna e maestra, la sua luminosa infanzia, intatta e intangibile, e ci siamo che, pensandola, amandola, salviamo lei in noi e noi in lei.
Da qui, da questa fragile solidità acquisita con un moto d’affetto assoluto, può finire il salto e iniziare il tumulto. La seconda sezione del libro si apre con una danza, un movimento del corpo che si disegna nell’aria con il suo legame attraverso i passi, con la terra: “Tu non lo sai ma questa tua danzaturbine/ ha parole paradossali d’invito ‘nturcinate”. Il turbine sconvolge, scompagina, descrive e genera forme nuove: il coraggio di affidare al corpo la libertà di creare ancora, nonostante tutto, ancora una volta. Il paradosso è sempre fertile, per sua natura, per la capacità di mettere a contatto materie diverse, entità e respiri. Ne deriva un amplesso, corporeo e astratto, etereo e sanguigno, in grado di rendere le parole ‘nturcinate’, intrecciate, avviluppate fino a smarrire il discrimine, l’io e il tu, il presente e un tempo indefinito, la coscienza e il sogno. Da qui, la scena d’amore, nasce, erompe, come “le onde-salento che lampeggiano” e “il soffio greco del timo sullo scoglio”, con la consapevolezza di avere già i piedi nella corrente. La solidità si è fatta fluida, scorre, e ad ogni istante muta. Non è tuttavia morte per acqua alla Eliot. Semmai qui, nell’ebbrezza del tumulto, è vita per acqua, eros esistenziale, dialogo intimo di braccia, occhi, dita, parole.
Fortificati, consci e smarriti quanto basta, possiamo intraprendere l’esplorazione dei luoghi inaccessibili, ultima tappa del viaggio. Ma il tragitto è sempre circolare, ci si muove sempre in circoli, cerchi, Circles, circonferenze e sfere: la tappa finale è anche la prima. Ci si rivolge ad un destinatario ben identificato e al contempo indefinito. Si parla, in questa sezione, ma in fondo in ciascuna pagina di questo libro, della fine personificata che incombe: “Procedi per allusioni/ per sotterfugi sottili ti sottrai/ e intanto lievita/ questa bella estate di frutti e led/ ora so di aver vissuto solo per stanarti/ un’intera vita a decrittare invano/ i cartelli che pianti sulle svolte/ le scritte pallide le frasi/ lasciate qua e là smozzicate/ (per discrezione o forse/ per una più veloce eutanasia) ma/ sai bene quanto intollerabile sia/ conoscere i dettagli del viaggio”.
Un consuntivo, una sorta di giornale di viaggio, un diario di bordo scritto per se stessa e per chi lo leggerà, dopo, in un tempo ancora da venire e definire. Lo è nello specifico la sezione conclusiva del libro ma anche l’intero libro, nella sua sfaccettata unitarietà. Annamaria Ferramosca in questo suo Andare per salti ha scritto un sobrio, addolorato e gioioso inno alla vita, insieme ad un ascolto dell’effimero che siamo. La forza di questo libro è nella capacità di scrivere di sé senza egotismo, senza pretendere di essere il Nord magnetico e la stella polare. L’autrice parla di sé rispondendo al silenzio di un venditore ambulante con il racconto della sua vita. Parla di sé smarrendosi in una danza o nell’ebbrezza di frasi fulminee scambiate sullo schermo di un computer. Parla di sé osservando la bellezza di una fanciulla che prosegue da sola il suo cammino portando però con sé frasi, discorsi, pensieri e sogni che ha raccolto da lei in modo spontaneo, immediato, naturale come il ciclo delle stagioni.
Al lettore, alla fine, viene spontaneo dire che l’attività del decrittare cartelli sulle svolte e frasi smozzicate non è stata inutile. Non è stato invano, il salto, il tumulto, la ricerca costante, ininterrotta. Il fascino, del libro, e della poesia in termini più ampi, è quello di sapere cantare il viaggio, le luci e le ombre, le danze e gli inciampi, senza conoscerne i dettagli. Dando voce e canto al mistero che ci finisce e ci dà vita. Se troviamo, chissà dove, chissà come, la forza di non smettere di saltare con la forza visionaria e danzare con la forza umana, vitale. Anche nel buio.

Ivano Mugnaini

Andare per salti
Annamaria Ferramosca, Andare per Salti – Casa Editrice Arcipelago Itaca di Osimo (An), 2017
Introduzione di Caterina Davinio.
2a edizione Premio “Arcipelago itaca” per una Raccolta inedita di versi.
Pagg. 80, € uro 13,00 – ISBN 978-88-99429-16-4

Annamaria Ferramosca

nata a Tricase (Lecce), vive a Roma. Fa parte della redazione del poesia2punto0 portale, Dove e ideatrice e curatrice della rubrica Poesia Condivisa. Ha all’attivo collaborazioni E Contributi creativi e Critici con varie riviste e siti di Settore. Vincitrice del Premio Guido Gozzano e del Premio Astrolabio e recentemente del Premio Arcipelago Itaca, e finalista ai Premi Camaiore, LericiPea, Pascoli, Lorenzo Montano. Ha Pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca 2017, trittici – Poesie Il segno e la Parola, DotcomPress 2016, Ciclica, La Vita Felice 2014, Altri Segni, Altri Circles– Selected 1990-200 8, collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti , Chelsea Editions, NY 2009, Curve di Livello a le, Marsilio 2006, Pasodoble, Empiria 2006, la Poesia Anima Mundi, Puntoacapo 2011, Porte / Doors, Edizioni del Leone 2002 Il Versante Vero, Fermenti 1999. Ha curato la versione italiana del poetica libro del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D-Poesie 2003-2013, Edizioni CFR 2015 e’ voce ampiamente antologizzata e inclusa nell’Archivio della voce dei Poeti, Multimedia, Firenze. Testi Suoi sono stati Tradotti, Oltre Che in inglese, in francese, Tedesco, Greco, albanese, russo, rumeno. Suo sito Personale: http://www.annamariaferramosca.it

L’inciampo – recensione

Propongo qui una mia nota di lettura al recente libro di Daniela Pericone.
Chi fosse interessato a inviarmi suoi testi, editi o inediti, per letture editoriali o recensioni, mi contatti a questo recapito :  ivanomugnaini@gmail.com

COPERTINA L'INCIAMPO

Daniela Pericone, L’inciampo, L’Arcolaio edizioni, Forlì, 2015, pagg. 90, € 11

Nota di lettura di Ivano Mugnaini

Inutilmente la vita mi rincorre
la gara è breve ma la fatica è doppia
a ogni tappa è mia la vittoria
il passo sempre di uno sbaglio avanti
.

Questi riportati qui sopra sono alcuni versi che ho scelto tra i più significativi, a mio avviso, della raccolta L’inciampo di Daniela Pericone. A dire il vero avrei dovuto citarne molti, alcuni sparsi e racchiusi in contesti apparentemente e forse volutamente transitori, come tappe di un percorso che conduce a bagliori di visioni tanto brevi quanto intensi.

Ci sono molte parole chiave, nei versi riportati: “vita, gara, fatica, passo, sbaglio”. Sembra fuori dei confini semantici, e per questo spicca, il termine “vittoria”.

L’esplorazione del terreno esistenziale è condotta con sguardo attento e acuto, disincantato, sapendo che ogni sorriso comporta la conquista non di rado penosa dei domini del tempo e dello spazio. Con la consapevolezza che ogni passo è, insieme, gioia e dolore, volo e inciampo.

Sapendo che forse il solo volo possibile è quello brevissimo, tragico, ironico, salvifico a suo modo, che separa e unisce il desiderio dell’aria e l’asprezza del terreno.

“Uno sbaglio avanti” è uno dei molti ed efficaci casi in cui il linguaggio viene plasmato per esigenze di sintesi e per creare un ponte tra la sintassi e il sentire più profondo, per andare oltre il senso immediato, esprimendo in una manciata di sillabe un mondo, un microcosmo, individualità tanto assoluta da diventare paradossalmente universale.

Senza più ossa e nodi su nodi
alle dita e quegli occhi allacciati
allo specchio infestati di sonno
in abito di gala la menzogna.

La poetica della negazione si può percepire e rilevare nei versi sopra riportati, o meglio la poetica della sottrazione, una consistentissima assenza, una mancanza prepotente per urgenza e preponderanza. La montaliana consapevolezza del non possedere e del non poter dire appieno si innesta qui su un’ironia amara, rafforzata ancora una volta da adeguati spostamenti dell’asse semantica: quegli occhi che non sono soltanto colmi di sonno ma sono “infestati”, quasi a trasporre il tutto in un ambito patologico, un’infezione, un morbo. E, come eco distante ma in qualche modo percepibile, quel “è forse il sonno della morte men duro” riecheggia. Così come il topos di sempre, la maschera, la finzione, il niente, la menzogna rivestita con abiti di gala.

Continuando nella scia del parallelismo foscoliano dei Sepolcri, c’è anche qui un “pur”, un momento di svolta brusca, una sterzata energica che non nega quanto si è detto del dolore e dell’assurdo, della cadute costanti, della pena del corpo lacerato, ma, nella coerenza, mostra un sentiero di passi ulteriori:

tuttavia sempre alla superficie del gorgo
grazie all’impagabile restare assorti
e distanti a seguire indicibili traiettorie.
Conforto a questa riva che su tutto resiste.

Questa superficie essenziale e vitale che è reale profondità, fatta di distanze ossimoriche, nella pienezza di un conforto che non guarisce, non cura, ma, a dispetto di tutto, resiste e consente in qualche modo di resistere. Con le traiettorie indicibili, aree e terrene, che sono fatte di ricerca, di pensiero e di poesia.

Ivano Mugnaini

Qui sotto una selezione delle liriche:

Daniela Pericone

L’INCIAMPO

Poesie 2010-2015

L’arcolaio

Stratagemmi di danza

intorno ai fuochi

Tuttavia

rimango qui, qui

ritorno ripiegata come un foglio

su cui non cresce il tuo nome

ma flagra nell’aria in attesa

che qualcuno lo afferri per le ali

e lo inchiodi al muro come

un piccolo insetto crocifisso

dalle tue paure

e nel cuore della lotta

da tasche e tagli rotolano

ancora altri chiodi e altri sbagli

finché rimango qui

in assurda difesa

dietro questi occhiali

che mi fissano dallo specchio

ma non mi vedono.

2.

Inutilmente la vita mi rincorre

la gara è breve ma la fatica è doppia

a ogni tappa è mia la vittoria

il passo sempre di uno sbaglio avanti.

3.

Non chiedermi nulla, nulla

ho da dire, né altro m’attende se non

con poco sguardo

sentire quest’ora – ogni ora –

scorrere a balzi sui fianchi senza

sapere se sia polvere d’ossa

o tritume di stelle quel che

resta sospeso confuso al rosso

del fiato alla volpe dei capelli.

III

Di varchi e di bufere

1.

Io non ho soluzioni da dare

dovrei dire che quelle rimaste

siano solo risposte sbagliate

e tanto sapevo e sentivo

se annodavo un capestro ai capelli.

Eccomi ancora così

scolpita nel tempo a un’assenza

d’accordi, esiliata alla fonda

con un piede nell’acqua di mota

a parlarmi da sola, a ripetere

che va bene così, che pure una storia

maestosa sarebbe finita

ch’ogni cosa è in scadenza

– si perde la nota perfetta nell’aria insonora.

E seppure la ignori non posso evitare

una fitta infedele

– le risposte diventano schiuma

evanescenza di ipotesi, sentieri

che ridono ma non portano a niente

perché qui e ora e ancora

è un’altra la vita, un indizio

di luce inesplosa.

2.

Ora che tutto è chiaro

in questa selva di forme

se il vento distoglie

i corpi alle orme e le ombre

si accalcano in seno ai compagni

sotto le pietre affocate della rocca

e le sue caverne deliranti

s’intrama un rodio

di deserto che a folate assale

la sola strada tracciata

di sale che abrade i confini

al lentissimo cuore

alla sua linea stracciata.

3.

Lo scirocco è una guerra

d’aria che mastica sabbia in rivolta

si oppone alla fretta al moto apparente

della calca a quel correre sopra sotto

o solo in tondo senza arrivare mai a niente

casomai finendo in un tonfo

ma non al fondo soltanto intorno

in un giro inconcludente.

È allora che il vento interviene

strappa le redini all’auriga terrestre

e s’inturbina attorno a un groviglio

di sassi vuoti e di spini a quei sacchi

pieni d’ossa cavi di suono

privi di senno colmi di sonno.

4.

Alfine esultiamo

all’opera compiuta

dopo tarli di costante lavorio

è annullato ogni dolore

– l’abitudine distoglie anche il disprezzo

né distanza né ansia di rigetto

perfetta anestesia la monotonia

da non sentire amaro

persino l’abbandono quasi un refolo

breve scuotesse appena l’onda

– solo un conto che non torna

lento effetto secondario

se non schiuda più all’attesa

d’altro luogo d’altro ardore

divisa la memoria

irrisoria ogni traccia d’amore.

5.

Tutto quello che vale

resta dentro e ha mutato

fiumi interni e vie

dell’essere e ricordi.

Forse pure i versi

non hanno altre ambizioni

che innescare intermittenze

d’emersioni se anche tentino

arginare la cordata dei naufragi

confidando che

un mai più valga quanto

un chissà dove ancora quando.

6.

In guerra di lume e ombra

staglia dal fondo cupo la figura

verso l’occhio di chi la spoglia

si orienta d’obliquo il raggio

in modo che allo sguardo

splenda soltanto un volto

al centro del paesaggio

da rovine di tenebra

le parti lasciate in fosco.

Così si vive trascurando il buio

in un inganno di luce.

7.

Ancora intrusioni di malessenza

in queste case colate di negrezza

risvegli diroccati scalinate senza più appigli

balaustre divelte ballatoi su precipizi

ramaglie invelenite occhieggiano dalle rovine

sole insegne in rigoglio pentacoli maligni.

11.

Brindo alla fine del giorno

all’orlo del calendario

al crepuscolo che inganna

– non sai mai s’è d’alba o tramonto

brindo allo sguardo lungo

e alla vista corta

agli amori scartati

per difetto di fiato

all’impazienza dei vivi

al corteo di presunte ragioni

ai pretesti bugiardi

brindo alla luna di traverso

che fa urlare il semplice vero

pur se nessuno vuole sentire

e tacere nell’unico punto

in cui serve parola

alle virgole scambiate

di posto a stravolgere i piani

brindo alle vite mai avute

alle svolte mancate alle scelte

precise con gambe malcerte

alle mie forme plurali

furiose filanti inconcluse.

12.

Tenevo una quiete di temporali

in una buca scavata nelle tasche

ora mi gocciano dentro

mi prendono per mano

sono la gioia delle pietre.

Pericone

Daniela Pericone è nata nel 1961 a Reggio Calabria, dove vive. Scrive poesie, prose brevi, testi di critica letteraria. È autrice e interprete di letture sceniche e recital (Orfeo ed Euridice, Caravaggio). Collabora con enti e associazioni alla realizzazione di eventi culturali e reading. Ha pubblicato i libri di poesia: Passo di giaguaro (Ed. Il Gabbiano, 2000); Aria di ventura (Book Editore, 2005); Il caso e la ragione (Book Editore, 2010); L’inciampo (L’Arcolaio, 2015). Tra i premi ricevuti per la poesia edita e inedita, Città di Corciano, S. Domenichino, Lorenzo Montano, Antica Badia di S. Savino, Tra Secchia e Panaro, Francesco Graziano. È presente con poesie e recensioni in volumi antologici (tra gli ultimi, Pane Poesia, a cura di V. Guarracino, New Press Ed., 2015), riviste culturali (Poesia, L’immaginazione, Capoverso, ecc.), siti e blog letterari. È tra i redattori della rivista on line Carteggi Letterari – critica e dintorni

Pericone 2

LETTURE ALLO SPECCHIO (1)

 

Letture allo specchio 1

Questa sezione del mio sito ho deciso di chiamarla LETTURE ALLO SPECCHIO, anche se sarebbe più giusto dire LETTURE DELLO SPECCHIO, ossia de Lo specchio di Leonardo, il mio romanzo uscito da qualche settimana.

Pubblicherò di volta in volta le impressioni sul libro scritte da critici, da scrittori, da poeti, ma anche da lettori che hanno voluto condividere con me le loro emozioni, i loro dubbi, le domande, le risposte e il loro punto di vista.

Comincio con Annamaria Ferramosca, http://www.annamariaferramosca.it/ . Una poetessa che ha scritto numerosi libri di poesia di rilievo e che a volte “sconfina” nell’ambito della critica commentando alcuni testi e alcuni libri. Sono molto lieto che il mio romanzo sia stato oggetto di “sconfinamento” da parte di Annamaria.

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Letture allo specchio 3Letture allo specchio 2

LETTURE ALLO SPECCHIO

ANNAMARIA FERRAMOSCA

Sento che, quando accade di leggere qualcosa di originale e per giunta scritto in modo da lasciarti incollata alle pagine fino alla fine, sfidando le ore piccole, il sonno e la stanchezza, beh, è proprio questo il momento di diffondere il titolo del libro. Un romanzo breve, Assolutamente- Da- Leggere, che fantastica sul genio e sull’ interiorità di Leonardo avanzando un’ipotesi affascinante sugli enigmi delle sue opere.
Sto parlando de LO SPECCHIO DI LEONARDO di Ivano Mugnaini– Edizioni Eiffel 2016.
Ma ecco cosa mi sono sentita di scrivere, a caldo, appena dopo aver finito di leggere questo incredibile romanzo:
Trovo che Mugnaini abbia raggiunto in questo romanzo l’acme della sua arte, quella capacità di analisi del profondo che lo distingue da ogni altro narratore contemporaneo che io conosca. E la modalità narrativa, con il suo andamento serrato e insieme così scorrevole, con il sapiente ricorso ad una sorta di preavviso di ciò che sta per succedere, credo sia efficacissima nel tenere avvinto – quasi in ipnosi- il lettore alla pagina.
Qui un Leonardo inedito, come ben analizza Panella nella prefazione, si autodescrive nel sottile rovello della sua ricerca spirituale, lungo i meandri dei suoi conflitti interiori, dei compromessi, nel dissidio tra le insopprimibili umane pulsioni e l’inseguimento della propria salvezza-verità. E il tema del doppio è la soluzione geniale per far emergere i nascondigli della parte più profonda e autentica dell’artista (e di tutti noi), quella liberissima e folle, anche perversa, e insieme mettere a fuoco il percorso di sofferenza psicologica necessario per raggiungere, se c’è, una salvezza che forse coinciderà solo con la morte, grande rivelatrice.
Notevole poi è l’intreccio delle varie opere leonardesche con le motivazioni del loro farsi e della loro incompletezza, del loro abbandono. Il culmine della narrazione è poi nella inaspettata soluzione dell’enigma della più nota opera, la Gioconda – si legga il libro per scoprirlo! – e pure nell’aprire ad una visione lucida delle atrocità umane, in cui vedo un aggancio stringente all’attualità: la battaglia di Anghiari come una Guernica che continua oggi nelle stragi dell’insensatezza terroristica.
Sono molto felice di aver letto questo romanzo, e spero che partecipi a Premi di rilievo.
Annamaria Ferramosca

Lo specchio di Leonardo di Ivano Mugnaini – Disponibile in libreria ( in versione italiana) e in eBook ( in versione inglese),oppure on line su AMAZON o su IBS. Per maggiori informazioni visita il sito www.ivanomugnaini.it  e www.edizionieiffel.com .