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NOTE A MARGINE SU UN VIAGGIATORE INVOLONTARIO: PRIMO LEVI

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La discesa negli inferi senza un vero ritorno

La guerra c’è sempre. Il resto è solo tregua.
Anzi, la guerra è sempre, è il presente che non muta, resta, a rincorrere, a mordere e strappare via la carne dei giorni.
Questa è la prima sensazione, il sapore agro del primo impatto con le parole di Primo Levi. Ben più complesso è il percorso che ha compiuto e ha voluto trasmettere. Preso atto del dolore, dell’assurdo sovrumano, anzi inumano, in grado di negare la natura stessa dell’umanità, l’alternativa è la resa, l’inazione, il silenzio, oppure il cammino della testimonianza.
Essendo conscio della fragilità e dell’imperfezione della memoria, Levi, da uomo di scienza, ha registrato tutto con oggettività, prima che qualcuno, forse lui stesso, potesse dire un giorno che i dettagli non erano esatti, non corrispondevano le dosi, le componenti, gli elementi della pazzia. Si è assunto il compito, da chimico attento e paziente, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi e gesti, attimi e corpi morti e vivi, i sommersi e i salvati.
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Il vero viaggio di Primo Levi è stato dentro una memoria a cui dava vita passo dopo passo e da cui gradualmente veniva annientato, come da un acido corrosivo. Conscio di questo, non si è mai fermato, fino a quando ha potuto, finché ha avuto la sensazione di avere la forza di poter continuare ad essere utile ai suoi simili. Finché è riuscito a rievocare gli orrori più grandi conservando spazio per un sorriso, amarissimo ma tenace. La prova che il nemico aveva perduto. Perché la vita e l’umanità resistono perfino ad Auschwitz. Resistono all’annientamento, alla ferocia pianificata e resa meccanica, con una struttura industriale, per tramutare gli uomini in materia inerte. Ma la materia inerte non sa sorridere, non sa rievocare, seppure con la morte nel cuore, tutte le occasioni in cui nel campi di sterminio è rimasta viva la fame di arte, di musica, di letteratura, o semplicemente la volontà di vita a dispetto di tutto, essa stessa forma primaria e assoluta di poesia.
Il punto di partenza è Torino, città sospesa tra tradizione e innovazione. La famiglia di Levi in un primo momento accetta passivamente il fascismo, per poi comprendere troppo tardi, come moltissimi altri italiani, la follia distruttiva insita nel suo credo e nelle scelte politiche e ideologiche.
Avvengono così, in modo simultaneo, i paradossi che contraddistinguono la vita dello scrittore: lui, non religioso, ateo sia prima che dopo gli eventi e i massacri, si trova, fin dall’emanazione delle leggi razziali, a dover lottare e in un certo senso a diventare simbolo dell’ebraismo. Inoltre, dopo aver preso parte alla lotta partigiana, e dopo l’arresto, è inviato nei campi di concentramento. Lui che avrebbe sognato con ogni probabilità una vita di studio quieto nella sua Torino, di colpo è scaraventato sulla strada dall’uragano della Storia. La sua personale vicenda diventa suo malgrado una personale metafora della Diaspora. Viaggia per volere del destino, per sopravvivere, per vedere con i propri occhi, ricordare e raccontare. Continua la lettura di NOTE A MARGINE SU UN VIAGGIATORE INVOLONTARIO: PRIMO LEVI