A SCUOLA DENTRO

A scuola dentro - copertina
Susanna Barsotti, A scuola dentro, Edizioni DivinaFollia, 2020
nota di lettura di Ivano Mugnaini
Il “dentro” a cui fa riferimento il titolo del libro è il nucleo, ma anche lo snodo, il punto di connessione. Da lì si irradiano i vari volti, gli aspetti, i significati di questo testo. Andare a scuola dentro equivale ad una scelta che può essere letta in vari modi: portare l’insegnamento dentro, in qualità di docente, ma anche acquisire, attingere a sua volta, da quel luogo, conoscenza. Ciò va in direzione contraria rispetto al cosiddetto senso comune.
 “Li hanno messi dentro”, diciamo noi tutti quando commentiamo un arresto. È un modo semplice e sbrigativo per far sì che, dal punto linguistico, e quindi psicologico (e per estensione fisico) di snodi e di ponti non ce ne siamo più. “Li”, cioè “loro”, si contrappone in modo inequivocabile a “noi”. Loro da una parte e noi dall’altra; così come “dentro” è agli antipodi di “fuori”: c’è un muro, altissimo, di cemento, che separa un mondo non solo dalla consistenza fisica ma anche dall’idea dell’altro, dalla necessità e dalla volontà di immaginarlo come una realtà esistente.
Quel “dentro” è lo specchio, deformato, deformante, volutamente tenuto in stanze semibuie, delle nostre paure, delle debolezze, delle colpe, di quella parte della nostra umanità di cui pensiamo di doverci vergognare, un po’ come quei panni, anch’essi proverbiali, che non solo non laviamo in pubblico ma preferiamo lasciare nel fondo di qualche armadio accuratamente chiuso a chiave.  
«Quest’anno ho fatto la mia prima esperienza da insegnante presso il carcere Due Palazzi di Padova. Essendo ancora professionalmente immatura, sia in quanto docente, sia, a maggior ragione, in quanto docente nel contesto penitenziario, si è trattato di un’esperienza tanto faticosa, quanto formativa ed emozionante. Per questo ho deciso, ogni volta che tornavo dal lavoro, di raccogliere in un diario i ricordi, le riflessioni, i sedimenti umani che gli incontri mi lasciavano». 
Mi ha scritto queste informazioni, Susanna Barsotti in una mail alcuni mesi fa, e in un messaggio successivo ha aggiunto «il libro è cresciuto a dismisura e ha un taglio diaristico, dunque abbastanza autobiografico».
Mi aspettavo di ricevere un resoconto succintamente riassuntivo. Temevo fosse un documento preciso ma asettico, oppure temevo la deriva opposta, il patetismo, la denuncia nuda e cruda, sacrosanta ma sterile. Niente di tutto questo.
            Susanna ha saputo tenere a bada la propria penna e la propria tastiera così come ha saputo trovare la misura per non farsi obnubilare e annichilire dai propri allievi del carcere, dal loro dolore e dalla loro rabbia, dalla loro vitalità, dalla sete e fame di vita, dal male e dal bene, da tutto ciò che di complesso e ambivalente la loro condizione di detenuti ha generato in loro. Si trattava, durante quelle lezioni, di conciliare le regole con l’empatia, il dialogo con la necessaria distanza, vale a dire quello che l’autrice stessa, nella nota che riporto integralmente qui in calce, definisce «coerenza nei confronti del ruolo dell’insegnante». Potremmo dire che si trattava di diventare loro, vedendo con i loro occhi, per quanto umanamente possibile, senza smettere di essere se stessa.
L’intento del libro è riassunto in questa frase: «riordinare i pensieri e razionalizzare alcuni aspetti censurati dell’esistenza e della società». 
Per riuscire in questo compito evitando “l’annichilimento” a cui si è fatto cenno, Susanna Barsotti ha fatto ricorso ad espedienti che hanno reso la mia personale lettura del libro assolutamente coinvolgente. Ha descritto con appassionata esattezza e precisione, con ironia seria e sapida, la vita, la quotidianità, i riti, le brutture e gli squarci di speranzosa umanità che ha osservato all’interno di quelle mura.
In quell’aggettivo che non ci si aspetterebbe, “speranzosa”, in quella che appare una nota cromatica fuori luogo, in realtà c’è il senso, il sapore e il meccanismo, anche narrativo, che ha consentito di tramutare il resoconto in racconto, ossia in un’evoluzione, uno sviluppo umano e individuale che diventa metafora di qualcosa di più ampio, una Bildung, auspicabilmente, condivisa.
Susanna non ha semplicemente descritto ciò che ha visto. Ha mediato tra osservazione e partecipazione così come ha saputo fare da tramite tra l’amicizia, la complicità e il gioco che sono nati in modo naturale con quei ragazzi spesso di età non troppo diversa dalla sua. Un gioco impegnativo, una danza sul filo sospeso tra attrazione e necessario distacco in virtù del ruolo rivestito. Un gioco di equilibrismo condotto con le doti della lievità, dell’ironia, della capacità di ascolto e di autoascolto. A dispetto dell’ambientazione e delle storie di dolore e violenza incontrate e narrate, il libro mantiene uno spiraglio di luce e una salvifica leggerezza. Quella leggerezza calviniana che è sempre abbinata alla consistency, coerenza e sostanza.
Il libro si legge con passione e partecipazione perché ci conduce all’interno di ciò che tendiamo a dimenticare (il carcere intenso in senso fisico e metaforico) senza rinunciare ai meccanismi fondamentali sia della narrativa che di ogni forma di viaggio: l’incontro con l’altro, l’ostacolo, il pericolo, la curiosità. Susanna stessa utilizza il termine “avventura” per definire questo suo percorso di ricordi e sensazioni. Alla fine di ogni avventura c’è il momento dello scioglimento del nodo, la scoperta, l’agnizione. Nel caso specifico di questo diario-racconto, l’autrice incontra soprattutto se stessa, scopre una parte di sé che aveva già dentro, ma che non aveva mai potuto osservare. E rimane, in lei, e in chi leggerà queste pagine, il senso di un arricchimento: avere saputo trovare in quel luogo di storture e violenze, dolore e abbandono, la presenza di quel senso di gioco e quella speranza, che a dispetto di tutto, è ancora viva.
Il libro dunque, pur raccontando un’esperienza assolutamente individuale, diventa in modo spontaneo, e quindi più efficace, esplorazione, condivisa, di quella dimensione chiusa e dimenticata che ognuno ospita dentro, in qualche angolo del suo carcere interiore.
Il consiglio, succinto ma sentito, è semplice: leggerlo. Anche per una considerazione di ordine pratico: al prezzo di un solo libro avrete un diario, un saggio, un romanzo, e, in fondo, anche un libro di poesia. Di quella poesia scabra ma essenziale di cui è fatta la realtà.
       IM 
 
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NOTA DELL’AUTRICE
“A scuola dentro” è il libro di una giovane supplente di italiano di ventisei anni, alle prese con la prima esperienza di insegnamento, in un carcere maschile.
Il diario nasce dalla rielaborazione di appunti e aneddoti annotati giorno dopo giorno, durante un’esperienza emozionante e psicologicamente travolgente.
La necessità di riordinare i pensieri e di razionalizzare alcuni aspetti censurati dell’esistenza e della società è ciò che spinge l’autrice a stendere questo racconto, che si snoda in episodi differenti, inizialmente coincidenti con singoli giorni di lavoro.
L’inesperienza e l’ingenuità vengono presto meno di fronte alla ricerca appassionata e al contempo distaccata di espedienti, parole e obiettivi finalizzati a portare a termine un compito altrimenti doloroso: quello di fare i conti con le storture di un sistema, mediando tra “vite violente” (di alunni più grandi, spesso stranieri, privati della libertà, e di sesso maschile) e coerenza nei confronti del ruolo dell’insegnante.
Il libro-diario che ne esce è, oltre che una narrazione, una testimonianza, il cui scopo vuole essere quello di ricordare a tutti l’esistenza di un mondo spesso dimenticato, con la sua vita, la sua quotidianità, i suoi riti, le sue brutture e i suoi squarci di speranzosa umanità.
Muove le pagine il tentativo di sospendere il giudizio, di prestarsi a una forma di perdono nei confronti dei personaggi incontrati. Anche quando l’incertezza vibra, bruciante, tra le pagine, emergono qua e là situazioni di amicizia, complicità e gioco, (in fondo anche noi, ovunque) che fanno dell’esperienza vissuta un’avventura indimenticabile.
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Nota biografica

Susanna Barsotti, originaria di Viareggio, è nata il 24 novembre 1991. Dopo la maturità classica, intraprende il percorso universitario scegliendo di studiare lettere moderne; nel 2014 si laurea dunque a Pisa, in triennale, per poi specializzarsi a Padova, nel 2017, conseguendo la laurea magistrale in filologia romanza. Gli anni dell’università, vissuti da studente-lavoratrice, sono movimentati dalla sperimentazione, dalle corse contro il tempo e dalla ricerca della propria identità. Dopo la laurea magistrale, conseguita nel 2017, per sei mesi Susanna lavora per ikea, fino a che non viene convocata dal C.P.I.A.* di Padova come supplente di italiano, storia e geografia presso la Casa di reclusione. L’avventura raccontata in queste pagine comincia nel mese di novembre 2017 e si conclude con la fine dell’anno scolastico (giugno 2018).

Attualmente è dottoranda in filologia romanza presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si occupa principalmente di letteratura provenzale; è autrice di contributi filologici di interesse accademico. Coltiva interesse per tutto ciò che riguarda l’espressione letteraria e artistica e si dedica nel tempo libero alla pittura ad acquerello (sotto il nome di “Limoni blu”).

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