Un’intervista pigra su scrittura, editoria, vita, gioventù e altre quisquilie

Questa è un’intervista pigra.
Con il gusto dell’applicazione del principio del minimo sforzo.
Un po’ perché avendo avuto il piacere di conoscerti, come autrice, come lettrice e critico, ma soprattutto come persona, so che mi posso fidare; un po’ per tentare un dialogo, letterario ma non solo, in cui ci sia lo spazio per dire ciò che veramente ti sta a cuore, ciò che ti contraddistingue come autrice e come donna, ciò con cui ti senti in sintonia e anche, e forse soprattutto, ciò che invece trovi estraneo, e che, facendo riferimento al nome di un blog a cui collabori, ti rende irrequieta.
Ma l’irrequietezza è ambivalente, quindi fertile.
Non è solo disagio è anche spinta a fare, a compiere gesti, fatti di azioni e di parole, per provare, a dispetto di tutto, a cambiare le cose. IM

L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono

L'immagine può contenere: 2 persone, persone in piedi e spazio al chiuso

Con la sorridente e ironica sincerità che ti contraddistinguono, dimmi se il tuo legame profondo con la lettura e la scrittura ti fa mai sentire un pesce fuor d’acqua con le persone che ti sono accanto, negli studi e nella vita.

Da bambina e nei primi anni dell’adolescenza, in effetti mi sono sentita un po’ una “eccezione” alla regola: se escludiamo i banchi di scuola, avevo poche persone con cui condividere questo duplice legame e non sempre – per vergogna o per divergenze di idee – ne parlavo quanto avrei voluto o potuto.

Le persone a me più care, comunque, hanno sempre capito il mio rapporto con scrittura e lettura e, quando non lo hanno apertamente incoraggiato, lo hanno comunque rispettato sempre. Negli anni, poi, io stessa ho deciso di circondarmi di persone a me affini in questo senso, di frequentare ambienti adatti al mio modo di essere e di non considerarmi un pesce fuor d’acqua, bensì un pesce che – come tutti gli altri – aveva una sua peculiarità a renderlo unico e interessante.

Il risultato è che, adesso, io sono un tutt’uno inscindibile con le mie passioni e chi mi sta accanto mi è diventato in questo un prezioso alleato.

La parola “intellettuale” ti fa ridere, ti spaventa o ti lascia indifferente?

Come vedi l’interazione di una persona che opera nell’ambito della cultura con il mondo esterno?

Percepisci fatali e immutabili distanze o credi ci possano essere punti di contatto?

Parlare di “intellettuali” mi fa un po’ paura, perché in effetti si tratta di una parola che tende a costruire dei muri fra gli interlocutori. Chi si definisce così, da un lato, sembra quasi volersi porre in una posizione di superiorità mentale e culturale rispetto agli altri, e chi si confronta con i sedicenti intellettuali ne è chiaramente intimorito, se non infastidito, perché non vorrebbe riconoscere a priori una supremazia che non sempre è fondata e che a livello umano, in ogni caso, non dovrebbe mai sussistere fra gli individui.

Chi opera nell’ambito della cultura, più umilmente, dovrebbe forse definire sé stesso come un conoscitore del proprio settore: sembra una differenza da niente, eppure indispone molto meno e fa subito capire che la propria conoscenza nel campo del sapere non presuppone l’onniscienza esistenziale che, invece, molti si auto-attribuiscono.

Le distanze, quindi, in realtà sono spesso la conseguenza del modo di porsi che hanno i singoli. Basterebbe porre la questione in un’ottica di entusiasmo e di piacere della condivisione per creare innumerevoli punti di contatto, cosa che peraltro dovrebbe essere il fine principale di chi opera per la reale diffusione della cultura.

Cosa dovrebbe fare il mondo della letteratura e più in generale della cultura per integrarsi con la società?

Ecco, veniamo al pratico.

Si potrebbero gestire in altro modo le presentazioni dei libri, per esempio, coinvolgendo il pubblico non come se si stesse parlando dall’alto di un pulpito e, piuttosto, come se si volesse renderli partecipi di un qualche importante segreto sotteso all’opera.

Si potrebbero organizzare, anziché dei firma-copie, delle interviste aperte fra autori e lettori, quasi delle “conferenze stampa” in cui la stampa sia rappresentata da chi è interessato all’opinione di chi scrive.

Si potrebbe unire l’esperienza della lettura a quella delle gite scolastiche, suggerendo ad esempio la scoperta di un qualche libro sul luogo che si visiterà prima e dopo la partenza. Si potrebbero trasmettere anche attraverso i mass-media (da leggersi: portali online delle più importanti testate, pubblicità e programmi tv con alto sharing) rassicurazioni circa il fatto che leggere non significa tagliare fuori il mondo o rimanerne isolati, e che invece proprio la letteratura aiuta a darne delle interpretazioni nuove, a scoprirlo diverso, a integrarsi meglio al suo interno.

Se si cominciasse da questo, considerando anche dal punto di vista del “mero” marketing la lettura come una moda immortale, il connubio cultura-società sarebbe praticamente indissolubile.

Come giudichi questi nostri tempi? E come fai convivere la parte di te che si deve adattare alle regole (spesso misere e bieche) del vivere quotidiano con la parte che sogna, che immagina mondi possibili e distanti?

Sarò forse una delle poche a sostenerlo, ma trovo molto affascinanti questi nostri tempi. La tecnologia (e non solo informatica) ci permette di creare delle relazioni che fino a un secolo fa erano inesistenti: amicizie e amori a distanza, scambi interculturali, notizie o aerei che fanno il giro del globo. E non solo, chiaramente.

Certo, ci sono ancora delle brutture allucinanti, delle ingiustizie tremende, un divario inaccettabile fra quello che secondo me – senza mezzi termini – è il primo e l’ultimo mondo, stermini atroci e immotivati, mafie in senso lato che in maniera inconsapevole assecondiamo anche noi con le nostre abitudini; ho però l’impressione che, in misura più o meno percepibile e più o meno definita, tutto questo sia sempre esistito, con la differenza che le possibilità di riscattarsi e di andare al di là (di frontiere, mentalità, povertà, sfruttamenti, orrori e quant’altro) sono adesso elevatissime.

Abbiamo a disposizione degli strumenti extra-ordinari di conoscenza e interpretazione del mondo e dei nostri simili, nonché di noi stessi. Abbiamo secoli di arte e di musica alle spalle, decenni di progressi e di miglioramenti di fronte a noi e, nel presente, abbiamo comunque la possibilità di accedere a parecchi diritti inalienabili senza bisogno di combattere a costo della vita per ottenerli, e di fare lo stesso per chi ancora non ha questa possibilità.

Sono dei tempi promettenti, dei tempi incerti eppure intensi, vibranti e profondi. Molto più di quanto vorrebbero farci credere. Di conseguenza, di solito non sogno altre realtà in cui abitare: faccio di tutto perché sia questa la realtà giusta per me, quella in cui le regole diventano il meno bieche possibile, quella in cui certe ferite si sanano, quella in cui si agisce per andare insieme verso il meglio. Non mi sento in lotta con gli anni 2010, piuttosto mi sento in lotta con chi li demonizza e con chi fa di tutto per evitarci di progredire come umanità e come individui.

Domanda da un milione di dollari, euro, o anche pesos: quale ritieni sia il volto reale della gioventù di oggi? In che misura si discosta dagli stereotipi?

Una domanda effettivamente importante!

Di sicuro è un volto molto diverso da quello di certi stereotipi, ma è anche vero che mi sento di parlare strettamente per la mia generazione. Ho notato, infatti, che già a partire da qualche anno successivo a quello in cui sono nata io è cambiato molto: gli anni Novanta e Duemila sono stati protagonisti di uno sviluppo tecnologico vertiginoso, da un anno all’altro la Play Station 2 era già superata, i Gameboy venivano sostituiti dai Nintendo, i Commodore da Windows. E anche l’approccio dei genitori e il ruolo che hanno avuto questi dispositivi nella crescita è cambiato, così come hanno influito internet e i social network.

La mia generazione, in linea di massima, è entrata in contatto con questi strumenti a un’età in cui lo spirito critico era già sviluppato. Abbiamo saputo utilizzarli per informarci e non solo per svagarci, per capire di più del mondo intorno e non solo per fare gossip o fingerci grandi, per prevenire certi eccessi di “sbandamento dai binari” anziché considerarli affascinanti tout court, motivo per cui mi sento di dire che la gioventù della quale faccio parte è estremamente consapevole di sé, inaspettatamente matura, sorprendentemente in lotta per i propri sogni e ideali.

Siamo abituati ad essere dipinti come dei depressi, dei potenziali falliti, degli sfortunati sociali, mentre secondo me siamo i più curiosi, i più attenti, i più ambiziosi e i più capaci di costruirci passo dopo passo il futuro che vogliamo con le nostre mani.

Se anche avessi vinto un milione di dollari con questa risposta, è alla gioventù di oggi che li darei. In segno di approvazione e di fiducia.

Quali sono i libri che ami leggere e quelli che invece non leggeresti mai? Qualche titolo, o esempio, è gradito.

La mia unica distinzione vede i libri originali contrapposti a quelli non originali.

Non hanno importanza la lunghezza, il genere, l’argomento, l’anno di pubblicazione, il nome di chi lo ha pubblicato. Mi basta che non si tratti di un tentativo di prendere in giro, di confezionare con delle belle parole una storia che non ha niente da insegnare o da suggerire, né sul piano dello stile né a livello di contenuti e di riflessioni.

Sono piuttosto scettica anche nei confronti dei libri che fanno dello sfondo storico il vero protagonista delle vicende, approfittandone per non creare in realtà niente di innovativo capitolo dopo capitolo: con le dovute eccezioni e con un grande rispetto da scrittrice per chi si cimenta con la narrazione ambientata in altre epoche, di solito preferisco chi dalla Storia prende solo spunto, per poi sviluppare vicende, pensieri o risvolti imprevisti e creativi.

A tuo avviso quali meccanismi regolano le scelte editoriali?

Un meccanismo su tutti, per quanto mi riguarda: il marketing.

Non sempre ha importanza premiare il talento, basta premiare quello che vende facilmente, che attira la fetta più larga di lettori (specialmente di livello culturale medio), che asseconda le aspettative.

Anziché andare alla ricerca dell’estro, dello spessore e dell’interessante, quindi, si va alla ricerca del sensazionalismo smerciabile. Questa medaglia ha una faccia positiva, nel momento in cui il marketing incontra effettivamente il talento o nel momento in cui il talento riesce a trasformarsi in marketing, il che non avviene poi così di rado.

Il fatto è che non sempre chi ha talento sa come allinearsi ai criteri di pubblicazione e, ancora peggio, come entrare anche solo in contatto con certe case editrici. Ad accogliere manoscritti inediti sono pochi grandi editori e quasi nessuno, ormai, punta su volti assolutamente sconosciuti. D’altronde, da sconosciuti è impossibile diventare conosciuti se non si ha un briciolo di marketing dalla propria parte, così chi riesce a farcela da sé si crea intanto una cerchia di lettori via internet o attraverso piccole realtà alternative (regionali, ad esempio, o legate a concorsi letterari più o meno noti) nella speranza di essere notati presto o tardi, e chi non ne è capace rischia di non trovare mai posto sugli scaffali.

Una realtà che mette i brividi e che dovrebbe fare indignare, ma alla quale molti non saprebbero nemmeno come opporsi. Proporre dei modelli di comportamento alternativi è complicato da concepire e da fare accettare, ergo la scelta più facile – e non quella più giusta, però – rimane il solito laissez faire in cui gli italiani sono dei veri maestri.

Se per avere successo editoriale ti chiedessero di scrivere qualcosa che va in direzione opposta al tuo modo di scrivere e di pensare, cosa risponderesti? (Sono ammesse risposte senza limitazioni o censure).

Risponderei categoricamente di no.

Mi è successo di ricevere proposte editoriali che svilivano in maniera assoluta il ruolo dell’autore – percentuali di guadagno minime, assenza di distribuzione cartacea degna di questo nome, impossibilità di presentare il libro nelle grandi catene di librerie nazionali, editing inesistente – e di rifiutarle.

Mi è anche successo di sentirmi dire: “è meglio scartare quest’opera qui, farebbe meno successo di quest’altra”. E, nonostante questo, l’opera da scartare fa ancora parte dei miei progetti nel cassetto. Non sono mancate nemmeno le richieste di storie o di conclusioni contrarie in toto al mio modo di scrivere e di pensare, e anche in quell’occasione mi sono opposta.

Il successo mi interessa solo se serve ad essere letta dalle persone a cui può interessare quello che ho da dire. Non se serve a dire a persone di cui non mi interessa quello che vogliono ascoltare, a prescindere dal fatto che io ne sia realmente convinta o meno. Di conseguenza, scendere a patti se non credo in qualcosa non fa proprio parte delle mie alternative.

Le ispirazioni per i tuoi racconti da cosa nascono? Prendi appunti immediatamente o come Wordsworth preferisci le “emotions recollected in tranquillity”?

Alterno le due tendenze in base alle circostanze.

Ci sono racconti che nascono d’istinto in un attimo, che prendono forma da una sola frase, immagine, canzone, riflessione; per loro basta scribacchiare un paio di frase nell’immediato perché lo sviluppo venga poi d sé.

Ci sono storie, invece, che hanno bisogno di tempi di maturazione ben più lunghi: magari devo studiarmele bene in mente, lasciare che sedimentino in sordina, aspettare prima di provare a tastarle fino in fondo, e in quel caso l’approccio di Wordsworth mi risulta molto più congeniale.

Di norma, comunque, mi piace seguire un principio di Baudelaire a cui cerco di ispirarmi il più possibile: bisognerebbe scrivere da ubriachi (in alte parole, prendendo appunti immediatamente) e correggere da sobri (con tutte le “recollections in tranquillity” necessarie).

Quale domanda faresti a te stessa per prima in un’autointervista?

E quale sarebbe l’ultima?

La primissima domanda che mi porrei in un’autointervista sarebbe forse questa: “Ritieni di essere una persona coerente? Fai quello che scrivi, pensi quello che dici, parli di quello che davvero ti anima?”. Perché è sempre un bene accertarsene e costruire il resto su delle basi solide, si sa mai.

L’ultima che mi farei, probabilmente, sarebbe: “C’è qualcosa a cui avresti voluto rispondere e che non ti è stato chiesto?”. Perché mi capita spesso che vada così, anche se posso dire che quest’intervista è decisamente una di quelle splendide eccezioni che confermano la regola.

Pubblico qui di seguito un tuo racconto.

Se vuoi commentalo, dicendo quello che è scritto nelle righe e tra le righe.

Cecità è una storia di cui non si può dire molto, prima che venga letta, perché il rischio è di rivelare dettagli che è giusto cogliere man mano che si va avanti da sé nella scoperta.

Quel che si può raccontare è che nessun nome o cognome è casuale, che l’ho scritta per proporre una maggiore gratitudine nei confronti di quello che abbiamo e per ricordare che non sempre quello che desideriamo si realizza nella maniera che avevamo previsto, senza che per questo debba essere percepito come un fallimento.

Cecità è la storia di come dovremmo e non dovremmo essere, attraverso una metafora che mi è molto cara e che nel mondo occidentale non è molto comune. È la storia del fanciullino che ci portiamo dentro e che non dovremmo mai abbandonare, nemmeno quando scopriamo l’epilogo che lo aspetta nelle ultime righe.

Ti ringrazio per la tua collaborazione.

A presto per nuove letture e nuove scritture. IM

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                                                                   Cecità

Era una soleggiata mattina di dicembre e Irene era ancora profondamente addormentata quando venne riscossa dalla sorella Andreina.

In piedi, dormigliona!

Irene aprì gli occhi. Attorno a lei era ancora tutto buio, come ogni volta. — Che ore sono? chiese.

Le otto e un quarto. E tu sei tutta spettinata.

Irene mormorò qualcosa, poi fece per riaddormentarsi. Si intromise Caterina:

Non hai sentito Andreina? Alzati, Irene! — Che giorno è oggi? — doman lei.

Il Giorno delle Pulizie.

Questo bastò per far alzare Irene e per farla sistemare a dovere. Mise il solito abitino ormai scolorito, verde e viola come quello di Sofia e Caterina, mentre la mamma, Andreina e Debora vestivano di grigio e arancione. La pettinatura, invece, era la stessa per tutte: i lunghi e sinuosi capelli che lintera famiglia aveva ereditato dalla nonna venivano lasciati sciolti sulle spalle, ad incorniciare il viso e a nascondere le orecchie.

Ad Irene quella pettinatura iniziava a stancare. Avrebbe voluto legare la propria chioma in uno chignon, tentare una treccia o una coda di cavallo, ma la mamma era perentoria. Non si può cambiare da un giorno allaltro, aveva detto, le tradizioni vanno rispettate, Irene: cerca di ricordarlo.

Irene, per la verità, pensava di condurre unesistenza fin troppo sui binari. La sua famiglia era ucraina da intere generazioni mamma diceva sette, la nonna (buonanima) sosteneva fossero nove, sebbene le sue antenate fossero arrivate in pessime condizioni da una meta turistica della Russia e fossero state poi rimesse in sesto lì a Kurachove, dove qualcuno aveva provveduto a dare lustro al loro nome e a rispolverarne lantica nobiltà e durante nessuna delle suddette generazioni si era pensato di mutare anche solo minimamente qualcuna delle tradizioni.

Irene andava fiera delle proprie origini ed era consapevole del fatto che pochi nel quartiere contassero quanto la propria famiglia, eppure, di tanto in tanto, provava uninspiegabile nostalgia.

Essere la più piccola fra le sorelle non la infastidiva, dal momento che era stata abituata alla condivisione: non si sarebbe mai lamentata, se la mamma avesse fatto più carezze a Sofia che a lei, o sefosse stata pettinata dopo Debora. Aveva ormai nove anni ed aveva imparato ad adattarsi aqualsiasi circostanza, consapevole del fatto che, in un modo o nellaltro, laffetto sarebbe stato ripartito equamente fra tutti i propri consanguinei.

Cerano stati giorni settimane, talvolta in cui nessuno le aveva rivolto la parola ed un solenne silenzio aveva avvolto i visi ancora giovani della famiglia Stanislavskij. Cerano stati mesi anni, talvolta in cui Irene non aveva ricevuto regali, non aveva cantato o recitato le poesie che le aveva insegnate la nonna, buonanima. Vi erano stati perfino lunghi periodi della sua esistenza simili a buchi neri: pause sonore, interruzioni di ogni funzione vitale ad eccezione delle uniche necessarie.

Nonostante questo, Irene non soffriva di solitudine, né era gelosa di chi sarebbe potuto sembrare può fortunato, più allegro o più libero di lei. Solo, di tanto in tanto, Irene provava una indefinibile nostalgia, poiché aveva mai visto il mondo, per lo meno non con i propri occhi.

Da Caterina aveva imparato il rumore del vento fra le foglie, dello scrosciare dei fiumi in piena, del sibilo dei serpenti nel deserto, dei boati dei vulcani in eruzione. Grazie ad Andreina conosceva laurora boreale, il Grand Canyon, le spiagge spagnole, i cieli stellati del Canada e il colore degli arbusti nella Savana. Da Sofia aveva appreso leuforia del viaggiare su un treno, lebbrezza di un salto nel vuoto, la paura di affidarsi ad un paracadute e la gioia di correre a piedi nudi sulla neve. Debora le aveva raccontato di interi sciami di api, prelibatezze orientali, banchi di scuola e soffitte impolverate. Aveva perfino sentito parlare la mamma di album di fotografie, sparatorie, ballerini, fiori, scarpe col tacco e teatri affollati.

Profumi, consistenze, sapori e colori: su tutto Irene si era informata. Chiudeva gli occhi ed immaginava apparire di fronte a sé tavole imbandite, pesci in mezzo al mare, prati di girasoli o notti di luna piena. Quando li riapriva, però, si ritrovava nel posto di sempre, al buio, in un angolo ritagliato su misura nella pancia di Andreina.

Essere una matriosca, in effetti, non era semplice.

Bisognava adattarsi alle esigenze delle persone cui si era stati affidati, senza replicare né farsi aspettare. Bisognava esercitarsi a schiudersi al primo tocco, a roteare su se stesse, eventualmente ad attendere anni, secondi o settimane nellimmobilità. Non si poteva mai sapere.

La bisnonna di Irene conosceva parecchi trucchi del mestiere: sapeva come intuire lumore di chi ci tocca, come sorridere senza apparire volgare, come mantenere la stessa espressione per interi minuti, come non far scivolare il mascara sulle guance, come non sudare e come riconoscere addirittura i rumori che precedono allo smembramento della famiglia. Ogni segreto era stato tramandato con attenzione quasi religiosa da sorella in sorella, da mamma in figlia e da zia a nipote, senza distinzioni. Ciascuna doveva dareil meglio di sé enessuna doveva apparire impreparata, incerta o spaventata.

Essere una matriosca consisteva in una vera e propria arte, anzi, per un tipetto curioso come Irene, essa si presentava come una missione di fondamentale importanza: era necessario esserne allaltezza, rispettare le tradizioni e non deludere gli sforzi di un intero albero genealogico.

Tenendo presenti tali precetti, Irene si era adattata con serenità al buio della propria breve vita: non aveva mai visto la luce del sole ed era forse troppo piccola perché un ragazzino desiderasse rigirarsela fra le mani e coccolarla, sebbene fosse già una signorina aggraziata e composta. Tuttavia, aveva imparato a non soffrirne e trascorreva le proprie giornate come fossero state ciascuna una lunga sequenza di fremiti, gridolini, aspirazioni deluse e ripetitive buonanotte avvolte in uno spesso ed impenetrabile mantello nero, che attutiva ogni suono e vietava di conoscere qualsiasi squarcio di mondo percepibile attraverso i sensi.

Il febbrile interesse nei confronti delluniverso sconosciuto che la circondava, nel frattempo, cresceva in Irene di anno in anno, senza che la propria bramosia venisse soddisfatta.

Ad onor del vero, quando la piccola aveva ancora tre anni e mezzo, le era capitato di essere trascinata via dalla pancia di Andreina per essere ripulita e spolverata da capo a piedi, ma il tutto era accaduto nella discrezione di un camerino senza finestre, mentre Irene, mezza stordita ed addormentata, tentava a denti stretti e ad occhi chiusi di non divincolarsi e di non tremare.

Tante volte si era poi pentita del proprio atteggiamento infantile, pur consolandosi al pensiero che la propria età le avrebbe comunque impedito di fissare nella memoria qualsiasi percezione sensoriale degna di nota.

Già da anni, quindi, Irene chiedeva di essere svegliata soprattutto quando arrivava il semestrale Giorno delle Pulizie, nella speranza di riscattarsi e di realizzare finalmente la propria aspirazione.

Per loccasione, la mamma faceva sempre il conto alla rovescia, Sofia la aiutava e Debora lo riferiva a Caterina, ad Andreina e a lei. Era un rito del quale la famiglia non sapeva più fare a meno: come Irene, infatti, anche le altre desideravano respirare aria pulita ed essere destate, sebbene temporaneamente, dal loro immobile torpore color pece.

Allo scoccare di quel Giorno delle Pulizie dicembrino, dunque, Irene si alzò in fretta e si pettinò con più cura del solito: rincarò la matita sugli occhi, luci le scarpette con la saliva e stirò con le manine le pieghe del vestitino verde e viola che le era dato di indossare.

Qualcosa le diceva che il gran giorno era arrivato: Andreina non veniva spolverata da tre settimane, Debora non era stata lavata per due ela mamma raccontava della svogliatezza del momento in cui lei e Sofia erano state sciacquate.

I possessori della famiglia Stanislavskij non avrebbero continuato così a lungo: presto il senso di colpa li avrebbe spinti a pulire ciascuna matriosca con più cura pur di farsi perdonare.

E, in effetti, quella fu davvero la volta buona. Irene lo ca fin da subito.

La mamma stette via per interi minuti e Sofia era abbagliata dalla luce della cucina quando ritornò. Irene poteva sentirne solo le voci, ma anche Caterina e Debora parlarono di grandi carezze, di giravolte e capriole sotto il rubinetto, di stracci grandi, grossi e ruvidi come non mai.

Fu il turno di Andreina. Irene non stava più nella pelle. Sentiva il sangue pulsarle nei polsi, ladrenalina attraversarle le gambe, la fronte, le orecchie. Avvam senza saperlo, poi impallidì, poi quasi non si resse sulle gambe.

Nel frattempo, il corpo di Andreina si spaccò in due con uno scatto leggero.

Irene chiuse gli occhi nel tentativo di gustarsi gradualmente quella concessione di estrema e fugace felicità.

Fra poco avrebbero preso in braccio anche lei, fra poco il buio sarebbe stato solo nebbia, illusione, passato.

Lunghe dita sinuose sollevarono Irene per la testa.

Laria le fischiava nelle orecchie e lei contò fino a tre prima di aprire gli occhi. Uno, due

Tre.

Silenzio. Buio. Tre.

Lacqua stava inzuppando labitino di Irene. Tre, dannazione, tre.

Niente da fare, il buio non spariva.

Irene pensò fosse uno scherzo, una beffa del destino, un disturbo agli occhi. Tre, tre, tre. Ti prego, tre!

Non ci furono scongiuri che potessero tenere.

Irene ebbe appena il tempo di toccarsi le palpebre per essere sicura di averle spalancate, mentre veniva strofinata sotto il getto dacqua del rubinetto.

Fu in quella che capì. Non erano stati i suoi occhi a non volersi aprire, non era stata la sua forza di volontà ad essere debole, non era stata lacqua ad impedirle di vedere.

Irene era cieca.

Il Giorno delle Pulizie finì presto.

La mamma, Sofia, Caterina, Debora e Andreina tornarono luna dentro laltra. Irene assieme a loro.

Un paio di giorni dopo arrivò il Natale e la famiglia Stanislavskij venne regalata a una coppia di mendicanti che aveva chiesto lelemosina suonando al campanello della casa presso cui le matriosche avevano alloggiato fin a quel momento.

Non ci furono altri Giorni delle Pulizie per molti anni, ma Irene non ne soffrì troppo.

Solo, prese a chiedersi quale fosse la consistenza dellacqua, perché durante lultimo lavaggio che le era stato riservato si era sforzata così intensamente di aprire gli occhi che aveva dimenticato di prestare attenzione a ciò che avrebbe potuto percepire con gli altri quattro sensi.

Eva Luna Mascolino

Eva Luna Mascolino è nata nel 1995 a Catania, dove si è laureata in Lingue curando la prima traduzione mondiale di “Cap Africa”, una raccolta poetica del tunisino Moncef Ghachem. Dal 2016 si è invece trasferita a Trieste per studiare russo, francese e rumeno alla Scuola per Traduttori e Interpreti. Affascinata delle parole fin da sempre, nel 2010 ha vinto il Premio di Poesia Kiwanis in un concorso locale e ha iniziato a collaborare con il quotidiano online “Voci di Città” nel 2011, di cui è stata caporedattrice e vicedirettrice. Nel 2015 ha poi vinto il Premio Campiello Giovani con il racconto “Je suis Charlie” e recensisce adesso narrativa per il blog “Il Rifugio dell’Ircocervo”, oltre a gestire la pagina facebook “Eva Luna racconta” e a essere in trattativa per una prima pubblicazione editoriale. Chiacchierona e assetata di risposte, ama viaggiare per l’Europa con fotocamera alla mano, guardare serie tv e strimpellare il pianoforte.
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