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I nomi delle cose

BARONI COP fronte ridotta
 

Giancarlo Baroni, I nomi  delle cose, puntoacapo, 2020

Nota di lettura di Ivano Mugnaini

«Kangarù risponde all’esploratore / che gli domanda il nome / di quel buffo animale saltellante / Kangarù ripete non capisco». L’impressione è che in questi versi ci sia il tono, il senso e anche l’esplorazione, è il caso di dirlo, del libro di Giancarlo Baroni. Tra serietà e ironia, in transito sui sentieri di una disperazione lieve e tenace, un’allegria di naufragi nei mari e nelle lande del senso, del significato delle parole, e, di conseguenza, di tutto il pianeta in costante rotazione e rivoluzione, senza che nulla cambi. Il nome delle cose nasce da un errore di comprensione. Tuttavia quel messaggio decodificato in modo inesatto viene a costituire comunque un canone condiviso. L’errore diventa norma, lemma inserito nei dizionari. La poesia, forse, ha il compito di muoversi tra i due estremi, la regola e l’eccezione, l’errore e il ritratto di una cosa e di un pensiero. Forse la poesia è quell’animale saltellante. O forse è l’esploratore che, nell’atto di non comprendere, crea l’oggetto, gli dona forma ed esistenza. O magari, al di là di tutto, Baroni voleva soltanto giocare a raccontare un episodio, un malinteso epocale. Ma si tratta di un gioco particolare, in cui, per la logica illogica degli ossimori, ancora una volta il vero equivale al suo contrario, e viceversa.
In questa “Segnalazione” proporrò alcune mie considerazioni che potrei definire, per usare un termine mutuato dalle arti visive, “impressionistiche”. In senso improprio e immediato, ossia, in questo contesto, basate su sensazioni filtrate il meno possibile. Per un’analisi ulteriore vi rimando alla nota introduttiva di Ivan Fedeli riportata qui di seguito, e, come sempre, alla lettura diretta di questo libro dotato di un taglio e di un approccio del tutto originali.
            I nomi, i vocaboli, sono i ponti e al tempo stesso le cariche di dinamite piazzate sotto le campate per farle saltare. Così come ogni espressione verbale è anche allo stesso tempo un invito ad entrare all’interno delle mura e un monito minaccioso a cui si dà voce per difendere il territorio. Nella poesia “Invincibili”, Baroni scrive «Lanciamo proiettili di fuoco / ciononostante avanzano / senza curarsi delle ustioni / come se fossero invincibili, immortali». Probabilmente avanzano perché in fondo abbiamo bisogno di dare loro un nome per poi scoprire che è il nostro stesso nome. Avanzano perché, a dispetto di ogni battaglia più o meno rituale, più o meno tragica o comica, loro, quell’entità sottintesa e ineludibile, siamo noi, i nomi con cui creiamo il nostro mondo e anche le terre nemiche, gli eserciti invasori. E la lezione di maggior rilievo, sull’erba dei campi di battaglia così come sulla carta delle pagine, è che ogni vocabolo ha più di un senso e più di un vessillo. È tutta una questione di punti di vista: «Loro sperano / che dal portone si affacci / un drappello in segno di resa / noi che all’orizzonte si sollevi / la polvere di cavalieri amici».
Come in ogni punto di confine c’è una dogana anche tra la parola e il silenzio, tra il dialogo e il conflitto. E c’è un dazio da pagare: «Niente da dichiarare / disse tacendo dei trecento / euro della salvezza / nascosti nella sacca… E questi / insisteva il doganiere questi?”. La concisione, in questo libro, specialmente nella parte iniziale, è privilegio, scelta e necessità. Baroni lascia che i simboli e le metafore emergano dai fatti, dalle azioni. Nel caso specifico citato poco sopra, lascia che anche l’interpretazione sia libera, così come le opzioni. Lascia che sia chi legge a scegliere chi o che cosa sia il doganiere. Così come, senza forzature, senza imposizioni autorali, ciascun destinatario di questi versi è chiamato a stabilire i volti del confronto e del conflitto, eternamente interrelati: «Ti osservano / quando meno te lo aspetti / quando vorresti nasconderti / dietro un riparo inesistente / quando non te ne importa niente / rannicchiato nell’angolo / in piedi al centro della cella».
Nella sezione “Un seme tra le mani”, la concisione lascia gradualmente spazio a versi più estesi, più dilatati. Ma le domande permangono, ineludibili. Anche e forse soprattutto quelle deliberatamente sottaciute: «Detesti a tal punto il dolore / che del tuo hai scelto di non parlare. / Dici succederà anche troppo / quando da sottoterra dovrai raccontare / i motivi della tua morte / alle anime numerose che in ascolto / a turno riferiranno i loro. / Perlomeno ti auguri si possa / ogni tanto variare / inventando una versione inedita / immaginando qualche vicenda avventurosa / che renda più sopportabile l’aldilà». Il vero e l’immaginazione, dunque. Con la parola come unico modo per contrastare, inventando storie irreali, perfino il tedio di un tempo senza fine.
Eliotianamente, Baroni, immagina e in gran parte teme il risveglio dopo il letargo vitale e forse anche mortale. «Quel che diventeremo lo sappiamo / non serve aggiungere. La terra / seppellita altra terra la trascina / fino a svegliarci. Chissà per quante volte / ancora subiremo, aspettando / tenacemente che l’universo cambi. Come di cenere / soffocata composti e desiderio».
Da questo panorama descritto con schiettezza ma senza compiacimento e senza asprezze fini a loro stesse, Baroni, salva, paradossalmente (ma forse neppure troppo) ciò che non ha nome, se non nell’ambito di territori che risultano indefinibili: l’emozione e lo stupore di fronte ad una bellezza che condensa in sé il bene e il male, il confine ed il suo superamento. Nelle sezioni “L’amore ha la stessa verità” e “Le trappole di Rauschenberg”, vengono chiamati in causa personaggi della letteratura e artisti accomunati dalla complessità, dalla loro natura contraddittoria e fuori dagli schemi. «Al posto delle mele bacate / di grappoli bianchi e rossi / del fico maturo che mostra / il viola della polpa / la cesta di frutta contiene / la testa del Battista. Firmo col sangue / il mio autoritratto». Parole, queste, di Caravaggio, emblematico rappresentante della categoria dei “maledetti”, dalla ragione e dal senso comune. Sono parole che condensano la voce e lo sguardo di coloro che hanno imboccato e percorso strade laterali, strette e insidiose, coloro che hanno voluto e dovuto trovare un modo diverso per evocare i nomi delle cose.
       IM
 
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Nota di Ivan Fedeli

In bilico tra Valerio Magrelli e Luciano Erba, Baroni osserva la realtà con occhio da vedetta e il suo sguardo restituisce quadri di vita mai scontati o dati per certi. C’è una sorta di ironia di fondo che, talvolta, agisce in profondità e, senza corrodere, opacizza il fare umano e cerca una parola definitiva, un lasciapassare, con cui restituire un intero a tante situazioni frammentarie, senza sbocco. Una poesia arguta, quella di Baroni, fatta di scatti cerebrali, ipotesi, situazioni limite (l’uscio, la frontiera, il fronte, le zone franche): qui l’uomo si trova di fronte a uno specchio e dubita di sé e del suo riflesso. È nella terra di nessuno, insomma, che si svolge la storia e la scommessa è quella di trovare un confine. Ne deriva una sorta di situazione metafisica dove resistere con mandel’stamniano rigore.
Lo stile, nitido, dà unità ad un lavoro serio e originale. Il poeta emerge dalle pagine e coincide con l’uomo: è la preoccupazione del mondo che porta a scrivere e la pietas si insinua nei versi, quasi un’ombra cercasse di dare riparo. Autore riconoscibile e maturo, Baroni ne I nomi delle cose crea un sistema chiuso con il lettore, in cui il diaframma della scrittura è facilmente penetrabile per chi, con occhio vigile a sua volta, sa riconoscere i segni di una fragilità umana da tenere cara e proteggere, cosa questa mai scontata.

 

  Giancarlo Baroni, I nomi delle cose
Nota di Ivan Fedeli, pp. 130, € 15,00
ISBN 978-88-6679-239-0
 
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NOTE BIOGRAFICHE

Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016) e Le anime di Marco Polo (Book, 2015). Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. Sue poesie sono state tradotte in lingua inglese dal poeta Max Mazzoli e in francese dalla poetessa Marilyne Bertoncini. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: Sguardi dell’arteBologna e Due volti di Parma; tutti e tre fuori commercio.

Gradiva – numero speciale

 

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In ottima compagnia, un mio testo di cronaca “sportivo-esistenziale” sul numero 50 di Gradiva.

È un numero speciale dedicato a: CINQUANTA POETI ITALIANI PER GRADIVA. Nel fascicolo, oltre ai testi dei vari autori, un editoriale del direttore Luigi Fontanella che percorre la storia della rivista.

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Riporto qui sotto, per chi fosse interessato, alcune informazioni sulla rivista 

 

GRADIVA

International Journal of Italian Poetry

Editor-in-Chief: Luigi Fontanella ~ Associate Editor: Michael Palma

Quote di abbonamento: 2016 | 2017

«Gradiva» è una delle più longeve riviste di poesia italiana, dedicata in particolare allo studio e alla diffusione della poesia contemporanea. Rivolta a un pubblico internazionale, pubblica testi sia di poeti italiani (con o senza traduzione in inglese) che di poeti stranieri di origine italiana, saggi, note, traduzioni, recensioni e interviste. Oltre a sezioni dedicate a testi inediti e interventi critici, comprende rubriche specifiche curate da singoli studiosi e poeti. Arricchisce la rivista una «Fototeca», archivio fotografico che documenta i principali eventi della poesia italiana, passata e presente.

«Gradiva» is one of the oldest journals of Italian poetry, and is particularly devoted to the study and promotion of contemporary literature. Addressed to an international audience, it publishes texts by Italian poets (with or without accompanying English translations), or of Italian descent, as well as essays, notes, translations, reviews, and interviews. Beyond its regular sections, with original poems and critical contributions, it includes special sections developed by scholars and poets. Among the latest features of the journal is a «Fototeca», a photographic archive documenting the most important events of the Italian poetical scene.

Da questo fascicolo in poi la rivista «Gradiva» è pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki in Firenze. Dopo questo numero, per ora ancora doppio, la rivista uscirà con cadenza semestrale. Sono molto grato a Daniele Olschki per aver accettato di pubblicare «Gradiva» che, nata nel lontano 1976, ha ormai alle spalle ben trentasette anni di vita, quasi un record per un periodico dedicato esclusivamente alla poesia e alla poetologia italiana. Questa novità trascina con sé anche un significato intensamente paradigmatico: quello di far ‘ritornare’ la nostra rivista al suo alveo materno, pur continuando a mantenere il carattere transnazionale che le è proprio. È, di fatto, a Firenze, con il suo amato/odiato concittadino Dante, che la poesia italiana trova il primo vero iniziatore, senza con questo voler disconoscere la rilevanza storica della Scuola Siciliana e di tanti altri importanti poeti toscani e non toscani che operarono prima e durante la grande stagione dantesca. Questo ritorno alle origini non è, dunque, senza un suo valore fortemente simbolico, che fra l’altro richiama alla mente due versi straordinariamente profetici di Hölderlin: «Difficilmente il suo luogo / abbandona ciò che abita vicino all’origine».
Luigi Fontanella, Premessa al volume 43/44

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