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LOST (AND FOUND) IN TRANSLATION

LOST (AND FOUND) IN TRANSLATION
La scrittrice e poetessa serba Valentina Novković, che ringrazio, mi ha rivolto alcune empatiche ed interessanti domande. Ho accettato volentieri di rispondere. Il problema è che Valentina non parla italiano e io non parlo serbo. Abbiamo dialogato in inglese e Valentina ha poi inviato le domande alla rivista Pokazivač. Ringrazio anche la scrittrice Khosiyat Rustam per aver pubblicato l’intervista nella rivista uzbeca Kitob dunyosi.
Ho ritradotto domande e risposte in italiano.
Viva Babele, e buona estate a tutte e a tutti, IM
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 Intervista di Valentina Novković
a Ivano Mugnaini
 
  • Tra i classici della letteratura italiana ci sono Ludovico Ariosto, Italo Calvino, Umberto Eco, Alessandro Manzoni e molti altri. Quali scrittori italiani o mondiali hanno avuto la maggiore influenza su di te, ricordi il primo libro che hai letto?
Comincio dall’ultima parte, che è la più facile: qualche anno fa (meglio non contarli) un’anziana signora che abitava vicino a  me mi regalò un pallone e un libro. Mi sono piaciuti entrambi i regali. Mi hanno dato un senso di libertà. Il libro era Il giro del mondo in ottanta giorni. Forse era solo un caso, o forse un segno.
Gli autori che hai elencato nella tua domanda hanno dimostrato che la letteratura può volare (e far volare i lettori) attraverso epoche e luoghi diversi, nel mondo e nella dimensione ancora inesplorata, selvaggia e meravigliosa che è la mente umana.
Mi piacciono gli scrittori che indagano, con ironia, la condizione umana. Potrei citarne diversi, Pirandello, Beckett, Jonesco e molti altri.

 

  • Ti sei laureato in Lettere moderne all’Università di Pisa, sul tema del teatro rinascimentale. Quali drammaturghi ti hanno lasciato l’impressione più forte e perché?
Ho studiato soprattutto Letteratura. Partendo dagli autori classici per arrivare gradualmente a scrittori e poeti contemporanei. Come sai, tutto ha forti connessioni, nell’arte e nella vita. La mia tesi riguardava alcuni autori contemporanei di William Shakespeare. Studiarli è stato anche un modo per riflettere sull’influenza di Shakespeare su altri drammaturghi e, in termini più generali, sui legami che i grandi scrittori creano con le idee e le opere passate, presenti e future. La voce di Amleto è presente in molti dei nostri pensieri, e citando liberamente T.S. Eliot, possiamo dire che indugia nei frammenti con cui puntelliamo le nostre rovine.

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Gradiva – numero speciale

 

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In ottima compagnia, un mio testo di cronaca “sportivo-esistenziale” sul numero 50 di Gradiva.

È un numero speciale dedicato a: CINQUANTA POETI ITALIANI PER GRADIVA. Nel fascicolo, oltre ai testi dei vari autori, un editoriale del direttore Luigi Fontanella che percorre la storia della rivista.

* * * * *

Riporto qui sotto, per chi fosse interessato, alcune informazioni sulla rivista 

 

GRADIVA

International Journal of Italian Poetry

Editor-in-Chief: Luigi Fontanella ~ Associate Editor: Michael Palma

Quote di abbonamento: 2016 | 2017

«Gradiva» è una delle più longeve riviste di poesia italiana, dedicata in particolare allo studio e alla diffusione della poesia contemporanea. Rivolta a un pubblico internazionale, pubblica testi sia di poeti italiani (con o senza traduzione in inglese) che di poeti stranieri di origine italiana, saggi, note, traduzioni, recensioni e interviste. Oltre a sezioni dedicate a testi inediti e interventi critici, comprende rubriche specifiche curate da singoli studiosi e poeti. Arricchisce la rivista una «Fototeca», archivio fotografico che documenta i principali eventi della poesia italiana, passata e presente.

«Gradiva» is one of the oldest journals of Italian poetry, and is particularly devoted to the study and promotion of contemporary literature. Addressed to an international audience, it publishes texts by Italian poets (with or without accompanying English translations), or of Italian descent, as well as essays, notes, translations, reviews, and interviews. Beyond its regular sections, with original poems and critical contributions, it includes special sections developed by scholars and poets. Among the latest features of the journal is a «Fototeca», a photographic archive documenting the most important events of the Italian poetical scene.

Da questo fascicolo in poi la rivista «Gradiva» è pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki in Firenze. Dopo questo numero, per ora ancora doppio, la rivista uscirà con cadenza semestrale. Sono molto grato a Daniele Olschki per aver accettato di pubblicare «Gradiva» che, nata nel lontano 1976, ha ormai alle spalle ben trentasette anni di vita, quasi un record per un periodico dedicato esclusivamente alla poesia e alla poetologia italiana. Questa novità trascina con sé anche un significato intensamente paradigmatico: quello di far ‘ritornare’ la nostra rivista al suo alveo materno, pur continuando a mantenere il carattere transnazionale che le è proprio. È, di fatto, a Firenze, con il suo amato/odiato concittadino Dante, che la poesia italiana trova il primo vero iniziatore, senza con questo voler disconoscere la rilevanza storica della Scuola Siciliana e di tanti altri importanti poeti toscani e non toscani che operarono prima e durante la grande stagione dantesca. Questo ritorno alle origini non è, dunque, senza un suo valore fortemente simbolico, che fra l’altro richiama alla mente due versi straordinariamente profetici di Hölderlin: «Difficilmente il suo luogo / abbandona ciò che abita vicino all’origine».
Luigi Fontanella, Premessa al volume 43/44

Prospetto illustrativo


Indicizzata da:
Thomson Reuters – WOS (Web of Science) The world’s most trusted citation index covering the leading scholarly literature

Managing Editors
Irene Marchegiani • Sylvia Morandina

Assistant to the Editor
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Sebastiano Aglieco • Antonello Borra • Luigi Cannillo • Barbara Carle • Alessandro Carrera • Carlo Di Lieto • Costanza Geddes da Filicaia • Sebastiano Martelli • Ivano Mugnaini • Alessandra Paganardi

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Gradiva
International Journal of Italian Poetry
POB 831, Stony Brook
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Ultimo fascicolo pubblicato • Last published issue
2016/2 n. 50


Casa Editrice Leo S. Olschki – Firenze
per informazioni: 
periodici@olschki.it

 

Un uomo e un personaggio

Eco

“Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra di loro e celebrano una festa di ritrovamento”.
Queste parole sono di Umberto Eco, uno piuttosto noto anche qui in America. Non sono sicuro di averne colto il significato in tutto e per tutto. Però so che mi piacciono. Mi sembra che vadano a pennello anche per ‘Casablanca’. Inoltre, come potete ben capire, quando si parla di ritrovamenti io mi sento perfettamente a mio agio. Sono e rimango trovarobe, in fin dei conti. Mi piace scoprirle, perderle o fingere di perderle per poi fingere di ritrovarle o ritrovarle veramente.”
Sono le parole di un mio racconto, “Suonala ancora Sam”, scritto anni fa per il sito della Bompiani “Speaker’s Corner” su sollecitazione di una mia amica che lavorava nell’ufficio stampa della BUR. La mia amica Umberto Eco lo aveva conosciuto di persona. Io no. O forse sì. Avevo conosciuto, pur senza incontrarlo mai, la sua autorevolezza umana, quel sorriso costante di chi si diverte a studiare e cercare di capire, quel sorriso tenace di chi non cede agli accordi beceri e alle miserie del mondo della cultura e della vita in genere. E, anche se lui probabilmente ne avrebbe riso, mi ero sentito in diritto di inserirlo in un mio racconto. Perché il dono di alcuni è quello di essere persone e allo stesso tempo personaggi. Come uno dei protagonisti di Guerra e Pace, o come Dylan Dog, come Achab, come Guglielmo da Baskerville. Un fumetto, un’icona, un simbolo, una persona che sai che è lì, a fare da barriera all’assurdo, al nulla, alla retorica della politica che con insulsaggini preconfezionate ci avvelena e ci affama, anche spiritualmente.
Umberto Eco era un uomo ed un personaggio.
E i personaggi non muoiono mai.

http://www.ivanomugnaini.it/suonala-ancora-sam/

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SUONALA ANCORA SAM

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Lo ricordo benissimo. Lo ricordo, e, ne sono certo, porterò con me quelle immagini per sempre. Per me “Casablanca” non è un film. O meglio, non è solamente una vecchia pellicola. “Casablanca” per me è la gioventù, alzarsi alle cinque di mattina e non sentire un filo di stanchezza, correre per le strade con la fame di voci, suoni, odori, il coraggio e la voglia di guardare la vita dritto negli occhi. “Casablanca” è il mio lavoro di ragazzo, la finestra da cui mi sono affacciato per la prima volta per vedere come gira il mondo. Avevo sì e no diciassette anni. Un colpo di fortuna straordinario per me trovare un posto di lavoro a quell’età e con la guerra che metteva a ferro e fuoco il mondo intero. Mio padre grazie ad un amico impiegato della casa cinematografica era riuscito a farmi assumere con la qualifica di “trovarobe”. In realtà ciò che facevo era molto più vago e confuso. Un po’ di tutto e un po’ di niente. Un giorno ero costretto a galoppare senza tregua da un posto all’altro, quello successivo mi trovavo con le mani in mano a guardare la troupe e gli attori come uno spettatore qualsiasi. Ero una specie di fattorino del regista, un cameriere, un servitore muto. Se lui mi urlava “C’è bisogno della luna, Jim! Vammela a prendere”, io, senza aprire bocca, partivo e andavo. Tornavo con un enorme riflettore preso a prestito dalla caserma dei pompieri, oppure, quando non avevo voglia di faticare nel trasporto, mi ripresentavo trionfante con in mano un dollaro d’argento lucidato a dovere. Al regista andava bene in ogni caso. Piazzando la cinepresa in un certo modo riusciva a ricavare da ogni oggetto ciò che voleva. All’inizio credevo fosse una sorta di mago. Poi ho capito: è tutta questione di prospettiva.

Il regista di “Casablanca” era attento, preparato. Sono convinto tuttavia che anche lui, come l’intero set, gli attori, le maestranze, gli autori e gli sceneggiatori, fosse in qualche modo soggetto alla direzione di un regista ulteriore, invisibile ma estremamente abile. La sorte, il caso, il colpo di vento giusto che sposta la macchina da presa di quel centimetro necessario a trasformare un film potenzialmente mediocre in qualcosa da ricordare.

Il film della mia gioventù è nato come una scommessa, un azzardo, una sfida al buon senso, ed anche, per certi versi, al buon gusto. Qualcuno ha pensato che, con un budget misero, ridotto all’osso, si potesse ricostruire in uno studio hollywoodiano di seconda schiera il più trafficato dei porti nordafricani. Qualcuno ha ritenuto che si potessero ricreare le atmosfere di una città fascinosa e maledetta spandendo sul set un po’ di vapore acqueo a mo’ di nebbia. Qualcuno, temerario e fortunato più di Marco Polo, si è detto convinto che Humphrey Bogart, sì, proprio lui, fosse in grado di recitare un ruolo romantico.

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Ebbene, tutte le scommesse sono state vinte, questo è noto. Certamente meno noto è un particolare: sono stato io a consigliare a Bogart il trucco, l’escamotage vincente. Lui riteneva in totale sicurezza che per recitare fosse più che sufficiente possedere due tipi di espressione: con la sigaretta e senza. Io gli ho suggerito una variazione sul tema. Gli ho fatto notare che ogni volta che indossava l’impermeabile, un po’ per il freddo, un po’ per la minaccia incombente delle partenze, era giusto mantenere fissa la mandibola, marmorea, anchilosata nell’atto di mostrare severa virilità. Quando non portava l’impermeabile però, quando era in smoking o addirittura in giacca e camicia, poteva permettersi di muovere un po’ di più labbra, occhi e sopracciglia. Non tanto, è chiaro, comunque una specie di sorriso accennato o un moto quasi di emozione potevano starci. Erano legittimi.

Ha funzionato, sì, in qualche modo la cosa ha funzionato. Di me si fidava, Bogart. Forse perché in fondo era un duro dal cuore tenero, un timido, tutto sommato. Meglio confidarsi con un giovanotto imberbe che poteva essere suo figlio piuttosto che con il regista.

La Bergman invece mi ha sempre trattato con professionalità impeccabile. Bellissima, gelida. Un’alba, così la immagino, sopra una distesa di neve della sua terra scandinava. Lei, al contrario di Bogart, non necessitava di alcun consiglio, era sempre perfetta, costantemente a tempo, nei margini dei toni e delle battute. Ideale per interpretare ogni ruolo, credibile, vera sempre. E, di conseguenza, vera in nessun caso. Troppo perfetta anche nei fuori scena. Mai un accento fuori posto, un grido, una risata di quelle che salgono su dritte dallo stomaco. Perfetta, e micidiale. Ed il sottoscritto, con la sola scusante dell’età, pronto ad innamorarsene fottutamente. Perfetto anch’io in qualcosa: un perfetto deficiente. Ogni giorno aspettavo una sua parola, una frase, un gesto. Era sempre troppo concentrata, il copione in mano e la mente già rivolta alla scena successiva. Ho sognato più volte, lo confesso, un black-out generale. Le luci ed i riflettori che saltano all’unisono ed io, nel buio assoluto, mi avvicino a lei e la bacio. Questo però è un altro film. Il black-out non c’è mai stato, e se anche si fosse verificato il regista avrebbe urlato uno STOP colossale che avrebbe bloccato non solo me ma anche, per un istante, perfino i soldati impegnati a combattere sui fronti europei.

Già, la guerra. L’altra speciale alchimia di questo film un po’ anche mio è quella di essere stato girato in pieno periodo bellico, di parlare di spie, di partigiani, di agenti nazisti, di minacce e oppressioni, di guerra in una parola, e, nonostante tutto, di saperla fare scordare. Per qualche istante. “Casablanca” è una terra di nessuno, un luogo di confine tra realtà, finzione e realtà della finzione. Nascondiglio dalla verità, dalla logica, dalla costruzione esatta della mura e delle pareti di ogni pensiero, perfino della fantasia. E’ un giardino notturno illuminato da una luna di fortuna dove coltivare per un po’, senza dover scrutare spauriti il cielo e l’orizzonte, le malinconie private, quelle a cui si finisce per voler bene come a testarde allergie, polline di follie da gustare, a dispetto di tutto, con la calma solenne e infantile dell’autolacerazione.

A causa di ciò, o forse in virtù di questo, una mia amica ha definito il film, che anche lei in fondo ama, grottesco. Definizione esatta, ineccepibile. Grottesco, certo, come la vita. Improbabile e tuttavia capace di catturare, di trascinare a sé. Senza bisogno di metafore astruse. Con la sola potenza di attrazione della mistura di artificioso e ineluttabile, pietra e cartapesta, cipria e sudore.

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Non è un caso, perché nulla è casuale a ben vedere, che gran parte del film scorra come whisky all’interno della quattro mura del Rick’s Café Americain. Un bar, bordello e monastero, confessionale e gabbia di matti, circo di fenomeni, normalissimi in fondo, uomini e donne come tanti. Fuori imperversa la guerra e nel bar di Rick si ritrovano, attratti l’uno dall’altro come calamite, i fuggiaschi, gli avanzi di galera, i perseguitati, gli sciacalli, le vittime e i carnefici. Insieme, perché gli uni senza gli altri non hanno senso. Tutti insieme e ognuno contro tutti. E contro se stesso. Uniti solamente, forse, da un sogno indicibile ma vivissimo: dimenticare la guerra che tintinna macabra anche nei bicchieri posati sul bancone da unghie laccate. Il sogno più grande è quello di poter dire alla guerra cosa e quando deve suonare, quali note, quali silenzi. Come se fosse, la guerra, un quieto pianista di colore. Farla suonare note agrodolci, carezzevoli. Lento carillon dell’anima. Sì, tra i tavoli di quel bar tutti pretendevano di comandare a bacchetta il bonario pianista. Lui faceva segno di sì con la testa a chiunque. Ho paura però che fosse lui in realtà a condurre la danza: un accordo in più o in meno fatto scivolare con apparente distrazione, una nota squillante o stonata e voilà la différence. La distanza che separa un incontro da un addio, un bacio da un sospiro. You must remember this/ a kiss is still a kiss/ a sigh is just a sigh/ the fundamental thing to know/ as time goes by.

Un pomeriggio, tra una ripresa e l’altra, ho parlato col pianista. Gli ho detto che ha proprio ragione: un bacio è un bacio e un sospiro è un sospiro. Il resto è teoria, granelli di sabbia nel vento. Lui, in fondo, suona quello che gli pare, e la guerra continua a frantumare case, ponti, ricordi, progetti. Dice di sì a tutti, Sam the pianist, poi fa come vuole lui. Ride di sicuro, in segreto, anche e soprattutto quando gli avventori cercano di scordare qualcosa di più potente perfino della stessa guerra. “Ti avevo detto di non suonarla più!, gli urla Bogart in una celebre scena. Certo! Come se bastasse zittire una canzone per cancellare dalla mente Parigi, le labbra e i capelli della Bergman, le parole, le promesse, i giorni sognati.

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Tutto ciò che si può fare, e questo modestamente è compito mio, è aggiungere altra nebbia sul set. Più vapore acqueo. Così lui si rimette l’impermeabile e torna ad assumere l’espressione di marmo di Carrara, rigida, imperturbabile. Più nebbia fuori, con l’illusione di poter obnubilare anche la memoria, la passione, la voglia di vita. E’ qui forse che si può trovare un’altra chiave della magia di “Casablanca”: farti respirare quintali di fumo e nebbia artificiale che sembrano veri, appannano gli occhi e li nascondono.

Rendere tutto meno visibile, compreso il senso a volte, lo sviluppo regolare e progressivo, la precisione asettica del finale. In questo film, detto tra noi, il finale non lo sapeva neppure il regista. Neppure lui, fino all’ultimo momento. Forse non lo ha capito nemmeno lui, anche ora. Di finali ne aveva tre o quattro, o addirittura di più. Ognuno avrebbe potuto essere quello giusto e quello sbagliato.

Per una di quelle ironie tanto sublimi quanto involontarie, lo afferma anche Bogart in una scena del film: “A questa storia manca ancora il finale”. Battuta inconsapevolmente profetica. Sono certo che il regista, sentendola, ha iniziato a sudare freddo e a ripetere tra sé e sé “Prioprio così, vecchio mio. Mi sa che hai ragione. Non sai quanto”.

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Il bello del cinema è anche questo. Un finale in qualche modo si trova. Si monta, si rismonta, si incolla, si sovrappone. La vita in questo è meno flessibile, pretende sempre la linea retta: inizio-sviluppo-conclusione. Troppo di frequente prevedibile.

Nel “mio” film invece, per una volta, il cinema americano ha saputo proporre la scelta meno attesa, quella in cui l’amore non risolve tutto. La scelta nobile di Rick-Bogart lascia l’amaro in bocca. Il destino stavolta non viene battuto in duello. L’eroe lascia l’amata nelle braccia del legittimo, inappuntabile, insulso marito. Anche in questa circostanza comunque il merito del regista, o la sua fortuna sfacciata, hanno condotto alla soluzione più efficace. Lo spettatore, un po’ come me, trovatore di robe e cercatore di sogni, è costretto ad uscire dalla sala di proiezione con un senso asprigno di frustrazione per il finale che lo spinge a continuare a proiettare la pellicola nella propria testa. A riportare i due amanti all’indietro, a Parigi, al momento in cui Ilsa aveva detto a Rick: “Baciami come se fosse l’ultima volta”. Allora non si può fare a meno di correre anche in avanti, inventare qualcosa, trovare lune e stelle nuove e strane per far sì che l’ultima volta non sia l’ultima affatto.

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Perché questo, almeno nel cinema, si può fare. Specialmente in un film scalcinato e baciato dalla sorte come questo. Una pellicola in cui, per dirvene ancora una, a causa dei problemi di soldi di cui vi ho fatto cenno l’aereo che appare nell’ultima sequenza è una sagoma in formato ridotto. I soldi per qualcosa di più grande e somigliante all’originale non c’erano. E qui viene il bello. Nessuno si sgomenta mai nel cinema, c’è sempre una soluzione. Per far sembrare l’aereo più grande basta far sì che coloro che interpretano gli addetti al suo rifornimento siano dei nani. Tutto torna. Matematico. Ed anche un po’ poetico.

A ben riflettere se c’è una cosa che ho imparato dalla mia esperienza di lavoratore del mondo della celluloide è questa: giocare sui rapporti, sui particolari e sulla visione d’insieme. Agire di nastro adesivo trasparente, di spago, di cerone, tagli di legno e metallo, sorrisi e pianti appena in tempo, giacche eleganti e gambe in mutande, sotto il tavolo, un palmo più in basso dell’inquadratura. Procedere di montaggio, opporsi a sciagure piccole e grandi con le forbici e la fantasia. Ciò che conta è il risultato finale. Se la sagoma dell’aereo è troppo piccola la facciamo rifornire di carburante dai nani. E magari, come nel caso del mio film, i nani salgono sulle spalle dei giganti e ci mostrano una storia degna di riempire una casella familiare della mente, una vicenda a suo modo accattivante, prevedibile e sorprendente come la sigaretta di Bogart. Perché, come ho letto qualche tempo fa sfruttando le lunghe ore libere della mia attuale condizione di anziano pensionato dello spettacolo: “quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento commuovono. Perchè si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra di loro e celebrano una festa di ritrovamento”. Queste parole sono di Umberto Eco, uno piuttosto noto anche qui in America. Non sono sicuro di averne colto il significato in tutto e per tutto. Però so che mi piacciono. Mi sembra che vadano a pennello anche per “Casablanca”. Inoltre, come potete ben capire, quando si parla di ritrovamenti io mi sento perfettamente a mio agio. Sono e rimango trovarobe, in fin dei conti. Mi piace scoprirle, perderle o fingere di perderle per poi fingere di ritrovarle o ritrovarle veramente. Lo stesso, ne sono certo, mi capiterà di nuovo per questo film. Un giorno mi succederà di ripescarlo da qualche parte, magari su qualche canale minore, e, inevitabilmente, lo riguarderò. Dicendomi magari che è ora di finirla, che è tempo di cambiare musica. Ma ripartiranno le note di “As time goes by”, e, come sempre, mi dirò che dopotutto va bene anche così. Suonala ancora Sam!