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ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”

La rubrica A TU PER TU ospita oggi i ROSSOMETILE e il loro album “Desdemona”.
Nell’intervista ci parlano della loro musica,  ma anche del connubio tra realtà e dimensione onirica,  delle assonanze, etno, gothic, symphonic, di Poe e di  Hesse, di “Storie d’amore e di peste”, di “Narciso e Boccadoro” e di mille altre suggestioni rese musica e armonia.
Buona lettura e buon ascolto a tutte e a tutti, IM
                        A TU PER TU 
                      UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande, in parte “personalizzate” e in parte ricorrenti, permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.    IM

Intervista

ai

Rossometile

Con particolare riferimento al disco Desdemona

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

La prima domanda è “di prassi”: potete fornire un vostro breve “autoritratto” ai lettori di Dedalus?

La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.

(ha risposto Gennaro Rino Balletta)

 

2 ) Il nome del vostro gruppo da cosa nasce? Lo avete scelto per le suggestioni e le assonanze o anche per i significati che racchiude?

Il rosso di metile è un composto chimico, un indicatore di acidità. A un certo valore di pH il rosso di metile determina l’immediata colorazione rossa di una soluzione incolore. Pensammo che sarebbe stato originale immaginare di trasporre in musica il fenomeno cromatico che avviene in chimica col rosso di metile. E così unimmo le parole “rosso” e “metile” creando il nostro “rossometile”. 

(ha risposto Rosario Runes Reina) Continua la lettura di ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”

A TU PER TU – Lucia Gaddo Zanovello

“Ha avuto un’impennata o è una buona penna, ha la penna facile, o della nomea del corvo, di quella del tordo, del merlo, del pappagallo, del pavone.
Ma in fondo la verità è che siamo tutti creature, se pure di diversa specie, da penna, da pelo o da pelle. Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona, perché ciascun individuo manifesta un suo proprio carattere originario, mite e benigno o scontroso e perfino dispettoso; chiunque abbia percorso parte della sua vita in compagnia di un cane, di un gatto, ma anche con un uccellino, sa bene di cosa parlo. Delle persone che non amano gli altri esseri viventi diffido, esattamente come diffido delle persone che non amano e non rispettano le persone”.
Molto originale, schietta, diretta e nitidamente simbolica, è questa dichiarazione di Lucia Gaddo Zanovello.
È una specie di autoritratto fatto con uno specchio, con il vetro fragile e prezioso delle esistenze altrui, nello specifico con la vita degli animali.
“Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona”, osserva. Non è una frase ad effetto, un mero orpello estetizzante. Il contesto e il modo con cui è scritta ne confermano l’autenticità. A qualcuno potrà sembrare fuori luogo, esagerata, eccessiva. Ma è proprio questo il bello: è un modo per generare un nitido posizionamento, una sorta di documento di identità che manifesti l’essenza reale, inequivocabile, di ciascuno.
Nella zona di confine che separa e unisce ipotesi e verità, si colloca il libro che l’autrice presenta nell’ambito di questa intervista, dedicato alla figura di Attilio Mlatsch. Scrive Lucia Gaddo: “Ho dovuto studiare e ristudiare i contesti storici delle notizie che avevo e degli eventi attraversati e in ultima analisi, ritrovando infine la figura di questo mio nonno”. Il valore aggiunto che si affianca all’attenta opera di ricostruzione è la conquista di una consapevolezza che deriva dalla conoscenza unita all’affetto, dalla “cognizione del dolore” e dalla vera condivisione. In questo contesto, il dialogo supera le barriere della Storia, del tempo e dello spazio.
“Devo riconoscere di avere fatto maggior luce in me stessa”, ci rivela l’autrice. Questa frase in apparenza lineare racchiude vasti orizzonti di senso, il valore della ricerca della verità e quell’istante di visione ulteriore in cui l’oggettività dei fatti viene sublimata dalla partecipazione emotiva. L’attimo in cui si smette di guardare e si inizia a vedere, ossia a percepire non solo con i sensi ma con qualcosa di indefinito, misterioso e salvifico che rappresenta il nucleo della verità e della natura umana in se stessa.
“L’analogia delle vicissitudini storiche forgia in qualche modo le personalità, restituendo alcune similitudini empatiche”, annota Lucia Gaddo Zanovello. Questa considerazione si adatta bene al suo romanzo, alla ricerca di una figura familiare che il tempo e la violenza non hanno cancellato dalla memoria. Si adatta tuttavia anche al contesto più ampio di quell’insieme di “persone” (includendo nella definizione tutti gli esseri viventi) che indagano con partecipazione e affetto sul senso del loro passaggio su questo esile e mirabile pianeta sospeso nel mistero delle galassie.
IM

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

La vicenda umana di Attilio Mlatsch

5 domande

a

Lucia Gaddo Zanovello

 

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie mille a te per il gentile invito!

Sono contenta e ti sono grata di questa occasione di fermarmi un poco a riflettere sul mio più recente lavoro, sono opportunità che finiscono sempre per rimettere a fuoco un qualcosa di mai veramente compiuto.

Beh, per quanto riguarda il mio autoritratto, esso si fonda necessariamente sul mio vissuto in campagna per molta parte della primissima infanzia. In quel luogo ho sperimentato la solitudine più assoluta, essendo l’unica piccola in mezzo a tanti adulti, tutti costantemente indaffarati in diverse occupazioni, avevano difficoltà a trascorrere del tempo con una bambina.

Spesso in lacrime osservavo intorno a me e, incantandomi, smettevo di piangere. Devo riconoscere che la natura mi è stata Madre nel senso più vero del termine.

Sono cresciuta forse in un quadro di povertà affettiva, ma mescolando tuttavia a fragilità e sfiducia, caparbietà e tenacia, innamorata della terra, delle piante e degli animali. Osservavo l’attività dei topolini nel granaio, stupivo all’uscita dei pulcini dall’uovo, ma se dovessi specchiarmi in un autoritratto, vedrei un uccellino, forse un pettirosso.

Il volo, il nido, la muta (tutto ciò che si trasforma mi attrae, forse frutto anche questo delle mie osservazioni infantili pure sulle rane e sul baco da seta), il mondo dell’aria mi ispira da sempre, perché vedere le cose dall’alto aiuta a ridimensionarle, a farle rientrare nella loro misura reale, invogliano a credere in Dio e anche se le cadute, l’essere predati e le gabbie misurano le sventure, rigenerazioni e rinascite permangono fidenti dietro l’angolo.

La varietà delle specie alate, dei loro linguaggi, del loro affaccendarsi intorno ai nidi, alle migrazioni, seguendo l’istinto, e senza lasciare tracce, la loro filosofia di vita insomma è gaia e promettente. Anche per questa specie, nella quale si va dall’aquila al colibrì, è un po’ come per i cani, per i quali si va dal molosso al chiwawa. Straordinario. Come sono unici la potenza del cigno, la leggerezza della rondine, la domesticità della gallina e la fedeltà dei piccioni.

Per non parlare delle espressioni idiomatiche legate ai pennuti, si dice spesso ha avuto un’impennata o è una buona penna, ha la penna facile, o della nomea del corvo, di quella del tordo, del merlo, del pappagallo, del pavone.

Ma in fondo la verità è che siamo tutti creature, se pure di diversa specie, da penna, da pelo o da pelle. Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona, perché ciascun individuo manifesta un suo proprio carattere originario, mite e benigno o scontroso e perfino dispettoso; chiunque abbia percorso parte della sua vita in compagnia di un cane, di un gatto, ma anche con un uccellino, sa bene di cosa parlo.

Delle persone che non amano gli altri esseri viventi diffido, esattamente come diffido delle persone che non amano e non rispettano le persone.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

La vicenda umana di Attilio Mlatsch. Una ricostruzione possibile fra ipotesi e verità, Nuova luce, 6, Macabor, 2018, è la mia ultima pubblicazione. Mi ero dedicata alla stesura di molti appunti su questo argomento nel corso di un paio di anni, a cominciare dal 2016, per fare luce su di una persona a me tanto vicina, ma fino ad allora troppo e troppo a lungo rimasta misteriosa, mio nonno materno. Adoperandomi per fare luce, ho dovuto studiare e ristudiare i contesti storici delle notizie che avevo e degli eventi attraversati e in ultima analisi, ritrovando infine la figura di questo mio nonno, devo riconoscere di avere fatto maggior luce in me stessa. Continua la lettura di A TU PER TU – Lucia Gaddo Zanovello

A TU PER TU – Annamaria Ferramosca

La caratteristica di Annamaria Ferramosca che emerge, sia dalla lettura dei suoi libri sia dai dialoghi e dalle presentazioni, è la ricerca di un impegno non di maniera e la volontà di estendere il rapporto tra la parola e il mondo, generando fertili contaminazioni.
Il suo è uno sguardo aperto, non in modo retorico o formale. È caratterizzato da un aspetto tutt’altro che frequente, nel mondo letterario e non solo: un desiderio di condivisione fattivo. Il contrario dell’individualismo. Dettò così sembra poco e sembra scontato. In realtà coloro che davvero rinunciano a parte del proprio individualismo per andare oltre “i cerchi e i circoli” sono pochi. Annamaria Ferramosca ha un proprio universo espressivo. Ma ricerca anche, con sincera costanza,  i lavori di gruppo, corali, gli spartiti per duetti o per strumenti che cercano accordi e concerti.
L’impegno a cui si è accennato si abbina anch’esso, senza stridore e senza forzature, alla descrizione di sentimenti assolutamente intimi. L’autrice sa rendere metafora sia la sua emozione e lo stupore per la crescita di sua nipote, sia lo smarrimento e il dolore per le ingiustizie del mondo, per gli squilibri e le sopraffazioni di cui il nostro tempo si rende complice.
Avrei voluto esimervi ed esimermi dal “mantra” dell’invito alla lettura dell’intervista completa. Non mi è possibile. Perché solo le risposte nel loro contesto danno senso e misura a quanto qui accennato in modo succinto, per cenni.
Buona lettura, quindi, a tutti i “dedalonauti”, IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
Andare per salti copertina

 

5 domande

a 

Annamaria Ferramosca

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Mi autoritraggo: ho profilo di donna, ma da sempre mi sono percepita come “persona”, essere che, al di là della propria esperienza di genere, sente di avere un potenziale cognitivo e creativo espressione dell’umano, nella sua interezza e varietà. Il risultato è quello che forse emerge dalla mia scrittura, di una sempre inquieta scrivente, che ha amato e continua ad amare questo prodigiomistero che è la vita e che si lascia attraversare dalle alterne vicende cercando un punto di equilibrio almeno sulla carta, con l’aiuto delle parole. E la mia modalità di ricerca, intravista fin da bambina, è quella del crescere nel confronto continuo delle esperienze, attraverso lo scambio reale con gli altri, quotidiano e del vigile sguardo sul mondo. Ma tutto questo lungo un’intera vita davvero non basta, non basta –l’ho compreso presto– perché l’incontro con altri vissuti e visioni deve essere il più largo possibile e può avvenire soltanto attraverso la lettura, incessante, sterminata, che sento necessaria come il pane. Da qui l’esigenza poi di restituire almeno tracce dell’immenso immaginario percorso e del pensiero via via elaborato. Così fin dall’adolescenza scrivo, in poesia. Con tremore, sempre, per tutto ciò che inesorabilmente in poesia sfugge, ma anche con la felicità di dar corpo a qualcosa di estremamente volatile ma evocatore di senso, che preme per essere comunicato, e poterlo fare maneggiando la parola, piegandola alla necessità di grazia e ritmo del verso.

E sono grata alla vita che mi ha permesso di seguire questa forma privilegiata di conoscenza – del mondo e di me stessa – che è la poesia. 

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Ogni mia raccolta poetica è il risultato di una mia esigenza –diciamo pure caratteriale– che è il mio voler mai fermarmi, cercare ogni giorno nuove scene, dimensioni, nuove voci e luoghi dove rinascere. Ogni testo nasce non da un progetto, ma da occasioni fortuite, inaspettate. Sono incontri dal quotidiano che s’intrecciano con scene dell’immaginario, o anche oniriche, con incursioni nel mio passato, nella storia, nel mito, fino a spingersi negli spazi inaccessibili dell’altrove. Solo alla fine di ogni periodo di scrittura, quando lo avverto compiuto, accade che il libro si organizzi quasi in automatico, ed è per me facile collegare i testi in sezioni secondo un contiguo respiro tematico.

           E nei titoli dei miei libri resta la traccia delle varie tappe di una esplorazione ancora in moto, come in: Il versante vero; Porte/Doors; Curve di livello; Ciclica; Altri Segni, Altri Cerchi; Andare per salti.

Ecco, mi soffermo su quest’ultimo, pubblicato nel 2017 da ArcipelagoItaca come Premio per una Raccolta Inedita. Il libro riflette in pieno questa mia spinta a trascrivere una persistente inquietudine, divenuta più pressante per il rifiuto, credo ormai sentito da molti, della deriva del mondo fattosi sempre più estraneo – i suoi cardini spostati ormai sul profitto e sulla ipertecnologia– un mondo indifferente, non solidale, miope verso il futuro, che lentamente ci sottrae umanità, l’incontro vero, oltre che gli spazi naturali di vivibilità. 

Continua la lettura di A TU PER TU – Annamaria Ferramosca

A TU PER TU – Rossella Pretto

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

L’ospite di oggi della rubrica è Rossella Pretto.
Poeta, traduttrice, redattrice di riviste letterarie e impegnata in altre attività che scoprirete attraverso le risposte all’intervista.
Già l’approccio, il tono, la scelta di espressioni forti, taglienti come lame, a tratti, lontane dagli schemi consolidati, dicono molto. La parola come fine e come meta, come senso e ricerca di senso, strumento per provare ad esprimere, evitando le scorciatoie, sia le fragilità che gli slanci. La ferita e il volo. La parola, letta e scritta, si fa metodo privilegiato di scavo dell’insondabile, pur senza la speranza di giungere mai ad un punto di arrivo. Anzi, forse proprio in virtù di questa crudele e salvifica impossibilità.
Buona lettura, IM   

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

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5 domande

a

Rossella Pretto

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Qualche anno fa feci un disegno con la mano sinistra, quella libera da automatismi e condizionamenti; ne venne fuori il ritratto di una donna che, al posto del braccio, aveva un ramo secco radicato nel cuore. Non è forse una buona maniera di presentarsi, lo so. Però sento di doverlo fare non tanto per descrivere me quanto per fornire un’immagine dei tempi nerissimi che stiamo attraversando. Quel bisogno di mani che non si toccano e non possono farlo, quell’asfissia che conduce all’aridità. Siamo così, impossibilitati ad avere sensi che però dobbiamo reiventare. Crearne di nuovi che sopperiscano a quelli perduti. Di me invece si potrebbero dare molte definizioni, scegliere dal mazzo delle possibilità: il mio volto è il ventaglio di chi sono stata e potrei essere. Basti dire che ora mi occupo di poesia, traduzione e critica.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

Nerotonia (Samuele Editore 2020) è il mio ultimo (e primo) libro di poesia, un poemetto che attinge acqua (e melma) da uno dei capolavori più bui del mio grande e amato Shakespeare: Macbeth. Ho sempre pensato che Macbeth avesse molto a che fare con me, nel profondo. E dopo anni di lavoro, di studio e di pena devo dire che non ne sono venuta a capo. Il nodo scorsoio di quegli interrogativi pende minaccioso davanti ai miei occhi. Perché, mi chiedo. E non trovo risposta, se non in una turbolenza che squaderna i miei giorni, in un’ansia di sapere what’s next? Che cosa sta accadendo e cosa accadrà? Quale il senso? Fatto salvo il mio sempre risorgente buonumore, le domande tendono ad affollarsi nebulose all’orizzonte di ogni mio sguardo. È che non si trova pace, siamo troppo destabilizzati dal tempo che corre, da un progresso che sembra non avere mai fine, veloce, troppo veloce considerando gli eventi accaduti in pochi anni, una manciata. È tutto in scadenza e il nuovo è scalpitante dietro l’angolo.

E il possesso? Che cosa possiamo dire di possedere se non questo fragile involucro identitario che di volta in volta ci costruiamo? Cosa rimane stabile? Le relazioni, forse, verrebbe da dire. Ma in un tempo che è mercato e sarabanda di voci neanche quelle resistono. Non lo fa l’amore. Ed è sull’amore che il mio Nerotonia è incentrato. Spogliato il testo shakespeariano dei suoi accadimenti, ciò che resta è il rapporto tra Macbeth e la sua Lady: l’amore, la sopraffazione, il bisogno di appartenere e di fagocitare ciò che sfugge. Per dirsi padroni del vento, in definitiva, ma appassionati e vivi.

Giuseppe Conte, dopo aver letto il libro, mi ha che scritto che ho concepito «un’opera di rara energia espressiva e concettuale, costruita con grande sapienza letteraria ma anche con slancio e passione, in una lingua che bene ha definito “tirannica” la Cruciani. Ma anche titanica, nel suo confronto con il Macbeth, capolavoro assoluto». Sì, credo ci sia molta energia in quei versi, arrabbiati, spiazzanti, che sono come piedi che pestano il suolo, lo tambureggiano per farlo risuonare.

Maria Clelia Cardona ha detto che «avvertiamo, cioè, che l’io che parla è un io plurale, «un io femmina troppo espanso» (p.33) e che la scrittrice assume in sé e dà voce a un femminile moderno in cui convergono traumi, colpe, angosce di ogni tempo […] Una lady Macbeth, insomma, assunta come icona di tutto ciò che il vivere di ogni tempo sconta e rimuove, di una violenza che cova nei rapporti umani e che la parola, il logos, tenta di ammansire».

Detto questo, ho però tentato di trovare anche uno spiraglio di luce, che fosse insegnamento e ammonimento: siamo ventre di storie che si rimodulano, singolari e molteplici. Ne dobbiamo tenere conto.

3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?

In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?

Bella domanda! Come interagiscono? Credo si scontrino, facciano a cazzotti per chi deve averla vinta e conquistarsi il diritto di cianciare. E così ricerco una scrittura un po’ ibrida, mai totalmente risolta, anche se (è ovvio) ognuna vorrebbe uscirne limpida; ma una mano non lava l’altra, rimane sempre qualche traccia di marmellata (se non di sangue). «Ma non torneranno mai pulite queste mani», si chiede Lady Macbeth? «[…] Sa ancora di sangue: ah, neppure tutti i profumi d’Arabia potrebbero addolcire questa piccola mano» (cito dalla traduzione di mio nonno, Elio Chinol 1971). Si scrive con le mani, e quelle sono sempre colpevoli… ma almeno tentano di fare qualcosa per uscire dall’impasse! Vivere e agire la conoscenza, ricercandola, annaspando nel senso…

4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?

Il mio è un percorso piuttosto solitario, come lo è il mio carattere: ombroso e a volte scorbutico ma allenato anche agli slanci. È per questo che amo conoscere i poeti, trarne ispirazione, non solo dai versi ma anche dalla vita che intuisco scorrere in loro. Non è tanto lo scambio – importante, importantissimo – ma la vicinanza, l’osservazione, quel misto di intuizione che ci accomuna o ci distanzia.

Gli autori di riferimento sono tanti, come è prevedibile, e non ne farò i nomi; dirò solo che ciò che ogni volta mi emoziona e mi conturba è il sentirne la vibrazione potente: quando muovono qualcosa dentro di me lo sento subito, sono versi che trascinano, con un ritmo inequivocabile che è aderenza e non fumo; aderenza al respiro che trascina il verso, si spezza, si ricompone, ha il fiatone, talvolta, pausa e riprende rispettando la gittata che si prefigge. Un battito del cuore, in definitiva, con tutte le sue capriole.

In questo momento leggo molto Alice Oswald (che ho tradotto per Archinto ed è in procinto di uscire) e Seamus Heaney (uscirà l’anno prossimo il suo lavoro su Sofocle, curato da me, Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo).

Quello che chiedo a un poeta, insomma, è di illuminare certi silenzi, di farsene carico. Come fa Adam Zagajewski, ne ‘I lunghi pomeriggi’, ad esempio: «[…] Oh, dimmi, come si guarisce dall’ironia, dallo sguardo che vede, / ma non squarcia oltre, trafiggendo il vero; dimmi come si guarisce / dal tacere» (da Desiderio 1999).  Perché ‘La poesia è ricerca del fulgore’, potrei dire citando un altro suo componimento (da Il ritorno 2003): «[…] Permettimi / di vedere, per poter poi aver visto, chiedo. Permettimi / di vivere fino al compimento il significato / o l’intenzione della mia durata, dico. / A sera cade una pioggia fredda. / Nelle strade e nei viali della mia città / col crepitio di un silenzio attivo e vivissimo / sotto le ceneri sta concentrata su un’opera l’oscurità. / La poesia è ricerca del fulgore».

5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

Le ricerco, eccome se le vorrei tutte accanto a me, ma ci vuole metodo, come metodo aveva, nella sua follia, Amleto.

È tutto attutito, in questi mesi – non solo dentro di me e per scelta personale, anche all’esterno. Le strade più non risuonano, le voci si smorzano, i sorrisi sono coperti da strati di stoffa. I più audaci li disegnano sulle mascherine a testimonianza di una bocca cucita, silenziata, anche nelle sue manifestazioni più cordiali e affettuose, che però resistono. Non abbiamo più mani né bocca, siamo tutt’occhi. Chi porta gli occhiali li ha pure annebbiati. Assistiamo al primato della “scopía”, così come si profilava nel cosmo elisabettiano che, tra l’altro, era stato funestato nel 1603 da una spaventosa epidemia di peste: evento che il drammaturgo sicuramente ricordava, nel 1606, scrivendo Macbeth. Non è solo il Male che avanza, come sembra dire Macbeth, ma è il mondo che si espande e che terrorizza. D’altra parte, la fine di Giordano Bruno, nel 1600, non deve aver lasciato indifferente chi ne ascoltò le teorie: bruciato vivo, come le streghe.  Se il mondo tra Cinque e Seicento si aprì a una nuova visione del creato, l’occhio fu lo strumento centrale di una nuova conoscenza connessa con la mente. Un occhio potenziato ma anche sezionato e ridotto a essere parte, non più tutto, di una gerarchia simbolica che aveva al suo vertice l’occhio di Dio. La rottura dell’equilibrio.

Come quella shakespeariana, anche la nostra è un’età in cui tutto si rivela e lo stesso tutto si problematizza e diventa conflittuale: i saperi si moltiplicano, non vi è più nulla di stabile, neanche le categorie morali, per cui il bello è brutto e il brutto è bello.

E, avvicinandosi l’inverno, tornerà a spirare il vento del nord con il suo seguito di giacche, cappelli e guanti. Sono tempi da lupi, mai creduti forse possibili. Ci si rifugia in caverne di carta, tra geroglifici che testimonino il nostro passaggio all’uomo del futuro. Bisogna dunque saper disegnare, fedeli riproduttori di un animo che sarà comunque quello che è stato, quello che è e, se non lo deforesteremo troppo, continuerà a essere: l’insopprimibile, delicato, prepotente e ferito animo umano.

Poesie
da

Nerotonia

Samuele Editore, 2020

Come, thick night,
and pall thee in the dunnest smoke of hell,
that my keen knife see not the wound it makes,
nor heaven peep through the blanket of the dark,
to cry, ‘Hold, hold!
— William Shakespeare

I always speak to myself
no more myself but a colander
draining the sound from this never-to-be mentioned wound
— Alice Oswald

vi fu un tempo in cui non vi era
nulla

puoi concepirlo,
posso io?

nulla e dunque neanche il tempo e noi
non c’eravamo, io e te non c’eravamo
e non c’era inizio alle nostre discussioni
seduti nello studio a tentare l’improbabile
accordo, o in una sala, in piedi per terra
con i nostri tanti corpi da suonare
a volte tutti e altre solo uno
in quel tempo che non c’era,
un tempo del sentire di esserci

ché in quanto a esserci
io ero ancora nessuno

una strega gettò i suoi occhi
tra quelli che avrei saputo essere
i miei piedi
la paglia nella testa
la mia arsa e vuota
incantata dall’imbroglio
di poter bastare a me stessa

e niente era
se non ciò che non era

*

così dal buio senza tempo
emerse il dettagliato tempo di noi,
l’incisione nell’istante

le parole, nostre
queste che io ti dico, le tue
e quelle che per giorni
abbiamo gettato al vento,
quelle vane che ci han portato
fin su questo palco,
il molteplice filtrando
dal setaccio di altri corpi

fu allora, in quel tempo
senza inizio e che iniziava,
che l’immenso animale universale
gravido e sbuffante
concepì l’ambiguità e la doppiezza

era ancora tutt’uno
e si franse
così l’uomo, atomo
tra gli atomi, a riveder
le stelle inconcepibili,
alte nel tamburo dei timori
che lo mettevano a nudo
denunciando vita lucida
non priva di malizia

non trovò dio
in quell’istante

di lui non aveva ancora bisogno

ma sentì l’urgenza della donna
la trovò fremente al suo interno

o lo fece la donna con l’uomo

donna con cui doppiare il parto
e così popolare la terra brulla

quel suo vergognoso e inesplorato deserto

di corpi dapprima
passione cieca e inesausta,
corpi ineguali e anelanti
nel di lui cercare il varco,
stampo e marchio,

nel di lei disporsi all’accoglienza
nonostante l’inane battaglia –
nonostante –

perché già intuiva che la perversa battaglia
era ormai vinta e persa
il verbo fu,
prima della comparsa dell’uomo,
le streghe furono
e predissero questo: ritrovarsi

when the hurlyburly’s done
when the battle’s lost and won

*

ho il singhiozzo a volte
e la mia gola pulsa
il caldo mi attanaglia
e la sua vampa mi spossa

se tutto fosse più semplice, pensi, se riuscissi
a far quadrare i conti e il costo della vita
permettesse di far volar la testa e disperderla
per riaverla come vetro a rendere

mi risveglio sul divano
e allungo il fiato
in ora perplessa
che presto si annacqua

dell’essere chiunque chiunque
e non pensarci, non prestare tessuti e organi
all’organo più grande dell’opera mondo
che è mia di voglia, possesso di sangue

oggi la vena languisce e insegue
desideri elettrici, salti di nervi,
alta tensione nella bassa marea
di toccarti ancora

o forse mai più – nevermore –
cantavi occhieggiando
e non mi riprendo
dalla tua assenza

Rossella Pretto

Nota su Rossella Pretto

Rossella Pretto si è formata al dAMS di Roma con una
tesi sulla traduzione del Macbeth curata da Elio Chinol e
messa in scena dalla Compagnia dei Quattro. Questa
formazione, assieme all’attività di traduzione (Heaney,
oswald, Auden), seguita da esperienze professionali in
teatro e in televisione, ha guidato il suo percorso di
scrittura critica e creativa. Suoi contributi sono apparsi
su L’ottavo e Poesia. Sta curando una serie di interviste
poetiche per L’Estroverso. Scrive di ricezione e
riscrittura dei classici per «Alias».

Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Il poliedrico e multiforme teatro della vita: un romanzo di mari, amori e misteri.

 

 

Una mia lettura del romanzo originale, lussureggiante e “debordante” di Guido Mina di Sospiro recentemente pubblicato da Ponte alle Grazie.
La recensione è uscita originariamente sul sito di Anita Likmeta, con cui collaboro per la sezione Letteratura e cultura, a questo link  https://anita.tv/2017/05/04/il-poliedrico-e-multiforme-teatro-della-vita-un-romanzo-di-mari-amori-e-misteri/ .
Buona lettura e buone avventure a tutti i naviganti. IM

 

 

 

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Mina di Sospiro gioca con le parole, con il loro mistero, con il senso e l’assenza di senso, con la vita, fatta di codici astratti e di carne palpabile e danzante, folle e assetata, a volte perfino saggiamente folle. È attratto da tutto ciò che porta e indossa la vita, sopra e sottovento, sopra e sotto i vestiti, i gesti, i sorrisi ammiccanti, l’invito a esplorare i confini e a fare un passo oltre. La vita lo incuriosisce, lo attira, gli pone di fronte uno spettacolo variegato fatto di contrasti e chiaroscuri, il sublime e il becero, il pensiero e il salto ad occhi chiusi in un vortice o in un baratro.

 

E allora lo scrittore la osserva, la corteggia, la fa bere e la fa parlare. Ha la conferma di quanto lieve e complessa sia, la vita, e che il suo significato è una sciarada con troppe soluzioni, o forse con nessuna, o entrambe le cose assieme. Non ha bisogno del re scozzese shakespeariano per confermare e confermarci quanto la vita sia “a tale told by an idiot”. Lo sa, ne ha preso atto da tempo, ma non si è fermato, non ha rinunciato a mettere le vele al vento. Anzi, si è ripetuto, come Hölderlin, che “l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette”. Ma non è sceso neppure a questo porto. Con la forza dell’istinto e di un possente vitalismo ha compreso che mischiando le due componenti in giuste dosi l’uomo può essere meno misero quando pensa e meno asceticamente incorporeo quando sogna. Basta rendere vivo il sogno, aggiungendo una porzione di follia, di avventura, di sudore, di adrenalina, di paura e attrazione: tramite un viaggio, un’esplorazione, una sfida, quindi, ancora, un gioco.

 

Sempre sapendo, con un sorriso, che non c’è niente di più intrigante e divertente del gioco, e, al tempo stesso, non c’è niente di più serio. E che il gioco non è mai gratuito, impone attenzione, coinvolgimento assoluto, per capirne le regole sancite e soprattutto quelle nascoste, le più importanti. Alla fine, bisogna essere anche disposti a perdere, a capire che non c’è niente da capire, come cantavamo negli Anni Settanta, oppure che tutto ciò che si deve comprendere è che non tutto può essere compreso, è questo è il più secco e il più dolce dei colpi di vento. La narrazione di Mina di Sospiro vive di accostamenti e contrasti. Unisce oggetti, azioni e idee come un artista materico, e non si lascia abbattere se non combaciano gli angoli, anzi, ne esulta. Sconfina con gusto, deborda e ci trascina con forza gioiosa ed esuberante a bordo di una fantasia onnivora, poliedrica, multiforme, un teatro nel teatro della vita. Il susseguirsi delle scene, delle azioni, degli spunti e degli stimoli è rapido, incalzante. L’autore mette in pratica ciò che ha scritto in suo fortunato libro sul ping pong e sulla metafisica che ne è alla base; o, meglio, applica alla scrittura anche di questa polimorfa creatura letteraria l’istinto e la ragione del gioco da lui preferito: la necessità di correre e pensare allo stesso tempo. Fino a far coincidere le due istanze, senza distinguerle, senza separarle dalla naturalezza del respiro. Perché quell’istante di riflessione fuori tempo e fuori luogo farebbe cadere a terra la pallina e con essa la magia folle della passione che tutto assorbe, dell’affabulazione che rende tutto credibile, irreale nella realtà a cui scegliamo di dare corpo.

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Racconto di pirati, a tratti di moderna cappa e spada, tra malviventi e personaggi ambigui, bizzarri e disperati, ma senza resa né tregua, il romanzo è mille cose insieme, mille generi, toni, rimandi e allusioni, senza compiacimento, senza ammiccamenti. Quindi, è soprattutto anzi unicamente se stesso, un pezzo unico, originale. Non da collocare in qualche museo o catalogo ma da porre costantemente in un flusso, sia esso quello della lettura che della fantasia. Romanzo on the road, sulla strada del mare, ha bisogno di moto costante, non può sostare. Racchiude posti e volti inventati e al contempo è un documento ricco di riferimenti a luoghi esistenti, il Jackson Memorial, Palm Beach, la Florida, le Antille, i Caraibi, Cuba e mille altri luoghi collocati a metà strada tra il mare e il mito. Tra le righe, ma anche dentro, nelle pieghe più sensibili, è il resoconto di un mondo che siede sulle sdraio a strisce multicolori in luoghi di lusso tra il sole e l’ombra densa di sotterfugi e intrighi, la zona morta, ma brulicante di umanità, tra legalità e crimine, disperazione, fantasia e il sogno costante di un altrove risolutivo, una mossa a sorpresa che cambia le carte e rovescia i tavoli. 

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Il destino, lo si sa, si nutre di logiche sbalestrate. Nella seconda parte del libro Mina di Sospiro lo fa condurre da una nave senza timone, ricca di assonanze e richiami fascinosi: “Durante questa unica e irripetibile settimana astrale, gli eventi di ogni giorno saranno influenzati e talvolta addirittura decretati dalle divinità pagane. Quali? Quelle della mitologia latina e sassone, le due culture che hanno colonizzato il nuovo mondo e che evidentemente presiedono alla pari sul mar dei Caraibi. Le stesse divinità, infine, che hanno ispirato il nome dei giorni della settimana, sia nelle lingue d’origine latina, fra le quali lo spagnolo, che in quelle d’origine sassone, fra le quali l’inglese”. Un escamotage accattivante, del tutto coerente con lo spirito e l’animo che orientano il romanzo: lo scambio costante di colpi d’approccio e di schiacciate fulminee e secche tra il caso e l’uomo, tra il rischio, la pena e il piacere di non sapere mai se saremo sopravvento o sottovento, con la sola certezza del mutare costante. Consapevoli solo che, per dirla con le parole di una delle epigrafi del libro: “Non ci sarà sortita. Tu sei dentro e la fortezza è pari all’universo dove non è diritto né rovescio né muro esterno né segreto centro”. (Jorge Luis Borges, Labirinto).

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Questo romanzo ci chiede una cosa difficile ed esaltante: lasciarsi andare alla corrente. Chiudere gli occhi e abbandonarsi alle onde, oppure spalancarli, ma lasciando spazio a ciò che non si vede immediatamente, a quel senso di mistero che è, la trama ce lo indicherà gradualmente, un oro che non si può afferrare con le dita, ma che non per questo è privo di peso, anzi, contiene in sé il peso del tempo e dello spazio di tutti i secoli e tutti i sogni che abbiamo fatto e che ancora saremo in grado di fare. La narrazione sui generis di Mina di Sospiro ha un potere straniante, ci porta in un luogo che non c’è ma che, improvvisamente, con un sorriso, riconosciamo come nostro: un posto dove siamo già stati, o, più esattamente, dove abbiamo immaginato di andare, e, quindi, dove siamo stati veramente. Il romanzo ci fa lo stesso effetto che Christopher Foley, uno dei personaggi del libro, esercita su Ruth, una delle partecipanti alla spedizione: “Era venuta a sapere di lui indirettamente, investigando la storia del Belize e della  barriera corallina che Chris aveva aiutato certi oceanografi a esplorare. Da quanto aveva sentito e in seguito letto su di lui, l’aveva colpita come un essere umano tanto illogico che, prima ancora d’averlo conosciuto, ne era già stranamente attratta. ≪Un tuffo nell’irrazionale≫  pensò mentre si convinceva della bontà della propria decisione, ≪ecco cosa fa per me. Ci sarà da divertirsi≫”.

 

Alla casa di Dante

Scusandomi per il ritardo, propongo un resoconto (tratto dal sito Pianeta Poesia http://www.pianetapoesia.it/?p=410)  della mia presentazione alla Casa di Dante a Firenze del 14 marzo scorso.
Pianeta Poesia

PIANETA POESIA fa parte dell’ASSOCIAZIONE NOVECENTO POESIA diretta da Franco Manescalchi.

La bellezza del luogo, le suggestioni artistiche e letterarie e la partecipazione attenta dei presenti mi hanno consentito di annotare belle sensazioni da inserire “nel cammin  di nostra vita”. Copio, sperando di non essere mandato all’Inferno. Oppure sì: la compagnia descritta dal Poeta è molto interessante.
Ringrazio i relatori e i lettori, di cui riporto qui di seguito le note e i commenti. IM

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La presentazione è iniziata con il benvenuto della Presidente del Circolo degli Artisti, Graziella Marchini.

Poi Annalisa Macchia ha presentato l’autore, elencandone le molteplici attività e opere, ed ha letto la propria nota critica:

Scarne, essenziali le notizie biobibliografiche di Ivano Mugnaini presenti su questo libro, in perfetta sintonia con il carattere schivo e modesto dell’autore (pregevole e rara virtù, oggi, tra gli scrittori), nonostante l’eccellenza della sua attività letteraria e critica, caratterizzata da un autentico amore per la parola, in ogni sua artistica declinazione. Molto sinteticamente ricordo che Mugnaini è autore di romanzi, racconti, poesie, recensioni, note critiche; collabora con riviste ed  editori, ha curato una rubrica sul sito della Bompiani RCS, cura un blog letterario tutto suo, “Dedalus”, www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com e il sito www.mugnaini.it, dove sarà  facilmente rintracciabile una nota biobibliografica più ampia e dettagliata.

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Certamente può essere utile appropriarsi delle note bibliografiche di un autore per inquadrarlo, capire a grandi linee come si articola la sua scrittura, tuttavia non è sufficiente per percepire a pieno le sue potenzialità, quanto riesce a trasmettere con la parola, quale vita sa ricreare nelle pagine, quanto di sé sa comunicarci. Leggere le sue opere resta un’inevitabile e spesso sorprendente via. Avventurarsi in questo specchio di Leonardo, dunque, aiuterà indubbiamente il lettore a conoscere meglio la personalità del grande artista-genio toscano, ma, e non in misura inferiore, anche quella di chi l’ha scritto.

Il romanzo, precisa l’autore, è stato ispirato da un film-documentario su Leonardo da Vinci, alle prese con lo studio sugli specchi, cui il genio si dedicò a lungo per scopi scientifici e militari, suscitandogli interrogativi sul possibile rapporto tra il genio toscano e la sua immagine speculare, con tutti i contrasti che potevano derivarne.

Così, dall’incontro casuale con un sosia, di identico aspetto fisico, ma diversissimo come carattere e inclinazioni, Manrico, nasce e si sviluppa questo romanzo, non ascrivibile al genere “romanzo storico” perché molti sono gli elementi romanzati della vicenda, anche se la ricostruzione storica dell’ambiente è fedele e ricrea una perfetta cornice di paesaggi e situazioni per i personaggi che vi si muovono.

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Come sottolinea Giuseppe Panella, autore di un ampio saggio critico che precede il testo, il romanzo non può nemmeno essere comparato, trasportati nostro malgrado dall’onda di una potente pubblicità, a una delle tante sensazionalistiche emulazioni nate in seguito alla fortuna del Codice da Vinci di Dan Brown. Il romanzo di Mugnaini affonda le sue radici in ben diversi terreni, possiede una personalità propria (anzi due…), ben delineata e tratteggiata, seppure inserita nella vastissima corrente delle tematiche trattate.

Quest’opera, afferma Giuseppe Panella, è uno scavo in profondità nella mente di Leonardo supportato da una notevole ricostruzione del suo percorso biografico che non pretende tuttavia di rivelare verità storiche nuove o sorprendenti quanto di puntualizzare e di ricostruire ciò che è noto della dimensione umana del personaggio, tentando di farlo interagire con le proprie contraddizioni.”

Un’opera che si situa sia tra le molteplici, varie e variegate altre opere sul geniale artista toscano, dopo aver solleticato la fantasia, gli studi e la voglia di indagine di tanti autori nel corso dei tempi,  sia in quelle, ancor più numerose, che, fin da epoche assai anteriori a quella di Leonardo, si destreggiano con l’inesauribile tematica del doppio. Non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta nell’enumerarle, ma, forse, la mente corre più facilmente ad alcune, famosissime, giocate sulla tragedia, come: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson, Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il fu Mattia Pascal  o anche Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello; oppure a quelle in chiave più surreale come Il visconte dimezzato di Italo Calvino o L’uomo duplicato di José Saramago; ma anche alla godibilità del “doppio” giocato da Plauto, Shakespeare e dal nostro Goldoni.

Il “doppio” di Ivano interpreta il desiderio inappagato che ciascuno di noi ha di comprendere la natura umana in ogni sua misteriosa sfumatura, cercando se stesso negli altri e in ciò che ci accade intorno. Aspirazione, a maggior ragione, drammaticamente vissuta da Leonardo, dotato di un genio capace di creare bellezza e scienza così magistralmente da essere difficilmente superato da altre menti e mani della sua epoca, senza tuttavia riuscire, per la intrinseca limitata natura umana, a comprendere fino in fondo la ragione della sua creatività, la complessità, la follia e tutti i moti spontanei di un io più profondo, costantemente tenuto a bada dall’altro io, quello inevitabilmente soggetto alle soffocanti leggi della società.

L’incontro con il sosia Manrico è per Leonardo l’occasione di affondare in questa oscurità, di scavare impietosamente in se stesso, liberando istinti repressi, lasciandosi coinvolgere poi da insolubili contraddizioni, tormentato dal continuo struggimento di non trovare adeguata finitezza alla sua sete di sapere e nel suo operato. Cercherà di mettere quest’io nei suoi ritratti. La pittura è per lui lo specchio in cui guardare dentro di sé e risalire alla parte più sconosciuta di se stesso; davanti al suo sosia, il suo specchio umano, capiterà la stessa cosa. Crederà di essersi ritrovato in parte, ma dovrà prendere tragicamente atto del suo fallimento, poiché l’io di entrambi, come quello di ciascuno di noi, è in continua evoluzione, sfuggente, ambiguo, inafferrabile.

Particolarmente interessante, nella nota critica di Panella, è il duplice riferimento, opportunamente presentato nel testo in maniera speculare, alla Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci del 1894 di Paul Valery e al saggio biografico su Leonardo di Sigmund Freud, scritto nel 1910.

Si tratta di due tra le più autorevoli e significative analisi su questo personaggio, profondamente diverse, come diversi sono i loro autori e le origini, ma capaci di mettere in luce le altrettanto diverse facce di Leonardo: il rigore scientifico che convive con la grazia delle sue opere artistiche, ovvero la natura solare di artista-scienziato evidenziati da Valery e, scandagliata da Freud, la resistenza al piacere, l’inquietudine interiore, la genialità misurata in rapporto alla vitalità sessuale.

Affidando alla parola scritta, come l’autore fece a suo tempo anche nella raccolta poetica  Il tempo salvato, un’operazione di scandaglio nei meandri più profondi dell’essere, attraverso cui si possa arrivare a conoscere qualcosa di più di noi stessi, letterariamente scavalcando ogni barriera temporale, Mugnaini guida il suo Leonardo in questa particolare ricostruzione al contempo biografica e romanzata.  Nell’umanissima figura umana che ne emerge, combattuta tra dubbi e incertezze, tra complessità e linearità, tra luce e buio, tra bene e male, si percepisce bene quanto lo scrittore si identifichi con il suo personaggio, con lui immerso nell’ansia di una ricerca di verità sfuggente, che mai si rivela nella sua pienezza, perché al Vero è concesso solamente avvicinarci.”

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A questo punto Valeria Serofilli, dell’Associazione Caffè dell’Ussero, di Pisa, ha letto alcuni brani dell’opera.

L’intervento di Giuseppe Baldassarre è iniziato portando i saluti di Giuseppe Panella, che non ha potuto partecipare, per impegni di lavoro lontano da Firenze, e leggendo alcune righe dall’Introduzione al libro fatta dallo stesso Panella. Se ne riporta una parte: ” Il libro di Mugnaini è un romanzo, anzi una biografia romanzata simpatetica e allucinata, attraversata dai brividi dell’approssimarsi alla verità, dal timore di non poterla raggiungere. Ma ogni biografia (e, aggiungo, ogni autobiografia) è il romanzo che il suo protagonista non ha avuto il tempo o il coraggio di scrivere. Lo specchio di Leonardo è un sogno della Storia e, come tutti i sogni che si sono avverati, parla un linguaggio fatto di poesia e di sapiente accostamento al vero.”

Poi Baldassarre ha esposto alcune riflessioni critiche, che qui si riportano sinteticamente.

La tensione vitale dell’ambivalenza
Lo specchio porta a un riflesso asimmetrico, che porta a riflettere sull’identità, le due figure non sono un raddoppio, ma un invito a tentare una sintesi che si rivela impossibile. Ma il punto di partenza è ormai superato, per cui c’è evoluzione, necessaria. Che può anche non trovare l’ubi consistam, se non momentaneo. Ma avviene, per caso e per scelta.

Il genio è scontento, insoddisfatto ed ha bisogno di esperire le sue possibilità. Nel caso di Leonardo alla sublimazione degli istinti vitali fa da contralto e contrasto la sensazione, la carnalità, a partire dalla sessualità istintiva. Leonardo e Manrico rappresentano i due poli, la cui tensione è forte e vitale, ma si scopre via via impossibile da armonizzare. Manca la sintesi armoniosa, resta l’ambivalenza, e la scontentezza. E’ un’interpretazione romantica del personaggio simbolo del Rinascimento.

Anche il prodotto artistico è incompleto se non c’è la fusione degli elementi contrastanti: la bellezza diventa statica senza la vitalità degli istinti. A parte le altre opere portate a termine o incompiute, simbolo di questa situazione diventa la Gioconda, che l’artista porta con sé e rifinisce continuamente, ma non ha sorriso. E’ un gesto dirompente di Manrico, espressione degli istinti originari, che la fa diventare pienamente donna e allora appare il sorriso. Suggestiva e inaspettata soluzione artistica che porta alle estreme conseguenze la teoria freudiana della sublimazione artistica. Scelta originale di Mugnaini, che la carica di una valenza artistica anticipatrice di una certa arte performativa del Novecento.

Il linguaggio del romanzo è misurato, ma incisivo, carico di parole e immagini concrete. La narrazione è sempre verisimile. Il lettore si trova subito immerso, in modo del tutto naturale, nell’ambiente e nel tempo della seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Se l’autore entra in piena sympàteia con il suo personaggio, non è richiesta l’immedesimazione del lettore con Leonardo, anche perché colto in questa fase di schizofrenia, in cerca lui stesso di unitarietà, probabilmente non raggiungibile. La narrazione di Mugnaini, in compenso, rende il grande artista uno di noi, lo porta tra noi. E  questo, insieme ad altri,  è certamente un grande merito dello Specchio di Leonardo.”

Valeria Serofilli ha letto alcune pagine del libro.

E’ quindi intervenuto l’autore che ha dialogato con i relatori e con il pubblico in merito al libro, alla tematica e al proprio metodo di scrittura.

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LA VITA È SOGNO (?)

 LA VITA È SOGNO 

Riflessioni su Calderon de la Barca



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Il punto interrogativo, in questo caso più che mai, è necessario, ed anche prezioso. Un gancetto affilato che penetra nelle carni come una spilla, d’accordo, ma anche, a ben vedere, un amo con cui pescare qualcosa di cui nutrirsi. La domanda se la sono posti tutti, in qualche istante particolare o nel corso di una vita intera. Pedro Calderon de la Barca, nato a Madrid nel 1600, è noto ancora oggi anche e soprattutto per il testo in cui afferma che la vita altro che non è che un’entità illusoria, un sogno contraddetto dalla ragione. Lui, in realtà, di dubbi non sembra averne avuti. Ma l’affermazione contiene un’ipotesi. Il sogno è, di per sé, qualcosa di incerto, di irrazionale. Nessuno ne conosce bene i meccanismi, la natura e i confini. Quindi equiparare la vita al sogno, equivale, in un certo senso, a compiere l’operazione contraria. In quest’ottica, paradossalmente, l’affermazione di Garcia Lorca, autore di un testo in cui sostiene con uguale solennità che La vita non è sogno, non è troppo distante dall’assunto di base. Che dire? Ora più che mai siamo di fronte all’apoteosi dell’impalpabile. Il che, in fin dei conti, conferma e ribadisce il trionfo del teatro, la vita che si guarda allo specchio, e, nell’atto di guardarsi, rivive. O magari vive davvero. O smette di vivere, per iniziare a sognare. Chissà.

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         Nessuna umana certezza, anche stavolta. Che sia questo il bello, o almeno una delle componenti essenziali del gioco? Qualche certezza, almeno sul piano strettamente biografico, la si trova nelle vicende di questo autore spagnolo, Calderon de la Barca, distante anni luce dal panorama letterario attuale, eppure, tramite radici o echi che si diffondono all’interno di altre correnti e risonanze, è giunto in qualche modo fino a noi. Il suo esordio in qualità di drammaturgo risale al 1623, anno in cui propose al pubblico la commedia Amor, honor y poder. Ebbene sì, Amore, Onore e Potere. Personalmente a questo punto mi vengono in mente le facce di molti autori moderni di telenovelas, magari sudamericani, o di molti autori di discorsi politici, molto più nostrani, i quali, di fronte a tale mirabile titolo, si chiedono, sconsolati, come mai non è venuto in mente a loro. Battute a parte, il buon de la Barca, evidentemente già conosceva assai bene gli ingredienti giusti per attrarre l’attenzione popolare. Allo stesso tempo già iniziava a far lavorare sulla scena, facendoli interagire, i motori di base di quella commedia (tragicomica) che è la vita. Sogno o realtà che sia. Anche l’ambiente in cui opera l’autore spagnolo è emblematico. I suoi drammi sacri e profani venivano allestiti e rappresentati in occasione delle feste di corte e per l’inaugurazione del palazzo reale. Anche in questo caso la commistione tra arte e mondanità è assoluta, e diviene un elemento in più, quasi una componente tematica, un personaggio ulteriore, un’allegoria nell’allegoria che aggiunge al testo elementi di riflessione e significazione.

         Il linguaggio di Calderon de la Barca è ricco, sovrabbondante, lussureggiante: il trionfo del barocco, quello che esplodeva anche a livello architettonico, in colossali metafore di marmo e di pietra. E’ tuttavia a livello di contenuti e invenzioni sceniche che la fioritura appare più rigogliosa. Il teatro calderoniano contiene in nuce tutte le possibilità sceniche. E’ indicativo, in tal senso, il titolo di un suo lavoro, El gran teatro del mundo. Tutto diviene teatro, lo ingloba e ne viene assorbito. Rafforzando ulteriormente la visione di partenza, quella della natura onirica dell’esistere. C’è un pulsare incessante di vita nei lavori di Calderon. Un pullulare di spunti, azioni, ragionamenti, intrecci. Nel suo Il mago prodigioso del 1637, ci sono, per ammissione dello stesso Goethe, alcuni dei meccanismi che in seguito avrebbero dato origine al Faust.

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         È tuttavia La vita è sogno, dramma composto tra il 1631 e il 1634, il capolavoro indiscusso dell’autore madrileno. Della sottolineatura dell’essenza onirica dell’esperienza si è detto. L’elemento in più che l’autore inserisce e rende portante, fondamentale, è un altro: il sogno potrebbe condurre a prendere tutto con filosofica lievità, per non dire incuranza. L’intento calderoniano al contrario appare proprio quello di indicare che, nonostante tutto sia sogno, anzi, proprio per questa ragione, solo la coerente responsabilità umana nelle azioni può dare un significato non effimero all’esistenza. Difficile, certo. Da razionalizzare e, soprattutto, da mettere in pratica. Ma c’è una coerenza interna. L’ambiente e l’epoca in cui l’autore si trovò ad operare lo hanno influenzato in modo evidente, conducendolo ad una visione del mondo che, tuttavia, almeno per certi aspetti, conserva un suo senso. Non posso evitare neppure stavolta di dedicare un pensiero ai politici. Non sappiamo con certezza se la vita sia sogno o meno, d’accordo, ma la responsabilità, la coerenza, il rispetto dei diritti e delle necessità primarie dell’uomo, sono e restano sacre. Come tali andrebbero trattate. In ogni parte di questo Gran Teatro del Mondo.

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         È il caso tuttavia di tornare al nostro Calderon, il quale, ne La vita è sogno, raggiunge le vette più alte dell’elaborazione di intrecci barocchi, colpi di scena, invenzioni che si susseguono a ritmo serrato. La figura principale è quella del Principe Sigismondo, figlio di Basilio, re di Polonia, a cui è stato vaticinato un regno insanguinato dalla crudeltà dell’erede. Sigismondo quindi, fin dalla nascita, è escluso dalla vita di corte e chiuso in un castello. Pur con le necessarie distinzioni, non solo a livello di contenuto, viene fatto di pensare ad Amleto. Al termine di lunghe peripezie, tuttavia, al contrario di ciò che accade nel capolavoro shakespeariano, si ha la riconciliazione finale. Il principe implora dal padre il perdono per un tentativo di rivolta, un episodio in cui si è messo alla guida del popolo per tentare di conquistare il potere. Il padre perdona Sigismondo, il quale, nel momento in cui ammette le proprie colpe, ha l’impressione di aprire finalmente gli occhi, risvegliandosi. Ogni sogno umano può essere inizio di un risveglio, ogni risveglio l’inizio di un sogno, sembra volerci suggerire l’autore.

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         Per i contenuti, e per la morale di fondo, il testo di Calderon de la Barca rivela oggi tutti i suoi anni. E’ distante, si colloca in un’epoca lontana, non solo dal punto di vista cronologico. E’ un testo scritto con onestà da un uomo imbevuto dei principi che aveva assorbito. Uno che, di sicuro, non possedeva lo scarto necessario, il genio assoluto, quello di un Dante o di uno Shakespeare, per intenderci, per assimilare in sé l’ideologia e la morale del suo tempo, per poi lasciarsi tutto alle spalle, andando oltre. Andando ovunque, in ogni tempo, in ogni mente umana di qualsiasi momento storico.

         Tuttavia, se mettiamo da parte la dipendenza stretta dell’autore dai condizionamenti del suo ambiente, resta, anche oggi, un testo vivo, una sorta di albero strano, pieno di radici e di rami attorcigliati. Arabeschi che, ancora oggi, attraggono l’occhio, in qualche misura, portandolo a visualizzare, per analogia e non di rado per contrasto, allegorie, riflessioni, valutazioni sui percorsi e sui panorami del percorso esistenziale. Resta l’immagine di un teatro che rivela nel modo più evidente e a volte ingenuamente geniale la sua natura di favola colorata e confusa, specchio deformato, ma nemmeno troppo, della vita. Quella vita che, Calderon de la Barca continua a dircelo, è e rimane sostanzialmente sogno. L’ossimoro degli ossimori. Qualcuno potrebbe dire che se l’autore fosse vissuto oggi avrebbe scritto un testo dal titolo La vita è incubo. Forse è così. O forse no. Gli orrori non mancavano di certo neanche nella sua epoca, nel mondo che gli è toccato in sorte. Il trucco forse (e la necessità), è continuare a sognare, vedendo e immaginando architetture fisiche e mentali lussureggianti. Senza scordarci, magari, la responsabilità fondamentalmente umana di provare, nonostante tutto, a trasformare il sogno in realtà.

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