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Svenimenti a distanza – anteprima del libro

Come sosteneva Beckett, “è tutta una questione di voci; quello che accade, sono delle parole”. Mario Fresa in una delle liriche iniziali di Svenimenti a distanza, il suo libro di prossima uscita, descrive “Proposizioni in gabbia”, e alcune delle sbarre d’acciaio sono costituite dai ricordi, dalla necessità di trovare un senso a tutto, perfino al nonsenso, perfino al lutto, alla perdita, alla solitudine e all’assurdo.

Presa coscienza dell’impossibilità di dare misura esatta al destino, restano poche strade, sostanzialmente due: il mutismo oppure l’utilizzo delle stesse pietre e della stessa polvere, del medesimo percorso tramutato di verso e direzione. La parola diventa rotta trasversale del de-centramento. Non è un antidoto. Il veleno permane, è nel flusso, in circolo. Ma tale attività di escursione ed esplorazione delle vie laterali e divergenti è gioco vitale.

Se la parola evoca frustrazione, memoria che ferisce e riflessione che annienta, è con la parola stessa che lo possiamo e lo dobbiamo affermare. È un paradosso di fondo, uno “svenimento a distanza” che ci stende a terra e ci salva allo stesso tempo.

Mi siedo fingendo di essere un suono/ interminabile. La strada arriva a te, cotone d’aria […] gioca/ senza riguardo a ricercare me, nello spedale/ delle parole vinte o sottili:/ topi di artiglieria che vengono alle mani,/ se tu gli muovi guerra; e così sia”, annota Fresa. Attraverso la parola, progressivamente, si esce dalla gabbia, o si finge di uscirne, ancora soggetti alla fascinazione, alla tana in cui ci rifugiamo e ci danniamo.

I versi diventano dialogo, svelamento, rivelazione profonda e coraggiosa di ciò che si pensa, tra riflessione e pura immagine stampata nella mente, un mosaico di tessere il cui senso svanisce, ci ingloba, cambia e ci trasforma istante dopo istante:

Niente da fare, mamma: i poveri arrivano tardi,/ a tredici anni; c’è una sola risposta alla domanda./ Chiamiamo l’elettricista per non fare indigestione./ Il corpo della signora sembra perfino bianco, mentre guida ubriaca per la casa”.

Ci sono istantanee che restano nella mente leggere e acuminate per una vita intera. C’è l’ironia sapida e non di rado aspra di Fresa, mai aliena però all’umanità più profonda, quel senso di fragilità condivisa in tutto e per tutto tranne che nella resa incondizionata. Fresa con un sorriso lieve e serio continua a porsi e a porre a noi le questioni più scomode, quelle che non dovrebbero essere rese pubbliche.

Un luogo esiste almeno cinque volte”, sostiene. E questo verso ha il fascino di un’indeterminatezza che assume a poco a poco contorni che ci chiamano in causa: “Riprovano a lasciarci sulla rotta,/ senza mutare o restando con una certa età;/ viene da dentro, come se lui non fosse un mostro/ che ha un solo desiderio: passare dal fatto alla certezza pura./ Facciamo il tutto esaurito./ Se non ti volti nemmeno adesso – è tutta qui la mia/ speranza – tu dormirai nel nulla,/ come salvato dall’attesa”.

Qui di seguito pubblico alcune delle liriche tratte da Svenimenti a distanza il libro di Mario Fresa in uscita presso Il Melangolo.

Si tratta di un’anteprima che Fresa mi ha inviato in lettura. Il mio invito è quello di salvare nella memoria questi versi lontani dai sentieri eccessivamente battuti e transitati. Non per trovare risposte impossibili, ma per ripercorrere con traiettorie libere e originali le domande imprescindibili. IM

*******

versi tratti da Svenimenti a distanza
di Mario Fresa
*
Porto l’intera stirpe del lavoro
dietro casa, metà bicchiere e metà pesce;
la prima parte, decido di lasciarla poco
più sopra; l’altra metà la fisso sulla terra,
fino a stancarla.
Mia madre resta dura, dura, e cresce in aria.
Si volta giù dalle sue stelle
e sa creare un albero, da vera intenditrice,
anche partendo da un proverbio.
Tale è l’importanza di cambiare un po’
il registro, di uscire dal tappeto dichiarando:
Non so bene come ci sono entrato, qui.
L’altra risorsa è pestare un po’ la voce, per ottenere
un certo tema di combustione; a lei ricordo che anche
un santo può cambiare cognome, se gli va;
e poi, di scatto, sedere coi capelli mostrati a dito,
perché visti da tutto il vicinato: sollevo il freddo
dal tuo letto che mi dice essere buono, onesto.
Poi ordina speranza, ma la lascia
proprio a metà sul piatto,
quasi contento di non pagare più.


*
Proposizioni in gabbia

1
Ben detto. Pari saranno la mattina e i vocaboli
sporchi da te, nel sottosuolo, come pestarli
al suono di certi insetti così pieni
di viva, bollente calma!
Perciò ringrazio te, fato-giornale,
mentre ti avvolgi come un uomo
che capita a sorpresa,
che discute con l’emicrania
da riparare in casa.
2
Se dormo, come un’ombra cinese, mi sento
più giardino di ieri.
Che fare, allora, così dritto,
mentre cadi nell’orologio e vedi muoversi,
contro di te, l’essere puro
di un animale in gabbia?
L’odore me lo porto alla mia casa.
Forse nessuno lo vuole fare più:
dare le spalle alla finestra che ci parla;
vedi, ho fretta della tua voce.
Così rimani viva pure tu.
Diventi sola e non ti sai bene
comandare. Somiglia a chi la sceglie
per mesi interi: sta come
una scuola di sostegno che, va da sé,
gonfia e scompare sempre di più,
come un pensiero muto.


*
Sul cumulo della testa riesco a malapena a dare
una certa età; ne puoi pagare il conto col termometro
fisso sulla parete: sono lo stesso nuotatore
che cerca di salvare tutte le macchie, di sparire
nell’emicrania come un bicchiere d’acqua.
Lo porto a riva con l’inganno di dirgli
che è solo un corridoio,
una grazia che vive nella sua stretta intimità.
Lo so che non ti piace l’autocritica.
Se dici “piano”, mi lascerai la tua bellissima
schiena-afrodite da baciare
ancora un po’?


*
Cometa
Lo immagino salire a scatti, cercando le pareti
per aprire una cosmica giuntura,
così grazioso nel riparare le paure
sommate sulla terra, sugli occhi lieti di macinare
una marziale grazia
nelle sue tasche azzurre:
tiriamo dove arriva il bianco del giardino
sulla tua fronte: la mano si è confidata
come una specie
di universale portineria.


*
Mi siedo fingendo di essere un suono
interminabile. La strada arriva a te, cotone d’aria,
per essere guardata
con autentica pazienza da chi parla,
da chi risponde: «Non l’ho sentito per nessuno, mai. Te l’assicuro».
Prova a spezzare le tue movenze in quattro,
come un avaro mostro che gioca
senza riguardo a ricercare me, nello spedale
delle parole vinte o sottili:
topi di artiglieria che vengono alle mani,
se tu gli muovi guerra; e così sia.


*
In tanto spazio, quanti nemici stanno
nella materia? La tua voce raggiunge
le dita e noi saremo uguali
per sempre. Ma cos’era successo davvero,
ai nostri poveri amici? Oltre il giardino
dell’ospedale, dico? Oltre l’abbraccio
della prima ora?
E tu, scontrosa diligente, mi basterai per l’ultimo
proiettile, per questo allegro ballo
inciso nel fosforo dell’aria?


*
1.
Nemmeno se mi appoggio sui fianchi
del temporale – e voi zitti, miseri di cuore! –
lei riuscirà a convincermi ad uscire,
a rimanere qui. Quando è così, mettiamoci
una pietra sopra, mi disse appunto sulla soglia
del matrimonio, l’amico delle Funebri onoranze.
2.
La sua cenere, dice, quasi mi abbaglia
con le lancette in mano; oh, brutto segno.
Mettiamo, che so, che il conduttore voglia prendere,
all’improvviso, i suoi parametri lisci,
i suoi propositi da bravo inserzionista di macerie;
alla prossima città, traforerò l’armadio
di qualche segreto da ristorante.
Avrai capito, no?
Così ci inginocchiamo, adesso, per toccarla, e lei si crede
quasi un santo, una specie di banca di periferia.
3.
La seconda prova è questa.
Una volta interrogata, lei sbotta: Macché progresso o guerra!
Si difende, allora, più o meno come
un insetto-favola: diciamo quasi da farmacia.
Non ci basta capire! Non è legale e non abbiamo più
nemmeno le mani legate come un tempo.
Ma senta, le dico io di scatto, senza
più mezzi termini: uno, insomma, può abitarci proprio vicino,
contarli uno per uno, ma poi non lo sa bene
che i toni riappaiono così, senza che
lo vogliamo noi?


*
Il rapporto tra noi è una
gengiva azzurra; e tanto si dimentica lo stesso.
(Come i gamberi e l’acqua nodosa,
che li fanno diventare eterni).
Ancora un ospite e odore
di esempi finiti male.
Meglio svenire in qualsiasi
continente che tra le tue braccia.
Neppure giurare o diventare ciò che si vede.
No: rallentare in una pianta morbida, ovale.
Risalire un po’ di meno.
Chi se ne è andato paga il conto
perché è solo: e tu, quasi sorella, entrando con un graffio
tra le facciate gigantesche, alle parole bianco e annoiarmi,
sei scivolata
con una rara facilità da polvere da sparo.

*

Sortita
1.
Quella in fondo al corridoio, non sarebbe andata
a casa mai da sola. Chissà cosa le prende?
Se avevate intenzione di maltrattarmi, fatemi almeno entrare.
Lei, come d’accordo, torce fra le sue dita il parente più vicino,
e corre al salvataggio.
Si pianta, cioè, all’ingresso della soglia e non passa più nessuno.
Scendiamo come fiori
nel villaggio giocattolo di ieri.
2.
Niente da fare, mamma: i poveri arrivano tardi,
a tredici anni; c’è una sola risposta alla domanda.
Chiamiamo l’elettricista per non fare indigestione.
Il corpo della signora sembra perfino bianco, mentre guida
ubriaca per la casa.
3.
Stia tranquilla, però! Di certo il suo cervello si stancherà.
Oltre i visceri, gli unghioni, la sua tela;
quel liquido vischioso…. le mandibole uncinate….
E quando l’ha finita di colpo, la vera punizione è data
non solo perché abbiamo peccato, ma perché adesso
noi non pecchiamo più.


*
Alcuni gli vogliono bene quanto basta, felice purgatorio
senza vele – e lui così, turbante sulle gambe; occhio sparito
fin dal principio; si sposerà? –. Eppure adesso gli sale
tra le gote un vento leggerissimo che resta
senza pace. Poi lascia la nostra roba all’aria,
e nel silenzio messo presto in discussione (gridare
dalla finestra fino a volersi rovinare proprio il mento,
le gambe, la prossima stagione…).
Più centrale, più acuta. Se ne ricorderà.
Ecco la luce che fa più uguale, adesso,
il tuo veloce sguardo al mio.
I nomi precipitati giù dall’ascensore, o semiaperti,
dimenticati; confusi soprattutto per il caldo innaturale.
Un accidenti che vuole proprio me, anche se dice
di non sapere amare.
Se qualcuno, cioè, gli vuole bene,
non lo dirà proprio a nessuno.
Mai rendere pubblico un disastro.


*
Un luogo esiste almeno cinque volte.
I successivi due anni nessuno ne sa niente e lo teniamo
a bada, giusto ai confini della guerra. Per essere felici,
apriamo i nervi ottici e stacchiamo l’ombra netta
alla radice: un modo di spezzare il tuo cervello
quasi perfettamente in due.
Accade, allora, che lui – nel centro del dolore –
torni ogni giorno al mio indirizzo.
Riprovano a lasciarci sulla rotta,
senza mutare o restando con una certa età;
viene da dentro, come se lui non fosse un mostro
che ha un solo desiderio: passare dal fatto alla certezza pura.
Facciamo il tutto esaurito.
Se non ti volti nemmeno adesso – è tutta qui la mia
speranza – tu dormirai nel nulla,
come salvato dall’attesa.


* * *

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Mario Fresa è nato nel 1973. Già collaboratore delle riviste “Caffè Michelangiolo”, “Paragone”, “Palazzo Sanvitale”, “Nuovi Argomenti”, “Almanacco dello Specchio”, “Gradiva”, “Smerilliana”, “Capoverso”, “Il Monte Analogo”, “La clessidra”, “Levania”, “InOltre”, “L’area di Broca”, “Nuova Prosa”, “Erba d’Arno”, “Carteggi Letterari”, “L’Ortica”, “Punto”, “Semicerchio”, “Il lettore di Provincia”, “Cortocircuito”, “Risvolti”, “Vico Acitillo 124”, “Il Banco di lettura”, “La Mosca di Milano”, “Secondo Tempo”, ecc., è traduttore dal latino e dal francese (Catullo, Marziale, Pseudo-Bernardo di Chiaravalle, Musset, Desnos, Apollinaire, Frénaud, Char, Duprey, Queneau) ed è autore di vari libri di critica e di poesia. Tra i suoi ultimo lavori: Omaggio a Marziale (2011); Uno stupore quieto (2012); La tortura per mezzo delle rose (2014); Come da un’altra riva. Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers di Baudelaire (2014); Catullo vestito di nuovo (2014); Teoria della seduzione (2015); In viaggio con Apollinaire (2016); Le parole viventi. Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (2017); Alfabeto Baudelaire. Dodici traduzioni dai Fiori del Male (2017).

Annotazioni e variazioni sul tema: arte, musica, scrittura

UT – IL PRINCIPIO ED IL FINE

copertina-Capponi UT

Marco Capponi è un autore in grado di abbinare l’inventiva ricca di immaginazione con un rigore logico-sintattico che gli deriva anche dai suoi studi e dalle attività professionali che ha svolto. Questo abbinamento si è confermato nei suoi romanzi di recente uscita LE RAGIONI DEL CASO E DEL DESTINO e ESTINZIONE entrambi editi dalle Edizioni Divinafollia. Ma è sempre stato presente nel suo percorso letterario ed è rilevabile anche nel romanzo UT – IL PRINCIPIO ED IL FINE. Questo libro è stato pubblicato nel 2012 per i tipi di Marte Editrice ed è stato scritto assieme a Manuela Litro, concertista e musicista, oltre che scrittrice. Nonostante il diverso percorso dei due autori, la loro diversa impostazione e le esperienze artistiche e professionali in ambiti differenti, il romanzo dimostra una coesione apprezzabile, un amalgama omogeneo di toni, note, approcci, canti e controcanti, luci e chiaroscuri. Lo spunto iniziale è accattivante e coinvolgente: il segreto legato ad un misterioso libretto d’opera acquistato in un’asta a Ginevra. A partire da questa brillante ma anche arcana scintilla iniziale la storia si dipana con un ritmo serrato tra ambienti vari e domini contrastanti. Il merito di questo libro è proprio questa volontà di superare le barriere tra ambiti che vengono spesso ritenuti separati e in realtà sono contigui, spesso convergenti, di sicuro in un rapporto dialogico, tanto più intenso quanto più intricato.

Si tratta di un romanzo di non facile e immediata lettura, lontano dalla cantilenante e prevedibile orecchiabilità di certi lavori preconfezionati. In questo libro i due autori hanno scavato nei meandri di una vicenda che in fondo funge da specchio per lo studio di meccanismi di più ampio respiro, come il rapporto tra arte e scienza, verità e menzogna, e, in fondo, in ultima ma predominante istanza, su quello che è e permane il più vivido mistero, quello dei rapporti tra gli uomini, affetto, amore, amicizia, dialogo profondo; un libretto d’opera da comporre giorno dopo giorno con gli accordi che è necessario scrivere secondo ispirazioni mutevoli e autentiche, non mutuabili da nessun modello di riferimento. In questo consiste l’interesse di questo romanzo, nel principio ed il fine a cui fa riferimento il titolo, quel mistero nel mistero che è necessario indagare, sapendo che il finale, fatalmente ma anche per fortuna, è aperto, denso di potenzialità ulteriori.

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Parto da qui, da queste note (mi sembra consono l’utilizzo di questo vocabolo così polivalente e polisemico) scritte per il mio blog Dedalus nell’ormai lontano gennaio del 2013. Il tempo è una dimensione con cui dobbiamo fare i conti sempre, è il fardello ed il dono, e anche di questo si parla in questo libro, così come in altri volumi di Capponi, tra cui i già citati LE RAGIONI DEL CASO E DEL DESTINO e, in particolare, nel recentissimo ESTINZIONE, romanzo che ha avuto ottimi riscontri e ottenuto attenzione in importanti riviste, anche on line. Ma per non disperderci, e per non perdere tempo, risultando in tal modo del tutto contraddittori, direi di concentrarci, qui ed ora, hic et nunc (il latino ha sempre un suo fascino) sul libro odierno, UT. Il tema del tempo, topos per eccellenza, croce e delizia di chiunque scriva, letteratura, filosofia, o qualsiasi altra disciplina cosiddetta umanistica, ma anche e soprattutto tema fondamentale per qualunque disciplina umana, ossia di ogni essere dotato di capacità di sentire e ragionare, si affaccia in modo deciso ed evidente fin dalla copertina. Il sottotitolo, o meglio la parte analitica e allo stesso tempo intrigante, allusiva e metaforica del titolo è IL PRINCIPIO ED IL FINE. Già qui si rileva uno di quei giochi mentali, una di quelle fondamentali sottigliezze che costituiscono il succo, l’essenza di questo libro. Viene indicato che il termine esatto è “il fine”, ma, in modo spontaneo, la nostra mente associa al principio “la fine”. Non è solo una contrapposizione di genere, di quelle che vanno sempre di moda, perfino in ambito grammaticale. Qui c’è una distinzione che allo stesso tempo separa ed attrae. La dicitura è chiara, “il fine”, ossia lo scopo, la meta, il traguardo da ottenere. Ma la chiarezza, nella letteratura, e forse anche nella scienza, o almeno in quella scienza umana e perfettibile di cui abbiamo parlato, lascia sempre uno spiraglio aperto a luci e chiaroscuri. Qui ci viene detto di non pensare alla fine ma al fine e tuttavia escludendo il pensiero del termine (nel senso di conclusione, anche del tempo) lo si evoca e quindi gli si dà forma e sostanza.

Il fine non è la fine, e tuttavia in qualche misura lo è, fosse pure nella volontà di affermare o meglio suggerire che il fine è quello di evitarla la fine, sia essa la fine definitiva che la fine intesa come perdita di senso, smarrimento di verità, di coerenza, di linearità progressiva di una trama, della vicenda specifica narrata nel libro e in senso più ampio e onnicomprensivo nella metafora esistenziale e artistica che sottende. Samuel Beckett affermava che “è tutta una questione di tempo. Quello che accade sono delle parole”. Parafrasandolo, potremmo dire che quello che accade qui, nello spazio e nel tempo di questo romanzo, è il tempo stesso. La riflessione sul tempo umano, sul senso del bello e sul furto della bellezza, sia in senso concreto che simbolico. Parafrasando l’autore irlandese potremmo dire che quello che accade nel tempo di questo libro è il tempo. E qui, per forza e per amore (come cantano i contradaioli del Palio di Siena) entra in ballo, e in azione, la musica. La musica è sostanzialmente, intimamente, essenzialmente, tempo. Rappresenta il sogno e la volontà umana di dare misura vivibile al tempo, tramutandolo in un sogno reale. Rappresenta il desiderio di imprigionare Cronos in schemi riproducili, sapendo che ciò non sarà mai possibile, se non all’interno di una dimensione onirica, squisitamente umana, che si chiama armonia.

Il libro contiene moltissimi riferimenti alla musica. Potremmo dire che, oltre al ritmo della narrazione, c’è un sottofondo costante, un accompagnamento quasi filmico, cinematografico, una colonna sonora o una sinfonia che muta, alternando ritmi e movimenti. Ma UT è anche un soprattutto un libro in cui si ragiona, si riflette, e si sa, lo sanno gli studenti che ascoltano Mozart mentre studiano matematica, niente come la musica è adatto e utile al ragionamento. Ciò che appare incorporeo, impalpabile, in realtà ha una sostanza che perfettamente ricalca, e in qualche modo genera e forgia, i pensieri, sia scientifici che filosofici, letterari, logici e creativi.

Si ragiona sulla musica in questo libro, mentre la musica scandisce eventi e mutamenti, rincorse e ricerche, di oggetti concreti e di pensieri. Tra i molti esempi possibili, tra le numerose variazioni sul tema, mi piace citare l’excursus di pagina 92 in cui si parte dalla mousike paideia per poi addentrarsi nel diverso destino avuto dalla musica in diverse epoche e differenti regimi, per poi passare ad una disanima dettagliata dei problemi di teoria musicale, dei musicisti adepti di associazioni segrete, dei molteplici livelli di lettura di un brano e via dicendo. La musica, dunque, non solo come sfondo o tappeto su cui si muovono i protagonisti e gli accadimenti, ma anche, e forse soprattutto, come riferimento simbolico, mondo parallelo e tuttavia presente, potremmo dire concreto, di sicuro efficace, sul piano anche della prassi, per il modo in cui influenza le azioni dei personaggi e anche per la valenza metaforica e interpretativa che assume. Quando leggiamo ad esempio il riferimento ai molteplici livelli di lettura di un brano, viene fatto di pensare, in modo spontaneo e pressoché immediato, anche ai diversi modi di leggere i brani del libro stesso, e del mondo che narra, evoca e descrive.

Il mondo è quello dell’arte. Intesa in senso ampio e multiforme. Variegato sia per le diverse discipline e gli ambiti che vengono indicati nel corso della vicenda spaziando dalle arti figurative a quelle musicali sia per la volontà e la capacità di suggerire che il discorso artistico non si esaurisce nell’atto della mera esecuzione, nella visione e nell’ascolto, ma si estende e si integra con altri livelli del pensare e del vivere. Si integrano, le arti creative, con quelle che in modo schematico e in gran parte inappropriato vengono definite “scienze esatte”.

Il compito di questo libro, il suo principio ed il suo fine, la sfida che intraprende con serena e determinata passione, è quello di superare uno steccato, o meglio di mostrare che lo steccato in realtà non esiste, non ha consistenza, non ha neppure la stessa sostanza dei sogni, per dirla con Shakespeare, perché, in realtà, il sogno concreto che si chiama vita dimostra che non esiste confine rilevabile tra arte e ragionamento, tra creatività e riflessione.

Questa è la trama ulteriore, il progetto e la meta di questo libro di Marco Capponi e Manuela Litro. Mostrare il dialogo che sussiste in potenza e in atto, tra scienza e arte, matematica e musica, sentimento e follia, come recita la quarta di copertina, e non specifica, perché è impossibile determinarlo, da che parte, su quale versante si trovi il sentimento e da quale la follia. Entrambi vivono e dialogano su tutti e due i fronti. E nell’atto di incontrarsi, perdono la loro connotazione e si mischiano, diventano spuri e impuri, e in tal modo completi, organismi perfetti.

La sfida di questo libro è stata quella di fare incontrare due mondi diversi su uno stesso piano (e anche stavolta la polisemia del termine non può che giungere gradita). Il piano di un pianoforte è fatto di contrasti, di bianco e di nero, di forte e di piano, di alti e di bassi, ma, soprattutto di accordi, infiniti, potenzialmente illimitati: suonare e scrivere a quattro mani, con tutta la difficoltà e la magia che questo gesto contiene. Marco e Manuela hanno accettato questa sfida, prima di tutto con loro stessi. L’hanno accettata con un sorriso, con serietà assoluta ma anche evitando seriosità stridenti e cacofoniche e schivando con cura la tentazione di proporre una predica cantata fuori luogo e fuori tempo.

Nessuno dei due si è snaturato né ha preteso di modificare l’interlocutore. Capponi è rimasto uno scienziato con una vena naturale per la scrittura narrativa, o un narratore con una vena per la scienza, fate voi, e Manuela Litro è rimasta una musicista con la capacità di divulgare arte, di farne discorso aperto per la gente, nutrimento a cui invita ad avvicinarsi.

Le qualità narrative di Capponi, la prosa solida e tuttavia scorrevole, si evidenziano in modo costante nell’intero libro. Gli esempi possibili sono numerosissimi, ma, anche per uno dei tanti riferimenti a dualismi emblematici, si segnala tra gli altri il brano che inizia a pagina 38 e che ha il suo culmine a pagina 40, là dove si discute della “drammatica crisi della Ragione”. L’impegno di Capponi, politico ma prima di tutto umano, umanistico potremmo dire, finalizzato a conservare la bellezza e la “vivibilità” anche nell’ambito del sociale, si riflette, tra le righe, in modo implicito ma rilevabile, anche nelle pagine di questo testo che tuttavia, è giusto ribadirlo, ha un impianto assolutamente narrativo. Ma in ogni storia raccontata, Capponi lo sa e lo mette in pratica, si celano elementi per provare a riflettere su un giallo di più ampia portata, quello della Storia con la s maiuscola, che non di rado di maiuscolo ha soltanto l’incomprensibile ferocia e la totale mancanza di ragione, equità e giustizia. E questo in ogni epoca. Sarebbe bello poter dire che ciò che non accade nella nostra, non accade qui ed ora. Ma il riso che ne deriverebbe sarebbe una prova efficace del contrario.

“Ogni nota ha armoniche più acute o più gravi che si ottengono moltiplicando o dividendo per due, per quattro eccetera la lunghezza originaria della corda. L’intervallo tra due note armoniche successive è quello che noi chiamiamo ‘ottava’”. Questo brano fa parte di una postilla, di una nota (ancora un gioco del linguaggio rivelatore) contenuta nelle pagine comprese tra 81 e 84, dove si cita Pitagora e si parla di lunghezze, di frequenze, di suono e di ascolto. Manuela Litro, esperta cultrice di musica, ha saputo porre qui e altrove, in tutto il volume, le sue conoscenze al servizio di una storia, di un racconto. Ha cadenzato le diverse fasi, potremmo dire le scene, facendo un parallelismo sia con il cinema che con il teatro, utilizzando le cadenze sia per dare ritmo alla narrazione sia per creare quella completa e suggestiva interazione tra il mondo della parola e quello dei suoni, tra l’arte della visione, della pittura e della lettura, e quella dell’ascolto. La risultante, potremmo dire il risultato aritmetico di tale prodotto, è, appunto, una fusione del tutto coesa tra la musica e la matematica, ossia tra la malia delle note e quella logica che è insita sia in un ragionamento matematico sia in un intreccio narrativo, in un racconto, in special modo in un racconto come quello di UT basato su un mistero, un nodo da svelare tramite una sequenza di indizi da indagare e su cui riflettere cercando di ricavarne una spiegazione plausibile.

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Il libro è ottimamente costruito, anche a livello di intreccio, e sarebbe uno sgarbo ben poco armonico nei confronti dei lettori rivelarne la trama. Lasciamo a chi è interessato il gusto e il compito di esplorare passo dopo passo l’universo concreto e quello immaginario, le città e i luoghi, i gesti e le riflessioni che si susseguono.

Ciò che possiamo fare è ribadire e confermare molto volentieri che questo libro, di non facile assimilazione, lascia tuttavia a chi lo legge il gusto che regalano le narrazioni di sostanza, quelle in cui non ci si limita a mettere in fila una serie di fatti e di azioni ma ci si ritaglia anche il tempo per andare oltre la superficie, esplorando le sensazioni che nascono e cercando sia le radici, vale a dire le citazioni di libri e opere del passato, sia le proiezioni, pensando a possibili scenari futuri, e, valore aggiunto di assoluto rilievo, la riflessione sul senso del vivere, sulla condizione di esseri pensanti che sono in grado allo stesso tempo di generare la Nona Sinfonia o un bombardamento a tappeto su una popolazione inerme, tele mirabili o sgorbi privi di senso, armonia oppure frastuono assurdo e assordante.

È un libro che racconta un incontro, una ricerca, un percorso condiviso tra due esseri umani diversi eppure affini, e, assieme, narra il tentativo ininterrotto di tutta l’umanità di conciliare bellezza e dolore, verità e dubbio, il principio ed il fine, ciò che davvero siamo e ciò vorremmo e potremmo essere, o diventare.

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Marco Capponi nasce a Ripatransone (A.P) nel 1944. Laureato in Fisica Generale ha insegnato Fisica alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna ed ha svolto attività scientifiche presso laboratori nazionali ed internazionali tra i quali il CERN di Ginevra, il CEN di Saclay e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo “l’opinabile vita” con la Bononia University Press. Nel 1912 esce per Marte Editrice “UT”, scritto con la musicista Manuela Liiro. Nel 2014 “Le ragioni del caso e del destino” con la editrice Divinafollia.

Manuela Litro, genovese, è diplomata in canto lirico e teatro musicale. Concertista con il “Ring Around Quartet”, ensemble vocale di polifonia rinascimentale, si esibisce nelle principali stagioni di musica da camera e festival di musica antica. Ideatrice e curatrice del progetto Carillon del MIUR in collaborazione con il Conservatorio Santa Cecilia – musica per prevenire e contrastare fenomeni di disagio giovanile – dirige il coro multietnico Manin, che si è esibito più volte alla Rai ed in cerimonie ufficiali al Quirinale.

È inoltre antiquaria ed esperta di dipinti del XIX secolo.

GLI SMS DEL SIGNOR GODOT

Un breve omaggio, o meglio messaggio, all’imprescindibile irlandese, nell’anniversario della sua morte.

Ma “il silenzio non è tacere”.

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GLI SMS DEL SIGNOR GODOT

Beckett e l’immutata attualità dell’attesa

Ho immaginato varie volte di bussare alla porta di Beckett. Un irlandese che scrive in francese e parla un linguaggio elementare e arcano, universale in fondo, come un codice in attesa di decifrazione. Beckett e il suo Aspettando Godot, Stele di Rosetta della letteratura che anela a qualche Champollion che ne individui la chiave di lettura. Per poi magari, alla fine di tutto, risultare ancora sublimemente inafferrabile.

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Aspettando Godot tratta, a ben vedere, di forme d’arte. Forme d’arte fondamentali, umane per eccellenza. Una eterna e l’altra eternamente attuale. La prima è l’arte della sopravvivenza. Nei confronti del dubbio, della miseria delle certezze, della comunicazione tra simili, dell’orrore e del bisogno di guardarsi attorno, un passo oltre la propria ombra. La seconda arte è altrettanto ardua: l’attesa. Quasi un tentativo di scolpire nel marmo il vento, l’aria, l’istante che c’è e quello che manca. Oggi più che mai, nonostante le comunicazioni in tempo reale, le e-mail e gli SMS, Messenger e Whatsapp, l’impressione è che, nel bel mezzo del messaggio, con le dita che quasi si intrecciano per la rapidità, ci si trovi a volte sospesi, bloccati in una smorfia parente stretta di un sorriso, o viceversa. Un po’ come Vladimir ed Estragon. Ciascuno ad aspettare un Godot che non può venire. Ma che, anche lui non a caso tramite un messaggio, ci fa sapere che di sicuro verrà domani.

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Vladimir ed Estragon, abili unicamente a rispondere e a rispondersi fuori luogo, troppo presto o troppo tardi, imbestialiti e incavolati quasi sempre, e quasi sempre senza sapere perché, malinconici, immancabilmente, malgrado loro. Schiacciati dal peso di un “io” misero, ispido e adiposo, goffo, ingombrante, enorme grottesco peluche. Per trovarli, per trovare i nostri eroi, spesso non necessita pagare alcun biglietto (la SIAE, speriamo, ci perdonerà). Spesso basta ascoltare ordinarissimi dialoghi nelle strade, negli uffici, nei negozi… Beckett viene regolarmente annoverato tra gli autori del “teatro dell’assurdo”. Martin Esslin in The Field of Drama (Methuen, Londra e New York, 1986) riguardo alla drammaturgia di Beckett sostiene che “the meaning that the author might have wanted to express might merely be that it has no meaning”. Il significato, a suo avviso, è nell’assenza di significato. Posizione salda, certo. Con il tempo tuttavia, con l’attesa, Aspettando Godot si rivela anche e sempre di più un testo fondamentalmente “realistico”. Ciò che accade sono vuoti, silenzi, parole e speranze del tutto autentici e a noi familiari. Giocando con alcuni titoli beckettiani, si può dire che La lezione da imparare prima della Fine di partita è che, sicuro, di Vladimir e Estragon ci somigliano, terribilmente, e la presa di coscienza è già ricchezza, appoggio, fuga magari.

Tale presa di coscienza avviene tramite un testo che con la potenza dell’indeterminatezza ci aiuta a comprendere per quanto possibile questo mondo oscillante tra serietà e farsa, tragedia e riso, God e Charlot. Godot, appunto.

Forse.

Un testo da cercare ancora per poi ripetersi magari assieme ai protagonisti: “Nasciamo tutti folli. Alcuni lo rimangono”.

Una pièce da rivedere o da rileggere per poi poter fare eco ai personaggi dell’Amarcord felliniano, quelli che all’uscita dalla sala cinematografica dichiaravano: “Mi sono divertito tanto. Ho pianto tutto il tempo!”. Fare come loro ed esclamare all’uscita del teatro o alla fine della lettura di Aspettando Godot: “Non ho capito niente. E ho capito tutto quello che c’è da capire”. Un punto di partenza. Uno dei pochi attualmente praticabili. Sempre, ovviamente, nell’attesa che venga a farci visita, domani magari, il signor Godot o chi per lui.

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QUIETAMENTE MICIDIALI

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Il Cartello, a questo link: http://www.ilcartello.eu/esistenze-quietamente-micidiali/ , dove è possibile leggere anche i commenti ed altri testi e approfondimenti .  IM

Harold Pinter è un autore oggi noto e di successo. Partendo dagli apparentemente sfuggenti e labirintici sentieri di Beckett e Ionesco è riuscito a creare una sua impronta personale, un taglio, anche nel senso fisico del termine, una ferita sul volto apparentemente sereno e ricco di scelte, optional più o meno gratuiti e gadget vari, della moderna società dei consumi. 

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Come ogni buon incursore, è penetrato nel campo nemico dall’interno. Non è un caso che diversi suoi lavori teatrali abbiano avuto come origine, e sbocco, la televisione. Proprio così, niente meno che la roccaforte squadrata culminante nel mirabolante tubo catodico.

Un leggero malessere, atto unico di Harold Pinter

Uno dei lavori più significativi tra quelli “giovanili” di Pinter è Un leggero malessere, andato in onda sul terzo programma della BBC nel luglio del 1959. Pinter all’epoca aveva ventinove anni. Ma le idee erano già ben chiare e mature. A cominciare dallo spunto di base, tanto scabro da poter sembrare scialbo, in qualche modo inadeguato, insufficiente. Ergo, in realtà, perfetto. Specchio fedele e ben lucidato di molte esistenze quietamente micidiali.
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Una coppia piccolo borghese marcata stretta, senza un istante di tregua, dal cosiddetto trantran. Parolina composta, quest’ultima, che, anche sul piano strettamente uditivo, potremmo quasi dire onomatopeico, trasmette un senso di ripetitività tanto innocua quanto stordente, come il jingle di uno spot pubblicitario, come la tiritera di un folle seduto al margine di una strada. Ma è proprio il carattere fintamente docile della tiritera che le consente di insinuarsi senza ostacoli nella mente. Come un virus che si cela tra i versi zuccherosi di una filastrocca.
Nella scena iniziale del dramma, il protagonista, Edward, intrappola una vespa in un barattolo di marmellata. E si diverte a osservarla. A vederla fremere, fino a diventare isterica, tentando una fuga impossibile. Il sadismo, già becero nelle forme e nelle proporzioni, trova un ulteriore elemento di contrasto nella consapevolezza, certa nello spettatore e perlomeno probabile nei personaggi, dell’analogia, sarcastica, tra la condizione dell’insetto e quella di chi lo tiene prigioniero. Il ribaltamento delle prospettive si fa ancora più aspro quando veniamo a scoprire che il ghignante carceriere sta progressivamente cadendo nelle spire di un male, la perdita progressiva della vista, da cui non potrà avere scampo. Lo vediamo scrutare attraverso il vetro quel minuscolo animale che si agita sbattendo contro le pareti del contenitore. È difficile non pensare al male, a quel morbo leggero che sta minando dall’interno la sua salute, la capacità di interagire liberamente con il mondo. Il volo goffo della vista sta per essere spezzato. Flora, la moglie di Edward, rimprovera il marito accusandolo di perdere tempo con scherzi privi di senso. Si mostra impaurita, inoltre, teme che la vespa possa sgusciare fuori dal barattolo e pungerla. “Non ti pungerà! – replica Edward. Le vespe non pungono. In ogni caso, non può volar via. È bloccata. Annegherà dove si trova, nella marmellata”. Flora sostiene che si tratterà di una morte orribile. Edward invece è convinto del contrario.

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Le apparenti miserie delle vita, fanno risaltare, come un crudele microscopio, i piccoli mali striscianti, che, in realtà, pungono eccome. Mortalmente. Ma il gioco delle prospettive e degli specchi ideato da Pinter non finisce qui. C’è un altro modello, a grandezza (o piccolezza) naturale, che attende la coppia fuori dalla porta. Davanti al cancello della quieta famigliola staziona perennemente un fiammiferaio cieco che non parla mai e non vende fiammiferi. Potrebbe sembrare la parodia amara di una vecchia favola. Per Edward e Flora però non c’è alcuna fata che possa operare benefici prodigi. C’è la realtà, la verità prosaica e muta della vita. Quella che sorride gelida, aliena ai compromessi. Edward in breve tempo subisce la sua prevedibile metamorfosi: perde la vista e sviluppa un’ossessione aspra, tutt’altro che cieca, nei confronti dell’uomo fermo in attesa davanti al cancello della sua casa. Parallelamente, per ulteriore ironia, il fiammiferaio muto diventa sempre più simpatico a Flora.
Ad un certo momento anche Flora, esasperata dalla tensione e dall’attesa, decide di soffocare la vespa nella marmellata. Edward propone una soluzione diversa: farla morire scottata dall’acqua bollente. Comica, a suo modo, è la definizione delle vespe che propone a cose fatte: “Creature perverse!”, esclama. Ma la reale perversione forse è nello spreco del tempo, nel crogiolarsi in grettezze che minano come tarli i tessuti dell’esistenza. Di sicuro si scopre che l’assurdo si paga alla fine con l’assurdo, l’assenza di logica, di voglia, di volontà di vita, si paga per mezzo di una logica che si mostra ancora più cieca e folle di una vespa intrappolata o di un venditore di niente privo di sguardo e di parole.
Alla fine del dramma Edward, completamente cieco ormai, prende il posto del fiammiferaio, e Flora fugge via con quest’ultimo. L’epilogo è emblematico, e contiene un’intera gamma di possibili significati simbolici. Forse però il solo senso davvero tangibile, nella sua apparente natura impalpabile e astratta, è che il male in agguato dietro la porta di casa è una certezza. Una tenace, ottusa minaccia. Ma c’è un male peggiore, o comunque un male che genera l’altro, lo nutre, lo rinsalda. Forse invece di passare il tempo intrappolando parole nei barattoli di marmellata, dovremmo cercare di contrastare i voli folli del silenzio e della pazzia cercando di spalancare i cancelli, per entrare e per uscire da noi, e soprattutto per cercare àmbiti più ampi, più autentici. Forse. Magari Pinter non intendeva dire nulla di tutto questo. Voleva solo parlare di una coppia come tante, di una vespa e di un fiammiferaio. Ma visto che ciascuno di noi possiede un barattolo, un cancello, e, si spera, una testa, necessita dare il meglio di ciò che abbiamo per poter aspirare a sentire qualcosa di diverso da un ronzio monocorde. Per sperare che il malessere “leggero” del tempo, in qualche modo, possa non prevalere.

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