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PETITE SUITE – per ringraziare la pioggia del mattino

Claude Debussy / Paul Verlaine | Clair de Lune, 1869 | Tutt'Art@ | Pittura  • Scultura • Poesia • Musica
 

PETITE SUITE

PER RINGRAZIARE LA PIOGGIA DEL MATTINO

 

                                       “Così che il mondo

                                        si vede come socchiudendo gli occhi

                                        nuotar nel biondo”

                                                Eugenio Montale, MINSTRELS                                                                               da C.  Debussy,  in Ossi di  seppia, 1927

 
            Ritornello rimbalzi/ tra le vetrate d’afa dell’estate. / Acre groppo di note soffocate, / riso che non esplode / ma trapunge le ore vuote. / Musica senza rumore / che nasce dalle strade, / s’innalza a stento e ricade / e inumidisce gli occhi, così che il mondo / si vede come socchiudendo gli occhi / nuotar nel biondo”. Sono questi i versi che vorrei scrivere, se fossi un poeta. Un giorno qualcuno, ne sono certo, tramite queste parole darà forma e voce alle mie note. Aspre, acri, nuove. Come il pensiero di lei, timore e attrazione infinita per l’occhio di tigre in molli rotondità. Morte in artigli di rosa.
            La mia musica è modellata su di lei, l’immagine, la presenza in me di lei. L’essenza. Violenze travestite da delicatezze inaudite. Non cercate le colonne della costruzione. Le ho tolte. Il dolore è la regola. Il piacere è la regola. La musica è libera ed è dappertutto. A tratti anche sulla carta. Qualcuno, un mio amico, o nemico, non so, mi ha detto che la gente dovrebbe morire per la musica. La gente muore per un sacco di sciocchezze: capricci manicomiali di qualche potente, interessi biechi camuffati da ideali. Dovrebbe morire, la gente, per la musica. La musica salva molte più vite.
            Se dovessi ritrarla proverei a tracciare le curve di un arabesco. Il più spirituale dei disegni, ma anche il più sinuoso, il più avvolgente. Dà un senso di spavento e di fuga, di caduta, oppure di languore, in particolar modo sensuale. È inclinazione verso il basso, crollo, tuffo in abissi d’aria e d’acqua. Ad occhi chiusi, giù, verso il suolo, che poi è il solo modo di elevarsi, vedere il cielo in uno specchio umano. L’arabesco è mistero, ebbrezza lineare e arcana, come la musica di Bali e Giava.
            Quando si scrive musica, o poesia, credo, o qualsiasi altra forma di dannazione e salvezza tramite l’espressione del sé, non si può ascoltare i consigli di nessuno, se non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del mondo. Nella storia di un individuo, nella storia di ciascun individuo. Come disse Cézanne, “Je travaille sur le motif”. Una cosa intima, personale, che rende vana qualsiasi analisi formale e teorica. L’intimità è segreta, insondabile. Resta celata, tenacemente. Il riso non esplode, non c’è ostentazione di rabbia, di gioia, di pena.
            I familiari e i conoscenti dicono che sono equilibrato, suadente, sorridente. Così mi descrivono. Mi vedono solare, libero di danzare sul sentiero dell’esistenza. Si sbagliano di grosso. Sono solo un servo. Il pianista di Madame von Meck. La megera che ha già vampirizzato prima delle mie le braccia esili di Ciajkovskij. Sono un pianista privato, certo. Privato della libertà. Insegnante e musicista tuttofare. Praticamente un maggiordomo, nulla di più. Insegno alle figlie ricche e sceme della mia patronne scale incerte e infinite, note e accordi ordinari, mentre loro pensano ai modi più originali per togliersi di dosso alla svelta i corpetti mentre sono con i fidanzati o con qualche chaperon d’occasione.
            Sogno L’après-midi d’un faune, l’ira, la furia, passione che lacera e sbava e crea e sfida a duello l’eterno. Ma sono qui, un impiegato qualunque, come mio padre, non di più. Di meno, semmai, senza seme, senza senso, fosse pure senso comune, senso della famiglia, senso di qualche senso possibile, giusto o sbagliato che sia.
            Tra le vetrate d’afa dell’estate, anche oggi risa e grida inesorabili. Chiudo le imposte della stanza senza neppure più il colpo di grancassa della rabbia che fa sentire con un sobbalzo la presenza del cuore. Serro con cura ammiccando furtivo agli occhi bruni del buio. Pochi attimi dopo, con un tempismo degno di Mozart, sento il suono di lei. I passi ritmati sul selciato. Due appoggi lievi ed un terzo più deciso, come un tacco sottile che trafigge il silenzio, lo beffa, lo irride. Poi, sotto la mia finestra, la voce. Come per caso, per capriccio, per destino, non ne ho idea. Al di là dei vetri e delle persiane sbarrate, la sua voce. Nel sole e nella pioggia, ogni giorno. Canta. E, ne sono certo, balla. Innocente e spietata Salomè. Vuole la mia testa, non c’è dubbio. In un certo senso l’ha già ottenuta. Calda, sanguinante, sopra il vassoio d’argento del pomeriggio. Ha già reciso i pensieri, le vene del collo, i respiri. Sono roba sua. Completamente. Il bello è che di lei invece non ho nulla. Canta, sicuro. Ma il resto è ipotesi, scommessa. Canta per me, mi dico. E un attimo dopo mi viene da ridere. Quale diritto ho di pensarlo? Forse canta per sé, per il volo di una tortora, per il bacio del sole, per regalare una manciata di vita ad un barbone. Per la musica. Per cantare.
            Vive di musica. Questo ho bisogno di crederlo, ne ho necessità. È una cantante, si nutre di note, come me. Cosa canta? Liriche sublimi o canzonette da tabarin? Se solo desse fiato ad una nota in più, capirei. Ma si ferma sempre sul bordo, con un piede sospeso nel vuoto. Si blocca ad un solo centimetro, un filo, un alito dalla comprensione, dalla scoperta.
            Che è? Forse è Bitilis, fanciulla e donna delusa dall’amore degli uomini votata al Circolo di Saffo a Mitilene, quindi esule, prostituta e ragazza sacra. Oppure è semplicemente una Cortigiana egizia, Pioggia del mattino, Danzatrice con i crotali, Tomba senza nome, Acqua pura di fonte. 
            L’ho ascoltata meglio. Nudo accanto alla finestra, l’orecchio teso, il petto che vibrava più silenzioso del respiro, ho catturato la chiave, l’ho stretta tra le dita. Come un padre individua nella folla le teste dei figli, come un amante percepisce con gli occhi e con il corpo i fianchi e il seno dell’amata.
            Canta note mie! La mia musica! Fonte e sbocco, fiume in un mare che da me nasce e a me ritorna. Canta me. Quindi è mia. Lo so, detto e concepito in questo modo suona come pazzia. Ma l’equilibrato, suadente e sorridente Claude Debussy non esiste. Non è mai esistito. Esiste il folle Debussy dalle finestre chiuse anche di giorno. Il servo del pentagramma e di se stesso necessita aria, carne rosa che freme.
            Si chiama Emma, come Madame Bovary. Languida e micidiale tessitrice di sogni. Mi appartiene, mi spetta. Se la follia possiede me, mi fa schiavo, mi fa vivere e mi uccide, anch’io, per contrappasso, ho diritti su di lei. Di vita e di morte.
            Jeux. Giochi. Quelli di cui è composta la materia dell’esistere. Giochi mortalmente seri. Ironici, e quindi belli, violenti, allegri, maestosi. Con ciò che abbiamo, molecole del tutto e del niente. Dolore, carezze, parole.
            Io, il vero me stesso, l’autentico Debussy, volevo essere un poeta. Era ed è il mio destino più vero l’esagerazione, avidità di voluttuose ferite, bocca spalancata verso un cielo assetato di pioggia e di miele. O sopra i seni sodi di una fanciulla in fiore.
            Sono qui invece, chino sul bianco e sul nero identici a loro stessi. Un lacchè in frac. Con l’immancabile inchino finale. Loro applaudono e io fremo, corro con la mente verso note altre, quelle che loro non capiranno, giudicheranno troppo vecchie o troppo moderne. La mia è una scrittura musicale ebbra e geometrica, se così posso dire. Sogno la trama impalpabile, la tela di ragno che divora il mondo e se stessa di Baudelaire, la malinconia lacerata di Rimbaud. Rifuggo con tutte le forze, con le pazzie che possiedo e mi possiedono, ciò che “blesse mon coeur d’une langueur monotone”.
            La mente, ecco, la mente. Erigere un monumento di note alla gabbia che può essere giardino, labirinto perduto di gioia e d’orrore. Ritrovarsi. Ritrovare lei. Le darò un altro nome, lo merita. Le parole corrono, spaziano dentro i suoi confini. La chiamerò Amaryllis. Un omaggio a Lycidas, il giovane reso immortale da Milton, il ragazzo morto povero di anni e infinitamente ricco di sogni. Forse un poeta. Nella sua terra ideale, lo spazio che nessuna onda salmastra, nessuna morte per acqua, potrà strappargli, Lycidas sognava di mettersi in viaggio verso il luogo in cui è possibile “to sport with Amaryllis in the shade”. Intrattenersi con Amaryllis nell’ombra. Non solo un contatto di corpi. Un connubio tra luce e oscurità, calore e gelo, creazione e distruzione. Rinnovamento. Vita giovane percorsa dal vento dell’ovest.
            Già, il vento, fame di respiro. Apro la finestra della mia stanza. Uno spiraglio dapprima, poi la spalanco del tutto. Non lo facevo da anni. Uscire. Dalla casa. Da me. Tra gli sguardi e le grida dei ragazzi che fuggono a frotte dalle scuole, spinte, sputi, bestemmie, risate.
Inseguirla. Al di là del portone del suo palazzo chiuso a metà. Spingerlo ascoltando il rumore delle scarpe sulla ghiaia e sul marmo. Come entrare in punta di piedi nella Città Proibita, l’Oriente che ho nel sangue, ricordo di qualcosa di sconosciuto custodito dentro da sempre. Oppure, semplicemente, entrare in un cortile che sa di basilico e gerani rossi sui davanzali. Corri amore, incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo,/ è questo l’attimo, è questo il momento,/ porta solo le tue labbra ed un’arancia;/ non esitare, vola sulle tue scarpe più belle/ quelle leggere, di tela rosa e bianca,/ incontriamoci adesso,  in un albergo di provincia/ anche senza il mare.
            Sono queste le parole che le dirò, se riuscirò a incontrarla. Lei le ascolterà in silenzio, bella e serena da fare paura. Dirà che le piacciono, forse, che suonano bene, come tasti ottimamente accordati. Mi offrirà la sua amicizia. Qualcosa di grande, di prezioso. Sorriderà benevola e si proclamerà mia amica. Un dono immenso. Che a me, adesso, fa orrore. Anche l’immenso è poco, a volte. Ora come non mai vorrei essere un poeta come il mio amico Verlaine per dirglielo, per farglielo capire, sentire nelle vene. Vorrei, ma so solo suonare. Dare fiato a note che spingono con i gomiti negli angoli della testa per scappare via. Da quando lei è dentro i pensieri, nelle voragini spalancate di ogni attimo, sento in me l’interminabile refrain del Preludio a L’après-midi d’un faune. Un violino che insiste, recide l’aria. Non c’è amicizia possibile per un fauno. Non esiste, non è concepibile. C’è solo amore, aspro, sublime, oltre, sopra, più forte della ragione, della logica, di se stesso. Claire de lune per dolcissimi licantropi. E la luna, si sa, è fascinosa, sfuggente.
            Per conquistare la luna, forse, bisogna essere più folli e più saggi di lei. Avere il coraggio della verità. La più estrema delle bugie. Dire parole nitide, cristalline, pioggia sulle foglie tenere di un giardino. Me lo ha detto lei stessa del resto, con uno sguardo prolungato, lanciato come per caso ma in realtà con un fine preciso. Con pazienza, come si insegna a un bambino a camminare: “Se ami qualcuno diglielo. Esporrai le mani e la faccia, ma potrai forse avere un bacio, contatto effimero di una vita intera. Sarai nudo di fronte all’ignoto, l’imperscrutabile, l’ineluttabile”.
            La realtà, l’incubo, la fantasia. Lago di cristallo in cui nuota un pesce dorato. Poisson d’or, libero, luccicante. Nuotare con la mente oltre il chiasso dei ricordi e delle paure. Sognare pesci d’oro, fabbricarli anticipando il tempo, sbalordendolo, stralunando la luna. Ancora lei. La danzatrice di Delfi, Il velo, Il vento sulla pianura, Suoni e profumi che ruotano nell’aria della sera, Lei che ha veduto il vento dell’ovest, La fanciulla dai capelli di lino, La serenata interrotta, La cattedrale inghiottita, La danza di Puck di questo mio sogno di mezza estate.
            Note mie. Le storie che ho provato a raccontare. Ora le appartengono. Tutto è suo ora. Condiviso fino a non distinguerlo più. Ho capito adesso che la musica più vera è la più semplice. La vita, la poesia. Incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo”. Ho compreso. O forse ho smesso di comprendere. Per iniziare a sentire. Accordi, arpeggi complessi, gradi cromatici, sonorità opposte.
            È una domenica particolare, questa. Nessuna carrozza in giro, poca gente, sguardi sfuggenti, labbra a metà tra terrore e beffa. Forse stanno attendendo tutti l’invasione di un esercito nemico, lo scoppio di un’epidemia di colera, una serie di sgomberi di case pericolanti. Sanno qualcosa ma tacciono, sornioni. Solo io procedo ignaro, a testa bassa verso la meta. Le mie mani sono troppo calde e troppo rapide. Ho timore di guardarle, vederle vecchie, sentirle vive. Il senso dell’esistenza è sgomento, coscienza di essere carne soggetta alle mandibole di un tarlo. Avanzo, c’è una sola direzione. Sguardi troppo diretti, insistenti. Progetto la più paradossale delle fughe, il ritorno. Ma il pensiero della mia stanza ora è stridore. Il pianoforte suona da solo, digrigna note affilate. Mi consentirà di accarezzarlo di nuovo solo se avrò nelle dita il tepore delle dita di lei.
            Proseguo ripetendomi una cantilena che mi stordisce e pungola: Sognare il proprio sogno/ come se fossi destinato soltanto/ a qualcosa di grande, / un abisso, un incanto. / Sognare…
            Ascolto. Dalla sua casa risuona ancora la mia musica. Pagata col sangue, la follia, esilio dalla gente, dall’esistenza. Vorrei che tacesse, che restasse muta in un silenzio da squarciare in due. Riprendere ognuno il proprio onirico moncherino e tornare al proprio mondo. Ma nel ritmo della sua voce c’è una stretta al cuore. Acciaio, lana, miele di labbra dischiuse. C’è aria di morte nelle strade, e afa, senza argini. In me c’è una forma di pace desiderosa di guerra.
            Spingo il portone. Entro. È buio, denso, più spesso e ostinato del mio. Vibra su frequenze che non conosco. Come una lama attraversa l’aria avida di sangue, di tessuti. Anche le sue finestre sono sbarrate. Forse un sarcastico omaggio a me, o magari un richiamo, una trappola, specchio per allodole a cui tranciare le ali. Sorrido, spossato, spalancando la bocca. La sensazione di non poter uscire mai più da qui si fa certezza, orrore esilarante. Le dita della Morte giocano a fare il solletico ai muscoli tesi. Come per effetto di un riflesso spontaneo, spalanco gli occhi. Un filo di luce penetra da una fessura della serranda. Illumina qualcosa di bianco, lucente. L’avorio di un pianoforte. Dita calde di sole lo sfiorano e danno vita anche ai tasti neri. La luce della notte ora non è più un ossimoro. È brivido reale che corre e squassa. Osservo le mani di lei, a lungo, per attimi sconfinati. Non se ne accorge. O forse mi lascia fare nascondendo nella fluidità ammaliante del ritmo il sussulto lieve dei sorrisi. Si sposta in avanti come per abbracciare lo strumento. La nudità del corpo toglie il fiato al buio. Muore, con me, nell’istante in cui sento nella carne l’urlo del sangue che vola lontano, più rapido di un trillo che spazia da lato a lato, dall’estremo all’estremo, dagli accordi più sottili ai più cupi, compromesso senza regole con il tempo, i codici della chimica e della genetica, pulviscolo puro e vitale che entra nei polmoni assieme al profumo di lei.
            Guardo i suoi fianchi e le mani. Non vedo più le mie, e le ritrovo. Affamate di pelle, silenzi, parole. Piove, adesso. L’afa è svanita, smarrita, divorata dalle mosche che nutre e da cui è generata. Piove. O forse è solo saliva, sudore, stille di linfa vitale. Non importa. La notte è un concerto a quattro mani su pentagrammi di odori, fruscii, dita e labbra sulle corde innumerevoli di un’arpa.
            Il tetto risuona davvero, adesso, della danza dell’acqua. Prosegue, negli abbracci, la Petite Suite. Preludio di un gioco crudele e sublime che ora ha un volto, un senso, la chiave di un accordo inseguito da sempre.
            La Pioggia del mattino, ora, è promessa d’infinito.
 

                                                                                                    Ivano Mugnaini

Clair de Lune' con lettere | Spartiti esclusivi per pianoforte |  Letter-Notes incluse | Piano With Kent

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Il Centauro esiste

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Il Centauro esiste: la poesia di Claudia Manuela Turco, tra immaginario e reale

Le parole con cui veniamo accolti sulla soglia d’ingresso di questo libro sono un’indicazione spaziale, le coordinate di un luogo, “Nella Vallata dei Mughetti”, e una dedica in lingua inglese “A Mughy, Lily of the Valley, from glen to glen”. È un esordio adeguato, lo si capisce leggendo il libro ma anche pensando ad altri lavori di Claudia Manuela Turco, alias Brina Maurer. Dire (e dirsi) che, a dispetto di tutto, esiste ancora in qualche luogo del mondo e del tempo una simile Vallata, non vuol dire chiamarsi fuori dagli slings and arrows of outrageous fortune, per dirla in modo amleticamente sintetico, né cercare un’Arcadia tanto bella quanto improbabile. Piuttosto, come una tenace Alice, significa sapere guardare al di là di tutti gli specchi, i trucchi, gli enigmi, gli inganni, i conigli e i cappellai, per cercare ancora lo stupore di ciò che è semplice e naturale, la meraviglia, immensa, che a volte è racchiusa nelle piccole cose.

Il titolo del libro, Il Centauro malato, è, di per sé, un segnale che non solo indica una strada ma conferisce il sapore e la sostanza di ciò che troveremo lungo il cammino. Mitologia, fantasia, immaginazione, ma anche realtà, dolore, e, dall’interazione di tutti gli elementi, la tenacia di volere scrivere di sé, tramite una poesia che si estende nell’arco di una vita intera. Il sottotitolo del libro è secco e sintetico: “Poesie 1998-2010”. Una parola e due cifre. Scorrono via in un fiato o con uno sguardo. Ma se si scrutano bene, danno il senso di un rapporto ininterrotto con il proprio fare ed essere poesia. Ossia tra l’immedesimazione costante e schietta, senza infingimenti, tra il proprio mondo e il mondo esterno, visto, percepito e registrato tramite lo strumento della parola.

Si inizia con una silloge scritta lo scorso millennio, nel 1999, quando imperava non solo il terrore dei bug in grado di bloccare i computer ma anche di qualcosa che fermasse qualcosa di ben più ampio, l’esistenza stessa del genere umano. Una paura atavica, eppure presente. Si inizia, quindi, e forse non è un caso, con una fine. Una fine potenziale, una sorta di bacillo del pensiero, una paura globale, diffusa come un contagio, una malattia. Ma la danza degli ossimori è tempistica e altrettanto puntuale. Il titolo della prima Sezione (o silloge) è “Frecce di luce”. Una possente, vitalistica sinestesia. Linguistica e tematica. La vita, nonostante tutto, sfreccia oltre, supera i confini, anche dei millenni. E, poiché nulla sembra casuale in questo libro e nelle tessere che ne compongono il mosaico, le prime parole sono una sorta di chiave ulteriore, per il passaggio specifico e per il volume nel suo insieme: “La scienza può spiegare il meccanismo che regola la natura/ ma non il fascino che essa emana”. Poco oltre, al lato opposto della stessa pagina, versi che, nell’atto di negare l’assunto, in realtà lo confermano, o confermandolo lo negano, aggiungendo una nota umanissima, schietta e rivelatrice: “Sorprendimi cuore/ lascia che io erri./ Non temo i tuoi tetri misteri”.

L’ho scritto in altre occasioni e lo confermo anche qui ed ora: Claudia Manuela Turco è un’autrice, che, nella sua scrittura, sa mostrare il suo cuore nudo, trova il coraggio di superare pudori e timidezze per poter esprimere davvero ciò che sente. Non per fare sfoggio di sé, atteggiamento contrario al suo modo di essere, ma, piuttosto, per mostrare ciò che sente, il suo schierarsi con ciò che ritiene giusto, pagando anche di persona per le cause in cui crede. “Poesia, raccontami!”, scrive a pagina 13. La frase può essere letta in due modi. Come un invito alla poesia a raccontare storie e mondi, oppure, sul versante opposto, come una richiesta alla poesia affinché faccia da tramite e le consenta (come niente altro può fare) di raccontare se stessa, ciò che davvero è, al di là di ogni filtro protettivo e di ogni maschera pirandelliana indossata per sopravvivere alle pressioni del vero.

Ma il punto, è giusto e opportuno ribadirlo, è che la sostanza di questo volume, così come accade per i vari libri della Turco, anche in prosa, non è mai fuga dal reale. Si tratta, piuttosto, di un paziente, accurato ed accorato lavorio interiore: un dialogo ininterrotto tra ciò che è esterno e ciò che è interiore, tra la pena e la tenacia del sogno. L’invocazione alla poesia perché possa raccontare e raccontarsi, prosegue immediatamente dopo con questi versi: “Solo in brevi sprazzi,/ affinché tu possa rendere sopportabile/ il dolore che nutre questa bellezza”.

Al di là del valore estetico di questi versi, in particolar modo dell’ultimo, ritengo si possa individuare qui un primo, essenziale, irrinunciabile, codice di accesso all’universo variegato di questo libro e più in generale della produzione dell’autrice. Da un lato il dolore dall’altro la bellezza. La disfida è questa. La posta in gioco è la vita, o meglio la “vivibilità”. Perché il dolore c’è, ineluttabile, in attesa come un sicario. Ma altrettanto presente è la bellezza. Si potrebbe dire che sono elementi antitetici. Oppure che la bellezza è la cura. Ma sarebbe troppo bello, o più esattamente troppo semplice. Perché l’errore è considerare la sfida simile ad una partita di tennis in cui ciascun contendente resta dal suo lato del campo. In realtà si tratta di qualcosa di molto più simile ad un incontro di boxe, in cui, dopo essersi massacrati di colpi fino a sfinirsi i due si trovano abbracciati, per non cadere a terra, e allora scoprono di essere fatti della stessa carne, le stesse ferite. Accade allora che, nel momento di quell’intuizione, “in uno spillo di luce/ ritrovi la vita, in un’ombra, un velo del cielo”.

Le armi, o più propriamente le medicine, sono arte e natura: “attraverso bifore e fughe d’archi/ scorgo/ un bosco rapito/ in un intenso sussurro”. Moltissime poesie di questo libro sono precedute inoltre da epigrafi tratte da poetesse e poeti cari all’autrice. In italiano e nel dialetto friulano. Non si tratta di abbellimenti estetici ma di vere e proprie occasioni di interazione, confronto e dialogo. Sono troppi gli esempi possibili per poterli citare o anche solo riassumere. Mi limito a citare la lirica “Appaganti vuoti avvolgenti” di pagina 40, in cui i versi di Raymond Carver ben si sposano con il desiderio dell’autrice di contrastare l’horror vacui, esaltando piuttosto la sensualità di una solitudine densa, pienissima.

A confermare ulteriormente l’interrelazione tra i testi del volume, non frammenti isolati ma parti di un organismo, si trova a pagina 43 proprio un riferimento all’orrore del vuoto: “Papaveri/ in verdeggianti ricordi,/ riempiono la mente/ di un anestetico horror vacui./ Ma vincono spigoli e archi rampanti./ Il lungo pianto di oggi/ varrà/ il breve sorriso di domani.”

“La strada è illuminata dal dolore anche di notte”, scrive Annenskij, riportato nell’epigrafe della poesia di pagina 54. Partendo da questa annotazione ineludibile, l’autrice traccia con segni secchi ed essenziali un ritratto del mondo, anzi della notte del mondo. “Mi allontano da tutto ciò”, aggiunge. E ancora una volta riesce a farlo solo su un magico puledro, la poesia, la sola che vive e fa sopravvivere. E il punto è se sia possibile o meno sovrapporre quel magico puledro con il Centauro del titolo. Forse no o forse sì. Ma ciò che conta è uscire dal labirinto salvando la carne dei pensieri.

Il libro si nutre di ossimori e contrappunti. È indicativo in tal senso il titolo di una delle Sezioni, “Divagazioni intorno a Duetti solisti”. Nella poesia eponima si osserva che “Allo specchio/ compare sempre/ l’immagine dell’altro”. Una divagazione su uno dei temi fondamentali di tutta la filosofia, ma anche dell’arte e più un generale uno dei nodi fondamentali della mente di ciascun essere umano. Claudia Manuela Turco, coerente con il suo approccio di donna e di poetessa, non tenta di sciogliere il nodo. Ne percorre però, con intensa e accurata leggerezza, le traiettorie e le intersezioni. E tra le numerose variazioni sul tema, alcune si stagliano con la nitidezza di quadri giapponesi uniti a picassiane descrizione degli effetti delle battaglie: “La vita/ un battito d’ali bianche/ su una barricata di fucili.”

Tra i quadri del mondo, non come opera isolata, ma come parte dello stesso padiglione, in antitesi e allo stesso tempo in simbiosi, compare a pagina 122 una dedica-autoritratto, quasi alla Van Gogh: “Alle infanzie non vissute,/ e ai cani eterni bambini/ che mi hanno resa fanciulla per sempre/ pur non essendolo mai stata”. Di fronte a questo dipinto di parole, rimaniamo a guardare, e, poiché tutto qui è correlato, ripensiamo ai versi citati nel paragrafo precedente, quelli in cui si fa riferimento allo specchio e all’immagine dell’altro. Sì, perché, proprio nel punto del libro in cui l’autrice parla più schiettamente di sé, finisce per fornire un ritratto anche di ogni potenziale e reale lettore di questi suoi versi.

E allora diventano inesorabili, e assolutamente nel tempo e nel luogo giusto, i versi di Majakovskij. “prenderò il mio cuore/ per portarlo/ irrorato di lacrime/ come un cane/ che porta/ nella sua cuccia/ la zampa stritolata dal treno.” Eppure, e lo dice Munch, l’autore de L’Urlo, “la gioventù era una camera di malato/ e la vita una finestra radiosa illuminata dal sole”. Tra questi estremi si muovono i versi del libro. Non in linea retta ma con “Traiettorie vaganti”, citando il titolo della lirica di pagina 148, la cui epigrafe è tratta dai versi Marco Baiotto, compagno dell’autrice, “Se la musica è variazione di uno fratto effe/ non voglio saperlo/ distinguo da solo il rumore/ dalla melodia del fiume.”

Questo libro si muove tra riflessione e stupore, e ancora una volta il punto più intenso si trova nella fusione, non nella contrapposizione. Nella poesia di pagina 160 l’autrice, partendo dai versi di Montale, parla del profumo dei limoni. Da quella immagine che è anche aroma e polpa tangibile, nutrimento per gli occhi e per il corpo, arriva al punto di ispirazione ed esaltazione che le fa osservare e descrivere l’esplosione di “sorrisi/ incendi/ danze di parole”. La connessione tra i limoni e la poesia stessa (esplicitata nella pagina a fianco) è tutta in quello scarto, quel salto, quell’esplosione senza morte, forse, per qualche istante, perfino senza dolore.

Uno dei punti di forza del libro è nella varietà, nella gamma ampia e diversificata di accenti, toni e colori. A pagina 173 si parla di cicatrici nascoste: “il sangue ribolliva; la carne/ emanava odore di polvere da sparo”. Sembra poesia russa, Pasternak dei momenti del terrore, delle spade che recidono le braccia. Non molto oltre, a pagina 177: “Cielo di paillettes/ di pagliette/ cielo di squame luminescenti/ alabastro e rose blu”.

C’è poi, in questo ampio e suggestivo caleidoscopio, anche un omaggio a Maria Grazia Lenisa e alla sua Ragazza di Arthur, passione e femminilità che neppure la malattia e il dolore hanno sconfitto del tutto.

C’è “il mare che brucia le maschere” e c’è il rischio ma anche il privilegio della sincerità, quella a cui si è fatto cenno all’inizio e che ritorna, sempre vivida, capace di stupire e chiamare a sé.

Questo libro offre un panorama ampio della produzione poetica di un’autrice che ha saputo crearsi uno spazio espressivo riconoscibile ed autentico, una voce lontana dai cori e dalle nenie. Con lieve ma intensissima dolcezza e determinazione, prosegue il suo percorso di autrice coerente con se stessa e con ciò in cui crede. Anche in questo libro ha saputo esprimere il coraggio dell’autenticità, parlando del dolore e della malattia (anche del male di vivere) senza mai cedere alla tentazione del patetismo, conservando una forza che rifugge dalla violenza ma anche dalla tentazione della resa. Il Centauro, a dispetto di tutto, esiste, ed è vivo. Forse è un mito, o forse è realtà, o entrambe le cose insieme. Forse è il mistero, semplice e imperscrutabile, della vita e della poesia.

                                        Ivano Mugnaini

 

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BIOGRAFIA

Claudia Manuela Turco (Brina Maurer), è nata a Codroipo il 15 dicembre 1970. Poeta, romanziere, biografa e critico letterario, vive nella campagna friulana.

Il 22 febbraio 1996 ha conseguito, a pieni voti assoluti con lode, la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Udine. Da Margherita Azzi Visentini ha ereditato l’interesse per la Storia dei Giardini, da Guido Zucconi quello per l’Urbanistica e l’Architettura Contemporanea. Innamoratasi di Alfieri durante le lezioni di Clemente Mazzotta, attratta dalle eccezioni e dalle minoranze, scrive combattuta tra due fuochi: Vittorio dalle labbra verdi e Lord Byron.

Ha frequentato alcuni corsi di perfezionamento per insegnanti e di alta cultura presso l’Università di Udine e la Fondazione Giorgio Cini di Venezia ottenendo una borsa di studio, ha lavorato in un ufficio farmaceutico e in alcune gallerie d’arte. Il 22 marzo 2001 a Torino ha sposato il poeta Marco Baiotto.

CMT/BM ha collaborato con “Il Convivio” (ideando una traccia di manifesto letterario in forma di decalogo) e con molte altre riviste e siti Internet, scrivendo recensioni e approfondimenti critici (complessivamente circa 200 contributi, prevalentemente su autori italiani contemporanei ma anche su autori classici come Carducci e stranieri come Hŏ Kyun); in qualità di collaboratore redazionale del periodico “Literary” è diventata giornalista pubblicista ed è rimasta iscritta all’albo del Friuli Venezia Giulia per diversi anni.

Ella elabora progetti di ricerca letteraria volti a una originale provocazione della modernità. Costanti della sua poetica: il voler dar Voce a chi la cui Vita non gli appartiene, l’umanità degli animali (suo primo ed eterno amore, i cani), l’animalità dell’uomo, la dimensione di solitudine e malattia cui è condannato il diverso tra i diversi.

Il 25 giugno 2007 ha adottato Glenn, protagonista di un ciclo narrativo che supera le 1600 pagine, e il 1° agosto 2011 il cagnolino Mughetto, al quale ha dedicato un diario in forma di epistolario.

CMT/BM ha scritto più di 20 libri ed è presente nell’Atlante Letterario Italiano – Le biografie (Libraria Padovana Editrice) e nell’antologia on line  Italian Poetry curata da Mondadori, Einaudi, Aragno e Biblioteca dei Leoni (www.italian-poetry.org: “Claudia Manuela Turco”).

Sue poesie sono state tradotte in inglese americano e greco moderno.