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Premio Astrolabio 2022/2023 – proroga scadenza

AstrolabioCultura mi segnala la proroga del Concorso “Astrolabio 2022/23 – Sono nata per amare”. Riporto qui di seguito il bando con le indicazioni riguardanti la nuova data di scadenza.

IM

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ASTROLABIOCULTURA – Su richiesta di numerosi autori che stanno ultimando le proprie opere per la partecipazione al Premio Astrolabio e anche per altri autori che fossero interessati alla partecipazione la Giuria del premio ha deciso di prorogare la data di scadenza al 24 giugno
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Premio Astrolabio – “La resilienza” – bando 2020 / 21 - Ivano Mugnaini

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ASTROLABIOCULTURA

Premio Letterario

“Astrolabio 2022/23 – Sono nata per amare”

Premio Internazionale di Poesia e Microracconti (10a Edizione del Terzo Millennio) dedicato alla memoria di Giorgio Bárberi Squarotti e Renata Giambene
presieduto e diretto da Valeria Serofilli Presidente fondatrice di AstrolabioCultura

Bando di Concorso

AstrolabioCultura, con la collaborazione dell’Editrice Ibiskos Ulivieri, Editrice di Empoli, con il Gruppo Internazionale di Lettura (Presidente fondatrice Renata Giambene), con la Libera
Accademia Galileo Galilei di Pisa e con il patrocinio della Provincia di Pisa, istituisce la decima Edizione del Concorso Letterario Astrolabio allo scopo di promuovere la parola poetica e il componimento di fantasia e al fine di evidenziare nel panorama letterario attuale opere di autori degne di attenzione.
Oltre alle “classiche” quattro sezioni a tema libero, a cui si concorre con le modalità qui sotto specificate, gli autori potranno inviare lavori ispirati al tema: “Io, nell’ordine naturale, sono nata non per odiare, ma per amare”, tratto da Sofocle, Antigone, v. 523. Le autrici e gli autori che intendono concorrere a questa sezione dovranno specificarlo all’atto dell’invio dei loro componimenti.
SEZIONI A TEMA LIBERO
Prima sezione:
Volume edito di poesia per un’opera in versi pubblicata a partire dal 2010. Inviare due copie del volume di poesia. Solo una delle copie dovrà recare i dati completi dell’autore, assieme ad un breve curriculum biobibliografico e ad un indirizzo di posta elettronica.
Seconda sezione:
Silloge inedita (minimo 10 poesie – massimo 20) in due copie. Soltanto una delle copie dovrà recare il nome e l’indirizzo completo, comprensivo di indirizzo di posta elettronica dell’autore. È gradito un breve curriculum da allegare in busta chiusa.
Terza sezione:
Poesia singola a tema libero. Si partecipa inviando da una a tre poesie edite o inedite. È consentito inviare anche poesia già premiate in altri concorsi.
Inviare le poesie in 2 copie di cui solo una dovrà recare i dati completi dell’autore, un breve curriculum e un indirizzo di posta elettronica.
Quarta sezione:
100 parole per un racconto, riservata a un microracconto edito o inedito. Tema: libero.
Caratteristiche del testo: Word Times New Roman corpo 12, Lunghezza: non superiore a 100 parole.
La sezione è aperta agli autori di età superiore a 16 anni.
Inviare il testo in 2 copie di cui solo una dovrà recare i dati completi dell’autore, un breve curriculum e un indirizzo di posta elettronica.
Per inedito s’intende opera mai apparsa in volume individuale.
A partire da questa edizione, è consentito, per tutte le sezioni di concorso, anche optare per
INVIO DELLE OPERE CON POSTA ELETTRONICA.
Gli inediti, gli ebook e i PDF dei libri editi possono infatti essere inviati anche per posta elettronica al seguente indirizzo: premioastrolabio7@gmail.com
Per la partecipazione con lavori inediti è sufficiente inviare un file anonimo in formato Word .doc oppure PDF.
In un file a parte indicare le proprie generalità e i recapiti, indirizzo e posta elettronica.
I concorrenti che intendono inviare libri editi devono allegare alla mail anche un file con l’immagine di copertina, se non presente nel PDF, e specificare nel corpo della mail da quale casa editrice è stato pubblicato, o se si tratta di libro autopubblicato.
Per tutte le sezioni è inoltre richiesto l’invio, sempre nella stessa mail contenente il PDF del libro e l’immagine della copertina, della seguente
DOCUMENTAZIONE:
Scansione o fotografia chiara e ben leggibile di:
° Modulo di partecipazione compilato in ogni sua parte.
° Ricevuta di pagamento della quota di partecipazione
Giuria
Presidente Valeria Serofilli (Presidente fondatrice di AstrolabioCultura, poeta e critica letteraria). I Membri di Giuria saranno resi noti in sede di premiazione.
Comitato d’Onore
Pier Paolo Magnani (Assessore alla Cultura del comune di Pisa), Paolo Ruffilli( poeta). Regolamento
Le opere concorrenti, complete di copia del versamento, scheda di iscrizione (reperibile in calce al presente bando), curriculum dell’autore e breve sinossi dell’opera, vanno spedite (evitando l’invio tramite posta raccomandata) al seguente indirizzo:
Segreteria Premio Astrolabio, via Ciardi nr° 2F, 56017 Pontasserchio di San Giuliano Terme (PI)
entro e non oltre il 15 maggio 2023 (farà fede il timbro postale).

(scadenza prorogata al 24 giugno 2023 )

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SUONALA ANCORA SAM – For new times’ sake

 Un mio omaggio al cinema e alla sua imperscrutabile magia.

Suonala ancora Sam.

Magari, in questo nuovo anno, con una nota diversa. Una nota in più.

For new times’ sake.

Buona lettura, IM 

Casablanca: suonala ancora, Sam! | la bottega del calciofilo

 

    Lo ricordo benissimo. Lo ricordo, e, ne sono certo, porterò con me quelle immagini per sempre. Per me “Casablanca” non è un film. O meglio, non è solamente una vecchia pellicola. “Casablanca” per me è la gioventù, alzarsi alle cinque di mattina e non sentire un filo di stanchezza, correre per le strade con la fame di voci, suoni, odori, il coraggio e la voglia di guardare la vita dritto negli occhi. “Casablanca” è il mio lavoro di ragazzo, la finestra da cui mi sono affacciato per la prima volta per vedere come gira il mondo. Avevo sì e no diciassette anni. Un colpo di fortuna straordinario per me trovare un posto di lavoro a quell’età e con la guerra che metteva a ferro e fuoco il mondo intero. Mio padre grazie ad un amico impiegato della casa cinematografica era riuscito a farmi assumere con la qualifica di “trovarobe”. In realtà ciò che facevo era molto più vago e confuso. Un po’ di tutto e un po’ di niente. Un giorno ero costretto a galoppare senza tregua da un posto all’altro, quello successivo mi trovavo con le mani in mano a guardare la troupe e gli attori come uno spettatore qualsiasi. Ero una specie di fattorino del regista, un cameriere, un servitore muto. Se lui mi urlava “C’è bisogno della luna, Jim! Vammela a prendere”, io, senza aprire bocca, partivo e andavo. Tornavo con un enorme riflettore preso a prestito dalla caserma dei pompieri, oppure, quando non avevo voglia di faticare nel trasporto, mi ripresentavo trionfante con in mano un dollaro d’argento lucidato a dovere. Al regista andava bene in ogni caso. Piazzando la cinepresa in un certo modo riusciva a ricavare da ogni oggetto ciò che voleva. All’inizio credevo fosse una sorta di mago. Poi ho capito: è tutta questione di prospettiva.
            Il regista di “Casablanca” era attento, preparato. Sono convinto tuttavia che anche lui, come l’intero set, gli attori, le maestranze, gli autori e gli sceneggiatori, fosse in qualche modo soggetto alla direzione di un regista ulteriore, invisibile ma estremamente abile. La sorte, il caso, il colpo di vento giusto che sposta la macchina da presa di quel centimetro necessario a trasformare un film potenzialmente mediocre in qualcosa da ricordare.
            Il film della mia gioventù è nato come una scommessa, un azzardo, una sfida al buon senso, ed anche, per certi versi, al buon gusto. Qualcuno ha pensato che, con un budget misero, ridotto all’osso, si potesse ricostruire in uno studio hollywoodiano di seconda schiera il più trafficato dei porti nordafricani. Qualcuno ha ritenuto che si potessero ricreare le atmosfere di una città fascinosa e maledetta spandendo sul set un po’ di vapore acqueo a mo’ di nebbia. Qualcuno, temerario e fortunato più di Marco Polo, si è detto convinto che Humphrey Bogart, sì, proprio lui, fosse in grado di recitare un ruolo romantico.

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THE COLOR OF SUNSHINE – English version

Visti i buoni riscontri da parte dei lettori, pubblico anche la versione in inglese del racconto “Il colore del sole”. Questa versione è stata scritta subito dopo quella in italiano, e beneficia della lettura da parte della stessa persona che mi ha raccontato la storia di Kathy e ha ispirato il racconto. Le nuance, e i  colori, sono suoi. IM
Since the readers have appreciated the  short story “Il colore del sole”, I also publish it in English. This version was written immediately after the one in Italian, thanks to the reading from the same person who told me about Kathy’s life and inspired the story. The shades and colors are hers. IM

Illuminating Florida's 'flagship' Sunshine Skyway Bridge - Anna Maria  Island News

 

The color of sunshine

(This is not Thelma and Louise)
 
Sunshine Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
The sea is a blue postcard. As if millions of dwarf slaves of the goddess of beauty painted every drop to make it more beautiful than that of Osaka or Adelaide, much sleeker, more American. It is only a bridge. Nay, it is the way to heaven. The road leading somewhere else, where the blue does not need to be painted and polished every day by the sweat of brow and arms.
Nearby lives Liza, my American beauty.
She loves Italy, and I love her love.
She says that she has Sicilian roots. But she’s like the Statue of Liberty – she comes from Europe but no one remembers that. She laughs, with those teeth eternally young and her brilliant mind far away from self-centered billionaires with hair resembling the fur of unkempt cats. She laughs and runs each day among her true cats, black and healthy, and her smooth lawns, no fences.
Today she has run to the airport, to take me, the sloth Italian drawn by her, by the thought of her flesh and mind, in this huge playground where every step brings you toward astonishment and fear. Where even the morning is bigger, thirstier, and the evening is a smooth lawn to walk and dream on.
She keeps talking and laughing, with that voice that sways like a song on the skin and sinks into the veins. She laughs, and before I can embrace her, she has already told me about her life, her brother, her cousins, relatives, work, the glasses of more and more colorful and alcoholic drinks, friends, gyms, massages, the steps of a lifetime between heat and wind, laughing and crying, perseverance and dreams.
I step into her giant car. She tells me that there, by them, that is a small car, similar to our Panda, the old model, square, still not completely extinguished. She has been in Italy, with her love, far away now. She saw St. Peter and St. Siro, the sun and the frost. She brought with her huge suitcases and heavy memories, regrets of cast iron and lead evenings. She has not stopped loving this crazy and strange country that is ours. But she is here now, in her own world. Playing at home, she is favored. She is the captain of the soccer team, as they say, of my overseas dreams.
She drives without hardly an eye to the road ahead, along wide and straight roads. I look at the road with one eye and at her with the other, and squinting has never been more full of fear and excitement. She brings me, first, to see their most beautiful monument: the Ocean. A huge installation on which no man has put a hand.
We cross the Skyway Bridge. And it’s like flying. Rapid and unstable, away from the ground. Close to the words of the story which, with a more intense laughter, she gives me as a gift.
She tells me of Kathy Freeman. The name is similar to that of the former Australian athlete specialized in speed. But our Kathy is another. She was used to walking slowly. Only in the final moment she accelerated.
Our Kathy Freeman one morning, that morning, prepared some homemade cookies, in her bathroom gently washed the child of a friend, chatted amiably with the neighbors in the early afternoon, then, a few hours later, shot a dozen bullets into her former husband, a successful lawyer.
Soon after she attempted to strangle the companion of her ex spouse, then, at the dawn of the next day, she got into her ’99 Cadillac and headed to the Sunshine Skyway Bridge. Yes, the Bridge of the Sun. The same endless, inescapable thing we are crossing now. She then threw herself into the air from the center span.
She survived. Against all logic, against all odds. Kathy wanted to do a complete job: she also violated the laws of physics.
According to police experts the strong winds of the bay slowed the velocity of her 138 pounds into the void. She was still conscious when, after being at the mercy of the ocean for forty minutes, she was fished out as a relic by the St. Petersburg fire brigade. A first check of her physical condition revealed a fracture of the legs and pelvis. She was taken to the Bayfront Medical Center and underwent surgery. Her condition was critical for internal injuries.
The following afternoon, less than twenty-four hours later, the Hillsborough sheriff accused the housewife and former stockbroker of first degree murder, armed robbery and aggravated assault.
The events have shocked her friends and neighbors. According to the testimony of her dear friend, Michelle, Katherine Freeman was a jovial person who cared lovingly for her daughter and had maintained a friendly relationship with her ex-husband despite their divorce in 1996 after ten years of marriage. She and her husband were two best friends who had gotten married. Michelle remembers that sometimes Kathy said that she missed her husband. And she added, referring to him, “Now I realize how much I liked him as a person.”
Katherine, Liza says again, had come to her husband’s house at eleven thirty in the evening, and had fired several shots at him. Then, after struggling with his current wife, she had fled. She had not returned home to her daughter whom she loved and protected with all her heart. Someone declared that an argument between her daughter and the wife of her ex-husband triggered Kathy’s fury.
The incident surprised those who knew that Kathy and her former husband were an example to point out to all of friendly separation.
The divorce decreed that, after they separated, to her husband had been awarded the marital house, valued at $ 650,000, several apartments, sports cars, and numerous bank accounts and stocks. Kathy had obtained 110.00 dollars in cash and $ 96,000 of alimony, plus half of the furniture and photographs. Grover Freeman, the famous lawyer, had married six months later with Constance (Constant) Elaine King. It happened on October 12. The same day America was discovered. We Italians always meddle. We cannot do without.
However, what matters is that the friends of the former couple claimed in unison that if Kathy had somehow suffered the separation and division, she didn’t show it. Basically it was just one of the many challenges she had faced, and overcome, in her life. In 1983 Kathy’s boyfriend had been shot to death. A year later she was taken hostage and beaten during a robbery in her jewelry shop on E. Busch Boulevard in Tampa. In 1986 Kathy had been assaulted by a stranger who had entered her home while her husband was out of town. Despite all this, her friends state, Kathy was not aggressive or resentful.
“Life goes on”, was her philosophy.
Recently, continued her friend Michelle, she was very full of optimism and had planned to take her daughter to Hawaii. When she spoke of her former husband, says Janine Rosen, she did it with respect. Indeed, with admiration for the successes he had managed through his work. But perhaps, says Janine, Kathy hid behind her jokes, spread via e-mail to friends and behind the parties that she organized for the neighborhood kids, her pain.
The Bridge is almost finished.
For sure the story of Kathy is over. The story that my beloved American baby (beautiful alliteration) told me in detail.
Liza adds some images. She always does. She does it as only she can do, with sweet malice, just like the ocean below us, that lulls us and would like to swallow our bodies.
Liza makes me reflect on the summary process. Here they do them quickly seriously, the trials. Sometimes better than a direct train would be an “accelerated”, or a regional, a train which stops at all the small stations. She tells me to try to imagine Kathy completely immobilized in plaster, present as a tragic and ridiculous statue to the trial where they tear to pieces and badly reassemble her life. Liza informs me that the Skyway Bridge is the suicide bridge. Every day there is a row of aspiring birds without wings.
She adds that some days, especially on Christmas Eve, there are volunteers who patrol the bridge to try to dissuade depressed men and women from taking the extreme action.
She tells me that she often thought about the Skyway Bridge. With love. I cannot stand her now, I cannot even watch her. I have a cramp in my stomach.
I would like to kill her. Without even preparing, the morning before, biscuits and baby baths.
I would like to return to Italy.
But through water routes.
I would like to throw myself into that sea larger than the world.
Then my lovely friend opens her mouth again.
She invites me to think how beautiful Kathy would be with her red hair blowing in the wind during her flight.
Before the impact.
When she was still air and freedom.
I, now, want to kiss her.
I look forward to the moment when the bridge is finally behind us. I cannot wait to get to Liza’s house, her patio, her swimming pool, her red bed always full of cats, books and phones. Always warm, always to be made.
I, now, I want to embrace her.
Skyway Bridge will forgive me.
Maybe on my way back I will think about it a little, about the jump.
Not now.
I have to think about what to say to convince Liza to wear that really small yellow bikini for me. The color of sunshine, yes! Like the bridge.

 Ivano Mugnaini

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THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole

Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM

bellissimo - Recensioni su Sunshine Skyway Bridge, Tampa - Tripadvisor

The color of sunshine

Lo Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza muri, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperti della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle. Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre da rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.
Ivano Mugnaini
 
 
 
 

Nuvolario. Nuvole, parole, follie

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Il racconto è strano: parla di nuvole, pioggia, parole, follie…

Ma a volte le nuvole, la pioggia e una tenace, umanissima follia spazzano via follie peggiori.

A TU PER TU con Chiara Rossi

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

Inauguro oggi la rubrica A TU PER TU – Una rete di voci.
L’obiettivo della rubrica è riportato qui sotto.
L’intento è quello di porre cinque domande fisse ad artisti e letterati provenienti da ambiti, nazionalità ed esperienze diverse ma accumunati dalla capacità di dialogo, dalla tendenza a “fare rete” creando connessioni e interazioni, quanto mai preziose nel tempo che stiamo vivendo.
Inauguro la rubrica con Chiara Rossi, di cui riporto in calce all’intervista anche un racconto e alcune note biografiche che ho ricavato dalla sua pagina di LinkedIn.
Chiara è giornalista, lavora nell’ambito dei progetti editoriali e di comunicazione, e scrive, tra l’altro, ottimi lavori teatrali. La lettura dell’intervista, del racconto e della nota biografica, forniranno un quadro più completo delle sue attività professionali e creative che, chi vorrà, potrà approfondire tramite i link riportati nell’intervista.
Presto pubblicherò le risposte di altri autori ed autrici.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.

Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.

Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.

Saranno volta per volta le stesse domande.

Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

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5 DOMANDE A

Chiara Rossi

1) Il mio benvenuto, innanzitutto. Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie per l’ospitalità squisita e pregiata, prima di tutto. Sono molto onorata di stare in compagnia di tanti Autori importanti e stimolanti.

Di me. ‘Longobarda’ di nascita, ligure di adozione: vivo a Santa Margherita Ligure, elegante borgo lambito dai lampi blu e dalle lingue verdi del mare, che ho il privilegio di ammirare dalle finestre di casa.

Sono giornalista pubblicista dal 1992, laureata in Esperto nei processi formativi e in Scienze dell’Educazione degli Adulti e della Formazione continua. Le mie esperienze professionali sono legate a progetti editoriali e di comunicazione, oltre che di consulenza e coaching nell’ambito della redazione di tesi di laurea in Scienze umane e psico-sociali e di writing coaching. Curriculum professionale e artistico completo su LinkedIn, www.imaginabunda.it

Appassionata di scrittura (in tutte le sue declinazioni, ghostwriting compreso) & musica, viaggi & fotografia (adoro incrociare gli sguardi di persone che vivono in paesi lontani), sociologia delle religioni & cultura del mondo islamico, nonché di molte altre cose… credo fermamente nel LifeLong Learning e nell’utilità dell’Inutile, ossia dei saperi (meglio se contaminati e connessi) che, pur non producendo guadagno, migliorano l’Uomo. Nella mia ottica, sono più importanti le domande che le risposte e imparare che sapere; lo stupor è la molla di ogni conoscenza. È questo, che spesso mi fa trovare ciò che non sto cercando, facendomi sentire viva.

Soprattutto scrivo. Ritengo che scrivere storie – che a mio parere affondano sempre le loro radici nella Mitologia, in quanto rivelatrice di senso – sia un complesso progetto di ingegneria & architettura narrativa, in cui l’accuratezza intellettuale debba fondersi in curiosità, entusiasmo e competenze necessariamente trasversali: per concepire narrazioni occorre essere immaginatori di professione.

Della mia scrittura. L’aura sacrale della Scrittura discende dalla consolidata convinzione che sia dono degli dèi. Non a caso il profilo di Thot, nume tutelare degli scribi dell’Antico Egitto, in quanto divulgatore della Scrittura (inventata però dalla sua controparte femminile: Seshat, la ‘Signora della Casa dei Libri’), caratterizza il mio logo.

Da sempre mi affascina la potenzialità di un foglio vergine, che m’invita, seduttivo come la duna intatta di un deserto, pronta ad accogliere le mie orme: la pagina bianca è una possibilità.

Fin da giovane, mi appartiene un atteggiamento riflessivo, sostenuto dall’idea che i pensieri che penso mi possiedono, e così mi sono sempre data la forza di sottrarmi alle versioni già dette del mondo, ai territori rassicuranti dei paradigmi predefiniti, azzardando la ricerca di altre partiture della mia essenza pensosa. Da questo, il vezzo di annotare frasi e citazioni su taccuini, che custodisco con affetto: quelle scritte, tracciate con inchiostri colorati, sono ‘segni’ del mio modo di attraversare l’orizzonte del mondo.

Ho una certezza: le parole si toccano, si scelgono. Le parole si guardano. Si ascoltano. Prima di leggere quelle scritte, infatti, le osservo: le assaporo visivamente, tentando di intuirne il significato; deformazione professionale – l’editing e le impaginazioni editoriali – ma anche conseguenza dell’attrazione che esercitano su di me Arte, Estetica e Calligrafia. La Scrittura ha molto a che fare con le immagini, nel suo organizzare le parole nella complessità spaziale della pagina, in fondo, proprio come fa la Vita, che si costruisce sulle intersezioni della memoria, della visione e dell’attesa: uva acerba, uva matura, uva passa. Tutto è trasformazione, non verso il non essere, ma verso ciò che non è ancora. Marco Aurelio ne era convinto.

Iscritta al Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC), Roma; alla Societá Italiana Autori Drammatici (SIAD), Roma; alla Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), Roma, alla Federazione Italiana dei Cineclub (FEDIC) e alla SIAE, sezione DOR (opere drammatiche e radiotelevisive). Faccio anche parte della comunità di autori di www.dramma.it (N.d.R. curriculum artistico completo), www.autoriexpo.it e di SCRIBIOMEMO (gli Scribi di Memoria) e sono membro del comitato scientifico di CROMOSOMA T(eatro) – Teatro & Drammaturgia tra evoluzione e tradizione, collana di teatro e spettacolo edita da Pro(getto)scena edition, Milano, di cui sono anche vice-presidente. http://www.progettoscena.it/progettoscenaedition/

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni? Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale. Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica). Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

Tra i miei lavori più recenti, scelgo di parlare di UNA LUNGA NUOTATA, testo teatrale in corso di pubblicazione, avendo vinto la terza edizione (2019) del Premio letterario nazionale Macabor, e già finalista alla quarta edizione (2018) del Premio CENDIC Segesta alla drammaturgia italiana contemporanea, Roma.

Un anno prima della sua morte nel 1986, l’Ente israeliano per la Memoria della Shoah insignì del riconoscimento di Giusto tra le nazioni Chiune Sugihara, unico giapponese ad avere il suo nome inciso nel Giardino dei Giusti del museo Yad Vashem di Gerusalemme, per aver rilasciato (nel 1940, disobbedendo agli ordini di Tōkyō) visti di transito per migliaia di Ebrei Lituani in fuga dalla Polonia e da altri paesi dell’Europa orientale durante l’occupazione nazista.
Da questo spunto, che crea lo sfondo, nasce la pièce teatrale, in cui, a partire dalla figura di Lucio, mai presente in scena, si intrecciano le storie di Dalya, Lucilla e Metella, tre donne inconsapevolmente legate da un destino comune, che inciderà per sempre sui loro reciproci rapporti. Dalla lunga nuotata – quale è stata la vita della protagonista – si evince che, al di là di allusioni, illusioni e delusioni, esiste una quinta stagione: quella che appartiene alla scelta di viverla, come ognuno di noi la crea. Nella vita di Dalya, felicità, sofferenza e amore sono accaduti per grazia, avendo potuto scegliere le diramazioni in cui incamminarsi, sarà per questo che “Alla soglia degli ottant’anni, mi sveglio e mi scopro allegra”, afferma nel monologo finale, e che “Più viva di così non sarò mai”.

Critica. Violetta Chiarini – per la quale il Teatro rappresenta il fil rouge di una lunga e prestigiosa carriera di attrice, cantante e autrice – nella prefazione al volume in stampa, scrive:

Un testo che piacerebbe a Robert Mc Kee, il maestro della moderna sceneggiatura, perché risponde perfettamente alle leggi della narrazione che sono le stesse per tutte le forme in cui essa si può declinare. Stiamo parlando di quella che certamente è una virtù di Chiara Rossi, il suo eclettismo, inteso nel senso umanistico rinascimentale del termine, che affonda le radici nel suo studium, nel significato latino, cioè desiderio, aspirazione, sete di sapere.

(…)

Attraverso il suo testo, Chiara Rossi esprime la propria visione del mondo e della realtà. In particolare, ha scelto di comunicare la sua Weltanschauung con pregnanti monologhi delle protagoniste a se stesse, anziché con l’evento scenico che è proprio del teatro e lo distingue dalla mera letteratura. Se tale opzione potrebbe far sembrare didascalici i monologhi stessi, subito l’impressione svanisce, perché si è conquistati dallo stile della scrittura: un linguaggio elegante, immaginifico, colto, che si potrebbe pensare rivolto a un pubblico di nicchia, e invece è talmente ricco di immagini poetiche, tenere, suggestive, piene di grazia e piacevolezza, splendide, che riesce ad arrivare anche allo spettatore meno preparato, perché, si sa, la vera poesia arriva al cuore di tutti.

Queste parole ovviamente mi gratificano particolarmente, perché ho da sempre molto rispetto e cura delle parole. La Scrittura, che ritengo sia un continuo andare e venire lungo la linea che collega l’Urlo (l’azione non verbale che esprime una pura emozione) alla Mania (la tecnica e la parola assolutamente controllata, in cui nulla sfugge), mostra la sua vocazione euristica nel bisogno di continua (ri)scoperta del sé: sono convinta che sia la coltivazione di noi stessi, attraverso un esercizio appassionato di riflessione & interpretazione, di immaginazione & narrazione; e che sia un percorso di formazione trasformante, che muove dalla triade: Conoscenza, Coscienza, Cultura.

Concept. La gestazione di Una lunga nuotata ha avuto tempi per me insolitamente lunghi, perché, dato che si scrive perché si ha qualcosa da dire e non viceversa – come giustamente affermano i letterati – non trovavo un’adeguata chiave di lettura per affrontare una tematica che, in questi anni più recenti della mia vita, mi ha posta di fronte a parecchie considerazioni a livello personale: quella del rapporto zia vs nipote. Nella mia esperienza privata in questo ambito, affetto e tensioni si sono miscelati e, forse proprio per questo, mi sono spesso domandata come mi sarebbe invece piaciuto sperimentare uno scambio emotivo positivo e costruttivo con una zia. Da qui la writing quest, poi sfociata in questo testo teatrale (che probabilmente diventerà anche uno script per lungometraggio), in cui ipotizzo una relazione a cui avrei sinceramente ambito.

3) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe? In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?

Ho ricevuto premi e riconoscimenti – alcuni anche con relativa pubblicazione dei testi – per la mia scrittura drammaturgica, cinematografica e narrativa, il che testimonia che mi attrae e mi stimola sperimentare tipologie di scrittura in diversi ambiti. Ho al mio attivo un paio di romanzi, scritti a sei mani (Viola & Riccardo, attualmente in fase di stampa), racconti, script cinematografici per corto- e lungometraggio, ma soprattutto testi e monologhi teatrali. Mi dedico raramente alla Poesia, ma la mia scrittura viene spesso giudicata ‘poetica’.

Scrivere per il Teatro, nelle mie intenzioni, è dar voce, attraverso immagini e azioni, a un’urgenza – hic et nunc –, grazie alle parole che cadono dalle situazioni, nella logica del vedere-pensare-parlare. Avere uno sguardo poetico e poietico sul mondo è però anche resilienza, è andare ‘oltre’ il limite intrinseco dell’Uomo (la Morte), per rimettere la Vita e la Speranza al centro.

In questa nostra società globalizzata, sovraffollata di ‘narconauti’, in cui nulla è stabile né prevedibile, ma tutto è incerto (nell’accezione di Bauman, quando parla di ‘modernità liquida e rarefatta’ e unsicherheit, insicurezza) e il tema del rischio (come propone Beck) aleggia cupo, accrescendo la paura, la Scrittura si conferma più che mai arma potente, forma di comunicazione e di svelamento di se stessi a se stessi.

Essa trova una delle sue più feconde aperture nel Teatro contemporaneo, luogo ideale per la sperimentazione, la ricerca e la contaminazione tra le arti.

Dal mio percorso di studi, discende la mia personale applicazione pratica nella Scrittura (sia professionale che creativa) del Systems Thinking (il Pensiero sistemico nell’accezione di Peter Senge): le connessioni più interessanti e utili tra gli elementi che compongono la realtà, infatti, a mio parere, non sono quelle lineari – di concatenazioni di cause e di effetti – ma quelle circolari, i feedback e i loop, che rendono quegli elementi non solo connessi, ma anche interconnessi, non solo dinamici, ma anche interattivi. E proprio qui colloco le mie writing quest e la mia ricerca di equilibrio tra costante apprendimento (tecnico e cognitivo) e ingaggio emotivo (imparare sempre più ad ascoltarmi e a comprendere meglio il mio bisogno di scrivere e le mie domande, cui attribuisco più importanza che non alle risposte).

La comprensione della connessione e della dinamica delle parti e del tutto si dà come caratteristica fondamentale dell’intelligenza operativa e creativa: Non importa quello che stai guardando, – avverte ilfilosofo Thoreau – ma quello che riesci a vedere, là dove ‘vedere’ significa capire, scoprire e interpretare ciò che ci circonda.

Praticare la Scrittura creativa – lo affermo per diretta esperienza – comporta effetti benefici:

  • sapersi ascoltati (perché scriviamo per essere letti o per essere messi in scena) ci rende, infatti, più attenti a ciò che diciamo;
  • sentirsi oggetto di attenzione da parte di un ascoltatore empaticamente attento (il cui sé si fa silente, così che l’esperienza dell’Altro risuoni in lui senza che sia filtrata da nessuna valutazione preventiva), intensifica le capacità di pensiero;
  • provare gioia, testimonia che l’emozione creativa sta raggiungendo il suo obiettivo.

4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale? Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?

Scrittura a più mani. Sono sempre stata convinta che percorrere tratti di strada in compagnia di idee e menti diverse costituisca un arricchimento, un potenziamento della creatività. Partendo dall’assunto teorico che gli spazi di possibilità di più neuroni riescano a concepire narrazioni interessanti, ho sperimentato scritture condivise, sia in ambito narrativo che in quello della scrittura drammaturgica e cinematografica. Io sono per mia natura una studiosa, una persona inquieta che non si accontenta e continua a cercare, il che mi porta sempre a nuovi approdi che disegnano nuove rotte. Purtroppo, mi è capitato di riscontrare che non sempre i partner di scrittura sono spinti dalle mie stesse motivazioni, dalla mia accuratezza che si appoggia su disciplina e metodo, su tecniche base imprescindibili (non basta la sola ispirazione) e su un lavoro preparatorio intenso, per cui, a volte, per me è stato complicato concludere progetti che io stessa avevo proposto di condividere. Resta comunque interessante la verifica sul campo della varietà dei modelli mentali che a volte sono compatibili, a volte creano discussioni: sono quindi molto lieta di aver potuto vivere l’esperienza della scrittura come di un’attività di esplorazione artistica, proprio perché sono incuriosita dalla diversità e dall’unicità di ciascuno di noi.

Punti di riferimento.  Fondamentali sono nella mia ottica i Miti, che non rispondono a domande, ma le rendono indomandabili: con essi ri-scopriamo costantemente il fascino del meraviglioso, che è quello di far dimenticare a chi legge/ascolta di chiedere spiegazioni (uno spettatore/lettore deve abbandonarsi al racconto). Grande la mia ammirazione nei confronti di Ghiannis Ritsos, poeta e drammaturgo che ha riscritto il mito, creando un esemplare collegamento all’antica drammaturgia ellenica classica, riscoprendone l’incredibile attualità.

Imprescindibile, poi, la mia devozione nei confronti dei Classici (i Greci, Shakespeare, Wilde, Pirandello…), che non vengono dal passato, ma dal futuro, come afferma Mario Sciaccaluga, essendo dei profeti da cui attingere e imparare, dato che hanno avuto la capacità di osservare il loro presente attraverso la loro conoscenza del passato per proiettarsi a immaginare il futuro.

Tra i moltissimi autori, cito, anche per esempio Yasmina Reza, per la sua disarmante abilità ritmica nella scrittura teatrale di costruire il crescendo con delle domande, per rendere incalzante il dialogo o la variazione di una frase.

Concludo, lasciando la parola a un altro famoso drammaturgo, sceneggiatore e regista David Mamet, che stimo anche per questa sua riflessione: Viviamo in un mondo straordinariamente degenerato, interessante e incivile, in cui le cose non quadrano mai. Lo scopo del dramma autentico è di aiutarci a ricordarlo.

5) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale. Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare? Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

Fino all’anno scorso pronunciare il vocabolo virus ci faceva pensare di aver a che fare con le tecnologie, i guai ai sistemi operativi, i ‘bachi’ nell’hard disk o nei sistemi di comunicazione. Oramai, invece, abbiamo tutti imparato che siamo costretti a convivere con un insolente quanto enigmatico Covid 19, parassita intracellulare obbligato, costituito essenzialmente di acidi nucleici circondati da capside (un rivestimento proteico), che può replicarsi solo in cellule metabolicamente attive, e sta devastando l’umanità. Auspicando che questo virus competente (nel senso che pare proprio saperla lunga, ma anche nel senso che ci compete) perda la sua scaltrezza e ci permetta di riappropriarci di una normalità che ora ci appare auspicabile, impantanati come siamo in questo stato di ‘eccezione’ (forse più consono rispetto a stato di ‘emergenza’), personalmente ho scritto e continuo a scrivere.

Nella prima settimana di clausura protettiva, nel marzo 2020, ho accolto la proposta di aggiungere un petalo alla corolla dell’eteroclito fiore a cui gli Autori FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) stavano infondendo vita: in moltissimi, abbiamo fatto convergere testimonianze e riflessioni, che ora troveranno compimento in un’antologia variegata, intitolata Diario In Coronavirus. Ho poi aderito alla costruzione di un Alfabeto pandemico, in www.lostatodeiluoghi.com, con il contributo delle voci: EVOLVENZA, ESSERE, PRESTITI, SALVEZZA.

Ho anche scritto DRAGON LADY, monologo teatrale (flussi e reflussi di dilemmi e paure, nel dialogo introspettivo di un medico donna che vive con dedizione e energia il servizio in ospedale tra i malati di Corona Virus. Dragon Lady – ‘nome di battaglia’ affettuoso che i colleghi hanno dato alla protagonista del testo perché ‘plana sulle corsie’ – si rifà al Lockheed U-2, aereo monoposto statunitense da ricognizione ad alta quota), in corso di pubblicazione in Sospensione 19 – Scritti teatrali al tempo del contagio, editore Alpes Italia (Roma), Collana La Scena Nova, oltre ad altri due testi teatrali: Wannabes Muses, che sullo sfondo della vita sospesa del Covid 19 vuol essere un divertissement che si conclude con l’utopica nascita dell’Homo Novus che riscopre la Bellezza e le Muse (quelle vere); e Cardiomanzie, una attualizzazione del mito di Medea, testo teatrale quest’ultimo che non ha nulla a che fare con la pandemia.

Posso quindi affermare che il periodo strano in cui ci siamo dovuti calare si è dimostrato fecondo per riflettere ed esorcizzare, scrivendo, ansia & paura. L’Io e il Me si sono ascoltati, riflettendo, interpretando, immaginando per raccontarsi, in un momento speciale della Vita che ci chiama alla sfida. Inventare storie per me è stato, e continuerà ad esserlo, nutriente e vitale.

 

E mi sorride il cuore

Racconto

di Chiara Rossi

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,

Luxe, calme et volupté.

« L’invitation au voyage », Charles Baudelaire

Due della Terra i polmoni: uno verde – le foreste – e l’altro blu – il mare –, antico, caleidoscopica elegia di vita, ispiratore dei più straordinari miti. Non so sottrarmi al richiamo del respiro maschio dell’Oceano o di quello lieve del Mediterraneo, palcoscenico di prodigi e d’immani sventure.

Punteggiato d’innumeri isole dai profili frangiati, l’Egeo protegge templi di oracoli, sibille e déi, sempre immersi nel medesimo sacro silenzio: lo ringrazio, devota, pur conscia dei molteplici appassionati amori che, tra menta, zagare e fieno – nel vento salato che leviga le scogliere –, nelle sue acque hanno incontrato la Morte giunta a punire (occorre ricordare Fedra, Andromaca o Elle, Io, Cassandra o Medea? Tutte lo traversarono e più d’una non ne uscì). Se pur dalle spumose onde si compiacque di essere Afrodite, vien da pensare che tutto sia intriso di lacrime e sperma.

Il nostrum resta il mare dei colossi e dei labirinti, delle grotte e delle trame di Dioniso, al confine tra estinzione e delirio. È, tuttavia, anche il mare dei Poeti che accolgono nel cuore l’azzurro che non ha fine, il sole che genera vita e il vento che non ha patria. È il mare che apre la mente all’idea della partenza e del ritorno, dell’esperienza e della conoscenza. Lo sciabordio del passato confonde la ragione, l’intelligenza e i riflessi, eppure qui, nell’azzurro bifronte, il Cielo è più vicino che altrove, anche se il Sole appare stanco, per la regressione dell’Uomo, per la perdita di consapevolezza del Male, per le stragi che han sostituito i sacrifici, per le oscure liturgie di dissoluzione delle relazioni: allusioni, illusioni, delusioni, nient’altro che vacui, ricorrenti spettri di ogni generazione di noi umani. Per fortuna, sboccia un universo diverso a ogni decisione: occorre distinguersi tra il rumore e il niente, via via che le lune spargono i loro vapori. Solo quando ci ricomporremo, passando dal «Mio» all’«Io», si ricomporrà il mondo, che è kósmos, non cháos. E, incaute, le farfalle continueranno a volteggiare smaglianti di colori tra gli odorosi fiori; eleganti, gli eucalipti con la loro ombra manterranno intermittente la luce nei boschi; ieratiche, le sette stelle dell’Orsa non si stancheranno di far da mappa nel velluto della notte. Come Sisifo, non dobbiamo smettere di credere alla risalita: sarà ancora il Giorno. Sarà ancora la Notte. E guarderemo la Vita da entrambe le parti, arrischiando pensieri, oltre il nulla che lento divora.

A volte mi sento come Pandora, con in mano il coperchio di un vaso pieno di Speranza & Sgomento, vagliando zattere di ipotesi, tesi & antitesi, oppressa da un gravame intollerabile di pensieri che non sanno dove andare. Allora mi siedo di fronte a un’onda morbida, quasi silenziosa, indifferente al mio tormento. Gradazioni di blu, orizzonti fluidi come in un acquerello. Solo io, l’acqua & il sale: ringrazio di quanto la vita sappia essere tiranna e poi generosa. Fuori di me l’illusione del mondo o il mondo? Io sarò. Noi saremo. Alzati da una vita seduta, avremo rubato la schiuma del mare. Finirà, finirà questo continuo-dolente-infinito-presente.

Non ‘cosa sono’, ma ‘chi sono’ è la domanda. Sono spirito in un corpo, persona in un individuo. Appartengo alla sacra potenza del Predominante, come la Terra e il Mare. Sono parola, intelletto e passione; sono sangue, muscoli, nervi e ossa. Col corpo faccio esperienza della vita, per il tramite del corpo farò esperienza della morte, che è il tutto e il nulla, il sempre e il mai. Tra il Cielo e me deve esserci sempre la Speranza.

Noi sfibrati umani ci consumiamo, più di quanto ci consumino gli eventi e il tempo. Abitiamo un’isola fluttuante, invisibile a chi rifiuta lo stupor di fronte all’Inatteso, e il nostro destino di Vulnerabili sta nel volvere, verbo degli astri eterni: girare, rotolare, come sassi, flutti, lacrime o astri, come il fuso delle Parche o la caduta di Fetonte.

Evolvo, dunque: indietreggiare sul mio Desiderio sarebbe l’imperdonabile. Il maggior peccato è disconoscere la fame ardente, l’appetito squisito di vivere. Per possedere ciò che non possiedo, devo passare attraverso la mancanza: a monte dell’onda c’è grande stasi, a valle il caos, è sulla cresta il picco di energia. E mi dico: osa, vai, e scegli i tuoi fiori di campo, come Proserpina colse i gialli narcisi dei prati di Enna, e danza come un derviscio e vibra come la corda di un arco o di una lira, perché anche a costo di incontrare il Minotauro, dall’inacquistabile tempo della vita non ci si può ritirare.

Liscia, ignara di anfratti, chiara come il mio nome, percorro isotere e isoterme, per scoprire quali raggi balenano nel buio delle porte di Tannhäuser e cosa naviga al largo dei bastioni di Orione.

Voglio un viaggio sulla Luna, come Cyrano, Astolfo e Luciano. Voglio evolvenza. E finalmente cum-prehendo che non basta il corpo, non basta il cuore: Desiderio è uno dei nomi dell’Erranza.

Giorni pieni. Sere stanche.

È il tempo scellerato della grande narcosi,

in cui è più facile chiudere gli occhi:

meglio sarebbe stato esser ciechi come Edipo.

Falesie di parole si fanno accessibili,

squarci pregnanti illuminano dentro al guscio le notti insonni della corrotta Babilonia 4.0.

La vita, come la intendo io,

non esiste quasi più:

l’uomo si crede un dio,

non sopporta d’esser concluso, limitato.

Il mondo si modifica come un mostro dalle facce sempre nuove.

Ovunque solo un molesto brusio & schermi gravidi di immagini oscene.

Aspetti il Nulla, attendi l’Invano &, intanto, la vita si srotola

e il tuo sangue percorre centoventimila chilometri dentro i vasi,

quasi tre volte la lunghezza dell’equatore.

Sono uscita dal tempo di Kronos, dove è negato il fluire,

per tornare in quello di Zeus, ritmato dal sorgere & dal calar del sole.

Dal morso di mela, tutti siamo puro dolore in attesa di accadere,

andiamo da un dove all’altro diventando tutte le cose,

scrittori che correggono & riscrivono,

alla ricerca di quell’impalpabile sfuggente, giallo polline di giglio,

che vive nascosto tra mille possibili scelte,

in cui, talvolta, cogli l’impronta del Creatore.

Noi, quaggiù, nomadi, come là in alto le stelle.

Il tempo è una traccia che torna,

un passato che non passa.

Giorni & persone sono prestiti,

il tempo è un bambino che gioca.

Siamo ciò che la vita ci consente,

in un divenire continuo di illusioni & fiori;

siamo rigurgiti delle maree,

eventi mobili,

piume,

pulviscolo,

aliti d’aria,

elitre,

vele.

Vele.

Sciolgo al vento la mia, piena di colori & faccio rotta, tra quadrature & siżìgie,

verso l’orizzonte dell’Isola che C’è,

perché Dio è nel mio cuore, o meglio,

perché io sono nel cuore di Dio.

Io so che ci è dato di scegliere: di rischiare, di lottare, di imboccare la strada più comoda, di non volerci emozionare. Spesso le salite sono impervie, ma poi… poi la vista è meravigliosa.

È saper godere, non possedere, a renderci felici.

Un giorno non esistevo.

Un giorno non esisterò più in questa forma.

Tra queste due ‘assenze’ cammino, assecondando la vibrante scansione del Desiderio, che mi fa pulsare come una stella.

Non esistono stagnazioni felici.

Noi, i vivi, siamo orgogliosamente in divenire. Ci scegliamo. C’inventiamo. Viaggiamo. Scivoliamo dal Tempo Precipitato in cui ci dibattiamo: senza sperimentare momenti di irragionevole ottimismo, non sopravvivremmo all’ostile quotidiano.

La mia unica possibilità di durare è non cancellarmi. E, pur nel tramonto inevitabile del corpo, pur con il cuore sbucciato per le sfide senza protezione nel Labirinto degli Inganni, scintillo, come metallo in fusione. Auspico che sia sempre giugno, con le sue gloriose giornate, sospese all’inizio dell’estate, quando fiocchi di nubi colorano di ciliegia il cielo, rose e oleandri accendono i giardini, navi alla fonda meditano nuove rotte, origano e sentore di sale s’insinuano nella brezza.

Più viva di così non sarò mai.

Ho smesso di essere silenzio, sono in costruzione. Vivere esige audacia. Essere come verbo, non come sostantivo. Esistere, insistere, resistere. Donarsi, non cedersi. Perdonare qualcuno, non qualcosa.

Essere al mondo. Essere mondo.

Configurarsi.

E, come fossi ancora sotto il Tropico del Capricorno, dove il vorace sole del solstizio d’inverno non fa ombra, mi metto addosso l’allegria: so che camminerò senza fermarmi.

E mi sorride il cuore.

 

 

CHIARA ROSSI [www.imaginabunda.it]: eteròclita ‘longobarda’ di nascita, ligure di adozione, giornalista pubblicista dal 1992, laureata in Esperto nei processi formativi e in Scienze dell’Educazione degli Adulti e della Formazione continua.

Esperienze professionali legate a progetti editoriali e di comunicazione (anche per conto di associazioni no profit), oltre che di consulenza e coaching nell’ambito della redazione di tesi di laurea in Scienze umane e psico-sociali e di writing coaching.

Appassionata di scrittura (in tutte le sue declinazioni, ghostwriting compreso) & musica, viaggi & fotografia (adoro incrociare gli sguardi di persone che vivono in paesi lontani), sociologia delle religioni & cultura del mondo islamico, nonché di molte altre cose…
credo fermamente nel LifeLong Learning e nell’utilità dell’Inutile, ossia dei saperi (meglio se contaminati e connessi) che, pur non producendo guadagno, migliorano l’Uomo. Nella mia ottica, sono più importanti le domande che le risposte e imparare che sapere; lo stupor è la molla di ogni conoscenza. È questo, che spesso mi fa trovare ciò che non sto cercando, facendomi sentire viva.
Ritengo che scrivere storie – che a mio parere affondano sempre le loro radici nella Mitologia, in quanto rivelatrice di senso – sia un complesso progetto di ingegneria & architettura narrativa, in cui l’accuratezza intellettuale debba fondersi in curiosità, entusiasmo e competenze necessariamente trasversali: per concepire narrazioni occorre essere immaginatori di professione.

Ho ricevuto premi e riconoscimenti – alcuni anche con relativa pubblicazione dei testi – per la mia scrittura drammaturgica, cinematografica e narrativa.

Iscritta al Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC), Roma; alla Societá Italiana Autori Drammatici (SIAD), Roma; alla Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), Roma, alla Federazione Italiana dei Cineclub (FEDIC) e alla SIAE, sezione DOR (opere drammatiche e radiotelevisive). Faccio anche parte della comunità di autori di http://www.dramma.ithttp://www.autoriexpo.it e di SCRIBIOMEMO (gli Scribi di Memoria) e sono membro del comitato scientifico di CROMOSOMA T(eatro) – Teatro & Drammaturgia tra evoluzione e tradizione, collana di teatro e spettacolo edita da Pro(getto)scena edition, Milano.

A SCUOLA DENTRO

A scuola dentro - copertina
Susanna Barsotti, A scuola dentro, Edizioni DivinaFollia, 2020
nota di lettura di Ivano Mugnaini
Il “dentro” a cui fa riferimento il titolo del libro è il nucleo, ma anche lo snodo, il punto di connessione. Da lì si irradiano i vari volti, gli aspetti, i significati di questo testo. Andare a scuola dentro equivale ad una scelta che può essere letta in vari modi: portare l’insegnamento dentro, in qualità di docente, ma anche acquisire, attingere a sua volta, da quel luogo, conoscenza. Ciò va in direzione contraria rispetto al cosiddetto senso comune.
 “Li hanno messi dentro”, diciamo noi tutti quando commentiamo un arresto. È un modo semplice e sbrigativo per far sì che, dal punto linguistico, e quindi psicologico (e per estensione fisico) di snodi e di ponti non ce ne siamo più. “Li”, cioè “loro”, si contrappone in modo inequivocabile a “noi”. Loro da una parte e noi dall’altra; così come “dentro” è agli antipodi di “fuori”: c’è un muro, altissimo, di cemento, che separa un mondo non solo dalla consistenza fisica ma anche dall’idea dell’altro, dalla necessità e dalla volontà di immaginarlo come una realtà esistente.
Quel “dentro” è lo specchio, deformato, deformante, volutamente tenuto in stanze semibuie, delle nostre paure, delle debolezze, delle colpe, di quella parte della nostra umanità di cui pensiamo di doverci vergognare, un po’ come quei panni, anch’essi proverbiali, che non solo non laviamo in pubblico ma preferiamo lasciare nel fondo di qualche armadio accuratamente chiuso a chiave.  
«Quest’anno ho fatto la mia prima esperienza da insegnante presso il carcere Due Palazzi di Padova. Essendo ancora professionalmente immatura, sia in quanto docente, sia, a maggior ragione, in quanto docente nel contesto penitenziario, si è trattato di un’esperienza tanto faticosa, quanto formativa ed emozionante. Per questo ho deciso, ogni volta che tornavo dal lavoro, di raccogliere in un diario i ricordi, le riflessioni, i sedimenti umani che gli incontri mi lasciavano». 
Mi ha scritto queste informazioni, Susanna Barsotti in una mail alcuni mesi fa, e in un messaggio successivo ha aggiunto «il libro è cresciuto a dismisura e ha un taglio diaristico, dunque abbastanza autobiografico».
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Racconto del 25 aprile su Repubblica. parma

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Sono molto lieto che il mio racconto NOMI CONCRETI E NOMI ASTRATTI sia stato pubblicato nelle pagine de “la Repubblica” di Parma proprio oggi, 25 Aprile, anniversario della Liberazione.
Il racconto, pur partendo da un’ambientazione in apparenza distante, la scuola, ha in realtà proprio l’intento di sottolineare l’importanza della libertà, di pensiero, di scelta, di opinione.
E, a fianco, intimamente connesso ed essenziale, il diritto di chiunque, a prescindere da qualsiasi connotazione individuale, a essere se stessa o se stesso.
Ringrazio Tito Pioli e Lucia de Ioanna per la selezione e la cura con cui il racconto è stato proposto.
Per chi vorrà, il racconto completo è a questo link: https://parma.repubblica.it/cronaca/2020/04/25/news/il_sabato_del_racconto_e_firmato_da_ivano_mugnaini
Buona Liberazione a tutte e a tutti,
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OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia

Un vecchio racconto, anni Settanta. La periferia della periferia di Milano, e dell’umanità. Alla ricerca di un telefono a gettoni, di un bicchiere di vino bevibile, e, forse, la sorpresa della poesia.

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OSTERIA NUMERO ZERO

Martedì, quindici agosto. No, non c’erano dubbi, né concrete speranze di essermi sbagliato. Il mio efficientissimo strumento di tortura cronologica giapponese squittiva sibili elettronici da oltre dieci minuti. Tra i vari numerini gialli e quadrati che proiettava nella semioscurità della stanza c’erano un quindici e un otto che non mutavano come tutti gli altri. Restavano lì, fissi, immobili, e mi guardavano, sparandomi tra le pupille gonfie e intorpidite un immutabile interrogativo: « E adesso…? ». Dalla posizione sud-sud-est del letto, in cui mi avevano condotto i sussulti e i contorcimenti di un sonno sconfinato di cui non ricordavo più l’inizio, tenevo l’ordigno nipponico sotto tiro. L’alluce del piede destro fungeva da mirino. Se avessi voluto avrei potuto sciogliere le briglie ai tendini della gamba, e fracassare l’arnese, una volta per tutte, con un calibrato, orientalissimo colpo di karate. Ah, quale gratificante e beatificante contrappasso!

Non sarebbe servito a molto. Non potevo fare a pezzi con un identico calcio anche quell’altro scatolone, verniciato di giallo fosforescente e inchiodato lassù, in alto, dal quale colavano raggi bollenti che si infiltravano attraverso le fessure delle serrande. Fu così che usai il piede solo per compiere, come sempre, l’unico esercizio ginnico della giornata: allungamento dei muscoli del quadricipite, torsione laterale del piede, e schiacciamento del pomello della sveglia con il tallone. Il brutto cominciava dopo, appena terminato di appoggiare il medesimo piede sul pavimento della camera. Già, e adesso…? Che faccio?

Come una specie di Robinson Crusoe, naufrago sulle sponde desolate dell’isola di Ferragosto, decisi di procedere ad un rapido resoconto mentale dei « pro » e « contro » della situazione. Per ragioni di praticità iniziai dai pro: il fatto di aver rifiutato i canonici inviti mortadel-balneari di due o tre colleghi con tanto di moglie-canotto e figli-mosconi, e l’aver rinunciato a priori a seguire le peregrinazioni autostra-disco-sessual-velleitarie di un gruppuscolo di amici, mi poneva nell’idilliaca condizione di chi non deve lambiccarsi il cervello per ponderare e scegliere. Nessuna alternativa, nessun dubbio. Alé! Tutta gioia, tutto bene!

Lo squillo del telefono mi evitò, con mio enorme sollievo, di affrontare le lande sterminate dei « contro ». A tutt’oggi non ho ancora ben capito se la voce di Erica sia naturale e genuina, o se invece sia prodotta da un complesso sistema di sintetizzatori e amplificatori opportunamente piazzati all’interno del suo corpo soffice e opulento da luccicante bambola sintetica. Quel giorno però mi fece talmente piacere udirla, che non mi posi neppure per un attimo il rituale interrogativo. Mi limitai ad ascoltare, a ridacchiare ogni tanto, fuori tempo e fuori luogo, e a dire di sì, in continuazione. Quando riappesi mi resi conto che avevo appena accettato un invito a dir poco scomodo. Si trattava di partire dalle mie campagne, e percorrere, sotto il sole ottuso del primo pomeriggio, l’oceano di asfalto che mi separava da un punto sconosciuto, sperduto nel vasto arcipelago della periferia di Milano. Il tutto in cerca di quale isola, e di quale tesoro? La risposta sarebbe evidente, e del tutto scontata, se non si dovesse tener conto di un particolare. Io Erica la conoscevo da anni, e la conoscevo fin troppo bene. Anzi no, non la conoscevo abbastanza. Nonostante i periodici incontri ai party, alle ricorrenze varie e alle celebrazioni pagane e pallose di qualche comune amico, continuavamo ad essere due cordialissimi estranei, due punti interrogativi collocati alle estremità opposte di una riga bianca.

Le nostre rare e telegrafiche conversazioni avrebbero fatto la gioia di Beckett, di Kafka, e forse anche di qualche psicanalista ficcanaso e un po’ sadico. Non sono mai riuscito a capire se fosse lei a prendere in giro me o viceversa. Fatto sta che ogni singola volta che io, attratto dalla sua sfavillante carrozzeria metallizzata, entravo nella sua sfera d’azione, lei mi ascoltava ghignando ripetutamente in modo quasi impercettibile, poi, puntualmente, mi metteva KO con un’osservazione, o con una domandina tanto innocente quanto micidiale. Un congegno automatico nascosto dentro di me allora si ribellava, e mi catapultava nella spirale strangolante del sarcasmo corrosivo, che in breve trasformava il dialogo in un incontro di scherma, un continuo alternarsi di impeccabile etichetta e di sciabolate fulminee e rabbiose. Fin qui niente di male né di straordinario: per quel nobile sport ero già ottimamente allenato. Il grave è che le stoccate scambiate con Erica ad ogni riflessione a mente fredda mi lasciavano dei dubbi colossali. E se dopotutto con quel suo atteggiamento scostante non avesse voluto sfottere niente e nessuno? E se in fin dei conti quelle sue uscite da palmipede inacidito fossero state ispirate solamente da legittima indifferenza e sacrosanta noia? Sì, insomma, che diritto avevo di pretendere a tutti i costi di essere qualcosa di più interessante e piacevole di un cortometraggio bulgaro sulla vita dei salmoni dell’Alaska, per lei?

Non c’era dubbio. A ben pensarci il suo comportamento era sicuramente degno del più assoluto rispetto e della più profonda comprensione.

Anche quel giorno lontano, imprigionato tra le branchie dell’aria che annaspava in cerca di ossigeno, dovetti di nuovo ribadire questa solenne quanto vana conclusione. Certo, era tutto vero… ma. allora… la telefonata…? Mai e poi mai avrei pensato che lei, in quel particolarissimo giorno, avrebbe chiamato me.

Per quale ipercomplicata serie di circostanze si era ritrovata, anzi ridotta, a dover chiamare uno con il quale aveva rapporti tiepidi come iceberg? Lei, che nella mia immaginazione era perennemente circondata da stormi di calabroni in cerca di polline, forse era rimasta completamente sola, come una stella alpina tra rocce squamose e infuocate. Già, forse. Il nodo della questione era tutto in quel forse. Conoscendo il tipo non era del tutto da escludere la possibilità che mi facesse attraversare mezza Italia, per poi confessarmi candidamente, una volta arrivato a casa sua, che aveva bisogno di qualcuno con la macchina che la accompagnasse da un suo amico a Riccione.

Mentre toglievo dal parcheggio la mia eroica Renault Cinque anni settanta questo dubbio era una specie di chiodo conficcato tra i nervi del piede destro: una sorta di freno di emergenza che non ero in grado di disinserire. In ogni caso avevo ben poco da scegliere, e, inoltre, sentivo nelle orecchie anche il bisbiglio, debole ma persistente, di una speranzucola.

Fu così che ingranai una gracchiante prima e iniziai il pellegrinaggio. Il motore intonava rotonde note metalliche, ma io, conoscendo bene la capacità di tenuta alla distanza dell’orchestra, lo mantenevo costantemente su un prudente « allegretto ma non troppo ». Dopo alcune centinaia di chilometri, tuttavia, il caldo e la fretta di arrivare mi trasformarono in un Von Karajan inebriato da un interminabile crescendo. I cilindrici strumenti risposero divinamente per una decina di minuti, poi crollarono, distrutti, dando l’impressione di non essere in grado di concedere bis per un bel po’. Peccato, perché non eravamo troppo distanti dal gran finale con tanto di standing ovation.

Scendendo dalla macchina fumante riconobbi i tratti inconfondibili di una tipica periferia urbana, o, più esattamente, di una periferia della periferia, habitat di esclusiva creazione e pertinenza umana. Per un mirabile processo di osmosi il sole stillava nel cranio l’asfalto, che si liquefaceva, goccia a goccia, come un’enorme caramella al rabarbaro. Mossi i primi passi con molta cautela. Sembravo l’eroe di un film di fantascienza che sonda con la punta dei piedi il suolo di un pianeta sconosciuto per timore di essere risucchiato. Dovevo trovare un meccanico, o perlomeno un telefono… o il telefono di un meccanico…, qualsiasi cosa insomma, pur di evitare di evaporare del tutto, come temevo fosse già accaduto a gran parte del mio cervello.

Già, trovare qualcosa, o qualcuno. Facile a dirsi. Le finestre sbarrate, palpebre tumefatte di occhi di cemento, si rimpicciolivano ulteriormente al mio passaggio, e i palazziscuotevano le enormi fronti rugose, facendo segno di no. I rari negozi di quell’enorme dormitorio non erano semplicemente chiusi: si erano mimetizzati, ricoprendosi di una membrana grigia di polvere perfettamente intonata con lo strato di calce opaca, in lenta decomposizione, che ricopriva gli edifici circostanti.

Dopo aver superato una mezza dozzina di isolati, intravidi una cabina telefonica. Lì per lì feci finta di niente. Proseguii con disinvoltura, senza darle troppo peso, per timore di rompere l’incantesimo. Quando le giunsi a tiro mi catapultai all’interno. La cornetta c’era ancora, ma accanto al display, diligentemente fracassato, pulsava una flebile lucetta rossa, moribonda, anche lei. Tutt’intorno, in compenso, scritte multicolori di vario genere che avrebbero fornito materiale di ricerca ad almeno un paio di équipe di sociologi. Uscii fuori sorridendo. Il sole mi riconobbe, e mi accolse in un tenero abbraccio di kerosene a combustione immediata. Avanzai a passo lento, con lo sguardo di un bonzo, sereno e imperturbabile.

I vari edifici continuavano a riflettersi gli uni negli altri, come specchi assurdamente fedeli ad un infelice destino, o forse, più semplicemente, ero io che continuavo a girare attorno allo stesso isolato.

Decisi di cambiare direzione. Ciò mi avrebbe consentito, nel peggiore dei casi, di dare un po’ di sollievo alla mia nuca, bersagliata senza sosta da un infuocato spiedino da barbecue.

In un anfratto seminascosto, ai margini di una lama d’ombra proiettata al suolo dall’incrocio aereo di due colossi di cemento armato, intravidi una porta spalancata. Sopra di essa una specie di insegna. « Osteria », indicava una scritta dipinta a mano, con grafia stile seconda elementare, su un pezzo di compensato. Fuori dal locale, a testimoniare che il cartello non mentiva, una sedia di plastica e una di legno, sfondata. Tutt’intorno nessun’altra porta, finestra, veranda, terrazzo o balcone. Solo due muri smisurati di calce bianca che trasudavano pulviscolo riarso. Non c’erano alternative: o era un miraggio l’osteria, o era un’illusione ottica l’intera città. C’era un solo modo per sincerarsene, entrare. In condizioni normali avrei evitato persino di calpestare il marciapiede di un posto simile. Di normale però, quel pomeriggio, c’era ben poco; non escluso il sottoscritto.

Immobile, al centro di un pavimento di mattonelle grezze punteggiato da mucchietti di polvere lanosa frammista a segatura, presi a ruotare la testa a destra e a sinistra, alla ricerca del padrone del locale. Riuscii a contare attraverso le bocche spalancate le otturazioni di ogni singolo avventore. All’interno di un paio di dozzine di pupille scolorite dai grappini trovai solo il vuoto invece: un’attonita, inespressiva, concentratissima indifferenza. « Buon pomeriggio a tutti. Mi sapreste dire, per cortesia, dov’è il proprietario? Avrei bisogno di telefonare ad un meccanico. Ho la macchina in panne ». Solo quando il suddetto mirabile quesito era ormai volato via, quasi urlato, dal mio stomaco contratto, mi resi conto che forse, dato il luogo, era un tantino troppo formale.

Diversi attimi di silenzio assoluto, irreale, poi il sibilo, inconfondibile, di una risata soffocata. Nell’alveo delle mie vene, usurate dal calore, tracimò adrenalina in fiamme. Una voce quieta, molliccia come una brioche riciclata, spense l’incendio, almeno in parte.

« Sono io il padrone, signore. Ma il telefono non lo abbiamo » – bisbigliò un tipo massiccio alzandosi da una sedia e strisciando lento su un paio di sandali marroni in direzione del bancone.

« Come non lo avete?! ». Mi aggrappai all’ancora ciondolante di quegli occhi quasi-umani, deciso a non mollarla. Oppresse da una colossale riflessione, le palpebre del consolatore degli assetati si abbassarono sin quasi a serrarsi del tutto. Poi si illuminò di un’idea.

« Non serve a niente telefonare. Dove lo trova un meccanico oggi? Le faccio chiamare mio cognato, che è un mago coi motori, e tra cinque minuti riparte! ».

« La ringra… » – provai a dire, ma un urlo da Cheyenne mi bloccò.

Il figlio dell’oste, convocato d’urgenza, arrivò saltellando, facendo barcollare a più riprese il pavimento con due enormi anfibi grigioverdi.

La sua faccia, butterata e untuosa, era l’insegna più fedele ed espressiva del locale. Con ogni probabilità era il frutto di un rapporto illegittimo tra il padre e una michetta al salame. Ne fui del tutto sicuro quando lo fissai negli occhi, due palline di grasso circondato da un’esile pellicola lievemente più scura.

« Hai capito bene allora, eh! » – gridò l’oste. « Vai a chiamare Paolo e digli di sbrigarsi! Tutto chiaro, vero?! ».

I piedi cingolati del giovane Mercurio rimasero inchiodati al suolo per lunghi istanti, così come il suo sguardo. Quindi, d’un tratto, fissò il padre e sorrise, radioso, come un filosofo che ha appena intuito il senso profondo dei più arcani misteri della metafisica. Riacquistò gradualmente una serietà professionale, e partì a razzo, come un centometrista, seguendo però gli imprevedibili arabeschi di un galoppo azig-zag.

Mi sono messo proprio in buone mani, pensai, mentre il padre, posandomi un braccio sulle spalle, mi invitava a sedermi.

In qualità di ospite d’onore fui collocato al centro del tavolo posto di fronte al bancone. Occhi muti mi scrutavano da ogni lato. L’unica, paradossale consolazione era la tranquilla sfrontatezza di quegli sguardi. Mi squadravano fissi, senza sotterfugi, con calma e ponderazione. Avevano l’aspetto di chi è intento a usufruire di un suo inalienabile diritto. Mi adeguai, e cominciai a scrutare a mia volta. Le rughe sui volti sembravano incise dalle pale d’acciaio del ventilatore arrugginito, stile macelleria messicana, che sussultava ogni tanto, facendo traballare la trave del soffitto a cui era stato appeso. Sotto di esso si agitavano strani esseri mitologici: centauri con sedia impagliata al posto del cavallo, cupidi di ottantacinque anni, e bizzarri quadrumani con un arto saldato ad una carta da briscola, uno ad una nazionale senza filtro, e gli altri due alle tempie, per evitare che la testa cadesse a causa della noia, o di qualcos’altro, chissà.

Una cosa era chiara: quella fauna umana era il prodotto di quel luogo. La loro esistenza era regolata dalla saracinesca del locale. Il suo abbassamento provocava l’immediato dissolvimento delle molecole che evaporavano in sbuffi di tabacco o si scioglievano in minuscole gocce di vino, in attesa della riapertura mattutina.

« Come ti chiami? » – sibilò uno degli ectoplasmi.

Mentre mi guardavo intorno per tentare di intuire da quale direzione fosse giunta la voce, il mio apparato uditivo fu catturato dall’esca puntuta di un « Quanti anni hai? » scagliato dal lato opposto.

Rimasi a metà strada, a bocca spalancata, prima di essere colpito alla nuca da un perentorio « Che lavoro fai? ».

Per porre fine al ping-pong decisi di risponde a uno dei tre quesiti. Scelsi il più neutro: « Beh, io… insegno letteratura ».

Il buon Dante, lieto di trovarsi « sesto tra cotanto senno » accanto a Omero, Orazio, Ovidio, e compagnia bella, sarebbe senz’altro morto di invidia, vedendo e sentendo lo straordinario consesso di cesellatori di fioriti versi e ornata prosa da cui mi trovai circondato appena ebbi terminato di specificare la mia professione. In pochi istanti fui avviluppato da un groviglio inestricabile di massime, citazioni, commenti, allusioni e rimandi ad opere letterarie reali o inventate per l’occasione.

Un nanerottolo con la pelle grigiastra, barba rada e occhi vitrei e rossicci da leprotto febbricitante, prese a camminare avanti e indietro con la schiena ricurva e le mani protese in avanti, borbottando in continuazione: « È forse il sonno della morte men duro? ».

Il verso foscoliano, pur se trascinato fuori di contesto e violentato nel senso e nella funzione, assumeva, sulle labbra sbiadite di quel bizzarro personaggio, un’intensità e una solennità tali da parere creato esclusivamente per essere pronunciato da lui. Anzi, di più: sembrava che il senso profondo e reale di quel verso emergesse dalle occhiaie abissali che solcavano il volto, assolutamente mediocre e banale, dell’omuncolo infinitamente inquietante che faceva la spola tra un tavolo e l’altro, recidendo l’aria con l’acciaio di imprevedibili traiettorie.

« È forse il sonno della morte men duro? » – mugugnava con diverse modulazioni, rivolto ora a se stesso ora al primo che gli capitava a tiro.

Accompagnava immancabilmente le sue parole con un gesto minaccioso del dito, come a voler dare alla frase un senso autonomo e specifico, rendendola, in tal modo, una sorta di monito contro l’ozio e gli oziatori.

D’un tratto si bloccò e ghignò soddisfatto. Oltre i tavoli, in un angolo relativamente tranquillo, due tipi grassocci e paciosi russavano beatamente, con le braccia incrociate sulle pance che debordavano dalle livide canottiere di cotone. L’emulo del Foscolo si avvicinò a loro in modo furtivo, incurvandosi ulteriormente. Inserì la faccia nel bel mezzo dei due dormienti, a non più di cinque centimetri dalle loro placide guance, prese fiato, ed esplose il suo grido di battaglia.

I due spalancarono occhi, bocca e braccia, e balzarono in piedi. Nel loro volto si leggeva chiaro l’arduo responso: né il sonno né la morte erano duri abbastanza se paragonati al risveglio, soprattutto se la prima visione che si spalancava davanti agli occhi era quella della faccia stravolta e urlante del novello cantore dei Sepolcri.

Soddisfatto della lezione di saggezza che aveva impartito agli astanti, il funereo androide si placò, e si venne a piazzare dietro di me, con le manine artigliate alla spalliera della sedia.

Dov’è finito il figlio dell’oste? Cosa aspetta a tornare? – rimuginavo senza sosta dentro di me, mentre cercavo di far spuntare tra le labbra qualcosa che somigliasse a un sorriso.

Fecero tutti un ulteriore passo nella mia direzione. Le sedie strisciarono all’unisono sul pavimento sino a formare una doppia barriera di forma circolare.

« Viaggi da solo? » – chiese un tizio corpulento, con tono ironico. Avevo appena iniziato ad annuire che già aveva intercettato gli sguardi dei suoi amici, trasmettendo, anche con l’aiuto di alcune mossettine allusive, un inequivocabile messaggio. Nessuna espressione era mutata. Gli occhi, fissi su di me, contenevano solamente la solita sfrontata curiosità e la solita timida urgenza di comunicare qualcosa.

L’aitante umorista reagì al clamoroso fiasco della sua velenosa battuta inchiodandosi sugli angoli della bocca un vago, asprigno sorriso. Un minuto dopo dalle palpebre spalancate di quella maschera immutabile cominciarono a scendere delle gocce chiare. Pelle di cuoio stava piangendo. A dir poco ero sbalordito.

« Guardi che se è per la battuta di prima non si deve preoccupare. Non mi sono offeso » – mi affrettai a precisare, quasi fossi io a dovermi scusare. « Le assicuro che non c’è problema ».

Invece di placarsi prese a singhiozzare, sibilando alternativamente con il naso e con la bocca. Un po’ per la spossatezza, un po’ per la cacofonica rumorosità di quell’incredibile pianto, fui vinto da un incontenibile attacco di ilarità. Scoppiai a ridere senza ritegno, piegandomi in due sulla sedia quando le contrazioni dello stomaco diventavano insostenibili. A poco a poco riacquistai un contegno decente, anche se fui costretto a mordere varie altre volte un labbro inferiore non ancora del tutto domato. Venni fissato e analizzato con indicibile attenzione per lunghi istanti, come un alieno appena piombato già da qualche astronave uscita di rotta. Non un muscolo di quelle facce tradì una emozione intelligibile.

Quindi, improvvisamente, come in risposta ad un comando convenzionale, una risata collettiva, piena e sapida, fece tremolare i vetri malfermi delle finestre e svolazzare via la membrana d’aria stantia che sovrastava il tugurio.

Nelle pupille puntate su di me apparve qualcosa di nuovo, un riflesso di luce più nitida e sicura. I giocatori di carte e gli spettatori-commentatori arretrarono, riprendendo il loro posto ai tavoli, e l’usuale tono di voce di chi possiede montagne di tempo, e deve scalarle tutte.

Le carte tornarono ad essere posate e sbattute, con ritmi e gesti atavici, su tutti i tavoli, tranne uno, al quale venni ufficialmente convocato io per completare il quartetto di un solenne tressette.

« Da dove vieni? ». Stavolta il tono della domanda non invitava a frugare nelle tasche alla ricerca di una pistola. Alzai la testa verso il mio interlocutore e cominciai a parlare.

« Tu sei mio figlio! Sei uguale a mio figlio! » – mi confidò uno dei miei avversari tra un fante di fiori e un cinque di quadri.

Due tavoli più in là un vecchio cane stopposo e ingiallito raggomitolato ai piedi dell’assorto spettatore di un estenuato poker veniva alternativamente allontanato con un calcio e richiamato con una carezza.

Di fronte al balcone si stava svolgendo la cerimonia di esposizione della manica ricucita e rilavata di una camicia a scacchi rossi e viola. Lo sgargiante capo di abbigliamento fu sventolato con orgoglio, a più riprese, sotto il naso del proprietario del locale. Dopo la ventesima sfilata passata sotto silenzio, senza il minimo segno di ammirazione, il possessore del cimelio iniziò a lamentarsi a voce sempre più alta, accusando l’oste di dargli bicchieri più vuoti che pieni e di non fargli mai lo scontrino. Nessuna reazione. Ognuno continuò a fare ciò che stava facendo senza battere ciglio. Gli urli diminuirono di tono e di numero fino a ripiegarsi e a appiattirsi sul ripiano del bancone, così come la fronte del contestatore.

Dal paginone patinato appeso sopra lo scaffale dei liquori, la bomba di carne del mese, nuda e abbronzata, gettava intorno occhiate altezzose. Neppure il suo sorriso grandangolare a trentotto denti riusciva a celare completamente il suo sguardo di annoiata commiserazione. La sua straripante nudità era talmente vistosa, smaccata ed eccessiva, da renderla, paradossalmente, più eterea, lontana e intangibile di una Santa Teresa translucida di alabastro e sospiri.

Davanti ai miei occhi, pellegrini indugianti di fronte alle imponenti cupole dorate di quel santuario di pelle levigata, comparve un bicchiere. Con gesto pronto era stato inoltrato, da un tavolo vicino, il rosso liquido consolatore. Gesto generoso e più che apprezzabile, che dovevo in qualche modo onorare. Le impronte di unto e i residui scuri appiccicati sul fondo del bicchiere rendevano l’impresa non particolarmente agevole. Volti sorridenti attendevano che mi decidessi a bere per fare un brindisi. Sorridevo a mia volta, con lo sguardo sprofondato nel contenitore appoggiato sul tavolo. Con le dita prudentemente collocate sulla parte più pulita del vetro presi a far ruotare l’amaro calice. Per sfuggire all’imbarazzo mi affidai al linguaggio dei gesti: mimai un capogiro, poi un dolore di stomaco, ma più di tutto poté l’espressione degli occhi, che non riuscii a celare. Tutti tornarono a immergersi nelle usuali contese, gridando contro il compagno, reo di aver giocato briscola al momento sbagliato, e il bicchiere rimase lì, profondo e intatto come una palude misteriosa.

D’un tratto gli invariabili rumori di fondo del locale si modificarono, fino a fondersi in un boato di soddisfazione che accompagnò l’ingresso di una giacchettina lisa sovrastata da una sigaretta. Attorno al mozzicone le labbra biascicanti di un esserino filiforme che avanzava barcollando. Ogni suo passo era una scommessa con la forza di gravità, che riusciva a vincere, evitando di cadere, solo grazie a un’abbondante dose di fortuna e determinazione.

Fu accolto come un navigatore solitario al ritorno da una traversata oceanica. Calorose quanto imprudenti pacche sulle spalle misero in pericolo il suo miracoloso equilibrio. Il rachitico Magellano non fece una piega. Puntò verso il bancone con passo strascicato, e, con la stessa energia con cui un naufrago si aggrappa ad una sponda di terraferma, si incollò al bordo del bicchiere di vino che gli venne posto di fronte.

Al terzo quartino fu interrotto e scortato davanti al mio tavolo da un vociante corteo.

« Questo sì che è un grande artista… è un poeta! » – proclamarono solennemente gli araldi.

E beh… mi tocca… ormai sono in ballo – pensai – non c’è scampo, e sventolai un sorriso savio e comprensivo.

L’artista tuffò le labbra e la mente nel bicchiere che aveva trascinato con sé e scosse la testa per schernirsi, cercando di far capire a tutti che quel pomeriggio non era ispirato. Le lusinghe dei suoi ammiratori, ma soprattutto le facce serie di chi minacciava di strappargli il vino di mano, lo convinsero a cambiare idea.

Le dita ossute e giallognole si contorsero e si avvilupparono a lungo in modo innaturale attorno al bicchiere, prima che riuscisse a pronunciare una sola frase. Poi, con una voce non sua, più cupa, più penetrante, più intensa del suo traballante corpicino, iniziò a riversare nell’aria moribonda dell’osteria alchemici miscugli di parole. Non ero sicuro di comprendere esattamente ciò che stava dicendo, ma dentro di me sentivo colare, goccia a goccia, il liquido rosso che stringeva nella mano.

Tutto ciò che aveva, il poco sangue con cui era stato sbattuto giù sul mondo, oscillava al ritmo delle sue dita incerte e delle sue tremolanti rime. Attorno a lui alcuni dei suoi amici sghignazzavano rumorosamente. Altri lacrimavano in silenzio, pugnalati dalla lama di un rimpianto.

Sarà stato forse il caldo, o forse la comica disperazione che mi ispirava il sentirmi perduto per sempre tra le mura di quello stanzone, ma credo proprio di aver ingerito, per alcuni istanti, assieme al bicchiere di vino untuoso che avevo di fronte, anche qualche sorso di poesia. Vera, aspra, vivificante.

Il braccio dell’esile declamatore era ancora impegnato a ricamare nell’aria improbabili disegni, quando si vide agitarsi, alle sue spalle, una figura multicolore. Era il figlio dell’oste, di ritorno dalla sua vittoriosa missione. Paolo, il cognato meccanico, con la borsa marrone degli attrezzi nella mano e l’atteggiamento compito e professionale, era l’immagine dell’efficienza. Dava l’impressione di fare davvero miracoli con i motori: ripartire e giungere a destinazione non era più un miraggio. Senza aprire bocca mi fece segno di condurlo alla macchina. Appena il tempo di salutare tutti, più con lo sguardo che con le parole, poi mi ritrovai fuori, all’aperto.

Il sole, nitidamente spietato, era quello di sempre. Lungo il tragitto, approfittando di brevi istanti di distrazione del laconico meccanico, ogni tanto mi voltavo furtivamente all’indietro. No, l’osteria non si era mossa. Non era svanita, almeno per il momento. Era ancora là.

PAROLE NELL’ACQUA

“Here lies one whose name

was writ in water”.

Qui giace un uomo il cui nome

è stato scritto nell’acqua.

Frase tratta dall’epitaffio

riportato sulla lapide di

John Keats

m parole 2

Lo sconosciuto guardava gli oggetti lasciati nelle macchine parcheggiate. Camminava lento, la mattina presto, sempre e solo con la pioggia. “Cosa posso fare per ognuno?”. si chiedeva. “Quale biglietto lasciare? Quali parole? Un consiglio, un apprezzamento per la sensibilità, un aiuto per la vita?”.

La mia è un’ipotesi. Follia. Come la sua. Forse peggiore. Ma non posso fare a meno di chiedermi in che direzione si muove, verso quale senso. Per avere una risposta devo sperare nella pioggia giusta, nel ritmo, nelle frequenze adeguate. Lo incontro. Lui trova me. È capace di morbidi agguati.

I suoi vestiti sfuggono agli occhi, vi rientrano in un secondo momento: colori soffici, fuori tono, in armonia solo con loro stessi. Sembra parlare tutte le lingue e nessuna, la sua cantilena oscilla su cadenze che spaziano dallo slavo allo spagnolo. In una mano tiene una vecchia mappa della città, nell’altra stringe con timidezza una cassa di plastica utilizzata per trasportare le bottiglie d’acqua minerale. Il contenitore, vuoto, diventa una sedia, solida, leggera. Fluida e mobile, come l’acqua che gli dava uno scopo, una funzione. Acqua lui stesso, nella pioggia, con in mano un guscio di plastica che un tempo racchiudeva acqua. Un circolo perfetto, perenne.

mare parole

Ho bisogno di dargli un nome. La mente adora il superfluo. Potrei chiederlo direttamente a lui, come si chiama. Ma non sarebbe la stessa cosa. Mi mentirebbe, o risulterebbe banale, magari. Mi arrogo il diritto di battezzarlo io. Un appellativo bizzarro e solenne, su misura per lui, ecco cosa mi serve. Nuvolario, voilà. Perfetto. Almeno per me. Lui non è necessario che lo conosca. Nuvolario, miscuglio di assonanze fascinose: un capo indiano, un pilota di auto da corsa, un imperatore persiano. Tutto e niente. Lui soltanto.

Mi si avvicina di un altro passo, cerca con gli occhi il mio sguardo, e mi chiede informazioni su una strada. Mi porge la mappa della città e mi invita a indicargli il punto esatto. Mentre la apro mi sembra di cogliere un sorriso sarcastico. Ma forse mi sbaglio. Probabilmente è un riflesso, uno sprazzo di luce nel grigio del cielo. Ci sono tre vie che portano il nome che mi ha chiesto. Incredibile ma vero. Dislocate in punti estremamente distanti l’uno dall’altro. Glielo faccio notare, e lui allarga le braccia, serafico. Gli chiedo cosa deve fare di preciso, cosa cerca, una casa, un monumento, un ufficio, un palazzo… Sorride, senza aprire bocca.

Mi viene il sospetto che la richiesta di informazioni sia una scusa per parlare con persone che, per qualche sua personale ragione, o assenza di ragione, trova interessanti. Porre un quesito che presuppone tre possibili risposte, tutte ugualmente valide, e tutte identicamente errate, gli consente di non avere alcun obbligo. Né una meta precisa. Può girare continuamente con la consapevolezza del limite e delle potenzialità: dirigersi volta per volta verso un luogo che è sempre, allo stesso tempo, giusto e sbagliato. La schiavitù e la libertà.

Mi piace. Lo trovo affine. Non lo comprendo appieno, ma lo apprezzo. E’ un dubbio vivente che mi attrae. Sento di dover fare qualcosa per lui.

Qualche giorno dopo gli lascio un biglietto appiccicato con lo scotch sul contenitore di plastica posato sul suo marciapiede preferito.

“Viene la siccità e viene la piena/ sugli occhi e nella bocca,/ acqua morta e sabbia morta/ in gara di dominio./ Acqua e fuoco deridono/ il sacrificio che negammo./ Acqua e fuoco roderanno/ le fondamenta in rovina da noi dimenticate./ Questa è la morte dell’acqua e del fuoco”.

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Parole per scuoterlo, per incitarlo al mutamento. Versi di Eliot, dalla poesia “Morte degli elementi”. Ma di questi particolari non ritengo necessario metterlo al corrente.

Mi risponde il mattino dopo. Noto un foglietto bianco sul parabrezza della mia macchina. Penso lì per lì a un divieto di sosta. Invece si tratta di qualcosa di molto più articolato.

“Il mio centro è tempo-presente/ e ovunque i miei rami s’allungano/ pendono nel buio/. Non so discernere cosa da cosa/ luogo da luogo/ né se l’io appartenga all’io, o non esista”.

Lui è più generoso di me. Mi rende nota la fonte, l’autore dei versi, Nat Scammacca. Quasi un implicito invito a informarmi, a scoprirne di più.

Il giorno seguente, contro ogni attesa, è lui a rilanciare. Un altro foglietto, colorato stavolta, sotto il medesimo tergicristalli.

“Non invano è passato il non-amore/ la fatica, il digiuno, la sazietà,/ del desiderio mai toccato”.

Mi rendo conto che non è più un gioco. O, almeno, non solo. Ho il dovere di rispondere.

“La città, con te, è diventata/ una città di mare./ Ma l’arsura della verità/ è un gelo senza fine”.

Tutto tace, per molti giorni. Sconfitti, entrambi, dall’inverno del silenzio. Poi, una sera, sotto le luci gialle dei lampioni, un nuovo rettangolo di carta e parole sul vetro della macchina.

“Sono unito al mondo da tutti i miei gesti, agli uomini da tutta la mia pietà e la mia riconoscenza. Fra questo diritto e questo rovescio del mondo, non voglio scegliere, non mi piace che si scelga”.

Ancora lui, tornato a me. Tramite le parole di Albert Camus. Splendide, come il suo coraggio di scriverle ed affidarmele. L’uomo dell’acqua è sulla strada giusta. Ce l’ho fatta. Il mio impegno è servito a qualcosa. Sta diventando fertile, la sua pioggia, vitale. Ora voglio, anzi devo salvarlo del tutto. Posso riuscirci, so come operare la metamorfosi definitiva.

Gli lascio un biglietto con dei numeri, stavolta: il cellulare di Carmela. E’ grande, lei. Io lo so bene, è stata la mia donna per anni. E’ possente, Carmela, e il suo amore è sempre totalizzante. Sa inglobare il mondo e chi le sta accanto. Rendendolo identico a sé.

Passano varie settimane, e nessuno più cammina per le strade guardando gli oggetti lasciati nelle macchine. Ho vinto. La trasformazione ha avuto luogo secondo le più rosee aspettative. L’uomo dell’acqua è sfociato nel mare ampio di Carmela. Ora posso dimenticarlo. Lo archivio con gioia e legittima soddisfazione nella memoria.

Questa mattina però, a sorpresa, un nuovo segno della sua presenza. Lui non ha dimenticato me. Un altro biglietto. Azzurro, stavolta.

“Ti ringrazio”, mi scrive. “Il tuo dono è stato immenso. Più grande di me, e di quanto meritassi. Ti ringrazio di cuore, e, come ricompensa, prendo da te la sola cosa che non ti serve”.

Non capisco. È normale, comunque. Sono abile, certo, ma per i miracoli non sono ancora attrezzato. L’amico della pioggia resta sostanzialmente un folle. Civilizzato e fidanzato, adesso, ma pur sempre tale. Un folle felice, grazie a me.

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Comincio a capire qualcosa, di colpo, nel momento in cui, lanciato a tutta velocità lungo una discesa, premo il pedale del freno. È morbido, docile, inservibile. Piove, chiaramente. Il fiume è gonfio, rabbioso, al di là dell’esile parapetto posto ai bordi della curva al termine del rettilineo. Corre come il vento la mia macchina. Fluida, leggera. Stretta in un abbraccio solido e poderoso di aria ed acqua. Volo, inarrestabile, verso il mare. Lassù, nel cielo, ridono le nuvole.

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