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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

copertina
Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
lungarno-pisa
L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

Alcune poesie della raccolta INADEGUATO ALL’ETERNO tradotte in albanese da Juljana Mehmeti per Atunispoetry

Ringrazio la poetessa Juljana Mehmeti per aver tradotto in una lingua ricca di fonemi fascinosi alcune mie poesie di qualche anno fa ma a me care.

Grazie a Juljana e grazie a Atunispoetry per l’ospitalità. IM

https://atunispoetry.com/2021/02/03/poezi-nga-ivano-mugnaini-solli-ne-shqip-nga-italishtja-juljana-mehmeti/

 Immagine copertina Inadeguato all'eterno
 

Qualcosa dentro

Qualcosa dentro ancora non si adatta,
non si adegua, continua a pulsare per moto
proprio, ad ammalarsi, a guarire, con impulso
autonomo, indipendente; scorre la vita
a dispetto di sé, ti porta, immbile, su lidi
secchi, inattesi, proprio nell’attimo in cui
senti che niente muta il niente che, lento,
divora.
Ma qualcosa ancora non si attaglia,
non si allinea. Sfiora la superficie un pensiero
cristallino, perla di luce ignota, tanto salda
da farti oscillare, scivolando via da te
con riso stranito, sognando il tonfo, il crepitio
sarcastico dello schianto, il profilo cupo
dello scoglio. O un prato semplice, bambino,
dove la distanza tra destino e percorso è solo
il salto di un fosso, di slancio, ad occhi chiusi,
l’attimo in cui la mente diventa riflesso dorato
di sole, riso profondo, leggero, del cuore.
 
 

Diçka brënda

 
Diçka brënda akoma nuk përshtatet,
nuk ambjentohet, vazhdon të pulsojë ritmin autonom, të sëmuret, të shërohet, me impuls
të pavarur;
jeta rrjedh përkundër vetes, të çon, të palëvizshëm,
në brigje të thatë, e papritur, vetëm në momentin në të cilin
mendon se asgjë nuk e ndryshon asgjënë, ajo ngadalë,
gllabëron.
Por diçka ende nuk përshtatet,
nuk vijëzohet. Një mendim prek sipërfaqen
kristalor, perlë drite e panjohur, aq solide
sa të bën të lëkundesh, duke rrëshkitur nga ty
me të qeshura të hutuara, duke ëndërruar zhurmën, kërcitjen
sarkastike të rrëzimit, profilin e zymtë
të shkëmbit. Ose një livadh i thjeshtë, foshnjë,
ku distanca midis fatit dhe rrugës është vetëm
kërcimi i një hendeku, i vrullit, me sy të mbyllur,
momenti kur mendja bëhet një reflektim i artë
i diellit, e qeshura e thellë, e lehtë, e zemrës.
 
 ***
 

La tempesta

 
Sarebbe troppo agevole, per noi,
uno schianto di cielo, urlo, pianto,
riso stranito, poi, più niente.
Solo il corpo, per istinto antico,
si affannerebbe alla ricerca
di un riparo di fortuna.
La mente, già leggera, lontana
sulla schiuma che vola incontrastata
verso il mare.
Ma la nostra tempesta, per quanto
lunga, limacciosa, densa di vento
e torrenti, tronchi, liquami, rottami,
finisce sempre, all’indomani, con un sole
in tuta da lavoro, stinta ma brillante,
abbastanza per vedere che niente, davvero,
è cambiato.
Solo il ciglio del fiume è più largo,
corroso, cosparso di fango già pronto
a mutarsi in argilla. Estetica immutabile
del nulla, laccio emostatico di una subdola
serenità, vespa cieca, assassina, a spasso
sopra e dentro la testa, ti lascia solo
l’attimo, lo scarto, fessura breve
di silenzio afferrato in controtempo:
ascoltare, lontano,
l’eco, il suono, la speranza:
una vana, vitale tempesta.
 
 

Stuhia

 
Do të ishte shumë e lehtë për ne,
një përplasje qielli, një ulërimë, një e qarë, qeshje e hutuar,
pastaj, asgjë më shumë. Vetëm trupi, nga instinkti antik,
do të rropatej ne kërkim të një strehe të improvizuar.
Mendja, tashmë e lehtë, e largët mbi shkumën që fluturon pa pengesa drejt detit.
Por stuhia jonë, ndonëse e gjatë , e hollë,
e dendur me erë dhe përrenj, trungje, ujëra të zeza,
mbeturina, mbaron gjithmonë të nesërmen, me një diell
veshur me rroba pune, të zbardhura, por të ndritshme,
mjaftueshëm për të parë që asgjë në të vërtetë
s’ ka ndryshuar.
Vetëm bregu i lumit është më i gjerë, i gërryer, i spërkatur me baltë, i gatshëm
të shndërrohet në argjilë. Estetikë e pandryshueshme e asgjësë,
tub statik i një qetësie të rreme, grenzë e verbër, vrasëse,
në shëtitje sipër dhe brenda kokës, të lë të qetë momentit,
mbetje, e çarë e shkurtër e heshtjes kapur në kundër-kohë:
të dëgjosh larg,
jehonën, tingullin, shpresën:
një e kotë, stuhi vitale.
 
 ***
 

Inadeguato all’eterno

 
Se le braccia spalancate
della ragazza nuda
avranno la pietà del miele
selvatico, se il suo sorriso
enigmatico, sconosciuto e impuro
ti darà la certezza del corpo
e del cuore, senza cercare
niente di più, ora, del battito
delle tempie e del fuoco del sudore,
avrai il dono scabro, essenziale,
di un attimo: l’istante leggero e violento
in cui ti senti vivo,
seppure fragile, sporco,
inadeguato all’eterno.
 
 

Perjetësisht i papërshtatshëm

 
Nëse krahët e hapur
të vajzës lakuriq
do të kenë mëshirën e mjaltit të egër,
nëse buzëqeshja e saj
enigmatike, e panjohur dhe aspak e dlirë
do të të japë sigurinë e trupit dhe të zemrës,
pa kërkuar asgjë më shumë, tani, nga rrahjet e tëmthave
dhe zjarrit të djersës,
do të kesh dhuratën më konkrete, thelbësore,
të një çasti: momentin e lehtë dhe  të dhunshëm,
në të cilin ndihesh i gjallë,
ndonëse i dobët, i pistë,
përjetësisht i papërshtatshëm .
 Gustav-Klimt-L-Attesa-3d-effect-donna-woman-albero-tree
Traduzione dall’italiano di Juljana Mehmeti
 Solli në shqip nga italishtja Juljana Mehmeti
 Risultato immagini per juliana mehmeti
 

Recours au Poeme – poesie da “La creta indocile” in versione bilingue

Recours au Poeme – poesie da “La creta indocile” in versione bilingue

POSTATO IL 

Alcuni miei testi tratti dal libro “La creta indocile” sono stati tradotti in francese, una lingua che amo.
Qualcuno potrebbe obiettare che se mi avessero tradotto in un dialetto eschimese direi che è il mio dialetto preferito.
Vero!
Però il francese mi piace veramente.
Specialmente nella traduzione accurata ed empatica che Marilyne Bertoncini, che ringrazio molto, ha curato per Recours au Poeme

https://www.recoursaupoeme.fr/ivano-mugnaini-extraits-de-l…/

 

 

Accueil> Ivano Mugnaini, extraits de La Creta indocile

Ivano Mugnaini, extraits de La Creta indocile

Par Marilyne Bertoncini| 4 juin 2019|Catégories : Essais & Chroniques

Poèmes extraits de La Creta Indocile (L’argile indocile),
choix et traduction par Marilyne Bertoncini

 

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La speranza di settembre

Ora che sono finiti gli spunti antichi

e le idee adeguate annotate con cura

hanno ridisceso scale di ferro

senza ringhiera, ora che l’afa

lascia spazio alla sera, sarebbe tempo

di scrivere solo del tempo,

come un naufrago che si innamora

dell’acqua che lo strangola e si abbandona

a un abbraccio infinito.

Sarebbe tempo di percorrere le strade

dei perché lasciando a casa le borse

dei come, cercare una voce, una chiave

nelle ossa spezzate dei cani, nella carne

di ghignanti puttane. Sarebbe tempo,

se il tempo non fosse fragile, imperfetto,

regolato da cronografi tarati male, ancora

soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori,

costretti a fare algebra dell’aritimetica,

sbagliando i teoremi più elementari,

contenti, in fondo, di fallire gli schemi,

le basi, le proporzioni, felici

di sprecare un’altra estate fingendo di studiare

o lavorare, per poi tornare

al primo giorno di scuola, assetati,

immutabilmente, finché sussiste

la speranza

di settembre

 

Espérance de septembre

 

Désormais finis les antiques goûters

et les bonnes idées notées soigneusement

ils ont redescendu des échelles de fer

privées de rampe, maintenant que la canicule

laisse sa place au soir, il serait temps

de n’écrire qu’à propos du temps,

comme un naufragé qui s’éprend

de l’eau qui l’étrangle et s’abandonne

à une étreinte infinie.

Il serait temps de parcourir les rues

des pourquoi laissant à la maison les sacs

des comments, chercher une voix, une clé

dans les os brisés des chiens, dans les chairs

de putains ricanantes. Il serait temps,

si le temps n’était fragile, imparfait,

réglé par des chronographes mal calibrés, encore

sujets à des sauts, des arrêts, orgueils et terreurs,

contraints à faire de l’algèbre avec l’arithmétique,

mélangeant les théorèmes les plus élémentaires,

satisfaits, au fond, de rater les projets,

les bases, les proportions, heureux

de gâcher un autre été à feindre d’étudier

ou de travailler, pour retourner ensuite

au premier jour de classe, bien mis,

immuablement, tant que demeure

l’espérance

de septembre.

 

Il non amore

 

Forse proprio quando comprendi meno

scorgi una fessura, ed è consolazione

sapere che niente si apre, nessuno

squarcio di luce ; di nuovo tace il corpo

e solo il tempo si muove assieme al sangue

intravisto in fotogrammi ingurgitati

assieme a un piatto di cibo che scordi

prima di averlo metabolizzato.

Tra foga e vomito, fame e apatia,

diventi silenzio che ti strozza senza rabbia,

passato che non sai scacciare.

E perdi il senso dello sguardo, la mano,

il sudore, la voce che si insinua nella gabbia

e la frantuma, bocca spalancata, schiuma

di folle che sa bene quanto sia amaro

il non amore.

 

 

Le désamour

 

Peut-être justement quand tu comprends le moins

surgit une fissure, c’est une consolation alors

de savoir que rien ne s’ouvre, aucun

rai de lumière : le corps de nouveau se taît

et seul le temps se meut avec le sang

entrevu dans des photogrammes avalés

avec un plat de nourriture que tu oublies

avant de l’avoir métabolisé.

Entre fougue et nausée, faim et apathie,

devenu silence qui t’étrangle sans colère,

passé que tu ne sais chasser.

Et tu perds le sens de la vue, la main,

la sueur, la voix qui s’insinue dans la cage

et la fracasse, bouche béante, écume

de folie qui sait combien amer

est le désamour.

 

Il grado zero

 

Arriva un momento in cui tutto ciò

che rimane è attesa, sospensione,

grado zero della vita. Diventa colpa,

allora, perfino muovere le dita goffe

della speranza, dirigere il cuore verso

l’idea di un cielo arioso, un morso

di pane, una briciola, un sorso residuo

di vino.

Ma più colpevole e più tenace è

l’udito, fisso sul legno della porta,

inchiodato, crocifisso, appeso

a un battito, un tocco ansioso,

incerto, furtivo : forse il tonfo,

l’incedere cieco del destino ;

forse il calore, sincero, di una mano.

 

 

Le degré zéro

 

Il arrive un moment dans lequel tout ce qui

reste est attente, suspens,

degré zéro de la vie. Et devient une faute,

alors, même bouger les doigts maladroits

de l’espérance, diriger le coeur vers

l’idée d’un ciel dégagé, une bouchée

de pain, une miette, le reste d’une gorgée

de vin.

Mais plus coupable et plus tenace

l’ouïe, fixée au bois de la porte,

clouée, crucifiée, suspendue

à un battement, un coup anxieux,

incertain, furtif : peut-être le bruit sourd,

l’aveugle démarche du destin :

peut-être la chaleur, sincère, d’une main.

 

 

 

Un raggio più tenace

 

Perfino l’aria, elemento vitale,

si fa scommessa, rischio,

peccato mortale. È il giorno

dell’attesa, sospende il battito

tra attrazione e paura. Andare

alla finestra, alla luce del sole, dovrebbe

essere impulso, palpito delle vene.

È diventato dubbio, riflessione :

il bilancio del dare e dell’avere,

la distanza tra il divano e il davanzale.

Si siede la pena al mio fianco, ed è

gentile, quasi gioviale. Mi copre

con un abbozzo di abbraccio la vista

del vetro assolato. Resto seduto,

comodo, stordito. Il gelo nella carne

è carezza, la stanchezza è dolce :

sapere di non volersi muovere,

restare alla portata delle sue dita.

Ma c’è un raggio più tenace, diretto

da trame arcane di mura e rami.

Arriva a toccare la gamba, l’avvolge,

la scalda, la sfiora. Riesco ad alzarmi,

a camminare, verso i voli del cuore.

 

 

 

 

Un rayon plus tenace

 

Même l’air, élément vital,

devient pari, risque,

péché mortel. C’est le jour

de l’attente, suspendu le battement

entre attraction et crainte. Aller

à la fenêtre, à la lumière du soleil devrait

être impulsion, palpitation des veines.

C’est devenu doute, réflexion :

le bilan du donner et avoir,

la distance entre divan et fenêtre.

La douleur s’assied à mon côté, elle est

gentille, presque joviale. Elle me couvre

d’une ébauche d’étreinte la vue

du verre ensoleillé. Je reste assis,

à l’aise, étourdi. Le gel dans ma chair

est caresse, la fatigue est douce :

savoir qu’on ne veut pas bouger,

rester à la portée de ses doigts.

Mais il y a un rayon plus tenace, venu

de trames archaïques de murs et de rameaux.

Il parvient à toucher la jambe, l’entoure,

la chauffe, l’effleure. Je parviens à me lever,

à marcher, vers les envols du coeur.

 

 

 

Folli e strani castori

 

Facendo due rapidi conti, se diamo

al cupo albergatore tutto il denaro

messo da parte per l’affitto mensile

della casa oggi lontana, e gli consegniamo

con gesto ilare e breve le nostre carte

di credito legate a conti correnti

già quasi sfiatati, potremmo restare

qui, sulle sponde di questo lago

incantevole e sperduto, per un totale

di giorni ventidue, stanza con balcone,

colazione e vista compresi nel prezzo.

Staremmo qui, abbracciati nel letto,

guardando il sole e il cielo, il mistero

che si insegue sfiorando il verde del bosco

e l’azzurro dell’acqua. Saremmo nuvole,

e coglieremmo forse in un istante

il codice del vento, la corrente che ferisce

e sostiene, l’aria muta che osserva e passa,

come un alito, un brivido, la vita.

L’ultimo giorno scivoleremmo silenziosi,

ancora abbracciati, dal fresco della camera

al profondo del lago. Solo un rapace ci vedrebbe,

e capirebbe il senso, il cammino, o forse

ci scambierebbe per folli e strani castori,

prima di virare, indifferente, verso

il suo tratto libero di cielo.

 

 

Castors étranges et fous

 

Faisons deux comptes rapides, si on donne

à l’aubergiste sombre tout l’argent

mis de côté pour le loyer mensuel

de la maison lointaine aujourd’hui, si on lui donne

d’un geste hilare et bref nos cartes

de crédit liées à des comptes courants

déjà presque épuisés, on pourrait rester

ici, sur les rives de ce lac

enchanteur et perdu, pour un total

de vingt-deux jours, chambre avec balcon,

collation et repas compris dans le forfait.

On resterait ici, embrassés dans le lit,

à regarder le soleil et le ciel, le mystère

qu’on poursuit effleurant le vert du bois

et l’azur de l’eau. On serait nuage,

et on saisirait peut-être en un instant

le code du vent, le courant qui blesse

et soutien, l’air muet qui observe et passe,

comme un souffle, un frisson, la vie.

Le dernier jour on glisserait silencieux,

toujours embrassés, de la fraîche chambre

au profond du lac. Seul un rapace nous verrait,

et comprendrait le sens, le cheminement, ou bien

nous prendrait pour des castors étranges et fous,

avant de virer, indifférent, vers

le bout de ciel où il est libre et seul.

 

 

 

 Un altro giorno

 

Ti amo quando sei semplice,

quando ti sai stupire per il sorriso

di un gatto, il riflesso di un raggio

di sole, un colore, le luci di Natale,

tutto ciò che io non so e non voglio

vedere. Perso nella mia ragione, resto

a bocca aperta ogni volta che il tuo sguardo

arriva là dove mai sarei potuto entrare,

senza di te, senza gli occhi e le mani

di una donna che ha la mia stessa età

e sa ancora essere bambina, sognando

i Re Magi e la Befana, la neve e il sole,

la stella e una fiaba di mille notti

indiane strette in un abbraccio senza fine.

Una bambina che al momento giusto

sa darmi lezioni di saggezza e di filosofia,

quando mi getto ad occhi chiusi tra i sassi

di un pensiero senza linfa. E non c’è

stella cometa che mi possa salvare

o indicare la strada. Solo il tuo corpo,

le tue dita, il tuo sguardo d’amore

che chiede al giorno solo un altro giorno,

e alla vita la nostra stessa vita.

 

 

Un autre jour

 

Je t’aime quand tu es simple

quand tu sais t’émerveiller du sourire

d’un chat, du reflet d’un rayon

de soleil, d’un couleur, des lumières de Noël,

de tout ce que je ne sais ni ne veux

voir. Perdu dans mes pensées raisonnables, je reste

bouche-bée chaque fois que ton regard

arrive là où jamais je n’aurais pu entrer,

sans toi, sans les yeux et les mains

d’une femme qui a mon âge

et sait encore être une enfant, rêvant

des Rois-Mages et de la Befana, la neige et le soleil,

l’étoile et une fable des mille et une nuits

indiennes serrées dans une étreinte infinie.

Une enfant qui au bon moment

sait me donner des leçons de sagesse et de philosophie,

quand je me jette aveuglément entre les cailloux

d’une pensée dépourvue de sève. Et il n’est

étoile comète qui me puisse sauver

ou indiquer la route. Seul ton corps,

tes doigts, ton regard amoureux

qui demande au jour seulement un autre jour,

et à la vie seulement notre vie.

 

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.

 

 

Marilyne Bertoncini

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Marilyne Bertoncini, co-responsable de la revue Recours au Poème, docteur en Littérature, spécialiste de Jean Giono, collabore avec des artistes, vit, écrit et traduit de l’anglais et de l’italien. Ses textes et photos sont également publiés dans des anthologies, diverses revues françaises et internationales, et sur son blog :   http://minotaura.unblog.fr.

 

Andare per salti

Una mia nota di lettura sul libro Andare per salti di Annamaria Ferramosca.

La nota è già stata pubblicata in versione integrale, comprendente anche una selezione di testi scelti dalla stessa autrice, sul portale Viadellebelledonne, a questo link https://viadellebelledonne.wordpress.com/2017/05/05/andare-per-salti-di-annamaria-ferramosca/ .

L’invito, ai dedalonauti interessati è quello di sempre: incuriosirsi, leggere, cercare il libro e altre belle cose. Le stesse che auspico per tutti voi. IM

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Andare per salti presuppone la volontà e la necessità di staccarsi dal suolo, seppure per un breve tratto. Implica un volo, uno spazio ed un tempo in cui si perde il contatto con il terreno. Annamaria Ferramosca ha percepito nei versi di questo volume un moto interno, una dinamica del sentire, ma, coerentemente con quanto ha scritto nei suoi libri precedenti e soprattutto in piena concordanza con il suo modo di percepire e di vedere, ha corretto il tiro, lo ha ampliato e modulato. Andare per salti è composto da tre sezioni: la prima, eponima, ricalca il titolo del libro, la seconda prosegue con “Per tumulti” e l’ultima va ”Per spazi inaccessibili”. Si ha l’impressione di una progressiva volontà di recuperare il legame con la superficie terrestre, imperfetta, pietrosa ma imprescindibile. Il tumulto richiama l’effetto di un sommovimento tellurico. Un terremoto, sia del suolo che del cuore. Gli spazi inaccessibili sono quelli intricati di una giungla, una boscaglia, non certo quelli sgombri ed eterei del cielo. La Ferramosca, anche in questo libro, percorre con coerenza i cerchi e le curve del percorso letterario ed esistenziale che le è proprio. Cammina in punta di piedi ma con forza e tenacia sul filo esile e vitale sospeso tra il corporeo e l’incorporeo, il carnale e l’etereo, tra la paura e la necessità di sporcarsi le mani con la sabbia e con il fango, con il sudore e con il sangue, con la feroce attrazione dell’imperfezione.
In quest’ottica, partendo da questa prospettiva, anche il linguaggio va adattato, ristrutturato e rimodellato, reso strumento duttile e duplice, atto a tracciare sottili linee azzurre nell’etere ma anche all’occorrenza lettere rosse, dense di sangue, piene della goffa e umanissima sostanza del dolore. “Questa sera ruota la vena/ dell’universo e io esco, come vedi,/ dalla mia pietra per parlarti ancora/ della vita, di me e di te, della tua vita/ che osservo dai grandi notturni”. Sono questi i versi, tratti da Incontri e agguati di Milo De Angelis, scelti dall’autrice, con una cura e un’attenzione che non è difficile immaginare, come epigrafe, come stanza d’ingresso per questo suo libro. Esco dalla mia pietra, recita uno dei versi. Da una pietra si esce come, in quale modo, con quale forza e quale strumento? Annamaria Ferramosca in questo libro sembra dirci che dalla pietra si può uscire vivi, senza essere diventati pietra noi stessi, almeno non del tutto. Si esce, forse, se si è capaci di comprendere che non c’è una sola vita da raccontare. C’è anche la vita altrui da dire, da rendere verso, parola. Dalla pietra di una tomba che è già realtà all’atto del nascere ci si salva parlando agli altri della propria vita e della loro, simultaneamente, cercando di andare oltre il confine, superandolo con il tumulto di un cuore che si spezza e rischia di spegnersi da un attimo all’altro ma che, nonostante questo, non smette di camminare e sorridere, a dispetto di tutto, esplorando e rendendo propri gli spazi inaccessibili del significato, di un significato possibile, giusto o sbagliato ma umano, il luogo dove il senso diventa sentimento. “Schizzo via dalla giunglamercato/ obliquando rallento prendo fiato/ rispondo alla domanda muta/ del venditore ambulante/ – è da un po’ che mi fissa perplesso -/ sai la fine mi tiene d’occhio e voglio/ andare senza direzione/ come un bambino fare splash nelle pozzanghere/ se vuoi se hai tempo appena/ il tiglio smette di gocciolare/ ti racconto una stupida vita/ come stupisce come istupidisce”. In questi versi della lirica d’esordio del libro l’autrice, con i mezzi, gli utensili a lei più cari, tesse un filo che unisce passato e presente, la sua produzione precedente e questo suo libro attuale, lo specchio del momento. Un collage tra parole che vengono agglutinate, come in “giunglamercato”, conservando ciascuna un proprio senso che tuttavia diventa nuovo nell’attimo dell’accostarsi, nel gusto mai spento della voluttà del dire. Stesso discorso per i vocaboli creati ex novo, come con i pezzi di un Lego colorato e dalle infinite possibilità, come nel caso di “obliquando”. Ma il gioco della Ferramosca è sempre serissimo, nella forma e nella sostanza. Viene fatto di immaginare un taglio dolce ma severo perfino nel sorriso che le si apre sulla bocca quando fa “splash nelle pozzanghere”. È una delle caratteristiche che rendono riconoscibile la poetica dell’autrice: la serietà nel gioco e la giocosità nella serietà. La commedia della vita che racconta con i suoi versi alterna, potremmo dire “obliqua”, attimi di levità in cui tuttavia non smette di percepire che il mondo è storto, sbilenco, fuori asse, e istanti di ragionamento che non vuole mai rendere del tutto agri. L’ironia, in questo libro, ha sempre un fondo di amarezza per la deriva umana, osservata, percepita, descritta.
Questo libro è, in parte, una sorta di canto notturno della Ferramosca, scritto con la percezione di una ferita, con la minaccia di un buio incombente. Ma l’autrice anche qui, perfino nella penombra del corpo e dei pensieri, riesce a non dimenticare le voci altrui, e la sua “bambina delle meraviglie” che dorme, serena. Comprende, e ci fa comprendere, che la bambina è altra da sé, vive una vita propria, indipendente da lei. Ha il suo luminoso tempo dell’infanzia, Nicole, e avrà un futuro anche quando non potrà e non potremo più guardarla, proteggerla con lo sguardo e con i pensieri. La bambina è altra da sé ma è anche lei, Annamaria Ferramosca, in grado di conservare uno spiraglio di stupore, e la forza di un salto, illogico e salvifico, perfino al di sopra del “terribile che infuria”, del “solito sgomento” che rende illusoria la speranza.
Il trucco è semplice, tutto sommato: dimenticare, volutamente, ricordarsi di scordare lo “zaino zavorra”. Sapendo che dentro quello zaino c’è tutto ciò che conta e che in realtà quello che c’è conta poco o niente. Non contano le “de-finizioni”, ciò che pone termine alle potenzialità infinite dell’essere e dell’esprimere. Non conta ciò che minaccia e chiama a sé, nel mistero dell’oltre. Non contano perché la bambina è ancora splendidamente “irrubata” dal mondo, è un luogo del tempo in cui il tempo stesso non può arrivare, non può irrompere e non può infrangere. Questo è il fuoco del libro, l’essenza, il succo spremuto da giorni di ascolto e visione, di paura e di attesa. Ed ha un sapore lieve al palato, nonostante la speranza che si fa sempre più esile, che parla come una Sibilla chiusa in un’ampolla. “Nessuno è reale piove sempre/ nella pioggia sbavano i segni/ ma le pagine accidenti quelle sono/ insperate di bellezza/ disperante bellezza irraggiungibile”, scrive. In questo gioco oscillante di ossimori, quasi danza su un filo sospeso, c’è il richiamo mai spento, determinante, imprescindibile: quello di Nicole, la bambina, alunna e maestra, la sua luminosa infanzia, intatta e intangibile, e ci siamo che, pensandola, amandola, salviamo lei in noi e noi in lei.
Da qui, da questa fragile solidità acquisita con un moto d’affetto assoluto, può finire il salto e iniziare il tumulto. La seconda sezione del libro si apre con una danza, un movimento del corpo che si disegna nell’aria con il suo legame attraverso i passi, con la terra: “Tu non lo sai ma questa tua danzaturbine/ ha parole paradossali d’invito ‘nturcinate”. Il turbine sconvolge, scompagina, descrive e genera forme nuove: il coraggio di affidare al corpo la libertà di creare ancora, nonostante tutto, ancora una volta. Il paradosso è sempre fertile, per sua natura, per la capacità di mettere a contatto materie diverse, entità e respiri. Ne deriva un amplesso, corporeo e astratto, etereo e sanguigno, in grado di rendere le parole ‘nturcinate’, intrecciate, avviluppate fino a smarrire il discrimine, l’io e il tu, il presente e un tempo indefinito, la coscienza e il sogno. Da qui, la scena d’amore, nasce, erompe, come “le onde-salento che lampeggiano” e “il soffio greco del timo sullo scoglio”, con la consapevolezza di avere già i piedi nella corrente. La solidità si è fatta fluida, scorre, e ad ogni istante muta. Non è tuttavia morte per acqua alla Eliot. Semmai qui, nell’ebbrezza del tumulto, è vita per acqua, eros esistenziale, dialogo intimo di braccia, occhi, dita, parole.
Fortificati, consci e smarriti quanto basta, possiamo intraprendere l’esplorazione dei luoghi inaccessibili, ultima tappa del viaggio. Ma il tragitto è sempre circolare, ci si muove sempre in circoli, cerchi, Circles, circonferenze e sfere: la tappa finale è anche la prima. Ci si rivolge ad un destinatario ben identificato e al contempo indefinito. Si parla, in questa sezione, ma in fondo in ciascuna pagina di questo libro, della fine personificata che incombe: “Procedi per allusioni/ per sotterfugi sottili ti sottrai/ e intanto lievita/ questa bella estate di frutti e led/ ora so di aver vissuto solo per stanarti/ un’intera vita a decrittare invano/ i cartelli che pianti sulle svolte/ le scritte pallide le frasi/ lasciate qua e là smozzicate/ (per discrezione o forse/ per una più veloce eutanasia) ma/ sai bene quanto intollerabile sia/ conoscere i dettagli del viaggio”.
Un consuntivo, una sorta di giornale di viaggio, un diario di bordo scritto per se stessa e per chi lo leggerà, dopo, in un tempo ancora da venire e definire. Lo è nello specifico la sezione conclusiva del libro ma anche l’intero libro, nella sua sfaccettata unitarietà. Annamaria Ferramosca in questo suo Andare per salti ha scritto un sobrio, addolorato e gioioso inno alla vita, insieme ad un ascolto dell’effimero che siamo. La forza di questo libro è nella capacità di scrivere di sé senza egotismo, senza pretendere di essere il Nord magnetico e la stella polare. L’autrice parla di sé rispondendo al silenzio di un venditore ambulante con il racconto della sua vita. Parla di sé smarrendosi in una danza o nell’ebbrezza di frasi fulminee scambiate sullo schermo di un computer. Parla di sé osservando la bellezza di una fanciulla che prosegue da sola il suo cammino portando però con sé frasi, discorsi, pensieri e sogni che ha raccolto da lei in modo spontaneo, immediato, naturale come il ciclo delle stagioni.
Al lettore, alla fine, viene spontaneo dire che l’attività del decrittare cartelli sulle svolte e frasi smozzicate non è stata inutile. Non è stato invano, il salto, il tumulto, la ricerca costante, ininterrotta. Il fascino, del libro, e della poesia in termini più ampi, è quello di sapere cantare il viaggio, le luci e le ombre, le danze e gli inciampi, senza conoscerne i dettagli. Dando voce e canto al mistero che ci finisce e ci dà vita. Se troviamo, chissà dove, chissà come, la forza di non smettere di saltare con la forza visionaria e danzare con la forza umana, vitale. Anche nel buio.

Ivano Mugnaini

Andare per salti
Annamaria Ferramosca, Andare per Salti – Casa Editrice Arcipelago Itaca di Osimo (An), 2017
Introduzione di Caterina Davinio.
2a edizione Premio “Arcipelago itaca” per una Raccolta inedita di versi.
Pagg. 80, € uro 13,00 – ISBN 978-88-99429-16-4

Annamaria Ferramosca

nata a Tricase (Lecce), vive a Roma. Fa parte della redazione del poesia2punto0 portale, Dove e ideatrice e curatrice della rubrica Poesia Condivisa. Ha all’attivo collaborazioni E Contributi creativi e Critici con varie riviste e siti di Settore. Vincitrice del Premio Guido Gozzano e del Premio Astrolabio e recentemente del Premio Arcipelago Itaca, e finalista ai Premi Camaiore, LericiPea, Pascoli, Lorenzo Montano. Ha Pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca 2017, trittici – Poesie Il segno e la Parola, DotcomPress 2016, Ciclica, La Vita Felice 2014, Altri Segni, Altri Circles– Selected 1990-200 8, collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti , Chelsea Editions, NY 2009, Curve di Livello a le, Marsilio 2006, Pasodoble, Empiria 2006, la Poesia Anima Mundi, Puntoacapo 2011, Porte / Doors, Edizioni del Leone 2002 Il Versante Vero, Fermenti 1999. Ha curato la versione italiana del poetica libro del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D-Poesie 2003-2013, Edizioni CFR 2015 e’ voce ampiamente antologizzata e inclusa nell’Archivio della voce dei Poeti, Multimedia, Firenze. Testi Suoi sono stati Tradotti, Oltre Che in inglese, in francese, Tedesco, Greco, albanese, russo, rumeno. Suo sito Personale: http://www.annamariaferramosca.it

Leopardi vs Leopardi: Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

Giacomo_Leopardi
Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
E’ anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. E’ l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito” (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.