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I nomi delle cose

BARONI COP fronte ridotta
 

Giancarlo Baroni, I nomi  delle cose, puntoacapo, 2020

Nota di lettura di Ivano Mugnaini

«Kangarù risponde all’esploratore / che gli domanda il nome / di quel buffo animale saltellante / Kangarù ripete non capisco». L’impressione è che in questi versi ci sia il tono, il senso e anche l’esplorazione, è il caso di dirlo, del libro di Giancarlo Baroni. Tra serietà e ironia, in transito sui sentieri di una disperazione lieve e tenace, un’allegria di naufragi nei mari e nelle lande del senso, del significato delle parole, e, di conseguenza, di tutto il pianeta in costante rotazione e rivoluzione, senza che nulla cambi. Il nome delle cose nasce da un errore di comprensione. Tuttavia quel messaggio decodificato in modo inesatto viene a costituire comunque un canone condiviso. L’errore diventa norma, lemma inserito nei dizionari. La poesia, forse, ha il compito di muoversi tra i due estremi, la regola e l’eccezione, l’errore e il ritratto di una cosa e di un pensiero. Forse la poesia è quell’animale saltellante. O forse è l’esploratore che, nell’atto di non comprendere, crea l’oggetto, gli dona forma ed esistenza. O magari, al di là di tutto, Baroni voleva soltanto giocare a raccontare un episodio, un malinteso epocale. Ma si tratta di un gioco particolare, in cui, per la logica illogica degli ossimori, ancora una volta il vero equivale al suo contrario, e viceversa.
In questa “Segnalazione” proporrò alcune mie considerazioni che potrei definire, per usare un termine mutuato dalle arti visive, “impressionistiche”. In senso improprio e immediato, ossia, in questo contesto, basate su sensazioni filtrate il meno possibile. Per un’analisi ulteriore vi rimando alla nota introduttiva di Ivan Fedeli riportata qui di seguito, e, come sempre, alla lettura diretta di questo libro dotato di un taglio e di un approccio del tutto originali.
            I nomi, i vocaboli, sono i ponti e al tempo stesso le cariche di dinamite piazzate sotto le campate per farle saltare. Così come ogni espressione verbale è anche allo stesso tempo un invito ad entrare all’interno delle mura e un monito minaccioso a cui si dà voce per difendere il territorio. Nella poesia “Invincibili”, Baroni scrive «Lanciamo proiettili di fuoco / ciononostante avanzano / senza curarsi delle ustioni / come se fossero invincibili, immortali». Probabilmente avanzano perché in fondo abbiamo bisogno di dare loro un nome per poi scoprire che è il nostro stesso nome. Avanzano perché, a dispetto di ogni battaglia più o meno rituale, più o meno tragica o comica, loro, quell’entità sottintesa e ineludibile, siamo noi, i nomi con cui creiamo il nostro mondo e anche le terre nemiche, gli eserciti invasori. E la lezione di maggior rilievo, sull’erba dei campi di battaglia così come sulla carta delle pagine, è che ogni vocabolo ha più di un senso e più di un vessillo. È tutta una questione di punti di vista: «Loro sperano / che dal portone si affacci / un drappello in segno di resa / noi che all’orizzonte si sollevi / la polvere di cavalieri amici».
Come in ogni punto di confine c’è una dogana anche tra la parola e il silenzio, tra il dialogo e il conflitto. E c’è un dazio da pagare: «Niente da dichiarare / disse tacendo dei trecento / euro della salvezza / nascosti nella sacca… E questi / insisteva il doganiere questi?”. La concisione, in questo libro, specialmente nella parte iniziale, è privilegio, scelta e necessità. Baroni lascia che i simboli e le metafore emergano dai fatti, dalle azioni. Nel caso specifico citato poco sopra, lascia che anche l’interpretazione sia libera, così come le opzioni. Lascia che sia chi legge a scegliere chi o che cosa sia il doganiere. Così come, senza forzature, senza imposizioni autorali, ciascun destinatario di questi versi è chiamato a stabilire i volti del confronto e del conflitto, eternamente interrelati: «Ti osservano / quando meno te lo aspetti / quando vorresti nasconderti / dietro un riparo inesistente / quando non te ne importa niente / rannicchiato nell’angolo / in piedi al centro della cella».
Nella sezione “Un seme tra le mani”, la concisione lascia gradualmente spazio a versi più estesi, più dilatati. Ma le domande permangono, ineludibili. Anche e forse soprattutto quelle deliberatamente sottaciute: «Detesti a tal punto il dolore / che del tuo hai scelto di non parlare. / Dici succederà anche troppo / quando da sottoterra dovrai raccontare / i motivi della tua morte / alle anime numerose che in ascolto / a turno riferiranno i loro. / Perlomeno ti auguri si possa / ogni tanto variare / inventando una versione inedita / immaginando qualche vicenda avventurosa / che renda più sopportabile l’aldilà». Il vero e l’immaginazione, dunque. Con la parola come unico modo per contrastare, inventando storie irreali, perfino il tedio di un tempo senza fine.
Eliotianamente, Baroni, immagina e in gran parte teme il risveglio dopo il letargo vitale e forse anche mortale. «Quel che diventeremo lo sappiamo / non serve aggiungere. La terra / seppellita altra terra la trascina / fino a svegliarci. Chissà per quante volte / ancora subiremo, aspettando / tenacemente che l’universo cambi. Come di cenere / soffocata composti e desiderio».
Da questo panorama descritto con schiettezza ma senza compiacimento e senza asprezze fini a loro stesse, Baroni, salva, paradossalmente (ma forse neppure troppo) ciò che non ha nome, se non nell’ambito di territori che risultano indefinibili: l’emozione e lo stupore di fronte ad una bellezza che condensa in sé il bene e il male, il confine ed il suo superamento. Nelle sezioni “L’amore ha la stessa verità” e “Le trappole di Rauschenberg”, vengono chiamati in causa personaggi della letteratura e artisti accomunati dalla complessità, dalla loro natura contraddittoria e fuori dagli schemi. «Al posto delle mele bacate / di grappoli bianchi e rossi / del fico maturo che mostra / il viola della polpa / la cesta di frutta contiene / la testa del Battista. Firmo col sangue / il mio autoritratto». Parole, queste, di Caravaggio, emblematico rappresentante della categoria dei “maledetti”, dalla ragione e dal senso comune. Sono parole che condensano la voce e lo sguardo di coloro che hanno imboccato e percorso strade laterali, strette e insidiose, coloro che hanno voluto e dovuto trovare un modo diverso per evocare i nomi delle cose.
       IM
 
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Nota di Ivan Fedeli

In bilico tra Valerio Magrelli e Luciano Erba, Baroni osserva la realtà con occhio da vedetta e il suo sguardo restituisce quadri di vita mai scontati o dati per certi. C’è una sorta di ironia di fondo che, talvolta, agisce in profondità e, senza corrodere, opacizza il fare umano e cerca una parola definitiva, un lasciapassare, con cui restituire un intero a tante situazioni frammentarie, senza sbocco. Una poesia arguta, quella di Baroni, fatta di scatti cerebrali, ipotesi, situazioni limite (l’uscio, la frontiera, il fronte, le zone franche): qui l’uomo si trova di fronte a uno specchio e dubita di sé e del suo riflesso. È nella terra di nessuno, insomma, che si svolge la storia e la scommessa è quella di trovare un confine. Ne deriva una sorta di situazione metafisica dove resistere con mandel’stamniano rigore.
Lo stile, nitido, dà unità ad un lavoro serio e originale. Il poeta emerge dalle pagine e coincide con l’uomo: è la preoccupazione del mondo che porta a scrivere e la pietas si insinua nei versi, quasi un’ombra cercasse di dare riparo. Autore riconoscibile e maturo, Baroni ne I nomi delle cose crea un sistema chiuso con il lettore, in cui il diaframma della scrittura è facilmente penetrabile per chi, con occhio vigile a sua volta, sa riconoscere i segni di una fragilità umana da tenere cara e proteggere, cosa questa mai scontata.

 

  Giancarlo Baroni, I nomi delle cose
Nota di Ivan Fedeli, pp. 130, € 15,00
ISBN 978-88-6679-239-0
 
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NOTE BIOGRAFICHE

Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016) e Le anime di Marco Polo (Book, 2015). Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. Sue poesie sono state tradotte in lingua inglese dal poeta Max Mazzoli e in francese dalla poetessa Marilyne Bertoncini. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: Sguardi dell’arteBologna e Due volti di Parma; tutti e tre fuori commercio.

A SCUOLA DENTRO

A scuola dentro - copertina
Susanna Barsotti, A scuola dentro, Edizioni DivinaFollia, 2020
nota di lettura di Ivano Mugnaini
Il “dentro” a cui fa riferimento il titolo del libro è il nucleo, ma anche lo snodo, il punto di connessione. Da lì si irradiano i vari volti, gli aspetti, i significati di questo testo. Andare a scuola dentro equivale ad una scelta che può essere letta in vari modi: portare l’insegnamento dentro, in qualità di docente, ma anche acquisire, attingere a sua volta, da quel luogo, conoscenza. Ciò va in direzione contraria rispetto al cosiddetto senso comune.
 “Li hanno messi dentro”, diciamo noi tutti quando commentiamo un arresto. È un modo semplice e sbrigativo per far sì che, dal punto linguistico, e quindi psicologico (e per estensione fisico) di snodi e di ponti non ce ne siamo più. “Li”, cioè “loro”, si contrappone in modo inequivocabile a “noi”. Loro da una parte e noi dall’altra; così come “dentro” è agli antipodi di “fuori”: c’è un muro, altissimo, di cemento, che separa un mondo non solo dalla consistenza fisica ma anche dall’idea dell’altro, dalla necessità e dalla volontà di immaginarlo come una realtà esistente.
Quel “dentro” è lo specchio, deformato, deformante, volutamente tenuto in stanze semibuie, delle nostre paure, delle debolezze, delle colpe, di quella parte della nostra umanità di cui pensiamo di doverci vergognare, un po’ come quei panni, anch’essi proverbiali, che non solo non laviamo in pubblico ma preferiamo lasciare nel fondo di qualche armadio accuratamente chiuso a chiave.  
«Quest’anno ho fatto la mia prima esperienza da insegnante presso il carcere Due Palazzi di Padova. Essendo ancora professionalmente immatura, sia in quanto docente, sia, a maggior ragione, in quanto docente nel contesto penitenziario, si è trattato di un’esperienza tanto faticosa, quanto formativa ed emozionante. Per questo ho deciso, ogni volta che tornavo dal lavoro, di raccogliere in un diario i ricordi, le riflessioni, i sedimenti umani che gli incontri mi lasciavano». 
Mi ha scritto queste informazioni, Susanna Barsotti in una mail alcuni mesi fa, e in un messaggio successivo ha aggiunto «il libro è cresciuto a dismisura e ha un taglio diaristico, dunque abbastanza autobiografico».
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La morte di Empedocle – note di lettura

 

Franco Di Carlo La morte di Empedocle,

Edizioni Divinafollia, 2019
Molto è stato detto e scritto riguardo al recente libro di Franco Di Carlo La morte di Empedocle. Se ne occupati critici ed autori di spessore. Ne ho selezionati due, anche in virtù del loro speciale legame, professionale ma anche “empatico”, con l’autore di Genzano. Qui in calce troverete uno stralcio degli interventi dei due colleghi-amici di Franco: Cinzia Della Ciana e Giorgio Linguaglossa, con l’indicazione del link a cui potrete leggere gli articoli completi.
Nello spirito di questa rubrica, Letti sulla Luna, il cui intento è quello di indicare “oggetti terrestri” interessanti, spesso si tratta di libri, mi limiterò per quanto mi riguarda a fornire le coordinate essenziali e qualche mia impressione, da osservatore, consigliandovi di approfondire la conoscenza con i suddetti oggetti nel migliore, anzi, nell’unico modo possibile: cercandoli, e leggendoli (attività che è ancora possibile sulla terra, non è soggetta a restrizioni e, anzi, è consigliata).
“Non sono interessato alla poesia, / sono fatto di poesia e di nient’altro”, scrive Di Carlo. Ecco. Basterebbero questi due versi. Per tante cose. Una di ordine “pratico”: andare a cercare il libro e magari comprarlo. La seconda consiste nell’indicazione dell’impronta, dello stampo dei versi e dell’autore: la capacità di essere schietto, raccontandosi senza infingimenti, andando dritto all’essenza di ciò che davvero conta, i distinguo, le scelte, le condizioni innate e tuttavia rafforzate da anni di studio e dedizione assoluta e sincera.
Tertium non datur, sostenevano i latini. Invece qui un terzo elemento è concesso ed è rilevabile, ed è di natura “musicale” potremmo dire più che contenutistica (e qui Cinzia Della Ciana, poetessa legata alla musica, sarà contenta): si tratta del ritmo adottato, per volontà e/o per istinto da Di Carlo. Sintetizzando potremmo dire che si muove all’interno di una gamma di suoni, vibrazioni, assonanze e consonanze che oscillano tra classicità e modernità. O, meglio, è più esattamente, attualizzano, anche a livello di suoni, la classicità, ossia la capacità di dare peso ad ogni sillaba senza mai sovraccaricarla o renderla eccessiva, ridondante. “Gli dei camminano potenti – osserva l’autore – annunciano il barlume di una Mitica forma poetica”. Ogni scrittore e poeta, ma direi in termini più ampi ogni uomo, si sceglie un ritmo, una musica individuale. La propria colonna sonora esistenziale. E al ritmo di quella musica muove i suoi passi e fa muovere i propri pensieri, i gesti, le parole. Franco Di Carlo ha scelto una classicità attuale. Non attualizzata, è giusto specificarlo. La sua poesia è attuale perché si muove su cadenze che ricalcano la necessità della sostanza, della corporeità che si eleva alla ricerca di qualcosa che va oltre. Quell’essenza Mitica distingue l’effimero da ciò che permane. Questo aspetto è stato trattato anche da Silvia Denti nella nota introduttiva e da Andrea Matucci nella prefazione. Riguardo all’uso della rima Matucci opportunamente rileva che Di Carlo “ne libera talvolta la carica ironica nel ripetersi del distico baciato”, ma più spesso “ne sfrutta l’intensità sonora lavorando sui suoni della parola e sulle sue componenti germinative”.
Come suono, direi come canto, con la distribuzione accurata di musica e silenzio, vuoto e pieno, analogia e contrasto, si dipanano i versi di questo libro. Fin dai titoli dei vari componimenti, a tratti quasi ossimorici (“Nostalgia della morte”) oppure basati su “contrappunti” o accostamenti di natura pressoché sinestetica: (“Figure del desiderio”; “Sguardi notturni e suoni lontani”).
La poesia de “La morte di Empedocle” si muove tra estremi di sensi e parole, tra contrasti e inter-azioni profonde. Tra sintesi e distensione, alla ricerca del nucleo essenziale. Quello che nasce dalle parole e ad esse ritorna, come il canto di una fine che conclude un mondo e ne apre uno nuovo, ad esso strettamente correlato. “Duro e concreto il sentiero più arduo”, così si apre il componimento “Canto barocco” di pagina 20, che alla fine, con un procedimento che potremmo definire in senso ampio “paratattico” elenca “solitudini metafisiche e orrendo panico, / rive e foreste, campagne e deserti / cerchi cornici gironi e cieli concentrici”. Ma il libro, e la sua musica, è fatto anche di note più lievi, come a pagina 30, nella poesia “Fragile vana foglia”, il cui esordio è una descrizione che racchiude in sé, come certe liriche orientali, il senso di un istante che si estende oltre i confini temporali: “Sciolta nell’essere si confida col sole / l’erba viva”.
Moltissimo resta da dire di questo libro. Vari spunti ed elementi interessanti sono racchiusi negli stralci delle note di lettura di Della Ciana e Linguaglossa. Ma il consiglio da qui, dalla base lunare, resta quello di leggere i testi di persona sfogliando pagina per pagina, confrontando i propri ritmi, le proprie visioni e sensazioni con quelle dell’autore. Perché, come osserva lo stesso Di Carlo nella poesia “La conoscenza” di pagina 35, “Il poeta conosce modi e termini. / Li misura e rivela trattenendo la parola data. / Nulla perdendo. Afferma il mistero. / Compone il suo dire sgomento, / il suo canto nascosto e stupendo.”
       IM
 

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Il genius loci nella poesia di Franco Di Carlo.

Commento di Cinzia Della Ciana in occasione della presentazione del libro La Morte di Empedocle presso l’Enoteca Letteraria in Roma
Non si può capire la poesia di questa nuova silloge di Franco Di Carlo “La morte di Empedocle” (Edizioni Divinafollia, 2019) se non ci poniamo una domanda: da dove viene, dove è nato, dove vive ed è vissuto l’autore? Franco Di Carlo ha il privilegio di esser nato e di esser rimasto sempre a vivere a Genzano di Roma, un borgo incantevole che fa parte dell’area dei Castelli Romani. Cercherò di proiettarvi la vista di quei suoi luoghi al fine di trasportarvi in quei siti così suggestivi e carichi di peculiarità. Genzano si affaccia sul lago di Nemi e con la stessa Nemi, borgo fratello, fa da castone in corona sul cratere del lago. Un lago vulcanico che è un cono rovesciato e le cui superfici sono ricoperte di boschi e di arbusti mediterranei, colorate di verde intenso, quasi viscerale, un verde cupo palude che la sera vira al rosso amaranto. Un lago vulcanico, dunque, le cui acque di giorno sono atre, intrasparenti, oscure nel senso che non consentono di scorgere cosa vi sia sotto e tu quasi meccanico ti senti attratto e ti poni interrogativi su cosa nascondano. E la storia impera perché questo era il luogo di villeggiatura preferito dall’Imperatore Caligola che su quello specchio fece adagiare appositamente due preziosissime navi, come palazzi galleggianti per i suoi giochi e riti, poi affondate dagli oppositori e per secoli custodite dalle acque del lago. Acque che – mutuando la poesia di Ungaretti “Lago Luna Alba Notte” in “Sentimento del tempo” – al crepuscolo diventano quella “conca lucente/che trasporti alla foce del sole” e con la luna fanno tornare “colma di riflessi l’anima” e “acre la notte”. Una ripa scoscesa che come “impallidito livore rovina” (sempre mutuando la poesia ungarettiana), un imbuto che rimanda alla discesa ai regni ultraterreni e che è intersecato da quello specchio liquido giammai occhio, ma ombelico misterico che ti risucchia. Sì perché c’è un’aura di innegabile mistero che ti pervade quando arrivi sopra al lago di Nemi e cammini in una sorta di abbraccio da Genzano a Nemi. Due centri antichi che nascondono le loro tracce nella storia del loro nome, per entrambi legato a divinità lunari. Il toponimo Genzano secondo alcuni va riferita a Cynthia – termine usato per indicare la Luna (di cui Artemide era la divinità nella mitologia greca) – mentre Nemi da Nemus (letteralmente bosco) denominazione, spesso accompagnata da aggettivi o complementi di specificazione (“Nemus Dianae”,”Nemus Artemisium”, “Cynthiae fanum”), con cui era conosciuto il tempio di Diana che sorgeva sulle sponde del lago. E qui si ritorna al paesaggio. Alla divinità dei boschi e della caccia e della fertilità, era consacrato l’intero bosco circostante il lago, e tale culto è ancora oggi vivo se si pensa che adepti accendono candele su altari fra i resti dello scavo che mostra i fasti dell’antico tempio, gli imponenti nicchioni e i poderosi portici. Qui avverti ancora presenze divine, dietro i “fragili cespugli” di mirto avverti che si nasconde un fauno e ti pare di udire “celati bisbigli”, dietro le felci spunta una ninfa e passi di uomini e donne pervasi da danze e riti. Qui il bosco è selva e i lecci, le querce, l’alloro infatti pulsano per iniziati ai riti e ti pervade un senso di sacralità. Improvvisamente non sei in mezzo alla Natura, ma sei in mezzo alla storia che è “sacra”, ai miti, a ciò che non si rivela, all’esoterico inteso come sapere interno, come quegli insegnamenti che nell’antichità greca Pitagora e Aristotele impartivano ai soli discepoli atti a comprendere i segreti della natura. Sei in un universo dove avverti la correlazione dei quattro elementi fondamentali (aria, acqua, fuoco, terra) e la mescolanza di origine, nascita e morte. E non solo, perché qui l’aria punge la sera e dall’alto di Nemi godi il privilegio raro di tramonti che dal lago volano al mare in fronte. Oltre il cratere, infatti, si stende una fascia di piana che separa l’ombelico dalla vastità del mare che tutto abbacina e tutto risolve. Ecco in questi luoghi è nato, si è formato e ha scelto di vivere il Poeta Franco di Carlo, un poeta filosofo che è impregnato dal genius loci. In lui, come fu per Ungaretti all’epoca del soggiorno a Marino, il territorio si trasforma in paesaggio carico di suggestioni mitopoietiche, dove i miti, le leggende, i misteri, la storia, non si riducono a sterili forme retoriche, bensì a vitali archetipi, dei quali il poeta si nutre e con essi si fonde in una realtà primigenia.
( L’articolo completo si trova a questo link: https://cinziadellaciana.it/2019/07/28/la-morte-di-empedocle-lultimo-libro-di-poesie-di-franco-di-carlo/ )
 
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Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 Perché il poeta di Genzano si occupa della «morte di Empedocle»?, di un fatto così lontano nel tempo che è diventato mito? C’è qualche rassomiglianza tra la situazione politica e sociale della Sicilia del quinto secolo avanti Cristo e la attuale? Empedocle nasce attorno al 490 a.C. ad Agrigento, da una famiglia ricca di parte democratica, posizione che condivise e sostenne, anche se, a parere di alcuni studiosi, non partecipò mai ad attività di governo della sua città; ma su questo ci sono opinioni divergenti, lo Zeller afferma che fu a capo della democrazia del suo paese; possiamo quindi presumere che in qualche modo egli abbia partecipato attivamente al governo della sua città ma con un ruolo super partes, in modo non diretto. Muore a 60 anni in esilio nel Peloponneso, probabilmente perché abbandonato dal favore popolare e allontanato da Agrigento, verosimilmente perché il suo progetto politico in favore del popolo fallì, con conseguente esilio decretato dagli ottimati. Penso che l’intendimento di Franco Di Carlo sia stato quello di mettersi idealmente e in immagine nei panni del filosofo greco, e di qui riprendere a tessere, attraversando i millenni, il filo di una meditazione poetica che si situa nel sottilissimo confine tra la meditazione filosofica e quella poetica.
La crisi dei nostri giorni richiede anche alla poesia di ripensare il proprio statuto di verità e di dicibilità, ecco la ragione per cui la poesia si snoda con un linguaggio suasorio e assertivo dove il locutore può argomentare in modo esaustivo e pacato come quando si parla in solitudine tra sé e sé, infatti le interrogazioni sono tutte rigorosamente implicite, il senso non abita in ciò che si dice ma in ciò che si evita di dire, in ciò che non può esser detto, in quanto il rispondere non si dice, dunque non enuncia il proprio senso; il rispondere lo afferma senza dire che lo afferma, in tal modo il senso è implicito e lo si esplicita se viene indicato ciò che è in questione nel rispondere, ma il rendere esplicito il senso equivarrebbe ad impiegare frasari aperti dove il locutore impiega le proposizioni per quello che sono: o interrogative o affermative, in modo dilemmatico e antinomico. È questo procedere nascostamente dilemmatico il rovello del discorso poetico di Di Carlo; quello che il poeta di Genzano chiama «Apparato Tecnico» è il pericolo che incombe sulla civiltà, e allora occorre riannodare i fili del pensiero poetante, ricominciare da Empedocle.
Ho scritto in altra precedente nota critica che Di Carlo “preferisce il lessico colloquiale, il tono basso, gli effetti contenuti al massimo, un passo regolare e simmetrico. Ovviamente, oggi non si dà più una materia cantabile e, tantomeno, un canto qualsivoglia o una parola salvifica da cui toccherebbe guardarsi come da un contagio della peste. E allora, non resta che affidarsi ad «un appello / al dialogo destinato a restare / Inespresso, una parola staccata / e lontana». La «Vicinanza nostalgica» è «la parola [che] nomina la cosa»; siamo ancora una volta all’interno di una poesia della problematicità del segno linguistico, ad una poesia teoretica che medita sul proprio farsi, sulle condizioni di esistenza della poesia nel mondo moderno, poiché la direzione da perseguire è l’esatto opposto di quella che vorrebbe inseguire lo svolgimento del «progresso», ma un «regresso» calcolato e meditato è la tesi di Di Carlo: «questo è il processo regresso da avviare sulla strada / del pensare, arrivare al luogo scelto / opposto a quello voluto dal progresso nell’Apparato Tecnico»”.
Ma il tono basso, il lessico intellettuale, i convenevoli stilistici di cui questa poesia non fa mistero, sono le sue medaglie al valor militare, sono il pegno che la poesia deve pagare per la povertà dell’epoca attuale. Di Carlo fa poesia mentre costruisce la sua meta poesia sulla poesia, opera una riflessione davanti allo specchio di un’altra riflessione, prende a prestito Empedocle e medita sulla problematica sopravvivenza della poesia nel mondo di oggi, sospesa a metà tra pensiero filosofico e pensiero poetico, ed opta decisamente per una poesia intellettuale intrisa di formalismi filosofici e di bizantinismi del pensiero; lambiccato ed elegante, Di Carlo procede con i suoi endecasillabi alla maniera di un filosofo presocratico. Lo dice in forma epigrafica già nel «Prologo»: «Dobbiamo metterci in cammino, forse un viaggio/ all’interno, verso un tacito discorso».
(l’articolo completo si trova qui:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/03/09/franco-di-carlo-poesie-da-la-morte-di-empedocle-divinafollia-2019-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/)
Risultato immagini per la morte di empedocle libro

 

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, D. Maffìa, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri; è del 2019 La morte di Empedocle.

 

La parola e l’abbandono

Il titolo del libro di Mauro Germani, quasi ossimorico, ci offre una prima indicazione su una delle caratteristiche più rilevanti, sia del volume specifico che della poetica dell’autore: la capacità di guardare il mondo e se stesso, la realtà e il pensiero, con uno sguardo sincero in grado di cogliere e descrivere anche il lato in ombra, the dark side of the world, potremmo dire. Non per il gusto del piangersi addosso o allo scopo di esaltare, per contrasto, ipotetiche ed improbabili Arcadie o mondi perfetti, tanto distanti quanto inconsistenti. Per la necessità, semmai, di una documentazione precisa, compilata in modo razionale e partecipato (altro ossimoro chiave). Questo libro ha anche il sapore e la consistenza di un diario di viaggio, un giornale di bordo su cui vengono annotati i resoconti, il bilancio del dare e dell’avere.
Come ha opportunamente indicato anche Marco Molinari nella recensione al libro pubblicata su “L’Eco di Mantova” di cui qui sotto viene riportato uno stralcio, il fulcro del libro sono le riflessioni, gli aforismi e le massime che Germani ha raccolto in un trentennio, e “che hanno al centro il rapporto stretto fra vita e poesia, i contributi dei grandi autori che ha amorevolmente coltivato e, soprattutto, un’etica della scrittura che per lui è stata importante quanto forse lo stesso fare poetico”.
Progetto condotto con rigore, senza mai dimenticare tuttavia, è giusto sottolinearlo, la possibilità (necessaria) di conciliare la consistenza con la “leggerezza”, a tratti perfino con l’ironia. Sì, perché l’interrogativo, the question, avrebbe detto il Principe di Danimarca, non è di poco conto: si tratta di stabilire, o almeno di chiederci, se, considerata La solitudine della parola (è il titolo di una delle sezioni) e presa coscienza dell’ineluttabile abbandono a cui perfino la parola è soggetta, abbia senso scrivere. Non solo, se abbia senso vivere, con la parola e per la parola, per quella “cosa” indefinita e onnicomprensiva chiamata poesia.
La risposta, come spesso accade, non esiste, se non nel moto, nel viaggio, nella dimensione diacronica, quindi nel racconto in versi di ciò che si è visto, incontrato, amorevolmente raccolto o necessariamente respinto. Il viaggio di Germani avviene lungo le sponde di un disincanto che non sfocia nella resa, nella sconfitta incondizionata. La salvezza è in quello sguardo a cui si è fatto cenno, sincero e schietto, senza sconti e senza prospettive alterate artificiosamente. E la salvezza è nella consapevolezza di non essersi lasciati “snaturare”, di aver conservato viva, ad ogni costo, l’essenza. “These fragments I have shored against my ruins”, scriveva Eliot. La terra è desolata, Germani lo sa bene e lo dice con chiarezza. La parola è sola e l’abbandono è inevitabile. Ma si può conservare una Pompei interiore, ripercorrere le strade dei passi e delle idee condivise con qualche compagno di viaggio affine. E si può annotare, facendo ricorso ancora ai versi, un riassunto che non conclude, un pessimismo consapevole che non cede alle tentazioni contrapposte: il compromesso con un ottimismo di maniera, e, dal canto opposto, un patetismo fine a se stesso.
La bellezza residua, ciò che di degno persiste, non è la malinconia agrodolce della sconfitta, non è un amarcord sbiadito e falsato. È, semmai, qualcosa di più ampio, strutturato e strutturale: anche a livello geometrico, potremmo dire. Se il titolo del libro è ossimorico, la “forma”, la ripartizione delle componenti è circolare. L’analisi di Germani parte da un interrogativo e ad esso ritorna. Ma all’interno del circuito idealmente tracciato permane, se non una risposta, una chiarificazione, un elemento di valutazione aggiuntivo, non imposto, non dimostrato, non dato come certo e acquisito. Alcuni frammenti rivelano una luce più marcata, quasi un percorso luminoso che ci accompagna lungo il cammino delle pagine. Ne cito tre, ma invito il lettore a leggerle tutte, ad individuarle, anzi, ad individuare le sue, perché ogni lettore, ogni referente ideale e reale troverà di certo un percorso autonomo. “Il bene esiste, ma è in ostaggio del male”. E ancora, poco oltre, “La vera angoscia è inesprimibile, non ha linguaggio”. Terza delle tante “luci guida” individuabili: “La follia abita il mondo, che ne è la causa prima”.
Questo libro di Germani è scritto con cura e lentezza. Valutando il peso di ogni parola, e, inoltre, considerando volta per volta la corrispondenza di quel valore, quell’indicazione filosofico-numerica, con le variabili fondamentali del tempo, sia quello del mondo che quello individuale. Il tempo e la sua dimensione plurale. Questo libro va letto con altrettanta cura, cogliendo lo spessore di ogni frase e di ogni accento e confrontandolo con i nostri personali bilanci interiori. Solo in questo modo di potrà stabilire se lo sbocco, l’uscita, la risposta non risposta che ognuno di noi troverà corrisponde a quella indicata da Germani nell’anello conclusivo del suo libro, con lucida e appassionata partecipazione: “Chi raccoglierà le parole abbandonate della poesia? […] Le parole aspettano nell’ombra, escono dalle loro tombe di carta, vogliono risorgere per un po’, sconfinare, prima di sparire per sempre nell’oblio”.   
IM

 

Mauro Germani, La parola e l’abbandono, L’arcolaio, 2019

 

“[…] È appena uscito il suo ultimo lavoro, La parola e l’abbandono edito da L’arcolaio, riflessioni, aforismi, massime, raccolte in un trentennio, che hanno al centro il rapporto stretto fra vita e poesia, i contributi dei grandi autori che ha amorevolmente coltivato e, soprattutto, un’etica della scrittura che per lui è stata importante quanto forse lo stesso fare poetico. Questo imperativo morale si è riassunto in una ricerca inflessibile di una parola sincera, che non ha altri scopi al di fuori dell’opera, che deve dire tutto, anche oltre quello che il poeta conosce, e, infine, non arretrare davanti alla verità, pure se scomoda o drammatica. […]”
Marco Molinari in “La Voce di Mantova”, 2 luglio 2019
 
Mauro Germani è nato a Milano nel 1954. Nel 1988 ha fondato la rivista “Margo”, che ha diretto fino al 1992. Ha pubblicato saggi, poesie e recensioni su numerose riviste, tra le quali “Anterem”, “La clessidra”, “Atelier”, “Poesia”, “QuiLibri”. Ha pubblicato alcuni libri di narrativa e diverse raccolte poetiche: l’ultima, in ordine di tempo, è Voce interrotta (Italic Pequod, 2016), preceduta da Terra estrema (L’arcolaio, 2011), Livorno (L’arcolaio, 2008; ristampa 2013) e Luce del volto (Campanotto, 2002). In ambito critico ha curato il volume L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012). Nel 2013 ha pubblicato  Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero (Zona) e nel 2014 Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice). La sua ultima pubblicazione è il libro di aforismi La parola e l’abbandono (L’arcolaio, 2019).
Gestisce il blog margo: http://www.maurogermani.blogspot.com

 

 

Profumo di elicriso – stralci della prefazione

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Pubblico qui alcuni stralci della mia nota ad un libro di recente uscita.

Il romanzo contiene una passione forte ma lucida, adeguata alla descrizione dei tempi e della società descritti, la Sardegna di alcuni decenni fa. Come l’autrice stessa ha dichiarato, Profumo di elicriso è stato scritto per conservare la memoria di un episodio realmente accaduto a un suo bisnonno, ultima vittima di una lunga faida, ucciso per la sua sete di giustizia e di legalità quasi mai presenti in quello scorcio di secolo in Sardegna.

La narrazione nasce dunque da una motivazione personale fortissima. Ma riesce ad andare oltre, assumendo, senza forzature, senza vane pretese didattiche e senza tirate morali, un valore più ampio, universale, evidenziando tramite gesti e sentimenti autentici, l’eterno contrasto tra la bassezza e la volontà di elevarsi, tra la violenza e l’aspirazione ad un’esistenza più umana e armonica.

Profumo di elicriso regala, anzi restituisce il gusto di una scrittura sobria ma non sterile e vuota, priva di acrobazie sintattiche e lessicali, numeri da circo ed effetti sbalorditivi, ma mai aliena all’emozione del racconto, la volontà e la necessità dell’affabulazione, qui ulteriormente accentuata dalla profonda motivazione personale, il desiderio di tener vivo il ricordo di un parente che è diventato simbolo della sete di pace e di giustizia di una famiglia. 

Il tono è sobrio, controllato, come se un narratore onnisciente osservasse con disincanto i propri simili, in una sorta di coro, una coscienza collettiva tipica dei piccoli centri a qualunque latitudine. Ma a tratti lo sguardo si apre in un guizzo o in un sorriso, breve, fulmineo, ma in grado di illustrare con efficacia la crudeltà e la solidarietà, la disperazione e la tenacia, la miseria contrapposta alla grandezza dell’animo.

 Alla pubblicazione del libro ho contributo in parte anch’io tramite la lettura, l’editing e la prefazione.

Chi volesse inviarmi in lettura manoscritti inediti di narrativa e poesia, o libri già editi, mi scriva a ivanomugnaini@gmail.com

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