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TI RACCONTO UNA CANZONE

Quando Massimiliano Nuzzolo e Eleonora Serino mi hanno chiesto di scegliere una canzone su cui scrivere un racconto per il libro TI RACCONTO UNA CANZONE me ne sono venute in mente trenta, o forse trecento.
 Ho optato per il più semplice, in apparenza, dei temi: l’amore. Che in realtà, è, puntualmente, il più complesso. 
Ma, per fortuna, esiste anche il ritmo.
Lo scrittore inglese W. H. Pater nel libro The Renaissance sostiene che “Ogni arte aspira alla condizione della musica”, alla sua possente, essenziale, sensualissima immediatezza.
Ho scritto così un racconto ispirato alla canzone Io che amo solo te di Sergio Endrigo.
Ne copio qui di seguito un brano.
L’invito è a dare un’occhiata al volume intero, edito da Arcana Edizioni.
Dare un’occhiata e magari comprarlo.
Perché l’idea è bellissima e perché le autrici e gli autori dei racconti hanno confermato che la ricchezza è nella varietà, nelle infinite variazioni sul tema.
IM

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Uno stralcio

del racconto

IO CHE AMO SOLO TE
[…]

Cerco nella memoria, rovisto negli scaffali polverosi dei ricordi, per individuare il punto esatto in cui ho ascoltato quella canzone per la prima volta.
Mi viene in mente la piazza del mio paese. Quell'asfalto scuro e squamoso percorso da cani ossuti e vecchi orgogliosi su cui, giocando e cazzeggiando, ho lasciato vari strati di pelle delle ginocchia e dei gomiti.
Ma quella sera il piazzale era pieno di sedie e di luci e di un palco degno della Sanremo de noartri, il Festival delle Borgate.
Tre ragazzine battevano le dita sul microfono per scimmiottare Whitney Houston e gruppi di eredi degli eredi dei Beatles con capelli a schiaffo sulla fronte vuota urlavano in falsetto lasciando perplessi i piccioni schifati affacciati sul cornicione del campanile. Apatici al punto di non voler neppure effettuare la manovra per cui sono famigerati e temuti. Eppure, in quell’attimo di non vita, nel bel mezzo di un familiare non mondo, comparve chi non mi sarei mai aspettato. Lui, il quasi ergastolano, il silenzioso, il duro che passava con la sua macchina grigia e lo sguardo di Lee van Cleef nei film di Sergio Leone.
Proprio lui, el hombre, il gringo che mi aveva sempre inquietato, intimorito, irritato. Lui, l’antipatia fatta persona, era concorrente a tutti gli effetti, regolarmente iscritto alla gara canora.
Venne il suo turno. Salì sul palco con passi rapidi e furtivi degni di Diabolik. Impugnava il microfono come una pistola. Temevo ci avrebbe sparato. Una canzone esplosiva e il festival sarebbe approdato sui giornali. Non sulla pagina degli spettacoli ma nel bel mezzo della cronaca nera. Il borgo avrebbe finalmente acquisito una notorietà solida come il piombo.
Invece, con voce timida, quasi dolce, iniziò a cantare.
Guardava di lato verso la terza fila, dov’era seduta sua moglie.
Non gliene fregava niente del pubblico, né, tantomeno, della giuria. Tutto sommato non si curava neppure della band che cercava affannosamente di tenere il ritmo delle sue stonature.
Cantava per lei. Commosso, sincero, con gli occhi, con le mani, con il cuore.
“C'è gente che ama mille cose / e si perde per le strade del mondo. / Io che amo solo te, / io mi fermerò / e ti regalerò / quel che resta / della mia gioventù”.
Quel giorno ho imparato alcune cose.
Mai giudicare una persona dalla faccia che fa o che gli fanno fare.Mai giudicare una canzone dalla somma dei voti di una giuria che poi alla fine premiò un emulo improbabile di Julio Iglesias vestito con un doppio petto bianco da settecentomila lire senza IVA e con la tasca in cui infilare la mano collocata tra cuore e fegato, lì dove fa più scena.
Quel giorno ho imparato che il vero vizio del presunto puttaniere, giocatore d'azzardo, fumatore seriale, era amare.
Amare e avere il coraggio di cantarlo di fronte a duecento persone che lo odiavano con tutto il cuore e almeno tre quarti della milza e di tutti gli organi interni.
Lui, lì, quella sera, come sempre, cantava per lei e per l'amore.
E io, commosso e divertito, mi sentivo un coglione. Io avrei votato per lui. Senza alcuna esitazione.Ripenso oggi, ancora una volta, a quella sera e a quella canzone.
Tu non c'eri.
Non esistevi ancora per me.
Non c’eravamo ancora conosciuti, o “riconosciuti”, come dici tu.
E allora vorrei dirti... andiamo a cercare quella piazza.
È cambiata, ora è un parcheggio per SUV di casalinghe in carriera che fanno la spesa per fare una foto alla pastasciutta col pomodoro e con la mozzarella dietetica, quasi sintetica anch’essa.
Ma il Festival c'è ancora. E c'è ancora l’ormai storica Sagra ad esso legata.
Se te lo dicessi, alla prima sillaba della parola “sagra” saresti già pronta, già vestita, già con il cappellino da turista sulla testa al di sopra di un sorriso felice e autentico come quello di una bambina. Una bambina di cinquant’anni, molto più saggia di me.
Io invece mi sgomento già alla prima lettera, per il parcheggio, per le file, per le posate di plastica, per le urla etiliche dei vicini di panca, per le note malinconiche e le danze atletiche dei novantenni, i millennials del secolo scorso molto più vitali di me.
La Sagra non la nomino neppure.
Mangiamo anche stasera sulla nostra terrazza, nella nostra casa in Via dei Matti al numero zero, in un posto sperduto, al margine di una strada che non prosegue oltre se non nei prati di un'asina geniale dal nome Fiona, tra lucciole che danzano nel buio e tronchi di alberi caduti su cui sedere, quelli che tu chiami “alberi delle fate”. Ci sediamo sul terrazzo, nella semioscurità della tua lampada di sale, rosa ovviamente, perché a te danno noia le luci elettriche troppo nitide. E infatti le mie ginocchia conoscono alla perfezione tutti gli spigoli del letto. Ormai siamo molto più che amici. Fanno finta di non sentire le mie imprecazioni in dialetto e in italiano. Ma vale la pena sacrificare un residuo di un eroico menisco per giungere ad un tuo abbraccio. Metto su YouTube, sul tuo tablet che lagga molto meno del mio, Io che amo solo te, per vedere sul tuo viso, a sorpresa, la tua reazione.
Dopo qualche secondo mi dici: “È bella, ma è vecchia”.
Immediatamente cerchi Irama e Fred de Palma.
[…]

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Il diavolo veste Gaga

Chiara Zanetti, poliedrica autrice e redattrice, mi ha segnalato uno dei libri di cui cura la promozione tramite l’Agenzia Aletheia. Si tratta di Il diavolo veste Gaga di Andrea Biscaro. Chiara sintetizza l’essenza del volume osservando che l’autore ha colto “la sfrontata ambiguità di intenti dell’Arte di questa diva mondiale, vista nella sua infinita purezza come nella sua totale trasgressione”.
Sulla base di questa accattivante premessa, e conoscendo la passione autentica di Chiara per Lady Gaga di cui ha tradotto tra l’altro l’intera discografia, ho accettato volentieri di porre ad Andrea Biscaro alcune domande sul suo “innamoramento” per Lady Gaga e sul libro che è frutto dell’intenso “colpo di fulmine”.
IM

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5 domande a

 Andrea Biscaro:

autore del libro

Il diavolo veste Gaga.

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” ai lettori di Dedalus?

Un giornalista qualche anno fa mi ha definito “scrittore multitasking”. Credo sia vero. La scrittura è la mia vita e mi muovo su decine di binari paralleli: narrativa, canzoni, fumetti, libri per bambini, sceneggiature. Ma non solo. Sono anche un ghostwriter. Mi piace immedesimarmi nella vita degli altri.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo rapporto più intimo con questo tuo recente lavoro, indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

È stata la visione di “A star is born” a innescare in me il desiderio di approfondire la conoscenza di Gaga. Dopo il film mi sono inabissato nella sua opera. Un’opera, anche in questo caso, “multitasking”. Adoro chi sa muoversi su più piani. Gaga è un vulcano, un genio. Qualunque medium tocchi, questo diventa oro. Ho deciso di scrivere un libro su di lei, perché era l’unico modo per incanalare l’esplosione di sensazioni che mi scatenava la sua opera, per darle un ordine. Mi è sembrato assurdo, anzi, che non esistessero libri, saggi, studi su di lei. Manca un bibliografia su Gaga. Forse ho colmato una lacuna.

 

3 ) Il titolo del tuo libro richiama in modo immediato un noto film. Ma è anche una sintesi efficace dei contrasti e delle tensioni tra gli estremi opposti di cui si nutre (e ci nutre) l’artista di cui parli.

A tuo avviso quanto è concesso alla scrittura di esplorare la realtà e quanto invece si muove essa stessa nell’ambito dell’immaginazione? Per dirla con Amleto, in che misura siamo all’interno di un sogno e quanto invece ci è dato di cogliere della “verità”, fosse pure la verità della trasgressione?

Scrivere è un giano bifronte: da una parte dà forma e senso al reale, dall’altra quella stessa realtà la destruttura, fino a distruggerla, fino a trasformarla in un sogno, in una visione. D’altronde parliamo di arte. Nulla è più reale di ciò che è irreale. Scrivere di Gaga, poi, è un doppio sogno: onirica e psichedelica, pur con radici antichissime conficcate al suolo, Lady G. racconta di verità terrene e arcane. “Il Diavolo veste Gaga” cerca di far luce nel suo buio, e di far buio nella sua luce.

 

4 ) Hai rivelato in un’intervista che il libro nasce da un innamoramento, o meglio da un colpo di fulmine.

In che modo hai conciliato la passione irrazionale con il necessario rigore logico della scrittura?

La scrittura dà forma all’amore. Scrivo per dare ordine al caos dell’amore. E forse anche per allungarne l’effetto inebriante. Per capirlo, anche.

5 ) Quali sono stati i momenti più esaltanti durante la realizzazione del libro, e, qualora ci siano stati, quelli più frustranti e duri da affrontare?

Credo nel potere rivelatorio della scrittura. L’atto stesso dello scrivere fa affiorare verità nascoste. Gaga scrive e canta attraverso codici e simboli, soprattutto nei primi album e nei primi video. È stato esaltante capire i suoi messaggi in filigrana. Penso a “Paparazzi”, “Alejandro”, “Bad Romance”, “Telephone” in particolare.

Devo dire che non ci sono stati momenti frustranti da affrontare.

6 ) Dopo questo libro, dopo questa ampia e documentata dichiarazione d’amore, il tuo rapporto di passione e attrazione per Lady Gaga è rimasto lo stesso o si è in qualche misura modificato?

Scrivere un libro è come vivere intensamente un rapporto d’amore. Quando finisci di scriverlo, in qualche modo si esaurisce quella carica erotica iniziale. Si esaurisce perché tutta quella passione, tutto quel sentimento galvanizzante, l’hai travasato nel libro. Diciamo che adesso il mio “rapporto” con Gaga è più sereno, meno psichedelico. Più quieto e razionale, ecco.

7 ) Quali sono le vie, non solo artistiche ma anche esistenziali, che a tuo avviso Lady Gaga indica, senza volerlo magari, con il suo percorso biografico di persona, di essere umano dotato di grande fragilità e altrettanto grande forza, prima ancora che di cantante?

Rispondo a questa domanda citandoti un brano del mio libro:

Quante cicatrici ci stanno sulla superficie di un cuore?

Quanto ha sopportato per arrivare dov’è adesso?

Nel brano “Free Woman”, dall’ultimo splendido album “Chromatica”, canta:

Questo è il mio dancefloor

ho combattuto per conquistarlo

Su quante macerie di se stessi sorgono le fondamenta di un successo come il suo?

Quanta forza serve per conservare, vivere e sviluppare una fama come la sua?

Lady Gaga ha detto che la sua forza è la sua capacità di amare.

Crede che avere una voce forte sia essenziale per amare il mondo.

«Io amo tantissimo il mondo, ecco perché la mia voce è così forte» ha detto in un’intervista. Alla domanda: «Ti ricordi il momento in cui hai scoperto per la prima volta la tua voce?» ha risposto: «Credo che una persona scopra la sua voce quando scopre se stessa».

8 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra gli autori classici che tra i contemporanei?

Sono un lettore onnivoro, da sempre. E come tutti gli autori, ho avuto i miei maestri. Te ne cito alcuni, in ordine sparso: Bret Easton Ellis, Bukowski, Lovecraft, Poe, Tiziano Sclavi, Dino Buzzati, Pasolini, Thoreau, Cioran.

Non amo confrontarmi con i miei colleghi. Gli scrittori sono noiosi, parlano solo di se stessi. Gli autori contemporanei? In Italia l’unica vera grande scrittrice è Isabella Santacroce, una sublime outsider, un genio che ha scardinato le “buone” regole della narrazione. Adoro gli artisti fuori dal coro, quelli che sanno giocare e smontare i giochi.

9 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

Vivo su un’isola da 15 anni, in una sorta di lockdown volontario. Per me non è cambiato molto, devo dire. Artisticamente, forse, sono cambiate le richieste, i temi. Meno thriller, ad esempio. La gente ha meno voglia di brividi. Editori e committenti in questi ultimi anni hanno più voglia di storie d’amore. Meglio se vere, autentiche. Il mondo ha bisogno di conforto, anche dall’arte.

10 ) Concludo con un’ipotesi, uno scenario immaginario più che una domanda: se avessi modo di incontrare di persona Lady Gaga, quale sarebbe la prima cosa che le diresti, e, quale sarebbe invece, eventualmente, la frase che non le diresti mai, pur sentendola o pensandola?

Credo che non le direi niente, se non: “Grazie, Stefani!”.

Mi piacerebbe abbracciarla e basta.

E penserei per lei il migliore dei miei sorrisi.

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                    COMUNICATO STAMPA
 Il diavolo veste Gaga: l’ultima pubblicazione di Andrea Biscaro
 IL LIBRO
Proprio in concomitanza con l’uscita nelle sale cinematografiche di “House of Gucci”, Andrea Biscaro pubblica con Officina di Hank il libro “Il diavolo veste Gaga”, disponibile nei negozi e negli store online dal 13 dicembre 2021.
Lady Gaga è Arte in ogni sua manifestazione, questa la tesi dell’autore, il cui testo rappresenta un tentativo di afferrare, smembrare e analizzare il corpo dell'opera di una grande artista, dell'ultima grande diva mondiale, le cui canzoni non sono che la punta di un iceberg. Gaga, infatti, percorre a un tempo musica, moda, cinema, pubblicità, politica, ribaltando il concetto di PopArt. Non è più l'arte ad essere al servizio della cultura di massa, ma la cultura di massa a porsi a servizio dell'arte; ArtPop, quindi, come recita il titolo del terzo album della cantautrice statunitense, pubblicato a novembre 2013.
Ogni passo, ogni apparizione, ogni album di Lady Gaga è una rivoluzione culturale e di costume. Scandalosa, eccessiva, “Mother Monster” è diventata il simbolo di un’orgogliosa diversità, così come il suo brano “Born This Way”, cantato in occasione dell’Europride di Roma 2011.
Inafferrabile e iconica, Gaga gioca con la sua molteplice personalità, esibendo le mille facce del suo cuore messo a nudo, alla stregua di ciò che scriveva nel suo omonimo testo Charles Baudelaire:
“Si possono fondare imperi gloriosi sul delitto, e nobili religioni sull'impostura.”
Come un veggente travestito da esteta, l'autore-dandy svelava in questo modo al lettore la verità in tutta la sua nudità perturbante, la stessa operazione eseguita dalla diva analizzata da Andrea Biscaro.
Angelo e demone, Lady Gaga sa offrirsi come la ragazza acqua e sapone di “A star is born” e nello stesso tempo come la diabolica Contessa assetata di sangue di “American Horror Story”.
Un libro multiforme e camaleontico, proprio come il soggetto narrato e, in ultima analisi, come la verità dell’essere umano.
UN ESTRATTO DAL TESTO
“Quante cicatrici ci stanno sulla superficie di un cuore?
Quanto ha sopportato per arrivare dov'è adesso?
Nel brano “Free Woman”, dall'ultimo splendido album “Chromatica”, canta:
 Questo è il mio dancefloor
ho combattuto per conquistarlo
 Su quante macerie di se stessi sorgono le fondamenta di un successo come il suo?
Quanta forza serve per conservare, vivere e sviluppare una fama come la sua?
Lady Gaga ha detto che la sua forza è la sua capacità di amare.
Crede che avere una voce forte sia essenziale per amare il mondo.
«Io amo tantissimo il mondo, ecco perché la mia voce è così forte» ha detto in un'intervista. Alla domanda: «Ti ricordi il momento in cui hai scoperto per la prima volta la tua voce?» ha risposto: «Credo che una persona scopra la sua voce quando scopre se stessa».”
 NOTE D’AUTORE
Andrea Biscaro è nato a Ferrara nel 1979. Vive e lavora all'Isola del Giglio. Romanziere, cantautore, poeta e ghostwriter è considerato dalla critica una delle voci più interessanti e poliedriche del panorama letterario italiano.
Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo: la biografia rock “Io sono il Nirvana – la storia di Kurt Cobain” (Caissa 2018), il libro-cd “Ballate della notte scura” scritto a quattro mani con il padre di Dylan Dog, Tiziano Sclavi (Squilibri 2013, Repubblica XL 2013), il graphic novel “Pornopoema” (Eretica 2020), “La foresteria delle tre sorelle” (Segreti in giallo 2020), “Un cuore pulsante di medusa su uno sfondo rosa” (Nulla Die 2021).
L’EDITORE
Officina di Hank è il marchio editoriale che dal giugno 2020 contraddistingue i prodotti di HC S.r.l., società attiva in campo editoriale dal 2006. La casa editrice ha da sempre come tratto fondamentale quello di raccontare storie dal mondo della musica, e il suo catalogo, in cui spicca quest’anno l’autobiografia di Mark Lanegan, ne è testimonianza diretta. Al di là della musica, il rock fra le righe dell’Officina di Hank si esprime con l’impegno in progetti come la collana “La Raccolta”, nata per diffondere il pensiero antiproibizionista e rinnovare la percezione del pubblico sul tema della cannabis e dintorni.
www.officinadihank.com

Andrea Biscaro foto 2 Andrea Biscaro foto 3

 

PETITE SUITE – per ringraziare la pioggia del mattino

Claude Debussy / Paul Verlaine | Clair de Lune, 1869 | Tutt'Art@ | Pittura  • Scultura • Poesia • Musica
 

PETITE SUITE

PER RINGRAZIARE LA PIOGGIA DEL MATTINO

 

                                       “Così che il mondo

                                        si vede come socchiudendo gli occhi

                                        nuotar nel biondo”

                                                Eugenio Montale, MINSTRELS                                                                               da C.  Debussy,  in Ossi di  seppia, 1927

 
            Ritornello rimbalzi/ tra le vetrate d’afa dell’estate. / Acre groppo di note soffocate, / riso che non esplode / ma trapunge le ore vuote. / Musica senza rumore / che nasce dalle strade, / s’innalza a stento e ricade / e inumidisce gli occhi, così che il mondo / si vede come socchiudendo gli occhi / nuotar nel biondo”. Sono questi i versi che vorrei scrivere, se fossi un poeta. Un giorno qualcuno, ne sono certo, tramite queste parole darà forma e voce alle mie note. Aspre, acri, nuove. Come il pensiero di lei, timore e attrazione infinita per l’occhio di tigre in molli rotondità. Morte in artigli di rosa.
            La mia musica è modellata su di lei, l’immagine, la presenza in me di lei. L’essenza. Violenze travestite da delicatezze inaudite. Non cercate le colonne della costruzione. Le ho tolte. Il dolore è la regola. Il piacere è la regola. La musica è libera ed è dappertutto. A tratti anche sulla carta. Qualcuno, un mio amico, o nemico, non so, mi ha detto che la gente dovrebbe morire per la musica. La gente muore per un sacco di sciocchezze: capricci manicomiali di qualche potente, interessi biechi camuffati da ideali. Dovrebbe morire, la gente, per la musica. La musica salva molte più vite.
            Se dovessi ritrarla proverei a tracciare le curve di un arabesco. Il più spirituale dei disegni, ma anche il più sinuoso, il più avvolgente. Dà un senso di spavento e di fuga, di caduta, oppure di languore, in particolar modo sensuale. È inclinazione verso il basso, crollo, tuffo in abissi d’aria e d’acqua. Ad occhi chiusi, giù, verso il suolo, che poi è il solo modo di elevarsi, vedere il cielo in uno specchio umano. L’arabesco è mistero, ebbrezza lineare e arcana, come la musica di Bali e Giava.
            Quando si scrive musica, o poesia, credo, o qualsiasi altra forma di dannazione e salvezza tramite l’espressione del sé, non si può ascoltare i consigli di nessuno, se non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del mondo. Nella storia di un individuo, nella storia di ciascun individuo. Come disse Cézanne, “Je travaille sur le motif”. Una cosa intima, personale, che rende vana qualsiasi analisi formale e teorica. L’intimità è segreta, insondabile. Resta celata, tenacemente. Il riso non esplode, non c’è ostentazione di rabbia, di gioia, di pena.
            I familiari e i conoscenti dicono che sono equilibrato, suadente, sorridente. Così mi descrivono. Mi vedono solare, libero di danzare sul sentiero dell’esistenza. Si sbagliano di grosso. Sono solo un servo. Il pianista di Madame von Meck. La megera che ha già vampirizzato prima delle mie le braccia esili di Ciajkovskij. Sono un pianista privato, certo. Privato della libertà. Insegnante e musicista tuttofare. Praticamente un maggiordomo, nulla di più. Insegno alle figlie ricche e sceme della mia patronne scale incerte e infinite, note e accordi ordinari, mentre loro pensano ai modi più originali per togliersi di dosso alla svelta i corpetti mentre sono con i fidanzati o con qualche chaperon d’occasione.
            Sogno L’après-midi d’un faune, l’ira, la furia, passione che lacera e sbava e crea e sfida a duello l’eterno. Ma sono qui, un impiegato qualunque, come mio padre, non di più. Di meno, semmai, senza seme, senza senso, fosse pure senso comune, senso della famiglia, senso di qualche senso possibile, giusto o sbagliato che sia.
            Tra le vetrate d’afa dell’estate, anche oggi risa e grida inesorabili. Chiudo le imposte della stanza senza neppure più il colpo di grancassa della rabbia che fa sentire con un sobbalzo la presenza del cuore. Serro con cura ammiccando furtivo agli occhi bruni del buio. Pochi attimi dopo, con un tempismo degno di Mozart, sento il suono di lei. I passi ritmati sul selciato. Due appoggi lievi ed un terzo più deciso, come un tacco sottile che trafigge il silenzio, lo beffa, lo irride. Poi, sotto la mia finestra, la voce. Come per caso, per capriccio, per destino, non ne ho idea. Al di là dei vetri e delle persiane sbarrate, la sua voce. Nel sole e nella pioggia, ogni giorno. Canta. E, ne sono certo, balla. Innocente e spietata Salomè. Vuole la mia testa, non c’è dubbio. In un certo senso l’ha già ottenuta. Calda, sanguinante, sopra il vassoio d’argento del pomeriggio. Ha già reciso i pensieri, le vene del collo, i respiri. Sono roba sua. Completamente. Il bello è che di lei invece non ho nulla. Canta, sicuro. Ma il resto è ipotesi, scommessa. Canta per me, mi dico. E un attimo dopo mi viene da ridere. Quale diritto ho di pensarlo? Forse canta per sé, per il volo di una tortora, per il bacio del sole, per regalare una manciata di vita ad un barbone. Per la musica. Per cantare.
            Vive di musica. Questo ho bisogno di crederlo, ne ho necessità. È una cantante, si nutre di note, come me. Cosa canta? Liriche sublimi o canzonette da tabarin? Se solo desse fiato ad una nota in più, capirei. Ma si ferma sempre sul bordo, con un piede sospeso nel vuoto. Si blocca ad un solo centimetro, un filo, un alito dalla comprensione, dalla scoperta.
            Che è? Forse è Bitilis, fanciulla e donna delusa dall’amore degli uomini votata al Circolo di Saffo a Mitilene, quindi esule, prostituta e ragazza sacra. Oppure è semplicemente una Cortigiana egizia, Pioggia del mattino, Danzatrice con i crotali, Tomba senza nome, Acqua pura di fonte. 
            L’ho ascoltata meglio. Nudo accanto alla finestra, l’orecchio teso, il petto che vibrava più silenzioso del respiro, ho catturato la chiave, l’ho stretta tra le dita. Come un padre individua nella folla le teste dei figli, come un amante percepisce con gli occhi e con il corpo i fianchi e il seno dell’amata.
            Canta note mie! La mia musica! Fonte e sbocco, fiume in un mare che da me nasce e a me ritorna. Canta me. Quindi è mia. Lo so, detto e concepito in questo modo suona come pazzia. Ma l’equilibrato, suadente e sorridente Claude Debussy non esiste. Non è mai esistito. Esiste il folle Debussy dalle finestre chiuse anche di giorno. Il servo del pentagramma e di se stesso necessita aria, carne rosa che freme.
            Si chiama Emma, come Madame Bovary. Languida e micidiale tessitrice di sogni. Mi appartiene, mi spetta. Se la follia possiede me, mi fa schiavo, mi fa vivere e mi uccide, anch’io, per contrappasso, ho diritti su di lei. Di vita e di morte.
            Jeux. Giochi. Quelli di cui è composta la materia dell’esistere. Giochi mortalmente seri. Ironici, e quindi belli, violenti, allegri, maestosi. Con ciò che abbiamo, molecole del tutto e del niente. Dolore, carezze, parole.
            Io, il vero me stesso, l’autentico Debussy, volevo essere un poeta. Era ed è il mio destino più vero l’esagerazione, avidità di voluttuose ferite, bocca spalancata verso un cielo assetato di pioggia e di miele. O sopra i seni sodi di una fanciulla in fiore.
            Sono qui invece, chino sul bianco e sul nero identici a loro stessi. Un lacchè in frac. Con l’immancabile inchino finale. Loro applaudono e io fremo, corro con la mente verso note altre, quelle che loro non capiranno, giudicheranno troppo vecchie o troppo moderne. La mia è una scrittura musicale ebbra e geometrica, se così posso dire. Sogno la trama impalpabile, la tela di ragno che divora il mondo e se stessa di Baudelaire, la malinconia lacerata di Rimbaud. Rifuggo con tutte le forze, con le pazzie che possiedo e mi possiedono, ciò che “blesse mon coeur d’une langueur monotone”.
            La mente, ecco, la mente. Erigere un monumento di note alla gabbia che può essere giardino, labirinto perduto di gioia e d’orrore. Ritrovarsi. Ritrovare lei. Le darò un altro nome, lo merita. Le parole corrono, spaziano dentro i suoi confini. La chiamerò Amaryllis. Un omaggio a Lycidas, il giovane reso immortale da Milton, il ragazzo morto povero di anni e infinitamente ricco di sogni. Forse un poeta. Nella sua terra ideale, lo spazio che nessuna onda salmastra, nessuna morte per acqua, potrà strappargli, Lycidas sognava di mettersi in viaggio verso il luogo in cui è possibile “to sport with Amaryllis in the shade”. Intrattenersi con Amaryllis nell’ombra. Non solo un contatto di corpi. Un connubio tra luce e oscurità, calore e gelo, creazione e distruzione. Rinnovamento. Vita giovane percorsa dal vento dell’ovest.
            Già, il vento, fame di respiro. Apro la finestra della mia stanza. Uno spiraglio dapprima, poi la spalanco del tutto. Non lo facevo da anni. Uscire. Dalla casa. Da me. Tra gli sguardi e le grida dei ragazzi che fuggono a frotte dalle scuole, spinte, sputi, bestemmie, risate.
Inseguirla. Al di là del portone del suo palazzo chiuso a metà. Spingerlo ascoltando il rumore delle scarpe sulla ghiaia e sul marmo. Come entrare in punta di piedi nella Città Proibita, l’Oriente che ho nel sangue, ricordo di qualcosa di sconosciuto custodito dentro da sempre. Oppure, semplicemente, entrare in un cortile che sa di basilico e gerani rossi sui davanzali. Corri amore, incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo,/ è questo l’attimo, è questo il momento,/ porta solo le tue labbra ed un’arancia;/ non esitare, vola sulle tue scarpe più belle/ quelle leggere, di tela rosa e bianca,/ incontriamoci adesso,  in un albergo di provincia/ anche senza il mare.
            Sono queste le parole che le dirò, se riuscirò a incontrarla. Lei le ascolterà in silenzio, bella e serena da fare paura. Dirà che le piacciono, forse, che suonano bene, come tasti ottimamente accordati. Mi offrirà la sua amicizia. Qualcosa di grande, di prezioso. Sorriderà benevola e si proclamerà mia amica. Un dono immenso. Che a me, adesso, fa orrore. Anche l’immenso è poco, a volte. Ora come non mai vorrei essere un poeta come il mio amico Verlaine per dirglielo, per farglielo capire, sentire nelle vene. Vorrei, ma so solo suonare. Dare fiato a note che spingono con i gomiti negli angoli della testa per scappare via. Da quando lei è dentro i pensieri, nelle voragini spalancate di ogni attimo, sento in me l’interminabile refrain del Preludio a L’après-midi d’un faune. Un violino che insiste, recide l’aria. Non c’è amicizia possibile per un fauno. Non esiste, non è concepibile. C’è solo amore, aspro, sublime, oltre, sopra, più forte della ragione, della logica, di se stesso. Claire de lune per dolcissimi licantropi. E la luna, si sa, è fascinosa, sfuggente.
            Per conquistare la luna, forse, bisogna essere più folli e più saggi di lei. Avere il coraggio della verità. La più estrema delle bugie. Dire parole nitide, cristalline, pioggia sulle foglie tenere di un giardino. Me lo ha detto lei stessa del resto, con uno sguardo prolungato, lanciato come per caso ma in realtà con un fine preciso. Con pazienza, come si insegna a un bambino a camminare: “Se ami qualcuno diglielo. Esporrai le mani e la faccia, ma potrai forse avere un bacio, contatto effimero di una vita intera. Sarai nudo di fronte all’ignoto, l’imperscrutabile, l’ineluttabile”.
            La realtà, l’incubo, la fantasia. Lago di cristallo in cui nuota un pesce dorato. Poisson d’or, libero, luccicante. Nuotare con la mente oltre il chiasso dei ricordi e delle paure. Sognare pesci d’oro, fabbricarli anticipando il tempo, sbalordendolo, stralunando la luna. Ancora lei. La danzatrice di Delfi, Il velo, Il vento sulla pianura, Suoni e profumi che ruotano nell’aria della sera, Lei che ha veduto il vento dell’ovest, La fanciulla dai capelli di lino, La serenata interrotta, La cattedrale inghiottita, La danza di Puck di questo mio sogno di mezza estate.
            Note mie. Le storie che ho provato a raccontare. Ora le appartengono. Tutto è suo ora. Condiviso fino a non distinguerlo più. Ho capito adesso che la musica più vera è la più semplice. La vita, la poesia. Incontriamoci in un albergo di provincia/ con le persiane azzurre ed un balcone/ che sa di terra e fiori di campo”. Ho compreso. O forse ho smesso di comprendere. Per iniziare a sentire. Accordi, arpeggi complessi, gradi cromatici, sonorità opposte.
            È una domenica particolare, questa. Nessuna carrozza in giro, poca gente, sguardi sfuggenti, labbra a metà tra terrore e beffa. Forse stanno attendendo tutti l’invasione di un esercito nemico, lo scoppio di un’epidemia di colera, una serie di sgomberi di case pericolanti. Sanno qualcosa ma tacciono, sornioni. Solo io procedo ignaro, a testa bassa verso la meta. Le mie mani sono troppo calde e troppo rapide. Ho timore di guardarle, vederle vecchie, sentirle vive. Il senso dell’esistenza è sgomento, coscienza di essere carne soggetta alle mandibole di un tarlo. Avanzo, c’è una sola direzione. Sguardi troppo diretti, insistenti. Progetto la più paradossale delle fughe, il ritorno. Ma il pensiero della mia stanza ora è stridore. Il pianoforte suona da solo, digrigna note affilate. Mi consentirà di accarezzarlo di nuovo solo se avrò nelle dita il tepore delle dita di lei.
            Proseguo ripetendomi una cantilena che mi stordisce e pungola: Sognare il proprio sogno/ come se fossi destinato soltanto/ a qualcosa di grande, / un abisso, un incanto. / Sognare…
            Ascolto. Dalla sua casa risuona ancora la mia musica. Pagata col sangue, la follia, esilio dalla gente, dall’esistenza. Vorrei che tacesse, che restasse muta in un silenzio da squarciare in due. Riprendere ognuno il proprio onirico moncherino e tornare al proprio mondo. Ma nel ritmo della sua voce c’è una stretta al cuore. Acciaio, lana, miele di labbra dischiuse. C’è aria di morte nelle strade, e afa, senza argini. In me c’è una forma di pace desiderosa di guerra.
            Spingo il portone. Entro. È buio, denso, più spesso e ostinato del mio. Vibra su frequenze che non conosco. Come una lama attraversa l’aria avida di sangue, di tessuti. Anche le sue finestre sono sbarrate. Forse un sarcastico omaggio a me, o magari un richiamo, una trappola, specchio per allodole a cui tranciare le ali. Sorrido, spossato, spalancando la bocca. La sensazione di non poter uscire mai più da qui si fa certezza, orrore esilarante. Le dita della Morte giocano a fare il solletico ai muscoli tesi. Come per effetto di un riflesso spontaneo, spalanco gli occhi. Un filo di luce penetra da una fessura della serranda. Illumina qualcosa di bianco, lucente. L’avorio di un pianoforte. Dita calde di sole lo sfiorano e danno vita anche ai tasti neri. La luce della notte ora non è più un ossimoro. È brivido reale che corre e squassa. Osservo le mani di lei, a lungo, per attimi sconfinati. Non se ne accorge. O forse mi lascia fare nascondendo nella fluidità ammaliante del ritmo il sussulto lieve dei sorrisi. Si sposta in avanti come per abbracciare lo strumento. La nudità del corpo toglie il fiato al buio. Muore, con me, nell’istante in cui sento nella carne l’urlo del sangue che vola lontano, più rapido di un trillo che spazia da lato a lato, dall’estremo all’estremo, dagli accordi più sottili ai più cupi, compromesso senza regole con il tempo, i codici della chimica e della genetica, pulviscolo puro e vitale che entra nei polmoni assieme al profumo di lei.
            Guardo i suoi fianchi e le mani. Non vedo più le mie, e le ritrovo. Affamate di pelle, silenzi, parole. Piove, adesso. L’afa è svanita, smarrita, divorata dalle mosche che nutre e da cui è generata. Piove. O forse è solo saliva, sudore, stille di linfa vitale. Non importa. La notte è un concerto a quattro mani su pentagrammi di odori, fruscii, dita e labbra sulle corde innumerevoli di un’arpa.
            Il tetto risuona davvero, adesso, della danza dell’acqua. Prosegue, negli abbracci, la Petite Suite. Preludio di un gioco crudele e sublime che ora ha un volto, un senso, la chiave di un accordo inseguito da sempre.
            La Pioggia del mattino, ora, è promessa d’infinito.
 

                                                                                                    Ivano Mugnaini

Clair de Lune' con lettere | Spartiti esclusivi per pianoforte |  Letter-Notes incluse | Piano With Kent

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”

La rubrica A TU PER TU ospita oggi i ROSSOMETILE e il loro album “Desdemona”.
Nell’intervista ci parlano della loro musica,  ma anche del connubio tra realtà e dimensione onirica,  delle assonanze, etno, gothic, symphonic, di Poe e di  Hesse, di “Storie d’amore e di peste”, di “Narciso e Boccadoro” e di mille altre suggestioni rese musica e armonia.
Buona lettura e buon ascolto a tutte e a tutti, IM
                        A TU PER TU 
                      UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande, in parte “personalizzate” e in parte ricorrenti, permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.    IM

Intervista

ai

Rossometile

Con particolare riferimento al disco Desdemona

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

La prima domanda è “di prassi”: potete fornire un vostro breve “autoritratto” ai lettori di Dedalus?

La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.La band nasce a Salerno nel 1996 per iniziativa mia e di Rosario Runes Reina. Da subito la nostra idea è quella di fare inediti dalle sonorità metal contaminando il sound con altri generi musicali. Negli anni abbiamo avuto vari cambi di formazione cosa che ha influenzato la nostra discografia e che ci ha portato a realizzare album stilisticamente diversi tra loro. Nel 2010 entra a far parte della band Pasquale Pat Murino al basso e nel 2019 Ilaria Hela Bernardini diventa la nuova voce della band con la quale abbiamo realizzato Desdemona.

(ha risposto Gennaro Rino Balletta)

 

2 ) Il nome del vostro gruppo da cosa nasce? Lo avete scelto per le suggestioni e le assonanze o anche per i significati che racchiude?

Il rosso di metile è un composto chimico, un indicatore di acidità. A un certo valore di pH il rosso di metile determina l’immediata colorazione rossa di una soluzione incolore. Pensammo che sarebbe stato originale immaginare di trasporre in musica il fenomeno cromatico che avviene in chimica col rosso di metile. E così unimmo le parole “rosso” e “metile” creando il nostro “rossometile”. 

(ha risposto Rosario Runes Reina) Continua la lettura di ROSSOMETILE – intervista e presentazione del disco “Desdemona”

Il bianco e il nero – SOLFEGGI di Cinzia della Ciana – Alcune note sulle note e una recensione di Andrea Matucci

La musica è pazienza e libertà. Permette di infrangere le regole nell’atto di rispettarle con dedizione assoluta. È passione ed eversione, verve irrefrenabile che passa attraverso la conoscenza e il rispetto di mille barriere di geometrie e algoritmi. È un occhio che osserva uno spartito con precisione maniacale e una mano che gioca ogni volta a scivolare di lato quel millimetro che basta a far sì che nulla sia come dovrebbe, o almeno che nulla sia uguale alla volta prima, all’esecuzione precedente. 
La musica nasce dal mondo, lo osserva, piange, ride e lo riproduce in forma di accordi, mai uguali, mai della stessa materia; eppure fedeli, forse in grado di dirci o di farci sentire, per qualche istante, ciò che davvero siamo.
Ridere delle follie del mondo. Questo, tra gli altri umanissimi miracoli, consente di fare la musica.
Cinzia Della Ciana spazia da anni tra poesia e narrativa. Con alcuni Leitmotif a lei cari. Uno di questi è il desiderio, la sete di ritmo, la volontà costante di dare misura e tempo a ciò che vede e ciò che sente. Sia al sublime che al comico e all’assurdo che quotidianamente incontra. Anche da questo desiderio nasce questo libro. Questi Solfeggi in cui la lievità si fa sostanza, senza mai giudizi asettici, senza pontificare, senza chiamarsi fuori. Come adeguatamente osserva Andrea Matucci nella recensione pubblicata qui di seguito “così come l’umile e monotono esercizio del solfeggio insegna a capire le più complesse composizioni musicali, così l’attenzione al nostro quotidiano smarrimento insegna a riconoscere lo spartito delle nostre abitudini”.
Il libro di Cinzia Della Ciana ha il dono di farci cogliere, come la musica da cui parte e che prende come spunto creativo, il momento esatto in cui siamo allo stesso tempo oggetto e soggetto della visione. Per dirla con alcune parole della prefazione di Andrea Scanzi, ci rende “pronti, ogni volta, a ripartire sempre da quel “mai più”. Senza aver imparato nulla, ma comunque rinfrancati inconsapevolmente dalla ciclicità di quei solfeggi. Come se, nel nostro spartito esistenziale, a risultare irrinunciabile non sia il successo bensì l’inciampo. Quello accettabile, quello recuperabile: quello per nulla tragico. E forse persino salvifico”.
I racconti di questi libro, sagaci ma mai feroci, ci conducono nei luoghi in cui guardiamo e ascoltiamo gli accordi stridenti e umanissimi di cui siamo protagonisti e spettatori. Con un piede sul palcoscenico della vita e una mano, tenace, sulla tastiera (del pianoforte o del computer) a tentare di trovare un senso, un accordo udibile e in qualche modo sensato, o, meglio, qualcosa che ci faccia stare bene quel tanto che basta a creare una fuga in armonia con la nostra pena e il nostro riso, con la ragione e anche con la follia, che, a tratti, ci salva. I.M.
 
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Cinzia Della Ciana, Solfeggi (o del misurarsi nello smarrimento che battute dello spartito quotidiano provocano), Arezzo, Helicon, 2018

Dopo il fortunato romanzo Acqua piena di acqua (Effigi 2016), Cinzia Della Ciana si conferma narratrice di rango, e di multiforme talento, con questi dodici racconti sulla ripetitività prevedibile, ma non per questo controllabile, della nostra vita quotidiana. Da qui il titolo: così come l’umile e monotono esercizio del solfeggio insegna a capire le più complesse composizioni musicali, così l’attenzione al nostro quotidiano smarrimento insegna a riconoscere lo spartito delle nostre abitudini. Sono, infatti, tutte situazioni e personaggi comuni: l’agente immobiliare alle prese con la tentazione di parcheggiare dove non deve, l’impiegato nel sogno di variare almeno una volta il suo pendolarismo, la casalinga al supermercato nell’ora sbagliata, e poi la riunione di condominio, il regalo riciclato, tante piccole situazioni della vita di tutti noi nelle quali ci inseriamo e continuiamo a inserirci pur sapendo in anticipo che il risultato sarà sempre lo stesso: noia, disagio, frustrazione, e infine voglia di dirsi “mai più!”, salvo ovviamente ricominciare il giorno dopo. Nonostante il proverbio, è difficile imparare dai propri errori, e a causa di questo rovesciamento circola dunque, nel porsi di questi personaggi, nei loro pensieri e nel loro linguaggio, un costante umorismo non di tipo teatrale e carnascialesco, ma quello un po’ all’inglese, così raro dalle nostre parti, che è quello che ci spinge all’immedesimazione e al sorriso di fronte alla costante delusione del nostro sentirci sempre unici, diversi, irripetibili: no, la vita, lo spartito della vita, ha le sue leggi, e non possiamo eliminarle o sovrastarle, ma solo pazientemente riconoscerle. Una lettura quindi piacevolissima, a tratti estremamente divertente, ma di un divertimento in qualche modo serio e razionale, in compagnia di una scrittrice che, come afferma Andrea Scanzi nella sua Prefazione, “sa dare con ironia e partecipazione i colori giusti a tutte le sfumature dello sconforto che avviluppa i protagonisti”.   

                                                                                           Andrea Matucci

Annotazioni e variazioni sul tema: arte, musica, scrittura

UT – IL PRINCIPIO ED IL FINE

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Marco Capponi è un autore in grado di abbinare l’inventiva ricca di immaginazione con un rigore logico-sintattico che gli deriva anche dai suoi studi e dalle attività professionali che ha svolto. Questo abbinamento si è confermato nei suoi romanzi di recente uscita LE RAGIONI DEL CASO E DEL DESTINO e ESTINZIONE entrambi editi dalle Edizioni Divinafollia. Ma è sempre stato presente nel suo percorso letterario ed è rilevabile anche nel romanzo UT – IL PRINCIPIO ED IL FINE. Questo libro è stato pubblicato nel 2012 per i tipi di Marte Editrice ed è stato scritto assieme a Manuela Litro, concertista e musicista, oltre che scrittrice. Nonostante il diverso percorso dei due autori, la loro diversa impostazione e le esperienze artistiche e professionali in ambiti differenti, il romanzo dimostra una coesione apprezzabile, un amalgama omogeneo di toni, note, approcci, canti e controcanti, luci e chiaroscuri. Lo spunto iniziale è accattivante e coinvolgente: il segreto legato ad un misterioso libretto d’opera acquistato in un’asta a Ginevra. A partire da questa brillante ma anche arcana scintilla iniziale la storia si dipana con un ritmo serrato tra ambienti vari e domini contrastanti. Il merito di questo libro è proprio questa volontà di superare le barriere tra ambiti che vengono spesso ritenuti separati e in realtà sono contigui, spesso convergenti, di sicuro in un rapporto dialogico, tanto più intenso quanto più intricato.

Si tratta di un romanzo di non facile e immediata lettura, lontano dalla cantilenante e prevedibile orecchiabilità di certi lavori preconfezionati. In questo libro i due autori hanno scavato nei meandri di una vicenda che in fondo funge da specchio per lo studio di meccanismi di più ampio respiro, come il rapporto tra arte e scienza, verità e menzogna, e, in fondo, in ultima ma predominante istanza, su quello che è e permane il più vivido mistero, quello dei rapporti tra gli uomini, affetto, amore, amicizia, dialogo profondo; un libretto d’opera da comporre giorno dopo giorno con gli accordi che è necessario scrivere secondo ispirazioni mutevoli e autentiche, non mutuabili da nessun modello di riferimento. In questo consiste l’interesse di questo romanzo, nel principio ed il fine a cui fa riferimento il titolo, quel mistero nel mistero che è necessario indagare, sapendo che il finale, fatalmente ma anche per fortuna, è aperto, denso di potenzialità ulteriori.

capponi fotomanuela litro

Parto da qui, da queste note (mi sembra consono l’utilizzo di questo vocabolo così polivalente e polisemico) scritte per il mio blog Dedalus nell’ormai lontano gennaio del 2013. Il tempo è una dimensione con cui dobbiamo fare i conti sempre, è il fardello ed il dono, e anche di questo si parla in questo libro, così come in altri volumi di Capponi, tra cui i già citati LE RAGIONI DEL CASO E DEL DESTINO e, in particolare, nel recentissimo ESTINZIONE, romanzo che ha avuto ottimi riscontri e ottenuto attenzione in importanti riviste, anche on line. Ma per non disperderci, e per non perdere tempo, risultando in tal modo del tutto contraddittori, direi di concentrarci, qui ed ora, hic et nunc (il latino ha sempre un suo fascino) sul libro odierno, UT. Il tema del tempo, topos per eccellenza, croce e delizia di chiunque scriva, letteratura, filosofia, o qualsiasi altra disciplina cosiddetta umanistica, ma anche e soprattutto tema fondamentale per qualunque disciplina umana, ossia di ogni essere dotato di capacità di sentire e ragionare, si affaccia in modo deciso ed evidente fin dalla copertina. Il sottotitolo, o meglio la parte analitica e allo stesso tempo intrigante, allusiva e metaforica del titolo è IL PRINCIPIO ED IL FINE. Già qui si rileva uno di quei giochi mentali, una di quelle fondamentali sottigliezze che costituiscono il succo, l’essenza di questo libro. Viene indicato che il termine esatto è “il fine”, ma, in modo spontaneo, la nostra mente associa al principio “la fine”. Non è solo una contrapposizione di genere, di quelle che vanno sempre di moda, perfino in ambito grammaticale. Qui c’è una distinzione che allo stesso tempo separa ed attrae. La dicitura è chiara, “il fine”, ossia lo scopo, la meta, il traguardo da ottenere. Ma la chiarezza, nella letteratura, e forse anche nella scienza, o almeno in quella scienza umana e perfettibile di cui abbiamo parlato, lascia sempre uno spiraglio aperto a luci e chiaroscuri. Qui ci viene detto di non pensare alla fine ma al fine e tuttavia escludendo il pensiero del termine (nel senso di conclusione, anche del tempo) lo si evoca e quindi gli si dà forma e sostanza.

Il fine non è la fine, e tuttavia in qualche misura lo è, fosse pure nella volontà di affermare o meglio suggerire che il fine è quello di evitarla la fine, sia essa la fine definitiva che la fine intesa come perdita di senso, smarrimento di verità, di coerenza, di linearità progressiva di una trama, della vicenda specifica narrata nel libro e in senso più ampio e onnicomprensivo nella metafora esistenziale e artistica che sottende. Samuel Beckett affermava che “è tutta una questione di tempo. Quello che accade sono delle parole”. Parafrasandolo, potremmo dire che quello che accade qui, nello spazio e nel tempo di questo romanzo, è il tempo stesso. La riflessione sul tempo umano, sul senso del bello e sul furto della bellezza, sia in senso concreto che simbolico. Parafrasando l’autore irlandese potremmo dire che quello che accade nel tempo di questo libro è il tempo. E qui, per forza e per amore (come cantano i contradaioli del Palio di Siena) entra in ballo, e in azione, la musica. La musica è sostanzialmente, intimamente, essenzialmente, tempo. Rappresenta il sogno e la volontà umana di dare misura vivibile al tempo, tramutandolo in un sogno reale. Rappresenta il desiderio di imprigionare Cronos in schemi riproducili, sapendo che ciò non sarà mai possibile, se non all’interno di una dimensione onirica, squisitamente umana, che si chiama armonia.

Il libro contiene moltissimi riferimenti alla musica. Potremmo dire che, oltre al ritmo della narrazione, c’è un sottofondo costante, un accompagnamento quasi filmico, cinematografico, una colonna sonora o una sinfonia che muta, alternando ritmi e movimenti. Ma UT è anche un soprattutto un libro in cui si ragiona, si riflette, e si sa, lo sanno gli studenti che ascoltano Mozart mentre studiano matematica, niente come la musica è adatto e utile al ragionamento. Ciò che appare incorporeo, impalpabile, in realtà ha una sostanza che perfettamente ricalca, e in qualche modo genera e forgia, i pensieri, sia scientifici che filosofici, letterari, logici e creativi.

Si ragiona sulla musica in questo libro, mentre la musica scandisce eventi e mutamenti, rincorse e ricerche, di oggetti concreti e di pensieri. Tra i molti esempi possibili, tra le numerose variazioni sul tema, mi piace citare l’excursus di pagina 92 in cui si parte dalla mousike paideia per poi addentrarsi nel diverso destino avuto dalla musica in diverse epoche e differenti regimi, per poi passare ad una disanima dettagliata dei problemi di teoria musicale, dei musicisti adepti di associazioni segrete, dei molteplici livelli di lettura di un brano e via dicendo. La musica, dunque, non solo come sfondo o tappeto su cui si muovono i protagonisti e gli accadimenti, ma anche, e forse soprattutto, come riferimento simbolico, mondo parallelo e tuttavia presente, potremmo dire concreto, di sicuro efficace, sul piano anche della prassi, per il modo in cui influenza le azioni dei personaggi e anche per la valenza metaforica e interpretativa che assume. Quando leggiamo ad esempio il riferimento ai molteplici livelli di lettura di un brano, viene fatto di pensare, in modo spontaneo e pressoché immediato, anche ai diversi modi di leggere i brani del libro stesso, e del mondo che narra, evoca e descrive.

Il mondo è quello dell’arte. Intesa in senso ampio e multiforme. Variegato sia per le diverse discipline e gli ambiti che vengono indicati nel corso della vicenda spaziando dalle arti figurative a quelle musicali sia per la volontà e la capacità di suggerire che il discorso artistico non si esaurisce nell’atto della mera esecuzione, nella visione e nell’ascolto, ma si estende e si integra con altri livelli del pensare e del vivere. Si integrano, le arti creative, con quelle che in modo schematico e in gran parte inappropriato vengono definite “scienze esatte”.

Il compito di questo libro, il suo principio ed il suo fine, la sfida che intraprende con serena e determinata passione, è quello di superare uno steccato, o meglio di mostrare che lo steccato in realtà non esiste, non ha consistenza, non ha neppure la stessa sostanza dei sogni, per dirla con Shakespeare, perché, in realtà, il sogno concreto che si chiama vita dimostra che non esiste confine rilevabile tra arte e ragionamento, tra creatività e riflessione.

Questa è la trama ulteriore, il progetto e la meta di questo libro di Marco Capponi e Manuela Litro. Mostrare il dialogo che sussiste in potenza e in atto, tra scienza e arte, matematica e musica, sentimento e follia, come recita la quarta di copertina, e non specifica, perché è impossibile determinarlo, da che parte, su quale versante si trovi il sentimento e da quale la follia. Entrambi vivono e dialogano su tutti e due i fronti. E nell’atto di incontrarsi, perdono la loro connotazione e si mischiano, diventano spuri e impuri, e in tal modo completi, organismi perfetti.

La sfida di questo libro è stata quella di fare incontrare due mondi diversi su uno stesso piano (e anche stavolta la polisemia del termine non può che giungere gradita). Il piano di un pianoforte è fatto di contrasti, di bianco e di nero, di forte e di piano, di alti e di bassi, ma, soprattutto di accordi, infiniti, potenzialmente illimitati: suonare e scrivere a quattro mani, con tutta la difficoltà e la magia che questo gesto contiene. Marco e Manuela hanno accettato questa sfida, prima di tutto con loro stessi. L’hanno accettata con un sorriso, con serietà assoluta ma anche evitando seriosità stridenti e cacofoniche e schivando con cura la tentazione di proporre una predica cantata fuori luogo e fuori tempo.

Nessuno dei due si è snaturato né ha preteso di modificare l’interlocutore. Capponi è rimasto uno scienziato con una vena naturale per la scrittura narrativa, o un narratore con una vena per la scienza, fate voi, e Manuela Litro è rimasta una musicista con la capacità di divulgare arte, di farne discorso aperto per la gente, nutrimento a cui invita ad avvicinarsi.

Le qualità narrative di Capponi, la prosa solida e tuttavia scorrevole, si evidenziano in modo costante nell’intero libro. Gli esempi possibili sono numerosissimi, ma, anche per uno dei tanti riferimenti a dualismi emblematici, si segnala tra gli altri il brano che inizia a pagina 38 e che ha il suo culmine a pagina 40, là dove si discute della “drammatica crisi della Ragione”. L’impegno di Capponi, politico ma prima di tutto umano, umanistico potremmo dire, finalizzato a conservare la bellezza e la “vivibilità” anche nell’ambito del sociale, si riflette, tra le righe, in modo implicito ma rilevabile, anche nelle pagine di questo testo che tuttavia, è giusto ribadirlo, ha un impianto assolutamente narrativo. Ma in ogni storia raccontata, Capponi lo sa e lo mette in pratica, si celano elementi per provare a riflettere su un giallo di più ampia portata, quello della Storia con la s maiuscola, che non di rado di maiuscolo ha soltanto l’incomprensibile ferocia e la totale mancanza di ragione, equità e giustizia. E questo in ogni epoca. Sarebbe bello poter dire che ciò che non accade nella nostra, non accade qui ed ora. Ma il riso che ne deriverebbe sarebbe una prova efficace del contrario.

“Ogni nota ha armoniche più acute o più gravi che si ottengono moltiplicando o dividendo per due, per quattro eccetera la lunghezza originaria della corda. L’intervallo tra due note armoniche successive è quello che noi chiamiamo ‘ottava’”. Questo brano fa parte di una postilla, di una nota (ancora un gioco del linguaggio rivelatore) contenuta nelle pagine comprese tra 81 e 84, dove si cita Pitagora e si parla di lunghezze, di frequenze, di suono e di ascolto. Manuela Litro, esperta cultrice di musica, ha saputo porre qui e altrove, in tutto il volume, le sue conoscenze al servizio di una storia, di un racconto. Ha cadenzato le diverse fasi, potremmo dire le scene, facendo un parallelismo sia con il cinema che con il teatro, utilizzando le cadenze sia per dare ritmo alla narrazione sia per creare quella completa e suggestiva interazione tra il mondo della parola e quello dei suoni, tra l’arte della visione, della pittura e della lettura, e quella dell’ascolto. La risultante, potremmo dire il risultato aritmetico di tale prodotto, è, appunto, una fusione del tutto coesa tra la musica e la matematica, ossia tra la malia delle note e quella logica che è insita sia in un ragionamento matematico sia in un intreccio narrativo, in un racconto, in special modo in un racconto come quello di UT basato su un mistero, un nodo da svelare tramite una sequenza di indizi da indagare e su cui riflettere cercando di ricavarne una spiegazione plausibile.

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Il libro è ottimamente costruito, anche a livello di intreccio, e sarebbe uno sgarbo ben poco armonico nei confronti dei lettori rivelarne la trama. Lasciamo a chi è interessato il gusto e il compito di esplorare passo dopo passo l’universo concreto e quello immaginario, le città e i luoghi, i gesti e le riflessioni che si susseguono.

Ciò che possiamo fare è ribadire e confermare molto volentieri che questo libro, di non facile assimilazione, lascia tuttavia a chi lo legge il gusto che regalano le narrazioni di sostanza, quelle in cui non ci si limita a mettere in fila una serie di fatti e di azioni ma ci si ritaglia anche il tempo per andare oltre la superficie, esplorando le sensazioni che nascono e cercando sia le radici, vale a dire le citazioni di libri e opere del passato, sia le proiezioni, pensando a possibili scenari futuri, e, valore aggiunto di assoluto rilievo, la riflessione sul senso del vivere, sulla condizione di esseri pensanti che sono in grado allo stesso tempo di generare la Nona Sinfonia o un bombardamento a tappeto su una popolazione inerme, tele mirabili o sgorbi privi di senso, armonia oppure frastuono assurdo e assordante.

È un libro che racconta un incontro, una ricerca, un percorso condiviso tra due esseri umani diversi eppure affini, e, assieme, narra il tentativo ininterrotto di tutta l’umanità di conciliare bellezza e dolore, verità e dubbio, il principio ed il fine, ciò che davvero siamo e ciò vorremmo e potremmo essere, o diventare.

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Marco Capponi nasce a Ripatransone (A.P) nel 1944. Laureato in Fisica Generale ha insegnato Fisica alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna ed ha svolto attività scientifiche presso laboratori nazionali ed internazionali tra i quali il CERN di Ginevra, il CEN di Saclay e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo “l’opinabile vita” con la Bononia University Press. Nel 1912 esce per Marte Editrice “UT”, scritto con la musicista Manuela Liiro. Nel 2014 “Le ragioni del caso e del destino” con la editrice Divinafollia.

Manuela Litro, genovese, è diplomata in canto lirico e teatro musicale. Concertista con il “Ring Around Quartet”, ensemble vocale di polifonia rinascimentale, si esibisce nelle principali stagioni di musica da camera e festival di musica antica. Ideatrice e curatrice del progetto Carillon del MIUR in collaborazione con il Conservatorio Santa Cecilia – musica per prevenire e contrastare fenomeni di disagio giovanile – dirige il coro multietnico Manin, che si è esibito più volte alla Rai ed in cerimonie ufficiali al Quirinale.

È inoltre antiquaria ed esperta di dipinti del XIX secolo.

INXS: A MID-SUMMER DREAM

INXS: A MID-SUMMER DREAM

 
Maida Cappelletto, https://www.facebook.com/profile.php?id=100000477222667, mi ha chiesto un racconto che contenesse le suggestioni di alcune canzoni da lei selezionate. Ne è venuta fuori questa scatola senza pareti, senza logica, senza tempo. Questa memoria di fatti vissuti, immaginati, o forse soltanto sognati di cui la musica è materia pulsante, una radio accesa su una spiaggia, un juke-boxe fatto girare dalle monete di altre tasche, altre vite. Eppure quella presenza discreta è essenziale. È la colonna sonora del film che abbiamo girato o che ci è toccato in sorte, come la solitudine, come l’amore cercato e inseguito. Provando sempre a tenere il ritmo, svaniti, sperduti ma tenaci, ballerini improvvisati di gioie e dolori a tutto volume, sempre al massimo, sempre INXS.
 
   Estate, pieno agosto. Il mondo intero è o appare in vacanza. Per me niente di nuovo; solo molto tempo, troppo. Seduto da solo, straccio bianco e peloso su un divano quasi bianco e quasi altrettanto peloso, scorro uno dopo l’altro i numeri della rubrica del cellulare alla ricerca di qualcuno da chiamare o a cui scrivere. Nomi vecchi e nuovi in abbondanza; ma non ce n’è uno che vada bene. Da molti ho ricevuto torti, ad altri ne ho fatti. Sono archiviati. Su cento numeri non ne trovo nessuno contattabile, specialmente ora. A meno di chiamare farmacie o assicurazioni, o un tecnico del computer con cui fingere un guasto o un’urgenza. Guardo meglio, con più cura. Ci sono in realtà cinque numeri che di solito salto istintivamente con lo sguardo: mettono in difficoltà, appartengono a persone buone. Buone, sì, ma difficili. Anzi, buone perché difficili, troppo generose. Danno e chiedono in eccesso, anzi INXS, per dirla con il nome di un gruppo in voga negli Anni Ottanta. Vogliono sapere, informarsi, interagire, vogliono cambiare il mondo, vorrebbero cambiare me.
Guardando le finestre sento un’afa dolciastra e molle nelle vene. Mi accorgo che l’estate è avanzata e tra poco sarà autunno: mi accorgo che non ho niente da perdere.
   Invio un messaggio ai cinque samaritani. A ciascuno scrivo che ho bisogno di lui o di lei soltanto, e che solo lei o lui può trovare il modo di convincermi ad uscire di casa. Le risposte non si fanno attendere, in breve mi trovo a dover considerare cinque proposte, cinque progetti di vita. Essere membro unico di una Commissione Giudicatrice implica vantaggi e svantaggi: non c’è nessuno che ti contraddice, ma non c’è neppure nessuno con cui prendersela in caso di errore.
   La sola via di uscita è stabilire criteri limpidi e univoci di valutazione: vincerà chi riuscirà a farmi fare la cosa più difficile. Come premio avrà questo straccio di vita, con la possibilità di stringerlo e strizzarlo a suo piacimento. Un trofeo di scarso valore intrinseco, ma di notevole valore simbolico, per loro, per i miei accaniti benefattori. Un po’ come il drappo del Palio di Siena per i contradaioli.
   Flavio mi propone di catapultarci insieme nella discoteca Technomatic di recente inaugurazione, musica moderna da far saltare per aria le casse, ma, a suo dire, nella semioscurità la nostra effettiva età anagrafica resterebbe celata, clandestina, e, di sicuro, potremmo abbordare qualche procace adolescentina capricciosa.
   Piera mi prospetta una cena di classe: un revival degli anni del liceo, dei gloriosi fasti che, a sentir lei, hanno preceduto la Maturità. “Vieni tranquillamente – miagola – tanto tutti quanti abbiamo qualche capello in meno e qualche ruga in più. Nessuno ci farà caso. Ascolteremo musica dei mitici Anni Ottanta, e, se ci prenderà la nostalgia, la combatteremo raccontandoci le nostre vite, ciò che abbiamo realizzato, i resoconti, i bilanci”.
   La cura che vorrebbe prescrivermi Massimo invece è molto più semplice. Si tratta di una sorta di elettroshock: andare in cerca di prostitute, una per ciascuno, e vedere volta per volta chi ha il coraggio di andare con quella più oscenamente brutta e sconcia.
   Nello è di tutt’altro avviso: è convinto che ciò che può salvarmi è un ritorno alle radici. Mi invita a ripresentarmi a sorpresa al bar del paese, tra facce che mi scruterebbero come un marziano per un’ora e più, sicuro, ma, alla fine, mi inviterebbero a passare la giornata giocando a tressette e aspettando che passi qualcuno per la strada per poterne parlare male; così, senza farsi sentire.
  Ilaria mi invia il messaggio più breve in assoluto, poche parole secche e luminose come fulmini. Mi chiede di riprendere la passeggiata interrotta anni prima, quella che doveva portarci alla terrazza panoramica della nostra collina.
   La Commissione si riunisce e delibera: apprezzabili nel complesso tutte le proposte presentate, ma, per il grado di difficoltà, e, non ultima, per l’intrinseca imperscrutabilità attuale e potenziale, viene premiata la proposta della candidata Ilaria.
   Ci troviamo alle otto di mattina ai piedi della salita. L’orario lo ha scelto lei, e sembra che abbia scelto anche il clima: un sole zelante, già sveglio e caldo, in grado di illuminare ogni millimetro degli occhi e della bocca. Mi saluta con gesto breve, Ilaria, come se ci fossimo visti la sera prima, come se quattro anni di silenzio e assenza non fossero mai esistiti. Inizia a camminare, e io di fianco a lei. Non mi chiede niente, non vuole niente, ascolta solo il mio respiro, sempre più affannato. Lei sembra una gazzella, io un leone spelacchiato e asmatico. Ma, come recita uno strano proverbio, ogni mattina un leone si sveglia e sa che dovrà correre per provare a sfuggire a una gazzella.
   Arriviamo, passo dopo passo, al vertice della collina. Là sotto c’è il mondo. Lei si siede sul parapetto e osserva, serena, immobile, io, torturato dalle vertigini, resto a due passi di distanza. Non apre bocca neppure adesso, Ilaria, si gode la vista della pianura e della città, la fa risplendere in sé, nei suoi gesti, nelle mani, nella quiete frenetica.
  Mi avvicino, quasi ad occhi chiusi, tremando mi arrampico sul parapetto e mi siedo. Abbracciato a lei il tremore svanisce, assieme alla voglia di vomitare, o di provare a volare. Sono seduto sul mondo, ora. Oscillo, ma riesco a rimanere in bilico sul legno saldo; ho nelle braccia e nello stomaco solo il suo calore.
   Estate, pieno agosto. Il mondo intero, anche in questo nuovo anno, è o appare in vacanza. Seduto sul divano bianco e non più peloso insieme a lei, non provo neppure a toccare il cellulare. Lei controlla ogni mio messaggio e ogni chiamata: vuole sapere chi, come, dove, quando e perché. Un po’ mi fa imbestialire, e un po’ mi viene da ridere. In fondo ora di tutti i torti fatti e subiti mi importa un bel nulla. Uso il cellulare soprattutto come sveglia, per far sì che la sua musica ci richiami alla coscienza del tempo, ogni tanto, prima di tornare, con lei, al sogno di un panorama reale, che ora, nella luce e nel buio, è ancora possibile guardare.

 

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