Archivi tag: Massimiliano Nuzzolo

TI RACCONTO UNA CANZONE

Quando Massimiliano Nuzzolo e Eleonora Serino mi hanno chiesto di scegliere una canzone su cui scrivere un racconto per il libro TI RACCONTO UNA CANZONE me ne sono venute in mente trenta, o forse trecento.
 Ho optato per il più semplice, in apparenza, dei temi: l’amore. Che in realtà, è, puntualmente, il più complesso. 
Ma, per fortuna, esiste anche il ritmo.
Lo scrittore inglese W. H. Pater nel libro The Renaissance sostiene che “Ogni arte aspira alla condizione della musica”, alla sua possente, essenziale, sensualissima immediatezza.
Ho scritto così un racconto ispirato alla canzone Io che amo solo te di Sergio Endrigo.
Ne copio qui di seguito un brano.
L’invito è a dare un’occhiata al volume intero, edito da Arcana Edizioni.
Dare un’occhiata e magari comprarlo.
Perché l’idea è bellissima e perché le autrici e gli autori dei racconti hanno confermato che la ricchezza è nella varietà, nelle infinite variazioni sul tema.
IM

TI_RACCONTO_UNA_CANZONE_COVER

 
Uno stralcio

del racconto

IO CHE AMO SOLO TE
[…]

Cerco nella memoria, rovisto negli scaffali polverosi dei ricordi, per individuare il punto esatto in cui ho ascoltato quella canzone per la prima volta.
Mi viene in mente la piazza del mio paese. Quell'asfalto scuro e squamoso percorso da cani ossuti e vecchi orgogliosi su cui, giocando e cazzeggiando, ho lasciato vari strati di pelle delle ginocchia e dei gomiti.
Ma quella sera il piazzale era pieno di sedie e di luci e di un palco degno della Sanremo de noartri, il Festival delle Borgate.
Tre ragazzine battevano le dita sul microfono per scimmiottare Whitney Houston e gruppi di eredi degli eredi dei Beatles con capelli a schiaffo sulla fronte vuota urlavano in falsetto lasciando perplessi i piccioni schifati affacciati sul cornicione del campanile. Apatici al punto di non voler neppure effettuare la manovra per cui sono famigerati e temuti. Eppure, in quell’attimo di non vita, nel bel mezzo di un familiare non mondo, comparve chi non mi sarei mai aspettato. Lui, il quasi ergastolano, il silenzioso, il duro che passava con la sua macchina grigia e lo sguardo di Lee van Cleef nei film di Sergio Leone.
Proprio lui, el hombre, il gringo che mi aveva sempre inquietato, intimorito, irritato. Lui, l’antipatia fatta persona, era concorrente a tutti gli effetti, regolarmente iscritto alla gara canora.
Venne il suo turno. Salì sul palco con passi rapidi e furtivi degni di Diabolik. Impugnava il microfono come una pistola. Temevo ci avrebbe sparato. Una canzone esplosiva e il festival sarebbe approdato sui giornali. Non sulla pagina degli spettacoli ma nel bel mezzo della cronaca nera. Il borgo avrebbe finalmente acquisito una notorietà solida come il piombo.
Invece, con voce timida, quasi dolce, iniziò a cantare.
Guardava di lato verso la terza fila, dov’era seduta sua moglie.
Non gliene fregava niente del pubblico, né, tantomeno, della giuria. Tutto sommato non si curava neppure della band che cercava affannosamente di tenere il ritmo delle sue stonature.
Cantava per lei. Commosso, sincero, con gli occhi, con le mani, con il cuore.
“C'è gente che ama mille cose / e si perde per le strade del mondo. / Io che amo solo te, / io mi fermerò / e ti regalerò / quel che resta / della mia gioventù”.
Quel giorno ho imparato alcune cose.
Mai giudicare una persona dalla faccia che fa o che gli fanno fare.Mai giudicare una canzone dalla somma dei voti di una giuria che poi alla fine premiò un emulo improbabile di Julio Iglesias vestito con un doppio petto bianco da settecentomila lire senza IVA e con la tasca in cui infilare la mano collocata tra cuore e fegato, lì dove fa più scena.
Quel giorno ho imparato che il vero vizio del presunto puttaniere, giocatore d'azzardo, fumatore seriale, era amare.
Amare e avere il coraggio di cantarlo di fronte a duecento persone che lo odiavano con tutto il cuore e almeno tre quarti della milza e di tutti gli organi interni.
Lui, lì, quella sera, come sempre, cantava per lei e per l'amore.
E io, commosso e divertito, mi sentivo un coglione. Io avrei votato per lui. Senza alcuna esitazione.Ripenso oggi, ancora una volta, a quella sera e a quella canzone.
Tu non c'eri.
Non esistevi ancora per me.
Non c’eravamo ancora conosciuti, o “riconosciuti”, come dici tu.
E allora vorrei dirti... andiamo a cercare quella piazza.
È cambiata, ora è un parcheggio per SUV di casalinghe in carriera che fanno la spesa per fare una foto alla pastasciutta col pomodoro e con la mozzarella dietetica, quasi sintetica anch’essa.
Ma il Festival c'è ancora. E c'è ancora l’ormai storica Sagra ad esso legata.
Se te lo dicessi, alla prima sillaba della parola “sagra” saresti già pronta, già vestita, già con il cappellino da turista sulla testa al di sopra di un sorriso felice e autentico come quello di una bambina. Una bambina di cinquant’anni, molto più saggia di me.
Io invece mi sgomento già alla prima lettera, per il parcheggio, per le file, per le posate di plastica, per le urla etiliche dei vicini di panca, per le note malinconiche e le danze atletiche dei novantenni, i millennials del secolo scorso molto più vitali di me.
La Sagra non la nomino neppure.
Mangiamo anche stasera sulla nostra terrazza, nella nostra casa in Via dei Matti al numero zero, in un posto sperduto, al margine di una strada che non prosegue oltre se non nei prati di un'asina geniale dal nome Fiona, tra lucciole che danzano nel buio e tronchi di alberi caduti su cui sedere, quelli che tu chiami “alberi delle fate”. Ci sediamo sul terrazzo, nella semioscurità della tua lampada di sale, rosa ovviamente, perché a te danno noia le luci elettriche troppo nitide. E infatti le mie ginocchia conoscono alla perfezione tutti gli spigoli del letto. Ormai siamo molto più che amici. Fanno finta di non sentire le mie imprecazioni in dialetto e in italiano. Ma vale la pena sacrificare un residuo di un eroico menisco per giungere ad un tuo abbraccio. Metto su YouTube, sul tuo tablet che lagga molto meno del mio, Io che amo solo te, per vedere sul tuo viso, a sorpresa, la tua reazione.
Dopo qualche secondo mi dici: “È bella, ma è vecchia”.
Immediatamente cerchi Irama e Fred de Palma.
[…]

 Ti_racconto_una_canzone_scheda

 

 

 

La verità dei topi

   La verità dei topi  ha un titolo accattivante.
   In fondo siamo tutti un po’ roditori, anche quando sogniamo di essere aquile o farfalle o altri poetici e altisonanti animali. In fondo “rosichiamo” a volte, ma sappiamo anche rosicchiare, ossia sbocconcellare quello che di buono si trova oltre le lame della trappola pronta a scattare puntuale e inesorabile.
   Con Massimiliano Nuzzolo, autore del suddetto libro, ci scambiamo mail in cui parliamo di squadre ideali di cantori della Sanremo della Letteratura che potrebbero però trasformarsi in cantanti alla maniera dei protagonisti di “Amici miei” al concorso per cori di musica solenne, oppure, allo stesso tempo, membri di un’orchestra  di note realmente ispirate . Uno dei possibili dream team che abbiamo idealmente convocato era composto da Vian, Vonnegut, Pelevin, Marquez, Benni, Pennac, Robbins…
   Parlando de La verità dei topi, Massimiliano mi ha scritto che “Questo è un romanzo “surreale” e ad alto tasso di ironia.  So che conosci bene Camus e ciò che pensava dell’ironia. Chiudo il mio percorso tra gli esistenzialisti francesi in maniera irriverente con Boris Vian (il più “psichedelico” degli esistenzialisti), al quale è dedicato questo romanzo. Ma pure scomodo in qualche modo Kurt Vonnegut e Viktor Pelevin. La genesi di questo romanzo è stata lunga. La tessitura e gli incastri meticolosi un po’ alla maniera dei compositori e pittori fiamminghi”.
   Leggendo il libro gli ho dato (volentieri) ragione. Una delle chiavi possibili è in quella locuzione apparentemente interlocutoria utilizzata poco sopra: “allo stesso tempo”. Il romanzo è, allo stesso tempo, giocoso e di sostanza, divertito e serio (serioso no, altrimenti Vian ce le canta e ce le suona, in tutti i sensi).
   Si ride, nel romanzo di Nuzzolo, con un linguaggio che scorre fluido e credibile, ma, al contempo, quando meno te lo aspetti ti trovi a pensare che se viviamo, da bravi topi, in un mondo ribaltato e strampalato, allora in fondo ciò che è assurdo tanto assurdo non è. E  ciò che non è vero, ed appare magicamente fantastico, o infantilmente favolistico, in realtà è vero, è reale, e magari è già presente, solo che non lo vediamo, perché lo guardiamo dalla prospettiva sbagliata.
   Il romanzo di Nuzzolo diverte, ma tra un sorriso e una risata, si insinua, puntuale, il dentino acuminato del pensiero, ironico, e quindi più penetrante. Le domande ci sono tutte, anche quelle fondamentali. Anche il più amletico dei dubbi, ossia se sia meglio morire in un certo modo piuttosto che in un altro. La questione viene posta in termini molto netti e schietti. Non vi rovino la sorpresa. Come indizio vi dico solo che il sottoscritto, in quanto toscano, ha familiarità con uno dei termini dell’enigma, che tra l’altro si lega al titolo.
   In sostanza, il romanzo parla della parola attraverso il gioco e le regole della scrittura, e parla della vita attraverso lo specchio dell’ironia. Due ottime lenti.
   Si tratta di farsi topi, e in quanto topi, curiosi, e di leggerlo, scoprendo pagina per pagina i giochi e le trappole, la verità e il suo contrario. Che poi, magari, è la verità vera.  Ossia la fantasia. E la bellezza è in questo fertile e succoso dubbio.
                                                                                                            IM
 Viaggio, sogno e letteratura. “La verità dei topi” di Massimiliano Nuzzolo

Scheda_La verità dei topi_Nuzzolo-1