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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

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Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
lungarno-pisa
L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

A TU PER TU – Bruno Di Pietro

“Sono napoletano, città in cui esercito la professione di avvocato, appassionato di poesia: non amo autodefinirmi poeta. Scrivo in versi e ho pubblicato più lavori. Di carattere normalmente sincero, dico sempre senza remore o timori reverenziali ciò che penso, ma sono anche incline all’ascolto pronto a cambiare idea se mi convinco della bontà della opinione altrui. Sono incline alla ironia, spesso esercitata come autoironia. Questo lo si trova anche nei miei versi. Non amo i Poteri (specie se detenuti senza alcun merito) né li temo. Non mi inchino davanti a niente e a nessuno”.
Un autoritratto schietto, sincero, che invita ad alcune considerazioni. La prima è quasi la conferma di una regola non scritta: spesso chi dichiara di non essere poeta in realtà lo è. Che poi sia vero non di rado anche il contrario è piuttosto probabile. Ai posteri l’ardua sentenza, anche se i contemporanei qualche idea se la sono già fatta. Tornando a Bruno Di Pietro emerge dunque dal suo caravaggesco ritratto che oltre ad essere poeta senza gridarlo in faccia al mondo, è persona autoironica e libera, anche in questo caso in modo concreto, mettendoci la faccia, non solo i proclami.
Il libro che presenta qui in questa sua intervista è Colpa del mare e altri poemetti. Ed è originale, felicemente fuori schema, quell’abbinare il mare alla colpa. Di solito il mare è esaltato, elogiato, incensato. Qui è associato a qualcosa che nessuno vorrebbe, ma potrebbe anche essere una forma di amore ulteriore, chissà. Se prima l’ardua sentenza era affidata ai posteri qui è riservata a chi vorrà leggere, scoprire, attraversare le onde e assaporare il sale dei versi. Di Pietro possiede una carnalità elegante, quasi una forma di spiritualità tattile. Un modo di esplorare perfino l’intangibile con i sensi. Non è un caso che anche il mezzo della scrittura, l’atto dello scrivere, diventi esperienza sensuale, in senso stretto prima ancora che metaforico: “Di personale posso dirti che Colpa del mare è la mia vita. Chi la conosce sa esattamente a cosa si fa riferimento in ogni singolo verso. Di intimo aggiungo che tutto è conservato nei miei quaderni di cui ho una cura maniacale. Amo scrivere a penna e matita. Su carta buona se non pregiata. E ho una bella serie di penne stilografiche e asticciuole e vecchi pennini. Inchiostrare è per me lussuria purissima”.
La curiosità del lettore è chiamata in causa, adeguatamente sedotta. Non resta che leggere, questa intervista e quel libro che parla di colpe e di onde sapide, come la poesia.
IM
 
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI

nuovo colpa del mare

5 domande

a

Bruno Di Pietro

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie a te, innanzitutto.

Un “autoritratto” chiesto a chi come me non sa fare nemmeno un selfie è una bella domanda. Un po’ mi imbarazza, un po’ per carattere direi tutti i difetti che ho trasformando la risposta in un “confiteor”. Ti dico che sono napoletano, città in cui esercito la professione di avvocato, appassionato di poesia: non amo autodefinirmi “poeta”. Scrivo in versi e ho pubblicato più lavori.

Di carattere normalmente sincero, dico sempre senza remore o timori reverenziali ciò che penso, ma sono anche incline all’ “ascolto” pronto a cambiare idea se mi convinco della bontà della opinione altrui. Sono incline alla ironia, spesso esercitata come “autoironia”. Questo lo si trova anche nei miei versi.

Non amo i Poteri (specie se detenuti senza alcun merito) né li temo. Non mi inchino davanti a niente e a nessuno.

In sintesi “non te la mando a dire”.  Questo vale per tutti. Non sono abituato, né mi piace , passare per la sagrestia : all’altare ci vado diritto.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Con Oèdipus Edizioni nel 2019 ho pubblicato “Baie”. Ma quello pubblicato con lo stesso editore nel 2018 (“Colpa del mare e altri poemetti”) è senz’altro il mio lavoro più importante. Molti lo hanno definito “raccolta” altri “antologia” ma tengo a dire che è un unico solo “libro” dalla prima all’ultima parola, segue un progetto ed ha un “senso” nella sua interezza. E copre il lavoro che va dal 1995 al 2012.

Si dà conto in esso della questione “aurorale” della filosofia occidentale: da un lato il pensiero di Parmenide (la “fissità” dell’Essere) dall’altro quello di Eraclito (il “divenire”, l’Esserci) detto in sintesi estrema e impropria. Non a caso l’esergo è un frammento di Eraclito, mentre il libro si apre con le “Dieci Eleatiche”. L’ “orgoglio della scienza” da un lato, “il “frutteto in rigoglio” dall’altra (come nel testo eponimo). Con una inclinazione verso l’affermazione che “L’Essere è l’Esistere” e che noi più che “Essere-gettati-nel-mondo” “Giaciamo-nel-mondo”.

E che fra “l’Inizio” e “la Fine” c’è un “nel frattempo” che è la nostra vita.

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A TU PER TU – Annamaria Ferramosca

La caratteristica di Annamaria Ferramosca che emerge, sia dalla lettura dei suoi libri sia dai dialoghi e dalle presentazioni, è la ricerca di un impegno non di maniera e la volontà di estendere il rapporto tra la parola e il mondo, generando fertili contaminazioni.
Il suo è uno sguardo aperto, non in modo retorico o formale. È caratterizzato da un aspetto tutt’altro che frequente, nel mondo letterario e non solo: un desiderio di condivisione fattivo. Il contrario dell’individualismo. Dettò così sembra poco e sembra scontato. In realtà coloro che davvero rinunciano a parte del proprio individualismo per andare oltre “i cerchi e i circoli” sono pochi. Annamaria Ferramosca ha un proprio universo espressivo. Ma ricerca anche, con sincera costanza,  i lavori di gruppo, corali, gli spartiti per duetti o per strumenti che cercano accordi e concerti.
L’impegno a cui si è accennato si abbina anch’esso, senza stridore e senza forzature, alla descrizione di sentimenti assolutamente intimi. L’autrice sa rendere metafora sia la sua emozione e lo stupore per la crescita di sua nipote, sia lo smarrimento e il dolore per le ingiustizie del mondo, per gli squilibri e le sopraffazioni di cui il nostro tempo si rende complice.
Avrei voluto esimervi ed esimermi dal “mantra” dell’invito alla lettura dell’intervista completa. Non mi è possibile. Perché solo le risposte nel loro contesto danno senso e misura a quanto qui accennato in modo succinto, per cenni.
Buona lettura, quindi, a tutti i “dedalonauti”, IM
A TU PER TU
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Andare per salti copertina

 

5 domande

a 

Annamaria Ferramosca

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Mi autoritraggo: ho profilo di donna, ma da sempre mi sono percepita come “persona”, essere che, al di là della propria esperienza di genere, sente di avere un potenziale cognitivo e creativo espressione dell’umano, nella sua interezza e varietà. Il risultato è quello che forse emerge dalla mia scrittura, di una sempre inquieta scrivente, che ha amato e continua ad amare questo prodigiomistero che è la vita e che si lascia attraversare dalle alterne vicende cercando un punto di equilibrio almeno sulla carta, con l’aiuto delle parole. E la mia modalità di ricerca, intravista fin da bambina, è quella del crescere nel confronto continuo delle esperienze, attraverso lo scambio reale con gli altri, quotidiano e del vigile sguardo sul mondo. Ma tutto questo lungo un’intera vita davvero non basta, non basta –l’ho compreso presto– perché l’incontro con altri vissuti e visioni deve essere il più largo possibile e può avvenire soltanto attraverso la lettura, incessante, sterminata, che sento necessaria come il pane. Da qui l’esigenza poi di restituire almeno tracce dell’immenso immaginario percorso e del pensiero via via elaborato. Così fin dall’adolescenza scrivo, in poesia. Con tremore, sempre, per tutto ciò che inesorabilmente in poesia sfugge, ma anche con la felicità di dar corpo a qualcosa di estremamente volatile ma evocatore di senso, che preme per essere comunicato, e poterlo fare maneggiando la parola, piegandola alla necessità di grazia e ritmo del verso.

E sono grata alla vita che mi ha permesso di seguire questa forma privilegiata di conoscenza – del mondo e di me stessa – che è la poesia. 

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Ogni mia raccolta poetica è il risultato di una mia esigenza –diciamo pure caratteriale– che è il mio voler mai fermarmi, cercare ogni giorno nuove scene, dimensioni, nuove voci e luoghi dove rinascere. Ogni testo nasce non da un progetto, ma da occasioni fortuite, inaspettate. Sono incontri dal quotidiano che s’intrecciano con scene dell’immaginario, o anche oniriche, con incursioni nel mio passato, nella storia, nel mito, fino a spingersi negli spazi inaccessibili dell’altrove. Solo alla fine di ogni periodo di scrittura, quando lo avverto compiuto, accade che il libro si organizzi quasi in automatico, ed è per me facile collegare i testi in sezioni secondo un contiguo respiro tematico.

           E nei titoli dei miei libri resta la traccia delle varie tappe di una esplorazione ancora in moto, come in: Il versante vero; Porte/Doors; Curve di livello; Ciclica; Altri Segni, Altri Cerchi; Andare per salti.

Ecco, mi soffermo su quest’ultimo, pubblicato nel 2017 da ArcipelagoItaca come Premio per una Raccolta Inedita. Il libro riflette in pieno questa mia spinta a trascrivere una persistente inquietudine, divenuta più pressante per il rifiuto, credo ormai sentito da molti, della deriva del mondo fattosi sempre più estraneo – i suoi cardini spostati ormai sul profitto e sulla ipertecnologia– un mondo indifferente, non solidale, miope verso il futuro, che lentamente ci sottrae umanità, l’incontro vero, oltre che gli spazi naturali di vivibilità. 

Continua la lettura di A TU PER TU – Annamaria Ferramosca

A TU PER TU – Bruno Bartoletti

Le domande di A TU PER TU oggi sono rivolte a Bruno Bartoletti.
I due cardini, o meglio le due pietre miliari del percorso umano e artistico di Bartoletti sono la scuola e la poesia. Due percorsi paralleli che nel suo caso tuttavia spesso si sono affiancati fino al punto di intersecarsi, felicemente. La scuola, i giovani quindi, a cui Bartoletti ha insegnato per molti anni, ma da cui ha anche imparato, l’immediatezza, il rifiuto delle etichette e di eccessivi formalismi, e, soprattutto, la fedeltà assoluta e appassionata a ciò che più emoziona.
Nel caso di Bartoletti direi che la passione più grande è la poesia. Ad essa ha dedicato il proprio studio, le proprie ricerche, le presentazioni, le letture generose anche dei libri altrui e il Premio “Agostino Venanzio Reali” da lui presieduto.  Ha letto e scritto poesia con la stessa emozione, senza mai perdere il gusto fondamentale di stupirsi per l’incontro con la bellezza evocata dalle parole.
Buona lettura, IM
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

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5 domande

a

Bruno Bartoletti

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Buongiorno,

mi chiamo Bruno Bartoletti, sono nato a Sogliano al Rubicone, piccolo paese della Romagna così caro a Giovanni Pascoli, ho vissuto per oltre quarant’anni nella scuola, prima come insegnante poi come preside, da una decina d’anni ho raggiunto l’età della pensione che mi permette di coltivare e approfondire i miei interessi. Mi piace leggere, studiare e, quando è possibile, scrivere, seguire i giovani, ma non per insegnare poesia (la poesia non si insegna, si offre), tenere relazioni, parlare di poesia, leggere poesia. Mi sento soprattutto una persona di scuola e un insegnante che ha ancora voglia di imparare. Non so che cosa avrei fatto se non fossi stato un insegnante.

Ecco il punto fermo di chi nella scuola ha attraversato i suoi anni migliori. Ci penso spesso, e penso anche a cosa potevo fare di più e meglio. Ogni tanto mi fermo e guardo altrove, inseguendo piccoli segni con gli occhi persi. Inseguo delle immagini, ricordi, congetture, volti ancora vivi. Senza perdermi tra le carte, i programmi, i progetti, mi perdo in mezzo ai volti. Specialmente volti di ragazzi. E ancora ricordo, finché, a distanza di anni, tutto si cancellerà e si apriranno nuove strade per immergersi nel grande mare del sapere grazie agli innumerevoli autori e scrittori e critici e poeti.

Presiedo l’Associazione culturale “Agostino Venanzio Reali” e l’omonimo premio nazionale biennale di poesia.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

Il mio ultimo libro è uscito un mese fa, ma, causa covid-19, non ha potuto avere alcuna presentazione. Non ha importanza. Il titolo è rubato a un verso di L’aquilone di Giovanni Pascoli, eppur, felice te che al vento, edito da Youcanprint. Si incontrano in queste pagine amici, compagni che ho perduto, persone ritrovate, perché la morte non cancella, ma rende più uniti, più bisognosi gli uni degli altri. La poesia cerca di ricucire questi incontri mentre si attraversa la piazza della mia e vostra memoria. E intanto volano le rondini e tornano sempre allo stesso nido, con amore e pazienza.

L’ultimo libro è sempre il più caro, ma, se vogliamo indicare una sorta di viaggio tra le mie pubblicazioni, brevemente non posso tralasciare le seguenti: nel 2005 Il tempo dell’attesa, Società Editrice «Il Ponte Vecchio»; nel 2012 Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade, Youcanprint Self – Publishing; nel 2017 I volti non hanno più nome, Giuliano Ladolfi Editore.

Nel 2017 esce il saggio È sempre lunedì «Voglio ringraziarvi tutti per avermi concesso di insegnare», Youcanprint Self – Publishing; nel 2018 Ma i veri viaggiatori partono per partire, Youcanprint Self – Publishing. È il mio primo libro di narrativa, portato in scena nel 2019 dalla Compagnia teatrale “Samarcanda”, con la regia di Nais Aloisi. Continua la lettura di A TU PER TU – Bruno Bartoletti

A TU PER TU – Mario Fresa

L’ospite di oggi della rubrica A TU PER TU è Mario Fresa. Come avrete modo di rilevare dalle sue risposte all’intervista, il suo modo di concepire e vivere la scrittura è improntato all’azione di contrasto che porta avanti con assidua coerenza nei confronti della “dittatura dell’ordine raziocinante della cosiddetta realtà”. L’espressione è estrapolata dalla risposta riguardante il suo libro di recente uscita, Bestia divina, ma può essere letta anche in una prospettiva più ampia. Fresa spazia tra prosa, poesia e critica rifuggendo sempre le vie eccessivamente battute o i percorsi agevoli, lisci e “canonici”. Si definisce “un felice impuro, con la tendenza a una convinta disobbedienza verso tutte le categorie di forma assoluta”. Ciò gli ha consentito di ritagliarsi uno spazio proprio, una posizione ben definita, sia a livello di produzione che di ricezione, generando, cioè, pareri e reazioni mai neutri, mai anodini.
Anche in questo caso, l’invito è a cogliere attraverso le espressioni dell’autore, nel contesto più ampio e dettagliato delle sue risposte, i punti che ho accennato in questa introduzione.
Buona lettura, IM

 

A TU PER TU

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Bestia divina copertina

5 domande

a

Mario Fresa

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Mi parrebbe imbarazzante un’autopresentazione. La biografia è un accidente e non è affatto interessante (se non è addirittura disturbante o deviante o respingente). Sicché preferirei glissare. Capisco, da questo punto di vista, l’Hassan di Alfred de Musset: «Il suo cuore era una casa priva di scale…».

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

No, non ho alcun rapporto intimo (cioè “personale”, sentimentale) con ciò che scrivo. O meglio: ciò che scrivo è in rapporto esclusivo con tutto quel che si oppone alla maschera dell’io (ha a che fare, dunque, con l’Es; ed è per questo profondamente autentico – poiché Adorno specifica che: «L’Es è l’io»). L’ultimo libro s’intitola Bestia divina; è stato pubblicato nel 2020 presso la Scuola di Pitagora editrice (su invito del direttore di collana). È un libro di poesia: dunque l’esternazione di un’allegra e crudele forma di nevrosi. È, forse, un romanzo la cui trama è stata violentemente stracciata, strappata. Ed è una favola nera con personaggi veri (sì, così tanto veri che sembrano tutti innaturali, o fantasmatici o inventati). Ma è soprattutto un luogo di diserzione dell’io. Un cruciverba privo di soluzioni (o con troppe soluzioni). Ed è, infine, un attestato di violenta fedeltà: fedeltà all’incongruo, al non dicibile, al nascosto (dunque, allo spirito della musica, suprema lingua dell’Essere). Ci sono anche varie prose: non anti-poesie, ma dolci spine senza rose, balletti che hanno presto dichiarato guerra alla croce del significato univoco, alla dittatura dell’ordine raziocinante della cosiddetta realtà.

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A TU PER TU – Alessandra Corbetta

Risponde oggi alla domande di A TU PER TU Alessandra Corbetta, autrice giovane ma già in possesso di una personalità ben definita, capace di abbinare la passione e la creatività poetica ad un’accurata osservazione, quasi di impronta scientifica, della realtà, dei tempi, della società e degli individui che la compongono, la determinano e ne sono condizionati.
Anche in questo caso queste mie note fanno solo da “teaser” (giuro che non è una parolaccia), da stimolo ad una lettura accurata.
Sono molto interessanti gli spunti e i modi con cui Alessandra tratta argomenti complessi e di estrema attualità: la sexual objectification e le pratiche di body modification, l’esperienza del singolo, il frame sociologico e diversi altri temi.
Con grande sincerità e schiettezza ci parla anche del Covid, dei suoi effetti sul modo di vivere, di pensare e di scrivere.
Il consiglio è quello di sempre:
chi vuole e può, legga l’intervista nella sua interezza.
Io nell’ambito di questa rubrica sono solo un dispensatore di Spritz, di aperitivi.
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Corpo della gioventù - copertina

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM

5 domande

a

Alessandra Corbetta

 

1) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

 

Ho sempre detestato il momento delle presentazioni, anche quando ero bambina; con la crescita, ancora di più. Per i boriosi diventano un’occasione per lo sfoggio, spesso iperbolico, di sedicenti qualità e mansioni, per i timidi attimi di imbarazzo, per quelli, come me, che mal sopportano le etichette, qualcosa di inutile.

Allora dico solo che sono Alessandra Corbetta e riporto due versi di Umberto Fiori che sento molto vicini: «Potessi io / essere il prato, / non il tremore / di questo filo d’erba.»

 

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

La mia ultima pubblicazione in versi si intitola Corpo della Gioventù, ed è uscita il giugno dello scorso anno per Puntoacapo Editrice.

La raccolta parte da una riflessione di stampo sociologico, il mio ambito di afferenza accademica, sul corpo che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato lo strumento attraverso il quale indagare e rappresentare molte questioni sociali. I discorsi sulla sexual objectification e le pratiche di body modification non sono che due delle dimostrazioni più evidenti di come la corporalità funga da capro espiatorio per dire di altro. Ad esempio, ed è quello su cui Corpo della gioventù prova a interrogarsi, la difficoltà, nella nostra società occidentale, di uscire dalla giovinezza per entrare nell’adultità; il corpo, nelle modificazioni che subisce e nella sua facile esposizione, diventa il paradigma della paura nell’affrontare questa transizione e suggella la tendenza del nostro tempo a procastinare oltre misura l’inizio dell’età adulta. L’opera, nelle sue cinque sezioni Fessure, Attraverso, Rintocchi, Battenti, Esplosione, interseca a questa cornice macro l’esperienza del singolo, e quindi la dimensione micro, nella quale l’elemento autobiografico compare solo in qualità di mezzo di congiunzione al frame sociologico. Il libro è introdotto da due note, una a cura di Tomaso Kemeny, l’altra di Lamberto Garzia che evidenziano il moto di resistenza posto in essere dall’io per non adattarsi a un diktat sociale che vorrebbe imporre una cronologia unificata al tempo personale del soggetto; la postfazione, invece, realizzata da Ivan Fedeli, si concentra sulla dimensione esistenziale del corpo; scrive, infatti, Fedeli: «Il corpo assume allora dimensione esistenziale: avvolta nei corpi di tutti / nessuno è barbaro / qualcuno resiste: avvolgente in sé, si copre di carne per nascondere, come una matrioska, le fratture interne, le smagliature di un essere che è solo in funzione di ciò che percepisce, abita. Pensare alla ricerca poetica della Corbetta è, quindi, condividere l’idea di una continua evoluzione, magmatica, dell’Io in funzione di una realtà sfuggente, che si dimostra talvolta insidiosa nella metafora di una casa vuota, di uno specchio che non riconosce, di posti che non attraversano, talvolta più rassicurante, nell’idea di un porto che accoglie in silenzio proprio mentre tutto tace e diventa possibile la quiete. In questa cornice accade la poesia: essa si addensa in una forza immaginativa mai scontata, in cui l’identità personale si consuma lasciando spazio alla matrice di un’esperienza comune di spaesamento, incredulità.»

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Inadeguato all’eterno: lettera in prosa e versi

Ho esitato a lungo prima di pubblicare questa “lettera in prosa e versi” di Roberta Pelachin.
Mi sembrava che pubblicarla potesse sembrare “autoreferenziale”, un atto in qualche modo narcisistico.
Poi l’ho riletta e mi sono reso conto che non pubblicarla sarebbe stato un errore. Per prima cosa perché è splendidamente scritta e contiene riferimenti e citazioni di notevole bellezza e valore simbolico, sulla letteratura e sulla vita: Baudelaire, Hölderlin, Leopardi, Orwell, Wordsworth, Yeats, riferimenti a Goya e al neuroscienziato Antonio Damasio e versi di cui la stessa Pelachin è autrice.
La ragione principale per cui la pubblico (dopo aver consultato Roberta) però è un’altra:
serve a confermare che “il canto genera canto” ossia che la parola ha il potere di dare vita ad altre parole, altre sensazioni, altri mondi possibili.
Il mio libro Inadeguato all’eterno è stata l’occasione, la scintilla.
In realtà Roberta Pelachin ha dato vita, partendo dalle pagine del libro, al suo fuoco e al gelo della solitudine dovuta alla perdita di suo marito, compagno di molti anni di vita, Giulio Giorello.
Il mio libro ha dato il la, ma il canto è suo, ed è condiviso.
Ognuno secondo i suoi contrappunti, le analogie e i contrasti, le tonalità e i movimenti interni.
Con l’armonia autentica che nasce dalla varietà e verità di suggestioni e situazioni che trovano in un accordo la sintesi, la chiave di un mistero fatto di buio e di sete di luce. 
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Roberta Pelachin

(considerazioni e suggestioni in forma di epistola
ispirate dalla lettura del libro Inadeguato all’eterno)

Nel mio tempo lo scarto si è riempito di una lontananza che incombe. La morte di Giulio. Non un’icona dell’amore, ma un uomo inquieto, a volte dolce e appassionato, a volte scabro e tagliente. Mentre era ricoverato in ospedale per il Covid, due mesi sono lunghi, espresse un desiderio: sposarmi. Per ricambiare il mio affetto e condividere il tempo a venire. Un dono inaspettato, gratuito, forse… è questo l’amore. Negli ultimi giorni della sua vita dormivo a frammenti. Mi svegliavo all’improvviso e mettevo una mano sul petto per sentirne il movimento, il respiro. Poi, le nostre dita si annodavano calde sopra un corpo immobile e fiacco. “Aiutami!”, mi sussurrava. Ma io che altro potevo? Quando un affetto ha fine non c’è differenza tra abbandono o morte. Rimane solo l’assenza. La nuda, gelida assenza. Il letto troppo grande, le stanze mute, la scrivania assettata.

E i tuoi versi che scorrono davanti a me, caro Ivano, leniscono la pena. Mi accorgo che “la tempesta “[…] ti lascia solo l’attimo, / lo scarto, fessura breve / di silenzio afferrato in controtempo: / ascoltare, lontano, / l’eco, il suono, la speranza: / una vana, vitale tempesta.” Sono i versi finali dell’ultima lirica. E spero anch’io che questa bufera, che mi lascia spossata contro rocce artigliate dal vento, si acquieti poco alla volta. E, se pur vana, rimanga vitale.

Così il mio vagare di verso in verso nei tuoi Canti addolcisce le ore. Il tempo lento… inadeguato all’eterno? Sappiamo che non esiste un tempo assoluto, eterno metro e misura dell’Universo intero, ma esiste quello mio, quello tuo, quello di ogni essere vivo che cammina, esita incerto, prosegue a saltelli, si strascica lungo il sentiero. E si lascia andare, ogni tanto, a gioie inattese.

E altre voci suggeriscono gorgheggi, fatti di ali e di piume. Qualcuno li ascoltò…

Il tordo era al sole, loro erano all’ombra.

Aprì le ali poi le richiuse piano, piano, chinò la testa per un attimo,

come per una specie di tributo al sole, e poi mise fuori,

senz’altro indugio, un torrente di canti…

Per chi, per che cosa cantava quell’uccello?

Nessun compagno, nessun rivale gli stava accanto…

Che cosa gli faceva rovesciare quella musica prodigiosa dentro al nulla?…

Era come se si sentisse inondato d’un qualche cosa di liquido,

mescolato alla luce del sole…

Winston smise di pensare e si preoccupò solo di sentire.

George Orwell

Lo spazio bianco tra riga e riga calma lo sguardo. Ristora la mente. Socchiudo gli occhi per centellinare parole, suoni, immagini, un amalgama magico che solo la poesia svela con parsimonia, con garbo. A volte graffia. Leggo ad alta voce. Solo la mia tra echi di una stanza sola. Ogni Canto è canto, e va ascoltato per impregnarsi della sonorità, dell’armonia delle parole.

Ricordo quando scrissi di

Sirene celesti, platoniche, arcane visioni

che intonavano una nota, una sola, ruotando

nel moto di fusi che reggevano delle orbite il volo.

La sorte a ognuna un suono aveva elargito,

così il Cosmo tutto irradiava di eufonie

e consonanze in lieta armonia.

A volte, le Sirene scendono nel mondo dalle sfere scintillanti, abbigliate di acqua e di aria, e ci ispirano Canti. Piccole chiose, le mie, per cantare con te, di te.

     Inadeguato all’eterno Un frangibile istante, “fragile, sporco, inadeguato all’eterno” appare e dispare come di porcellana, se pure all’amore si aggrappa, come roccia che affiora da marosi irrequieti. L’amore dove “le braccia spalancate / della ragazza nuda / avranno la pietà del miele selvatico”? Come un bagliore fende della notte il buio freddo, così “il suo sorriso / enigmatico, sconosciuto e impuro / ti darà la certezza del corpo / e del cuore, senza cercare / niente di più?”

Ma allora: l’eternità è un filamento infinito di perle lungo la collana del tempo? Ma dove trovare quelle perdute, cercate, sperate? Quegli istanti feriti dal mattino che i sogni cancella? Fermarsi, ogni tanto, per godere degli istanti donati dal tempo… è questa la via?

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Leopardi vs Leopardi: Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

Giacomo_Leopardi
Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
E’ anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. E’ l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito” (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.