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Ostinate morfeologie

Il presente articolo nasce dalla presentazione congiunta dei libri Ostinato di Cinzia Della Ciana e Morfeologie di Stefano Taccone che ha avuto luogo il 22 novembre scorso alla Libreria Blu Book di Pisa nell’ambito del ciclo di Incontri “Autori allo Specchio” proposti dall’Associazione AstrolabioCultura diretta da Valeria Serofilli.
Sono stato invitato in qualità di “curioso ponente domande” in quanto conosco e stimo da tempo entrambi gli autori, di cui ho già letto vari libri scrivendo in proposito anche qualche mia impressione di lettura.
In questo articolo propongo alcune delle domande poste agli autori da me e da Valeria Serofilli corredate dalle risposte degli autori.
Aggiungo in calce a ciascun “dialogo” anche una mia nota (musicale, spero, in assonanza) ai due libri presentati, ciascuno (per via diverse ma per molti versi convergenti) originali e interessanti.
Buona lettura a chi vorrà.
 IM 
 
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 DOMANDE A CINZIA DELLA CIANA
RIGUARDO A OSTINATO
 
Domande di Ivano Mugnaini
 
  1. Ostinato è un titolo perentorio e accattivante. Ce ne puoi spiegare l’origine? Si tratta di un parto immediato, per così dire, o è stato gradualmente concordato con l’editore e i tuoi collaboratori?
1) “Ostinato” è un titolo ambiguo, gioca sull’ambivalenza lessicale perché, se da una parte rimanda alla tenacia dello star fermo, dall’altra si muove nella musica per consentire il ricamo della melodia.
Ostinato porta un sottotitolo: “suite in versi”, proprio per indicare che è una vera e propria suite musicale e come tale ho orchestrato la sua architettura. Una sequenza di movimenti ciascuno con la propria andatura e la propria tonalità, con tanto di agogica. La sua particolarità è che è una partitura senza note, le parole e il loro combinarsi in versi la melodia. Sono arrivata a questo particolare parto grazie alla mia formazione pianistica che mi ha suggerito l’impostazione. La massa di liriche che avevo raccolto in quasi due anni di produzione è stata scremata, selezionata e organizzata in un piano d’opera che nel titolo voleva richiamare il cd. “basso continuo” della musica barocca.
 
 
2) Con questo tuo libro prosegue il tuo progetto, notevolmente interessante, di unire e fare interagire, in una specie di possente “cortocircuito”, parole e note, scrittura e musica. Da cosa trae origine questo abbinamento e quali sono le difficoltà che comporta e i vantaggi, le sensazioni più appaganti che dona l’accostamento tra i due ambiti espressivi?
2) Certo il libro è un ulteriore passo dopo “Passi sui sassi” di cui rappresenta la continuità, ma anche l’evoluzione. Qui, in “Ostinato”, la “musicalità” aspira a diventare “musica”, qui è il significante sonoro a condurre il tema senza tralasciare il materiale del significato.
Insomma il mio motto “del suonar colle parole”, già coniato ai tempi dei miei primi racconti, è ostinatamente perseguito. Il mio modo di far poesia è cercare suono e ritmo nella combinazione delle parole, anche di nuovo conio, senza vergogna di metrica (se viene), di rime interne, allitterazioni, assonanze, enjambement, insomma follie audaci che debbono diversificare il genere poesia da quello prosa/narrativa. Il verso esiste in modo preciso e non perché si va a capo a caso o perché è “finito l’inchiostro”. La poesia che suona dovrebbe essere come la musica, arrivare di per sé, significare (al di là del significato) con la suggestione di certi stridori o di consonanti fonemi, per consentire “dopo” di andare a ripescare il senso con un lavoro di ri-lettura che consenta di apprezzare il peso e il senso della parola “distillata”.
 
3) Come si colloca Ostinato nell’ambito della tua produzione, rispetto ai libri che hai già all’attivo e a quelli che, eventualmente, hai già in mente e in cantiere?
3) Ostinato è uno dei miei figli, li si ama tutti e insieme sono e saranno la mia famiglia. Una famiglia composita perché sono ambidestra, non scrivo solo di poesia, ma anche di prosa. E ritengo che le due forme si debbano alimentare a vicenda in un allenamento costante, ovvero “ostinato”.
 

Domande di Valeria Serofilli

1) Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
1)Riuscire a distillare emozioni con parole che suonano.
 
2) Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
2) Dante sopra tutti, di un’attualità e vigore sconvolgente. Al suo cospetto ogni cosa si scolora. Per i poeti contemporanei non riesco a prescindere da Ungaretti e Montale, pilastri mai superati.
 
3) Oggigiorno, qual è a tuo avviso l’incarico della poesia?
 3)La poesia va “predicata” come dico io, fatta uscire dalle stanze dei poeti e divulgata per far riscoprire come il canto sia stata la prima forma espressiva e come il valore della parola, anche quella colta, vada coltivato, specie in una lingua così ricca e articolata qual è quella italiana.
 
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NOTA di Ivano Mugnaini

al libro di Cinzia Della Ciana.

Le risposte di Cinzia sono già di per sé in grado di fornire adeguatamente il tono l’atmosfera del libro e ben riflettono la sua capacità di alternare vivacità e riflessione. Alla verve del dire fa da sottofondo l’”ostinato” costante, il contrappunto del ragionamento, che in ogni caso non stempera e non spegne la passione e l’entusiasmo del dire, del manifestare meraviglie, viste, immaginate e riproposte, tramite una composizione attenta, alla ricerca di un ritmo che somigli all’originale senza esserne copia conforme, diventando sublimazione, accordo complesso e misterioso che racchiude la chiave della bellezza.
 “Ostinato”, che già nell’aspetto della copertina richiama i colori e le forme della più nota e storica casa musicale italiana, è arricchito dalle annotazioni a margine (sincroniche e affini) di Roberto Vacca e dalla postfazione sentita e appassionata di Franco Di Carlo. La lettura diretta del libro (chi era presente alla presentazione a Pisa ha potuto ascoltarlo anche dalla “esucuzione” dell’autrice stessa) riflettono quanto Cinzia ha dichiarato nelle risposte qui sopra riportate: “La poesia che suona dovrebbe essere come la musica, arrivare di per sé, significare (al di là del significato) con la suggestione di certi stridori o di consonanti fonemi, per consentire “dopo” di andare a ripescare il senso con un lavoro di ri-lettura che consenta di apprezzare il peso e il senso della parola “distillata”.
La sensazione personale ricavata dall’ascolto e dalla lettura del libro è quella di un progetto condotto con sincera dedizione, privo di funambolismi esibizionistici. La meta è il viaggio in sé e per sé, un divenire costante. L’autrice si fa ponte tra forme espressive, mira a rendere le sinestesie percepibili con orecchie, cuore e mente, con quella capacità-necessità squisitamente umana (ma forse universale) di cercare il ritmo, di farsi ritmo, fino al punto, magicamente semplice e complessissimo, sicuramente fertile, in cui il battere individuale, l’ostinato autonomo e incessante di ciascun essere coincide con un codice impalpabile eppure esistente, quasi uno Stargate ideale, che, senza farci apparentemente muovere di un solo millimetro ci conduce distante milioni di anni luce, oppure ci sposta di quel tanto che basta per farci (ri)trovare ciò che realmente siamo.
L’esplorazione del mondo di Cinzia Della Ciana, fatta sui Sassi e su terreni invisibili ma solidi e percepibili, prosegue coerente con questo libro che aggiunge un ulteriore capitolo alla sua produzione e al suo cammino nelle terre, nelle città, nelle opere d’arte e della natura, nei punti di snodo e di confine. Viaggia, Cinzia, sia sul foglio che sulle strade. Lo scopo è quello di diffondere poesia. Come una musica, anch’essa universale. E, come la musica, anche la poesia una volta uscita dalle stanze “ufficiali” si diffonde, si innesta, si ibrida, diventa, anzi torna ad essere, “cantabile”.
 IM
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DOMANDE A STEFANO TACCONE

RIGUARDO A MORFEOLOGIE

Domande di Ivano Mugnaini

 
  1. «Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze e ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza». Partirei da questa frase che ho avuto modo di scrivere per il tuo libro precedente, Sogniloqui, per sottolineare quanto, in questa presentazione, tutto significativamente converga. Il riferimento alla musica ci riporta al libro di Cinzia e il riferimento al tuo libro precedente crea un ulteriore fil rouge.
         Fatta questa premessa, vorrei chiederti quali elementi di continuità ci sono tra Sogniloqui e Morfeologie e quali sono invece i tratti distintivi?
 
1) Credo che la continuità, a conti fatti, prevalga. Entrambi raccolgono dodici brevi racconti. Entrambi tentano di elaborare un tipo di scrittura narrativa che si appropria delle strutture linguistiche del sogno, delle dinamiche incongrue in cui il sognatore inciampa. Il significato dei titoli è pressoché lo stesso, benché muti il significante. Anche attraverso le immagini delle copertine, del resto, ho inteso rimarcare questo legame: su ciascuna di esse è riprodotta un’opera della mia amica artista Rose Selavy. Tratti distintivi? I racconti del primo volume sono molto più fedeli ai sogni che effettivamente ho concepito, benché anche lì vi siano inserti di fantasia da sveglio. Quelli del secondo volume invece pure partono da suggestioni oniriche, ma nella maggior parte dei casi hanno conosciuto una rielaborazione molto maggiore nello stato di coscienza. Inoltre il titolo di quest’ultimo si richiama esplicitamente a Morfeo, il dio greco dei sogni e del sonno. Il suo nome deriva però da μορφή, che in greco antico significa forma. Con un titolo come Morfeologie ho pertanto inteso suggerire la presenza di una struttura più chiara e definita, un po’ meno fluida rispetto a Sogniloqui.
 
2) È interessante, e personalmente lo apprezzo in quanto anch’io lo “esercito”, il tuo utilizzo della forma letteraria del racconto. Cosa ti ha spinto a scegliere il racconto? Lo trovi particolarmente adatto al tuo stile e alle tematiche a te care?
 
2) Tutto è partito, come accennavo, dalle trascrizioni dei miei sogni, nei quali trovavo un embrione di interesse “letterario”. Dopo averli trascritti, li inviavo a pochi intimi per la pura curiosità di ascoltare le loro impressioni. La stessa circostanza per cui tutto è partito dai sogni ha determinato senza dubbio la scelta della forma racconto. I sogni sono brevi e plurali. Certo da un solo sogno si può tranquillamente sviluppare anche un romanzo, tuttavia ciò richiederebbe un lungo lavoro di rielaborazione. Probabilmente un lavoro di questo tipo non mi era allora affatto congeniale. Chissà, forse adesso lo sarebbe un po’ di più. In generale però mi sento legato ad una poetica del frammento. Se dovessi scrivere un romanzo penso che somiglierebbe piuttosto ad una somma di piccoli episodi, anche minimi. Non mi interessano i lunghi intrecci. Può darsi che non mi interessino perché non ne sono capace, ma anche viceversa, o ancora sia l’uno che l’altro.
 
3) La sintesi, una “sapida stringatezza” la definirei, ti è propria. So che hai in cantiere un libro di poesie. Quali analogie, anche a livello di temi, di tono e di approccio, hai riscontrato in fase di scrittura dei tuoi versi con la tua narrativa e quali invece sono le caratteristiche specifiche della tua poesia?
 
3) Qui c’è da formulare una premessa. Il primo nucleo della raccolta di poesie che pubblicherò di qui a poco risale addirittura al 2014, quindi precede persino, anche se non di moltissimo, la genesi di Sogniloqui – ho cominciato a trascrivere i primi sogni a metà 2015; non prima. Partiamo dai temi, sui quali è più facile rispondere! Senz’altro riemergono le questioni che più mi stanno a cuore e peraltro – tanto nella narrativa, quanto nella poesia – non sempre e non tanto appaiono nella loro “purezza”, ma in intrecci inestricabili: quelle legate alla mia sensibilità politica vicina all’ecosocialismo o alla mia spiritualità cristiana; le questioni della produzione artistica stessa, il suo rapporto con la vita, e lo specifico problema del visibile tra arte tout court e dimensione estetica. Più in generale forse a monte di tutto vi è una condizione di disadattamento al mondo – lo stesso titolo della raccolta di poesie che verrà è molto eloquente in tal senso -, una condizione che guarda caso accomuna l’artista, l’anticapitalista e il cristiano. Anche le poesie sono poi per lo più molto brevi, “epigrammatiche” le hai definite tu stesso, e questo potrebbe corrispondere alla mia predilezione per il racconto. Spesso forse somigliano un po’ alle tipiche domande o osservazioni che – molti hanno notato – pongo a margine delle mie narrazioni. È vero che nel primo volume de I Blu Books a cura di Valeria Serofilli – che ha rappresentato il mio autentico esordio nella scrittura in versi – compaiono invece tre poesie assai più lunghe, forse definibili più propriamente poemetti. Tuttavia, sia per il piglio fortemente narrativo – qualcuno, avendole lette prima che le pubblicassi, mi ha confidato che gli richiamavano i modi tipici di Elio Pagliarani -, sia per la stessa lunghezza – lunghe rispetto alle poesie presenti nella mia raccolta in corso di pubblicazione, ma sempre e comunque più vicine alla misura di un racconto che di un romanzo –, ancora una volta la prossimità con la mia prosa narrativa è confermata. Per approfondire le caratteristiche specifiche della mia poesia, invece, magari attendiamo l’uscita del libro…
 
4) Una domanda di carattere più generico, o meglio una curiosità: hai scritto e pubblicato fin dal 2010 libri di carattere scientifico e saggistico. I due libri di racconti che abbiamo citato sono relativamente recenti ma ti hanno permesso, anche grazie a molte e apprezzate presentazioni in varie città, di “esplorare” il mondo della scrittura letteraria. Quali considerazioni faresti sulla differenza tra i due ambiti, quello “scientifico” e “letterario”, e quali consideri i punti di forza e i difetti di ciascun settore?
 
4) Rispondere ad una domanda del genere mi pare, di primo acchito, difficilissimo, anche perché naturalmente l’ambito della scrittura scientifica e saggistica è molto vasto e sfaccettato, e sarebbe più proprio parlare di un insieme di ambiti. Già, ad esempio, quello della scrittura sulle arti visive del XX-XXI secolo è molto diverso da quello della scrittura sull’arte rinascimentale o barocca, che naturalmente sarà molto diverso da quello della scrittura sull’arte medioevale che si ripartirà a sua volta in altomedioevale e bassomedioevale, per non parlare della scrittura sull’arte dell’antichità che non è solo e tanto appannaggio degli storici dell’arte quanto degli archeologi… Il confronto che posso provare a delineare in sintesi è pertanto quello tra l’ambito della scrittura sulle arti visive del XX-XXI secolo – quella che principalmente pratico – e quello della scrittura letteraria, accomunate dal lambire un arco temporale più o meno simile. Una prima considerazione che mi sovviene, anche in quanto soggetto che si è occupato non poco delle avanguardie artistiche, è che queste ultime mi pare abbiano trasformato in maniera più radicale la produzione artistica visiva che quella letteraria. È vero che il fallimento dell’avanguardia come superamento dei confini tra arte e vita è stato generale – e non poteva essere altrimenti, dato il carattere totale della sfida che essa ha posto -, tuttavia la mia impressione – ma è un’affermazione che va presa con tutta la cautela del caso, considerando che conosco molto meglio la storia delle arti visive del XX-XXI secolo piuttosto che quella della letteratura del medesimo periodo – è che se dopo un Marcel Duchamp o un Kazimir Malevič i linguaggi delle arti visive hanno conosciuto uno sconvolgimento irreversibile, ciò non è avvenuto con altrettanta pregnanza nel campo della letteratura dopo un Tristan Tzara o un James Joyce. La tua domanda era però sull’ambito inteso probabilmente come ambiente, come mondo. Che dire ancora dunque? Magari qualcosa sul pubblico. In entrambi i casi parliamo di un pubblico di nicchia. Quando nell’ambito della ricerca storico-artistica si eccede la nicchia è sempre più difficile che non si tratti di altro che di pseudo-divulgazione pop e quindi non di ricerca scientifica vera e propria. Lo stesso discorso vale – e credo tu possa convenire – per la letteratura: sempre più difficile ormai trovare sperimentazione in un romanzo bestseller. Se invece dovessi rilevare una differenza, forse tra le più interessanti menzionerei la circostanza per cui nell’ambito delle arti visive vi è tutto sommato una divisione ancora netta – anche se negli ultimi tempi si sta allentando – tra colui che scrive di arti visive e colui che produce, mentre nell’ambito della letteratura non esiste – credo non sia mai esistito – un tale intervallo tra commentatore e produttore. Una delle ragioni va senz’altro ricercata nel fatto che la letteratura e la critica letteraria si avvalgono del medesimo medium; le arti visive e la critica d’arte – ammesso e non concesso che ancora esista una critica d’arte – si esprimono invece attraverso media differenti. È meglio ciò che avviene in un ambito o ciò che avviene nell’altro? Dipende…
 
Domande di Valeria Serofilli
 
  1. Qual è, nell’arco della giornata, il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente alla scrittura)?
 
1) Dipende anche dal genere di scrittura. Ci sono momenti in cui la parola poetica – o almeno quella che tu senti tale in quel momento – pare sgorgare spontanea dal tuo cervello e dal tuo cuore, persino indesiderata… Vorresti – dovresti! – appuntarla da qualche parte per non lasciarla “evaporare”, ma magari sei in un pullman stipato come una sardina in scatola oppure devi fare lezione sull’architettura megalitica – prendo esempi tratti dalla mia vita, ma ognuno può tranquillamente sostituire ai miei quelli propri della sua… – e quindi rischi di perdere per sempre versi che hai concepito e che magari per qualche giorno ti sembreranno straordinari… D’altra parte, anche quando riesci a trovare un angolino in pullman per scrivere di getto quello che all’improvviso ti è balenato nella mente, il tutto richiede in seguito una revisione a posteriori – almeno per quanto mi riguarda. Una revisione che può protrarsi anche per anni… Anche per i racconti è un po’ così, benché essendo per essi l’uso di singole parole meno importante dello sviluppo narrativo ed essendo i nuclei della mia narrazione molto esili, è più facile memorizzarli e quindi trascriverli quando si ha tempo. Per quanto riguarda la scrittura saggistica è diverso. Certo anche in quell’ambito ci sono momenti di aridità e momenti di grande “furore creativo”, tuttavia essa è senz’altro meno dipendente dagli umori del momento. Su questo terreno per me è fondamentale la lucidità mentale e quindi – in altre parole – l’aver riposato bene!
 
2) Quali sono le tue fonti d’ispirazione e quali eventi recenti hanno maggiormente orientato la tua produzione attuale?
Sicuramente in me c’è una forte sensibilità per il politico, inteso nel senso più alto del termine, ma anche la consapevolezza di quell’ormai antico slogan che vuole che non ci sia distinzione tra politico e personale. Tanto i miei racconti quanto le mie poesie assorbono molto gli umori e le tendenze di quest’epoca, benché esse si vadano ad innestare su una memoria che – a costo di apparire presuntuoso – definirei tutt’altro che liquida. Non mi piacciono le pulsioni xenofobe che crescono tra Europa e America, ma non mi piace neanche l’opposizione conformista ed acritica a tutto ciò. Credo che l’esistenza dell’uomo sul pianeta sia seriamente minacciata e che ci sia ancora ben poco tempo per rimediare, ma l’odierna sensibilità ecologica che riempie la bocca di molti è spesso superficiale e poco informata. Da qui il mio senso di solitudine rispetto alla bipolarizzazione dell’opinione pubblica, che ha a che fare più col tifo da stadio che con ciò che veramente si sperimenta sulla propria pelle. Viviamo in un’epoca di enormi confusioni, di schizofrenia condotta all’estremo. «Guai a chi ha memoria lunga!», avvertiva il compianto Zygmunt Bauman una decina di anni fa. Ecco, tali discorsi probabilmente rappresentano il “controluce” della mia produzione.
 
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FORME DEL NARRARE E DEL PENSARE.

Considerazioni di Ivano Mugnaini

 su MORFEOLOGIE di Stefano Taccone

 
Come già ho accennato, ho avuto modo di scrivere di Sogniloqui, il libro di racconti di Stefano Taccone che ha preceduto Morfeologie. Il fil rouge tra i due libri sussiste e si manifesta sia a livello di tematiche che di ispirazione, di linguaggio, di approcci e di metodiche narrative. Taccone percorre la realtà che lo circonda, quella dei luoghi in cui vive e lavora con un passo attento, senza mai pretendere di cogliere verità assolute né di sapere o potere dare ricette e indicare strumenti e formule che possano servire da cartina di tornasole o da panecea. Azzarderei una specie di definizione ossimorica dell’approccio di Taccone al narrare, al ritrarre ciò che vede e pensa attraverso le parole: “disincanto militante”.
Ciò non equivale né a menefreghismo, né a resa, né a una sorta di compiacimento nel ritrarre la catastrofe attuale o prossima ventura. Si tratta semmai di un impegno conscio, consapevole delle difficoltà, e, in una certa misura, anche di certe ataviche tendenze dell’uomo (inteso come genere umano) all’autolesionismo. Sventato magari all’ultimo istante da un caso o da una residua scintilla di ragione o di coscienza o dall’istinto di sopravvivenza. O magari da un caso benevolo.
Il destino è forte, fortissimo è il caso, dicevano, o cantavano, le antiche tribù.
Una delle impressioni che ho ricavato, sia leggendo i libri di Taccone (quelli di narrativa a cui si è fatto cenno ma anche i versi dei Blu Book e della silloge di prossima uscita dal titolo Alienità) è che l’autore possieda una cultura ampia e salda che tuttavia non sfoggia come un vestito elegante e alla moda e non la rende oggetto di idolatria. Sa che la cultura è fonte di nutrimento, serve a rischiarare più possibile gli angoli e gli spigoli appuntiti dell’esistenza, aiutando, quando può, a schivarli o magari a comprendere il motivo per cui non sono schivabili. Ma la sola certezza è il dubbio, come è giusto che sia, e anche la cultura non risolve, non è abile e acuta abbastanza per districare i nodi della vita, del destino, dell’indicibile e del non razionalizzabile.
Una delle distinzioni che Taccone ha evidenziato con più nitidezza ed energia, sia nella presentazione pisana che nel libro è quella tra “etica” e “morale”. Il mondo si sfalda, letteralmente e metaforicamente. Ma la scelta della via giusta, o comunque salvifica, non può essere imposta. Deve essere il frutto di una decisione e di un’azione consapevole e individuale che, nel momento in cui diventa collettiva, può anche salvare, sia la singola persona che quell’insieme più vasto chiamato “umanità”.
Taccone, nei suoi racconti, nelle forme, concrete ed oniriche, che sceglie di narrare, sulla base della sua osservazione, della sua memoria e della sua immaginazione, ci propone mondi reali e mondi possibili. E, senza mai pontificare, senza pretendere di convincerci o di mostrarci soluzioni univoche, ci illustra, tramite l’ironia, alcuni esiti possibili. Crea scenari verosimili o apparentemente improbabili, distopie e ipotesi di realtà. I suoi “luoghi” del vivere e del pensare sono comunque sempre in grado di farsi metafora che ci induce a pensare, a mettere a confronto quei mondi immaginari con le dimensioni del cosiddetto reale.
E il disincanto si fa esercizio di fantasia che non è aliena alla ragione e forse perfino alla verità.
IM
 

La parola e il sogno

La parola e il sogno
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Ripubblico volentieri un articolo originariamente uscito su Carteggi Letterari, rivista on line a cui altrettanto volentieri collaboro, https://www.carteggiletterari.it/2019/06/12/sogniloqui-di-stefano-taccone-iod-edizioni-2018-recensione-di-ivano-mugnaini/
Parla di un agile ma interessante libro che con divertita e serissima lievità si avventura nel regno dell’onirico, del bizzarro, dell’improbabile ma assolutamente vero, o verosimile: la vita, o la sua immagine riflessa in uno specchio.
Buona lettura, se potete e volete.
Buona estate a tutte e a tutti, IM

 

SOGNILOQUI di Stefano Taccone, IOD Edizioni, 2018 – recensione

Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze ed ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza.
Ciascuno ha in mente modelli rappresentativi e in qualche modo emblematici di questa tendenza espressiva che spazia dalle arti figurative a quelle in apparenza disgiunte dalla materia tangibile. Nei racconti di questo suo recente volume, Stefano Taccone ha avuto il merito, o forse l’istinto, di seguire la propria strada, un sentiero autonomo e sui generis, nel senso migliore del termine. Ha dosato gli “ingredienti” di questa mistura senza seguire alla lettera le dosi indicate nelle ricette e senza preoccuparsi troppo dei tempi, delle quantità e delle indicazioni di massima contenute nei volumi di riferimento.
Il prodotto di tale “esperimento”, condotto con divertita ma attenta cura, è un volume agile e godibile, gradevolmente spiazzante, come certe facciate barocche, lievi e tuttavia solide, giocose e in qualche modo cupe e solenni, come la vita. L’impressione è che l’autore abbia scritto questo libro con un sorriso serissimo. Come uno studioso che cerca modi per stupire, o almeno per spiazzare il proprio referente, ma allo stesso tempo è concentrato affinché tutto, anche l’incredibile e l’assurdo, anzi, soprattutto l’incredibile e l’assurdo, risultino assolutamente credibili. Veri, o talmente fittizi da essere o sembrare (che differenza fa?) più veri del vero.
Il titolo, come spesso accade, è una potente calamita, e, in una certa maniera, una prima chiave, seppure anch’essa volutamente storta, sghemba, al punto che non si comprende bene quale sia il lato giusto, o se vi sia un solo modo per adoperarla, o nessuno, o tutti insieme. “Sogniloqui” è una parola complessa e composita, adeguata vetrina, questo è certo, per i racconti a cui fa da titolo. Sogni ed eloqui, o soliloqui, o semplicente “loqui”, ossia, forse, un modo con cui dare voce ai sogni, parlarne, o lasciarli parlare. I sogni, intrinsecamente irrazionali, sfuggenti, incoercibili, vengono messi a confronto, incasellati, incanalati tra le pareti del linguaggio che, di per sé, per poter avere un senso e una funzione deve al contrario seguire schemi, regole, codici univoci. Da questo attrito, da questo costante braccio di ferro tra le due istanze contrapposte, nasce il carattere bizzarro e tuttavia lineare delle tranches de vie descritte da Taccone.
Se fossero quadri, questi racconti, verrebbe fatto di pensare a Dalì, a quegli orologi molli, liquefatti, a quei numeri tanto precisi da rimanere leggibili anche dopo il dissolvimento dei colori e dei contorni. Identici in apparenza ma in un tempo altro, in una logica altra. Sarebbe interessante calcolare quante volte, nei racconti di Soliloqui, compaiono riferimenti, diretti o indiretti ai numeri, al calcolo di distanze, misure, quantità. Siamo di fronte ad una specie di aritmetica della follia, o della bizzarria, del sublime irrazionale che tuttavia pretende di essere misurato al millimetro, come per un vestito sartoriale, o per una solenne e sarcastica cassa da morto. E il funerale non si sa bene di chi sia: se della logica o della pazzia, del tempo, della pretesa dell’uomo di trovare un senso, una direzione, una formula riassuntiva e risolutoria del caos di cui è parte integrante ma forse neppure essenziale.
I numeri ci accompagnano passo dopo passo, come ombre ghignanti, dalla prima all’ultima pagina. Fin dal primo racconto, dal titolo umoristicamente raggelante, “Tagliatelle millimetrate”. Una vicenda in cui il protagonista ha come grido di battaglia “Misuro tutto!”. Lo confessa o forse se ne vanta, o, anche in questo caso, entrambe le cose simultaneamente. Forse è il personaggio che l’autore teme di essere o di diventare, oppure, semplicemente, come Dante, opportunamente citato nel racconto, è il primo adeguato Cerbero di se stesso che subisce la pena del contrappasso per la colpa ineluttabile dei suoi personalissimi “sogniloqui”.La letteratura si fa specchio di uno specchio che forse è la vita. E resta il dubbio, essenziale, fondamentale, riguardo alla deformazione di quella superficie riflettente. Se sia connaturata, ossia propria delle cose osservate, o se abbia origine nella mente e negli occhi di chi osserva il mondo, pensandolo, potremmo dire generandolo attraverso il pensiero.
Il pensiero e la parola. Il racconto iniziale del libro si conclude con “La prova è finita!”, e poco più oltre “Il supplizio è finito! Sospiro di sollievo!”. Vengono alla mente Pirandello, Beckett, e tutta la schiera di scrittori e drammaturghi che hanno usato la parola per esprimere lo scardinamento mentale e sociale, l’emergere dell’assurdo non come occasionale emergenza ma come condizione costante e immutabile. La parola dunque è supplizio, ma anche il solo modo per esprimere tale oppressione e forse perfino per uscirne, osando guardarsi vivere, avendo tale coraggio.
Il linguaggio utilizzato in questo libro riflette adeguatamente le antinomie a cui si è fatto cenno: a brani elegantemente fluidi e cadenzati fanno da contrappunto passaggi scabri, come se l’urgenza espressiva aggredisse i personaggi, le loro voci e i loro pensieri. L’umorismo aggiunge alla dicotomia ritmica quella del senso e del significato, la connotazione e la denotazione, il sentimento del contrario. Tutto, senza irriverenza, ma con giocosa serietà, entra nel vortice dell’umorismo:  ilterzo racconto ha per titolo “Girella cumana” e la Sibilla, a suo modo, sorride anche lei. Ed è interessante l’ingresso dell’arte figurativa nell’ambito della scrittura e della dimensione autobiografica nella finzione. Lo spunto e il mezzo sono le interazioni, i filtri e le modulazioni necessarie per rendere il tutto allo stesso tempo reale e fittizio, cronaca e metafora. “La scena a cui ho appena assistito – scrive Taccone – mi ricorda un’opera, Fermare il loop, realizzata da un mio amico artista – Luigi Urso, in arte Ur5o – quasi dieci anni fa per una mostra collettiva che curai a Milano”. Sia il titolo della mostra a cui si fa riferimento sia l’unione tra arte e vita risultano in qualche emblematici, o almeno ampiamente rappresentativi, non solo del sapore del racconto specifico ma dell’intero libro.
Molti racconti hanno un che di kafkiano, in senso ampio ma non meno aspro. Il racconto “Girella cumana” si chiude anch’esso con una fuga e con il sollievo che si prova quando tutto ha fine, quando l’incubo finisce: “Non mi resta che alzarmi del letto, prepararmi e scendere giù al palazzo, affinché possa mettere fine, forse, a tutta questa sequela di misteri”. Probabilmente la sequela di misteri è il succo del discorso, forse dell’esistenza stessa, la ricerca di un senso che senso non ha. Siamo già scarafaggi; e il processo, per cose che non conosciamo e che non sappiamo di avere commesso, non ha un inizio e neppure una fine. Ci si risveglia da un incubo e in realtà è lì che il vero incubo inizia.
Forse (ed è necessario sottolineare ancora una volta la natura ipotetica dell’affermazione), una chiave, una sintesi, uno squarcio interpretativo potenziale, è racchiuso nel secondo paragrafo del racconto “Rete negli occhi”. In una serie di domande e in una descrizione oggettiva: “Cosa è successo? Mi stropiccio gli occhi ma non va via! Quel piano ottico rimane intonso! Che fare? Ben presto mi accorgo che c’è anche una freccetta, come quella che azionerebbe un qualsiasi mouse da computer, e con la forza del pensiero posso portarla dove desidero”. Un efficace ritratto del nostro tempo, della condizione attuale. Nessuna risposta se non la possibilità di spostare il fulcro dell’informazione, o meglio della ricerca di informazione, quell’intertestualità che non di rado è immensa varietà senza alcun porto certo, interminabile viaggio circolare in un mare di mondi possibili tutti veri e tutti fittizi. Al punto che, poco più avanti, un paio di pagine oltre, la voce narrante ci confessa di non essere più certo neppure di avere una testa, delle braccia e delle mani. L’incubo è accorgerci di essere noi stessi una rete nella rete, soggetti a virus che, agevolmente, da informatici diventano fisiologici, attaccano direttamente i nostri tessuti, la nostra presunta essenza reale. E sempre di più, se noi assomigliamo ai nostri computer, le macchine assomigliano a noi. “Il suo portatile è stranissimo”, si osserva a pagina 39, e la sovrapposizione tra la persona e il personal computer è assoluta. I tessuti corporei e i circuiti diventano una cosa sola, arrivano a corrispondere.
Le soluzioni, o almeno le vie di fuga e di potenziale salvezza, sfociano nel mare immaginario, futuro e futuribile, di un’eventuale evacuazione collettiva, o nel rifugio estremo, quello della consapevolezza di essere sull’orlo di un baratro che è allo stesso tempo ecologico ed etico. La presa di coscienza che “Edenlandia” in realtà è un nome grottesco dato ad un potenziale Inferno può condurre ad una reazione salvifica, in senso stretto e in senso lato.
Una delle caratteristiche di maggior rilievo di questo libro è la capacità di far riflettere su temi importanti con una deliberata leggerezza, senza pedanterie e senza proporre panacee più o meno miracolose o miracolistiche. Taccone esplora il surreale per parlare del reale, il grottesco per far sì che dallo specchio, magari nel bel mezzo di un riso, ci compaia un’immagine del degrado in cui rischiamo di adagiarci, compiaciuti, ilari e smarriti. Questi racconti affabulano, spiazzano, deliberatamente, spostando il focus su dettagli e situazioni in apparenza irreali, o improbabili, dietro cui in realtà ci è dato di cogliere una concreta e autentica istantanea di ciò che siamo e che rischiamo sempre di più di diventare se non interrompiamo la tendenza, se non apriamo varchi differenti nella rete che tessiamo e dai cui siamo fagocitati, se non ricreiamo spazi vivibili, sia fisici che mentali, più autenticamente umani.
Non è un caso forse che le ultimissime parole del libro siano: “mantenere intatto il suo autentico significato: quello di un sacrificio compiuto per amore dell’umanità”. Tra realismo e fantasia, tra il sogno e il vero, in un realismo che si espande nei territori del grottesco ma resta sempre vivido e attuale, Taccone si pone, e ci pone, le domande che contano. Compie la scelta, tra diritto e necessità, di non rinunciare a temi essenziali e vitali, ad un “idealismo” che non è mai, qui, tediosa teoria né astratta utopia. Nei Sogniloqui sorridiamo, divaghiamo, ma, alla fine, cogliamola nostra autentica immagine.
Ivano Mugnaini

 

Stefano Taccone (Napoli, 1981) è dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità(2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “OperaViva Magazine”. Sogniloqui è la sua prima raccolta di racconti.