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A TU PER TU – Chiara Zanetti

Molti gli spunti di interesse che nascono dalle risposte di Chiara Zanetti alle cinque domande della rubrica A TU PER TU.
Di Chiara mi ha sempre colpito la capacità di abbinare la ricerca di leggerezza, divertimento e convivialità ad un’efficienza che verrebbe da definire di stampo “teutonico”. Ma non c’è bisogno di andare oltre confine. Diciamo un’efficienza che anche noi abitanti di questa strana Penisola a tratti sappiamo avere, quando ci svegliamo dal lato giusto.
Chiara non ha cercato scorciatoie: ha saputo ottenere risultati con dedizione e applicazione, mai ottusa o asettica, sempre all’insegna della gentilezza e del dialogo.
Anche nelle risposte all’intervista ha confermato queste caratteristiche: con grande sincerità e chiarezza ci parla di sé e dello “specchio in forma di parole” di un libro in cui, scrutando dentro se stessa e dentro un proprio “lutto”, finisce per parlare di tutti noi, di quello che fatalmente perdiamo, senza mai perderlo del tutto, forse, della fragilità e della persistenza, dell’interiorità, della paura (attuale, oggi e sempre) e della tenace volontà di guardarsi dentro trasformando la perdita e lo smarrimento in ricerca di espressione e di dialogo.
Anche in questo caso, se volete e potete, leggete le risposte nella loro interezza e nel contesto che ben delinea i chiaroscuri, il buio e la ricerca di spiragli di luce.
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A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

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5 domande

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Chiara Zanetti

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve autoritratto in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Caro Ivano, grazie per l’ospitalità. Sai, nella mia vita sono sempre stata dalla parte dell’intervistatrice, della giornalista e mai il contrario, salvo un paio di importanti eccezioni.

Un mio autoritratto… Forse un’isola, circondata da pareti di mare, ma in continua ricerca di scambi con la terraferma. È significativo, peraltro, il mio rapporto con le periferie e l’insularità come identità liminale, ma non è questo il momento di dilungarmi in merito…

Caso vuole che stessi parlando proprio ieri con un caro amico scrittore di come i dipinti che alcuni artisti hanno realizzato ispirandosi alla mia figura siano in realtà troppo semplici per cogliere la mia essenza profonda. Credo infatti di essere (come tutti o quasi, in realtà) una persona complessa, densa di sfumature, contraddizioni, iperboli, svalutazioni…. Ma anche accrescitivi, vezzeggiativi, diminutivi. Una sorta di grammatica della persona… E non scordiamoci del binomio con l’analisi! Mi piace molto tentare di capire il mondo, questo è tutto quello che so di me e che ha ispirato il percorso che mi accingo a cominciare a gennaio 2021, ovvero il Master triennale in Counseling presso Aspic.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto lessenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sulliniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

La mia unica opera edita – al momento – è Testamento blu, uscita lo scorso 20 novembre con Echos.

Eravamo nel pieno del primo lockdown quando iniziai a scriverla, e anche l’agenzia di reclutamento per cui lavoravo al tempo era chiusa. Ero a casa, del tutto non abituata a trovarmici costantemente… Io amo scrivere, da sempre, come adoro leggere. Inoltre, mi ero appena imbarcata in una nuova relazione sentimentale dopo il fallimento del rapporto più lungo e sostanzioso della mia vita, finito nell’ottobre del 2018. Quasi due anni, direte, che significa… Beh, per me, molto, visto e considerato che è stato il lasso di tempo necessario per elaborare questo e altri “lutti”. Mi sono guardata dentro e ho pensato, sull’onda anche di una vocazione alle relazioni d’aiuto, perché non scrivere un saggio introspettivo in cui parlare di questo enorme buco nero (come credo ce ne siano nella maggioranza delle storie umane) e dare un esempio a cui appellarsi a chi si trova in difficoltà su vari fronti? E poi il gioco era fatto, ormai, ho colto la palla al balzo e ho iniziato a buttare giù il primo capitolo… Ne sono seguiti altri e infine è avvenuto il sodalizio con un artista che stimo molto per bravura e profondità di vedute, Andrea Lelario, a cui ho proposto di realizzare le illustrazioni del mio libro.

Il titolo mi sembra abbastanza indicativo… Il blu era per Wassily Kandinsky la tonalità dell’approfondimento e, in quanto al sostantivo, esso rimanda a ciò che lascio in eredità ai lettori, che può essere poco o può essere tanto, ma sarà sempre qualcosa.

Nella sua prefazione al testo, Vittorio Raschetti scrive: “Occorre passare per molti solitudini per trovare sentieri non ancora tracciati che portano nei pressi del vero. Perché non arrivare a nulla è diverso da arrivare al nulla. Solo nei segni più labili e nelle tracce più evanescenti è possibile salvarsi, solamente nella fragilità e nella persistenza di ciò che sembra già condannato a scomparire”, e penso qualifichi molto questo manoscritto, che mi ha procurato gioie e pianti.

Aspettative non ne ho. Nessuna velleità letteraria, sogno di successo, speranza di lucro o desiderio di entrare nel novero dell’intellighenzia italiana. Nel mio libro dipingo la mia interiorità ed è tutto ciò che mi importa, se qualcuno vi si può rispecchiare. Per accennare al mio rapporto intimo con questo testo, sicuramente farei riferimento anche alla paura… Timore che possa non piacere o deludere qualcuno.

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Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese

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Anna Maria Ortese è nata a Roma il 13 giugno 1914. in questi giorni in cui ricorre l’anniversario della sua nascita, ripubblico un “viaggio” sulle tracce del suo “realismo visionario”.
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Anna Maria Ortese

Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese: la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”

“Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di sé stessa Anna Maria Ortese.
Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.
         Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice.  Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.
Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.
“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione” (L’Infanta sepolta, Adelphi, Milano 1994, p. 17).
Questo è uno dei ritratti che la scrittrice delinea con meticolosa passione del volto, di uno dei volti possibili, della sua amata. Ma la città in cui la libertà espressiva della gente è assoluta e autentica è troppo vivida e lacerante, forse, persino per lei. Per chi, come la Ortese, anela un ponte che possa mettere in contatto le sponde del vero e del sognato, la realtà coloratissima, vibrante ma anche cruda di una città inafferrabile come Napoli è spiazzante, è un’attrazione tanto intensa da risultare dolorosa. Un luogo in cui si ritrova, si riconosce, ma inesorabilmente si smarrisce. Forse non è un caso che uno dei libri più noti che la Ortese dedica alla città partenopea sia contraddistinto già nel titolo da una negazione: Il mare non bagna Napoli. Quasi a sottolineare, montalianamente, che tutto ciò che possiamo sapere, oltre che avere, di questo vasto insieme di vicoli e vite, è ciò che non sappiamo e che ciò che non possediamo. Oppure, in modo più semplice e più intricato allo stesso tempo, potremmo ipotizzare che il paradosso logico e geografico alla base del titolo sia una presa di posizione, una trincea difensiva: negare il dato di fatto per sottrarsi alla morsa contrapposta di troppa verità e di troppo mistero, “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” generano una confusione che è sì meravigliosa ma anche difficile da conciliare con quell’amore per la solitudine, con la sua altrettanto meravigliosa e ugualmente assoluta necessità.
 
Il porto di Toledo, quindi, il romanzo a cui la Ortese si è dedicata una vita intera, come un’immensa tela di Penelope, è la risposta, o meglio il modo per prolungare in eterno una domanda, un persistere di idee e sensazioni contrapposte: l’attrazione irresistibile e la necessità di fuggire verso un altrove che è soprattutto interno, interiore, quindi ulteriore paradosso, il ritorno ad un punto di partenza che non si può accettare come stabile. Questa è la condanna dell’autrice, una fuga costante, una diaspora della mente e del cuore per tornare a ciò che le corrisponde ma da cui deve costantemente fuggire.
Nel gennaio del 1933 muore alla Martinica il fratello Emanuele, marinaio. Lo smarrimento la porta a scrivere poesie. Pubblicate dopo alcuni mesi dalla rivista La Fiera Letteraria le valgono il primo incoraggiamento a scrivere. Nel 1943 termina il suo primo racconto, “Pellerossa”. Il tema è coerente con il suo approccio, lo sguardo e il punto di osservazione che le sono propri. Lei stessa sostiene che in questo racconto «è adombrato un tema fondamentale della [sua] vita: lo sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove saranno condotti gli uomini comuni».
Nel 1937 pubblica i racconti Angelici dolori, anche in questo caso traspare la volontà di mediare tra corporeo e immateriale, proiettando l’umano in una dimensione ulteriore che tuttavia è anch’essa afflizione, inesorabile eterno ritorno.
In seguito la sua ispirazione artistica sembra affievolirsi. Si sposta in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze e Trieste, nel 1939 è a Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritorna a Napoli, e collabora alla rivista Sud, dove, tra gli altri, conosce Luigi Compagnone e Raffaele La Capria.
Nel 1953 pubblica II mare non bagna Napoli, a cui ho fatto cenno sopra, uno dei romanzi chiave, dal punto di vista letterario e umano. L’ultimo racconto del libro, “II silenzio della ragione”, dedicato agli scrittori napoletani, suscita in città violente opposizioni. Sembra un messaggio indirizzato ad un amore tormentato, una lettera volutamente cosparsa di veleno. Per generare lo strappo, la scissione da un sentimento di appartenenza troppo stretto, tanto grande da risultare annichilente. A partire da quel momento, da quello scritto estremo, la Ortese avrà difficoltà a tornare a Napoli. A tornarci di persona, in carne ed ossa, perché in realtà il legame resta vivissimo, come si è detto. Oltre a II porto di Toledo del 1975, anche II Cardillo addolorato scritto molti anni dopo, nel 1993, testimonia e conferma un pensiero mai spento, una compenetrazione profonda.
In uno dei suoi trasferimenti a Milano scrive i racconti Silenzio a Milano, titolo anch’esso emblematico, quasi a voler contrapporre due mondi che costituiscono due sue dimensioni, esistenziali ed espressive, l’esuberanza espressiva del sud e la necessità dei colori e dei toni più tenui, quasi offuscati. La scrittrice nei primi anni ha un rapporto speciale con il capoluogo lombardo, inoltre qui, negli anni ’50, nasce il suo amore con il caporedattore dell’Unità, Marcello Venturi. Anche Milano con il tempo si tramuta in un luogo d’esilio. Come se anche con le città, così come con i suoi simili, la scrittrice provasse un’attrazione che a un certo tempo si trasforma, cambia di segno, forse per eccesso di affetto o per una consapevolezza che subentra, per un mistero che, una volta penetrato, la appaga o la spaventa. La scrittrice lascerà Milano, definitivamente, durante gli anni della contestazione, nel 1969, dopo avere cominciato qui la prima stesura de Il Porto di Toledo, per rifugiarsi a Roma. Di fronte agli accadimenti della storia, alle rivolte e ai conflitti, la Ortese fugge, ancora una volta, prima in una metropoli, poi in un ambiente più raccolto, consono alla necessità dell’isolamento, Rapallo. Qui vivrà a lungo con la sola compagnia della sorella, Maria, pittrice afflitta da disabilità, quasi un alter ego, uno specchio in cui si osserva e si riconosce.
È facile immaginare che nella quiete appartata di Rapallo, circondata dai gesti alacri e dal dialetto rapido dei liguri, alla Ortese capitasse, per contrasto, di ripensare alle lentezze ataviche del Sud, a quel mondo così diverso da quello delle nebbie ovattate. La Ortese percepiva nel Mezzogiorno la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. Annota, tra l’altro, che a Vieste, in Puglia, «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente». Questa dichiarazione, anzi, questa prova assoluta, espressa dal corpo oltre che dalla mente, della disperazione, intesa nell’accezione esatta e inesorabile di “mancanza di speranza”, con ogni probabilità ha sempre inorridito la scrittrice. Forse perché, anche in questo caso, vi riconosceva molto di suo. La sua risposta personale è stata la scrittura: dare una forma, e una voce, a quella mancanza di punti di appoggio, a quella dimensione amata eppure estranea, ferocemente aliena, incomprensibile perché sommersa dalla verità del mondo.
 In Città involontaria scrive: «tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata» e in un altro racconto osserva: «per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra». In un’intervista rilasciata molto più tardi, nel 1994, quasi un resoconto o un compendio, dichiara:  
“Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia”.
La “lacera condizione universale” del Meridione non è solo un puntuale reportage, una testimonianza. È anche e soprattutto un paradigma dello spaesamento interiore, di quello smarrimento totale, inteso anche come perdita dei riferimenti essenziali. Come sosteneva Pasolini, l’autenticità perduta era l’unica ricchezza di un mondo snaturato e smarrito. L’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato la propria unica speranza nel momento in cui si è disfatta delle proprie radici ed è crollata in un baratro da cui è impossibile risalire.
Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura  tanto tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo». Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla».
L’analisi è lucida, aspra, non per una forma di compiacimento o di paternalismo infarcito di un senso latente di superiorità. C’è un desiderio autentico di comprendere, di individuare le radici del male. Ci sono parallelismi, per certi aspetti, anche nel brano tratto da Il mare non bagna Napoli qui di seguito riportato, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. In particolare nel riferimento al “sonno”, all’apatia atavica. Il Sud è scrutato con occhio lucido ma sincero. Con una compenetrazione autentica, non con l’occhio di un colonizzatore o di un entomologo che descrive un insetto strano e malato: «Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro ‘regolata’, sono dovute le condizioni di questa terra, e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.
Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste ragioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa».
Naturale, non solo in virtù di un gioco di parole, è anche l’accostamento con le tematiche leopardiane, quell’oppressione che è imputabile in parte alla natura in parte al destino e alla storia.
Le terra del Sud è «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato», in quel silenzio che è anche tentativo di dialogo, muto ma tenace, con qualcosa che non si scorge ma si fa sentire, spesso come oppressione, afa, bagliore immenso e accecante, si individua il senso interiore della condizione meridionale.
La complessità della scrittrice avrebbe richiesto un’analisi molto più approfondita. Già da questi brevi appunti è stato possibile tuttavia intravedere qualche scorcio, iniziando un viaggio alla scoperta dell’immaginifico quanto reale mondo di Anna Maria Ortese: un universo dove accanto ai segni tangibili dei luoghi e degli eventi del tempo si percepisce l’attrazione e la necessità di pensare, e pensarsi, in un luogo altro, una collocazione ideale, allo stesso tempo defilata e protetta e immersa nel fluire, quasi un’utopia impropria e spuria, un sogno che non ignora la carne reale delle sofferenze che vorrebbe riscattare se solo potesse sperare davvero di riuscirci.
L’appellativo di «zingara assorta in sogno» attribuitole da Italo Calvino è emblematico, in quest’ottica. La scrittrice è immersa nel sogno ma non nel sonno. È assorta, quindi astratta, in apparenza estranea. Ma non dorme, una parte di lei resta vigile, presente, e vede, con occhi non solo reali.
Così ho pensato di andare/ verso la Grotta,
in fondo alla quale,/ in un paese di luce,/
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”
(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi).
Si deve alla Ortese, tra l’altro, il verso che ha dato origine al titolo del film di Mario Martone dedicato a Leopardi. Tra le sorelle e i fratelli ideali della Ortese, si possono individuare autrici e autori molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati da una ribellione che si manifesta nelle forme di una fuga verso  luoghi di elezione, isole e fortificazioni difensive, concrete e metaforiche.   Le è affine Elsa Morante, ad esempio, che come lei ha creduto nella «inesistenza», in un mondo “fiabesco” ma sempre ancorato al vero, all’umanità in carne ed ossa. Oppure Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, da lei definito «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole». In un altro dominio artistico, quello delle arti figurative, si può forse individuare quella che si potrebbe definire una raffigurazione iconografica del senso e delle suggestioni profonde della Ortese. Le pagine della Ortese si possono accostare ai quadri metafisici di De Chirico, a quelle ombre che si allungano a dismisura in piazze in apparenza inanimate, algide, apparentemente partorite da un impulso astratto della mente. Eppure, a ben vedere, c’è sempre un modello concreto ed esistente, un’osservazione a monte, attenta, del vero. Un vero che tuttavia non basta, così come non è sufficiente e non è esatta la definizione di surreale. La ricerca, mai interrotta, sempre in fieri, è quella di una realtà altra, sottratta alle miserie del contingente. Per giungere forse in un attimo di privilegio assoluto ad una comprensione più intensa del mistero del dolore e della bellezza. Per cogliere in un oggetto, in un orologio che segna un’ora inesatta o improbabile, il senso dell’umano.

di Ivano Mugnaini

Geometrie creative

Giacomo Leopardi - A Silvia
Torre di Pisa a rischio, i cambiamenti climatici potrebbero ...
“E se avesse ragione la Torre di Pisa?” 
La frase non è mia. L’ho trovata su Facebook e mi congratulo con chi l’ha ideata e scelta.
Forse l’interrogativo se lo è posto anche Leopardi, durante il suo soggiorno pisano.
Su Leopardi e Pisa ho scritto un articolo ospitato da “L’Ottavo”, che ringrazio: Leopardi vs Leopardi .
Lo ripropongo qui.
Buona lettura e buone “geometrie creative”.
IM
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LEOPARDI VS LEOPARDI

Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

 

Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale. Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino e quello pisano. La domanda è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta. Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura monocorde descritta in molti libri scolastici in stile Bignami. Non era e non è esclusivamente il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
È anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie volutamente infantili dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito. È l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi. Ma è un lusso che non possiamo e dobbiamo permetterci.
Questa creatura complessa e multiforme arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che la circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino e vi si trattenne fino al giugno del 1828.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere:
Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione.  La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: «Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi».
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua apparente semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente, a un’ipotesi: «Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa». A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono errori, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.
Giacomo Leopardi, Pisa – Lungarno | territori del '900
 

Giacomo Leopardi, 29 giugno 1798

In occasione della ricorrenza della nascita di Leopardi, ripubblico un articolo sui suoi luoghi, sognati e poi finalmente veduti, il mondo, la bellezza, e, in alcuni momenti, la felicità: vista, scritta, vissuta.

 Viaggi al centro dell’autoreA silviaIl giovane favolosoIvano MugnainiLeopardiLungarnoPisa

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Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, chiamerebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
È anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. È l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito” (12 novembre 1827).

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Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.


Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.

LA TENACIA DELLO SGUARDO: il realismo visionario di Anna Maria Ortese

In questo giorno in cui le immagini della violenza riempiono gli occhi e la mente, ho deciso di pubblicare l’articolo dedicato ad Anna Maria Ortese anche in lingua inglese, un medium in grado di mettere in contatto e favorire il dialogo con la stragrande maggioranza delle persone, quelle che ripudiano la violenza e credono nella possibilità della convivenza civile. Il gesto è inutile, vano, per niente in grado di modificare le cose. Ma in fondo tutta l’arte è inutile. È utopia, ricerca di un mondo altro. Ma senza quella vitale inutilità, senza quella ricerca di un luogo che non c’è, o che bisogna trovare, la sconfitta dell’umanità e della bellezza sarebbe ancora più grave, sarebbe definitiva. Ben venga quindi ogni gesto “inutile” che ci conferma che siamo ancora vivi e ancora tenacemente umani.
On this day in which the images of violence fill the eyes and the mind,  I decided to publish the article on Anna Maria Ortese also in English , a medium that can bring together and foster dialogue with the great majority of the people, those who refuse violence and still believe in the possibility of civil cohabitation. The gesture is useless, vain,unable to change things . But basically all art is useless. It is utopia, looking for another world. But without this vital futility, without the search for a place that does not exist, or that we still have to find, the defeat of humanity and beauty would be even more serious, it would be definitive. I welcome, therefore, every “useless”gesture which confirms that we are still alive and still tenaciously human.

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VIAGGIO NEL REALISMO VISIONARIO DI ANNA MARIA ORTESE:
la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”

 

Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di se stessa Anna Maria Ortese. Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.

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Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice. Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.

Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.

Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione” (L’Infanta sepolta, Adelphi, Milano 1994, p. 17).

Questo è uno dei ritratti che la scrittrice delinea con meticolosa passione del volto, di uno dei volti possibili, della sua amata. Ma la città in cui la libertà espressiva della gente è assoluta e autentica è troppo vivida e lacerante, forse, persino per lei. Per chi, come la Ortese, anela un ponte che possa mettere in contatto le sponde del vero e del sognato, la realtà coloratissima, vibrante ma anche cruda di una città inafferrabile come Napoli è spiazzante, è un’attrazione tanto intensa da risultare dolorosa. Un luogo in cui si ritrova, si riconosce, ma inesorabilmente si smarrisce. Forse non è un caso che uno dei libri più noti che la Ortese dedica alla città partenopea sia contraddistinto già nel titolo da una negazione: Il mare non bagna Napoli. Quasi a sottolineare, montalianamente, che tutto ciò che possiamo sapere, oltre che avere, di questo vasto insieme di vicoli e vite, è ciò che non sappiamo e che ciò che non possediamo. Oppure, in modo più semplice e più intricato allo stesso tempo, potremmo ipotizzare che il paradosso logico e geografico alla base del titolo sia una presa di posizione, una trincea difensiva: negare il dato di fatto per sottrarsi alla morsa contrapposta di troppa verità e di troppo mistero, “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” generano una confusione che è sì meravigliosa ma anche difficile da conciliare con quell’amore per la solitudine, con la sua altrettanto meravigliosa e ugualmente assoluta necessità.

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Il porto di Toledo, quindi, il romanzo a cui la Ortese si è dedicata una vita intera, come un’immensa tela di Penelope, è la risposta, o meglio il modo per prolungare in eterno una domanda, un persistere di idee e sensazioni contrapposte: l’attrazione irresistibile e la necessità di fuggire verso un altrove che è soprattutto interno, interiore, quindi ulteriore paradosso, il ritorno ad un punto di partenza che non si può accettare come stabile. Questa è la condanna dell’autrice, una fuga costante, una diaspora della mente e del cuore per tornare a ciò che le corrisponde ma da cui deve costantemente fuggire.

Nel gennaio del 1933 muore alla Martinica il fratello Emanuele, marinaio. Lo smarrimento la porta a scrivere poesie. Pubblicate dopo alcuni mesi dalla rivista La Fiera Letteraria le valgono il primo incoraggiamento a scrivere. Nel 1943 termina il suo primo racconto, “Pellerossa”. Il tema è coerente con il suo approccio, lo sguardo e il punto di osservazione che le sono propri. Lei stessa sostiene che in questo racconto «è adombrato un tema fondamentale della [sua] vita: lo sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove saranno condotti gli uomini comuni».
Nel 1937 pubblica i racconti Angelici dolori, anche in questo caso traspare la volontà di mediare tra corporeo e immateriale, proiettando l’umano in una dimensione ulteriore che tuttavia è anch’essa afflizione, inesorabile eterno ritorno.

In seguito la sua ispirazione artistica sembra affievolirsi. Si sposta in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze e Trieste, nel 1939 è a Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritorna a Napoli, e collabora alla rivista Sud, dove, tra gli altri, conosce Luigi Compagnone e Raffaele La Capria.

Nel 1953 pubblica II mare non bagna Napoli, a cui ho fatto cenno sopra, uno dei romanzi chiave, dal punto di vista letterario e umano. L’ultimo racconto del libro, “II silenzio della ragione”, dedicato agli scrittori napoletani, suscita in città violente opposizioni. Sembra un messaggio indirizzato ad un amore tormentato, una lettera volutamente cosparsa di veleno. Per generare lo strappo, la scissione da un sentimento di appartenenza troppo stretto, tanto grande da risultare annichilente. A partire da quel momento, da quello scritto estremo, la Ortese avrà difficoltà a tornare a Napoli. A tornarci di persona, in carne ed ossa, perché in realtà il legame resta vivissimo, come si è detto. Oltre a II porto di Toledo del 1975, anche II Cardillo addolorato scritto molti anni dopo, nel 1993, testimonia e conferma un pensiero mai spento, una compenetrazione profonda.

In uno dei suoi trasferimenti a Milano scrive i racconti Silenzio a Milano, titolo anch’esso emblematico, quasi a voler contrapporre due mondi che costituiscono due sue dimensioni, esistenziali ed espressive, l’esuberanza espressiva del sud e la necessità dei colori e dei toni più tenui, quasi offuscati. La scrittrice nei primi anni ha un rapporto speciale con il capoluogo lombardo, inoltre qui, negli anni ’50, nasce il suo amore con il caporedattore dell’Unità, Marcello Venturi. Anche Milano con il tempo si tramuta in un luogo d’esilio. Come se anche con le città, così come con i suoi simili, la scrittrice provasse un’attrazione che a un certo tempo si trasforma, cambia di segno, forse per eccesso di affetto o per una consapevolezza che subentra, per un mistero che, una volta penetrato, la appaga o la spaventa. La scrittrice lascerà Milano, definitivamente, durante gli anni della contestazione, nel 1969, dopo avere cominciato qui la prima stesura de Il Porto di Toledo, per rifugiarsi a Roma. Di fronte agli accadimenti della storia, alle rivolte e ai conflitti, la Ortese fugge, ancora una volta, prima in una metropoli, poi in un ambiente più raccolto, consono alla necessità dell’isolamento, Rapallo. Qui vivrà a lungo con la sola compagnia della sorella, Maria, pittrice afflitta da disabilità, quasi un alter ego, uno specchio in cui si osserva e si riconosce.

È facile immaginare che nella quiete appartata di Rapallo, circondata dai gesti alacri e dal dialetto rapido dei liguri, alla Ortese capitasse, per contrasto, di ripensare alle lentezze ataviche del Sud, a quel mondo così diverso da quello delle nebbie ovattate. La Ortese percepiva nel Mezzogiorno la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. Annota, tra l’altro, che a Vieste, in Puglia, «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente». Questa dichiarazione, anzi, questa prova assoluta, espressa dal corpo oltre che dalla mente, della disperazione, intesa nell’accezione esatta e inesorabile di “mancanza di speranza”, con ogni probabilità ha sempre inorridito la scrittrice. Forse perché, anche in questo caso, vi riconosceva molto di suo. La sua risposta personale è stata la scrittura: dare una forma, e una voce, a quella mancanza di punti di appoggio, a quella dimensione amata eppure estranea, ferocemente aliena, incomprensibile perché sommersa dalla verità del mondo.

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In Città involontaria scrive: «tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata» e in un altro racconto osserva: «per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra». In un’intervista rilasciata molto più tardi, nel 1994, quasi un resoconto o un compendio, dichiara:

Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia”.

La “lacera condizione universale” del Meridione non è solo un puntuale reportage, una testimonianza. È anche e soprattutto un paradigma dello spaesamento interiore, di quello smarrimento totale, inteso anche come perdita dei riferimenti essenziali. Come sosteneva Pasolini, l’autenticità perduta era l’unica ricchezza di un mondo snaturato e smarrito. L’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato la propria unica speranza nel momento in cui si è disfatta delle proprie radici ed è crollata in un baratro da cui è impossibile risalire.

Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura tanto tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo». Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla».

L’analisi è lucida, aspra, non per una forma di compiacimento o di paternalismo infarcito di un senso latente di superiorità. C’è un desiderio autentico di comprendere, di individuare le radici del male. Ci sono parallelismi, per certi aspetti, anche nel brano tratto da Il mare non bagna Napoli qui di seguito riportato, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. In particolare nel riferimento al “sonno”, all’apatia atavica. Il Sud è scrutato con occhio lucido ma sincero. Con una compenetrazione autentica, non con l’occhio di un colonizzatore o di un entomologo che descrive un insetto strano e malato: «Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro ‘regolata’, sono dovute le condizioni di questa terra, e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.

Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste ragioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa».

Naturale, non solo in virtù di un gioco di parole, è anche l’accostamento con le tematiche leopardiane, quell’oppressione che è imputabile in parte alla natura in parte al destino e alla storia.

Le terra del Sud è «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato», in quel silenzio che è anche tentativo di dialogo, muto ma tenace, con qualcosa che non si scorge ma si fa sentire, spesso come oppressione, afa, bagliore immenso e accecante, si individua il senso interiore della condizione meridionale.

La complessità della scrittrice avrebbe richiesto un’analisi molto più approfondita. Già da questi brevi appunti è stato possibile tuttavia intravedere qualche scorcio, iniziando un viaggio alla scoperta dell’immaginifico quanto reale mondo di Anna Maria Ortese: un universo dove accanto ai segni tangibili dei luoghi e degli eventi del tempo si percepisce l’attrazione e la necessità di pensare, e pensarsi, in un luogo altro, una collocazione ideale, allo stesso tempo defilata e protetta e immersa nel fluire, quasi un’utopia impropria e spuria, un sogno che non ignora la carne reale delle sofferenze che vorrebbe riscattare se solo potesse sperare davvero di riuscirci.

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L’appellativo di «zingara assorta in sogno» attribuitole da Italo Calvino è emblematico, in quest’ottica. La scrittrice è immersa nel sogno ma non nel sonno. È assorta, quindi astratta, in apparenza estranea. Ma non dorme, una parte di lei resta vigile, presente, e vede, con occhi non solo reali.

Così ho pensato di andare/ verso la Grotta,
in fondo alla quale,/ in un paese di luce,/
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”

(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi).

Si deve alla Ortese, tra l’altro, il verso che ha dato origine al titolo del film di Mario Martone dedicato a Leopardi. Tra le sorelle e i fratelli ideali della Ortese, si possono individuare autrici e autori molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati da una ribellione che si manifesta nelle forme di una fuga verso luoghi di elezione, isole e fortificazioni difensive, concrete e metaforiche. Le è affine Elsa Morante, ad esempio, che come lei ha creduto nella «inesistenza», in un mondo “fiabesco” ma sempre ancorato al vero, all’umanità in carne ed ossa. Oppure Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, da lei definito «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole». In un altro dominio artistico, quello delle arti figurative, si può forse individuare quella che si potrebbe definire una raffigurazione iconografica del senso e delle suggestioni profonde della Ortese. Le pagine della Ortese si possono accostare ai quadri metafisici di De Chirico, a quelle ombre che si allungano a dismisura in piazze in apparenza inanimate, algide, apparentemente partorite da un impulso astratto della mente. Eppure, a ben vedere, c’è sempre un modello concreto ed esistente, un’osservazione a monte, attenta, del vero. Un vero che tuttavia non basta, così come non è sufficiente e non è esatta la definizione di surreale. La ricerca, mai interrotta, sempre in fieri, è quella di una realtà altra, sottratta alle miserie del contingente. Per giungere forse in un attimo di privilegio assoluto ad una comprensione più intensa del mistero del dolore e della bellezza. Per cogliere in un oggetto, in un orologio che segna un’ora inesatta o improbabile, il senso dell’umano.

Anna Maria Ortese ha lottato e vissuto una vita intera per strappare alla realtà quel varco di bellezza e di magia che la rendesse vivibile. Senza mai privare la fantasia della carne concreta, seppure dolorosa e addolorata, della verità, ma senza mai rinunciare, pagando sulla propria pelle in prima persona, al diritto alla fuga, ad un esilio temporaneo dal mondo che è esso stesso una forma di presenza, attraverso la scrittura, la testimonianza, la ricerca di quel “paese di luce” che non esiste ma la cui ricerca è essa stessa il senso del cammino, del viaggio.

THE TENACITY OF THE EYE: the visionary realism of Anna Maria Ortese

In questo giorno in cui le immagini della violenza riempiono gli occhi e la mente, ho deciso di pubblicare l’articolo dedicato ad Anna Maria Ortese anche in lingua inglese, un medium in grado di mettere in contatto e favorire il dialogo con la stragrande maggioranza delle persone, quelle che ripudiano la violenza e credono nella possibilità della convivenza civile. Il gesto è inutile, vano, per niente in grado di modificare le cose. Ma in fondo tutta l’arte è inutile. È utopia, ricerca di un mondo altro. Ma senza quella vitale inutilità, senza quella ricerca di un luogo che non c’è, o che bisogna trovare, la sconfitta dell’umanità e della bellezza sarebbe ancora più grave, sarebbe definitiva. Ben venga quindi ogni gesto “inutile” che ci conferma che siamo ancora vivi e ancora tenacemente umani.
On this day in which the images of violence fill the eyes and the mind,  I decided to publish the article on Anna Maria Ortese also in English , a medium that can bring together and foster dialogue with the great majority of the people, those who refuse violence and still believe in the possibility of civil cohabitation. The gesture is useless, vain,unable to change things . But basically all art is useless. It is utopia, looking for another world. But without this vital futility, without the search for a place that does not exist, or that we still have to find, the defeat of humanity and beauty would be even more serious, it would be definitive. I welcome, therefore, every “useless”gesture which confirms that we are still alive and still tenaciously human.

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THE VISIONARY REALISM OF ANNA MARIA ORTESE :

THE TENACITY OF THE EYE AND THE PAIN OF “NON-EXISTENCE”

“I’ve always been alone, like a cat,” writes of herself Anna Maria Ortese. A short sentence, apparently weak, almost an unpretentious lament, deprived even of consolation. In fact in this fragment, in this thin sliver of glass, is enclosed a large sky that dominates and oppresses, a flare which imposes the vision of the contours. Loneliness is common to many human beings. But for some who, despite their own will, have the gift and the pain to perceive more strongly the bright lights and the gray halo of existence, it is a burden of a greater, almost unbearable weight. It is also inevitable to think of the constant almost physical presence of this solitude, in the many trips that Ortese has faced, changing cities, houses, people around her, but remaining always and despite everything alone. Even thinking about contacts with the literary world which contrasted her but also appreciated and honored her, almost grudgingly but clearly, the occasion on which she won the Premio Strega, for example, but also in many other circumstances, it is easy to imagine her discomfort, her desire to return to her home, next to her sick sister, to cultivate an isolation that was care and disease at the same time.

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Yet, in the fragment of glass from which took inspiration this brief attempt of examination, there is also a reflection of a more vivid and sharper angle. Quite unintentionally, in all likelihood, to Ortese who has expressed it, but perceptible, perhaps with a vital and voluntary force for us. “Alone like a cat”, noted the writer. The first thing to remark is a very personal and oblique approach that has always characterized even the prose of Ortese. Generally we say, “alone like a dog.” Usually a cat is either domestic, and therefore it is not alone, or it is alone just when it wants, because it chooses it, or because of necessity, should it be only the need to defend itself from the humans or from other animals, or because in loneliness it can sleep, think and look, and observe the frenzy of life, possibly without being seen. The impression is that Ortese, in her long and complicated journey of human being and writer, has observed the world with a voracious curiosity, capable of devouring herself first, her own mind and energy. But watching and recording, with the sincerity of someone who is outside of all the herds and all the congregations, was the luxury that she allowed himself, ready to pay for it with exclusion and imprisonment, in the strict sense, in the four walls where she cultivated the silences and the words, her writings, the sheets with which she struggled every day to try to combine fantasy with reality.

Anna Maria Ortese was born in Rome in 1914, from a modest family. During World War I she lives first in Puglia then in Portici and then in Potenza. After the war her father built a house in Libya. Shortly after, however, he returned to Italy and specifically in Naples. Naples is the fundamental relationship of the existence of Ortese. More than a place we can talk about a relationship, a passionate and tormented history lasting a lifetime.

“I have lived a long time in a city truly exceptional. Here, […] all things, good and bad, health and the spasm, the singers of happiness and pain […] all these noises were so tightly narrow, confusing, mixed with each other, that the stranger who came to this city had […] a very strange impression, as an orchestra whose instruments, composed of human souls, no longer obeyed the smart baton of the Maestro, but each of them expressed its own behalf arousing effects of wonderful confusion “(The Buried Infanta, Adelphi, Milan, 1994, p. 17).

This is one of the portraits that the writer outlines with meticulous passion of the face, of one of the possible faces, of her beloved. But the city in which the freedom of expression of people is absolute and authentic is too vivid and piercing, perhaps, even for her. For those who, like the Ortese, long a bridge that can bring together the banks of truth and dream, colorful but also raw reality, an elusive a city like Naples is unsettling, it is an attraction so intense that it becomes painful. A place in which one finds himself, but surely goes astray. Perhaps it is no coincidence that one of the most famous books that Ortese dedicated to the city of Naples is characterized in the title by a denial: The sea doesn’t touch Naples. As if to underline that all we can know, and have, of this vast set of alleys and lives, is what we do not know and what we do not possess. Or, more simply and more complicated at the same time, we could assume that the logical paradox and the geographic base of the title is a position, a defensive trench: to deny the matter of fact in order to escape too much truth and too much mystery, “all things, good and bad, health and the spasm, the singers of happiness and pain” generate a confusion that is wonderful but also difficult to reconcile with that love for solitude, with its equally beautiful and equally clearly necessity.

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The Port of Toledo, then, the novel to which the Ortese has devoted a lifetime, like a huge canvas of Penelope, is the answer, or the best way to prolong forever a question, a persistence of conflicting ideas and feelings : the irresistible attraction and the need to flee to another place that is mostly internal, inner, then another paradox, the return to a starting point that can not be accepted as stable. This is the conviction of the author, a constant escape, a diaspora of mind and heart to return to what corresponds to her but she must constantly escape from.

In January of 1933 her brother Emanuele dies in Martinique. The loss is for her the door to write poetry. Published a few months later in the magazine “The Literary Fair”, her poems gained her the first encouragement to write. In 1943 she finished his first novel, “Redskin”. The theme is consistent with her approach, the look and the point of observation that are suitable to her. She herself says that in this story “is foreshadowed a fundamental theme of [her] life: the shock of large masses of humanity, civilization with no more spaces and innocence, large enclosures where common men will be conducted.”

In 1937 she publishes the short stories Angelic pain. In them again shines the desire to mediate between corporeal and immaterial, projecting the human in a further dimension which however is also sorrow, unrelenting eternal return.

Later her artistic inspiration seems to fade. She moves to various cities of northern Italy, Florence and Trieste. In 1939 she was in Venice, where she finds a job as a proofreader at Gazzettino.

At the outbreak of World War II she returned to Naples, and contributed to the magazine “South”, where, among others, she knows Luigi Compagnone and Raffaele La Capria.

In 1953 she publishes The sea doesn’t touch Naples, which I have mentioned above, one of the key novels, from the literary and human point of view. The last story of the book, “The silence of reason”, dedicated to the Neapolitan writers, arouses violent opposition in the city. It seems a message addressed to a tormented love, a letter deliberately sprinkled with poison. To create a rift, splitting from a feeling of too tight, so great as to be annihilating. From that moment, the Ortese will struggle to return to Naples. It will be difficult for her to return in person, because mentally the tie remains very much alive, as it has been said. In addition to The port of Toledo in 1975, also The grieving Cardillo written many years later, in 1993, testifies and confirms a thought never turned off, a deep penetration.

In one of her transfers to Milan she writes the stories Silence in Milan, another emblematic title, as if to contrast two worlds which are two existential and expressive dimensions belonging to her, the exuberance of the South and the need of more muted colors and tones, almost blurred. The writer in the early years has a special relationship with Milan. In the 50s, began her love affair with the chief editor of L’Unità, Marcello Venturi. Even Milan with time turns into a place of exile. With the cities, as well as with the people, the writer felt an attraction that at some time turns, changes sign, perhaps for an excess of affection or a knowledge that takes shape, a mystery that, once penetrated, becomes banal or scares. The writer will leave Milan, finally, during the years of the youth protest, in 1969, after starting here the first draft of The Port of Toledo, to take refuge in Rome. Faced with the events of history, the uprisings and conflicts, the Ortese escapes once again, first in a city, then in a more intimate place, apt for isolation, Rapallo. There she will live alone in the sole company of her sister, Mary, painter afflicted by disability, almost an alter ego, a mirror in which she could observe and recognize herself.

It is easy to imagine that in the quiet secluded Rapallo, surrounded by hard working and from the Ligurian quick dialect, Ortese happened, by contrast, to rethink the atavistic slowness of the South, that world so different from the muffled mist. Ortese perceived in the South the most obvious consequence of inner emptiness suffered by her people. She notes, among other things, that in Vieste, in Puglia, “it seemed that [the people] have lost the ability to think, for hundreds of years, not expecting anyone and anything.” This statement, in fact, this absolute proof, expressed by the body as well as the mind, of despair, understood in the precise and unrelenting sense of “hopelessness”, in all probability has always horrified the writer. Perhaps because, also in this case, she recognized in it much of her own feelings. Her own answer was writing: to shape, and give voice, to the lack of support points, to that dimension loved yet alien, fiercely alien, incomprehensible because submerged by the truth of the world.

 In City inadvertent she writes, “everything was still, as if life had petrified,” and in another story she observes, “as we looked around, there was only stone.” In an interview, much later, in 1994, nearly a report or summary she says:

“This nothing, or all, of the universe, this terrible strangeness of the universe in the Western tradition is nothing, and to me is everything . […] We believe to be sitting on something, but we are sitting on nothing. […] Feeling this unspeakable pain maybe I became bad also in The Sea doesn’t touch Naples; perhaps because I came from the time of the war, when I traveled throughout Italy: in the midst of fire, iron, terror. And when I came back I felt the inconsistency of human life, and saw this inconsistency, this southern pain: people brought to nothing, and the euphoria of the people in high places who amused themselves, was madness. “

The “torn universal condition” of the South is not only a timely report, a witness. It is also and above all a paradigm of displacement within the total loss of essential references. As Pasolini claimed, lost authenticity was the only wealth of a world distorted and defeated. Paleoindustrial Italy peasants left their only hope when they abandoned their roots and collapsed into an abyss from which it is impossible to escape.

It is a still area, dark and quiet, within which any possibility of emotion will not survive, except a form of fear so strong as to prevent “to pronounce the word man in its true meaning.” On the one hand, therefore, the Ortese experiences emotions, sounds and lights of reality; on the other, she comes to the “sense of cold and nothing.”

Her analysis is polished, rough, not a form of complacency or paternalism peppered with a latent sense of superiority. There is a genuine desire to understand, to identify the roots of evil. There are parallels, in some respects, even in the excerpt from The sea doesn’t touch Naples set forth below, with The Leopard by Tomasi di Lampedusa. In particular in reference to “sleep”, to atavistic apathy. The South is scrutinized with an eye polished but sincere. With an authentic penetration, not with the attitude of a colonizer or an entomologist describing a strange and ill insect: “There is in the most extreme and shiny southern lands, a ministry hidden in the defense of nature by reason; a genius mother, of unlimited power, to whose care is entrusted jealous and perpetual sleep. That defense would loosen if for a moment the sweet and cold voices of human reason could penetrate that nature. In this incompatibility of two forces equally strong and not at all reconcilable, as the optimists think, in this terrifying secret as defense of a territory – the vague nature with songs, sorrows, and deaf innocence – and not in a history full of rage, that here is more ‘regulated’, are due to the conditions of this earth, and the miserable end it makes, whenever it organizes an expedition or sends its boldest pioneers. Here the thought can not be servant of that nature, contemplated in any book or art. If you just mention an attempt to critical development, or manifest some try to correct the heavenly shape of this land, you will see that the sea is only water, volcanoes chemical compounds, every possibile desire to change is killed.

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Much of this nature, of this maternal and conservative genius, occupies the same kind of man, and keep the oppressed in their sleep: Day and night takes care of this sleep, careful that it is not changed into something more keen. Torn by the lamentations of the son from time to time, but ready to suffocate the sleeper if it shows to move, and hints looks and words that are not exactly those of a sleepwalker. The immobility of the reason has been attributed to other causes, but that does not have a relationship with the real. It is nature that regulates life and organizes the pains of these regions. The economic disaster has no other cause.”

Natural, not only by virtue of a play on words, is also the combination with issues of Leopardi, the oppression that is partly due to the nature and in part to destiny and history.

The land of the South is “left hanging on the edge of an eternal dawn”: right there, where “Christ is not even past,” in the silence that is also trying to dialogue, silent but strong, with something that you can not see but you feel, often as oppression, stuffiness, immense and blinding glow, where you find the inner meaning of the southern state.

The complexity of the writer would have required a much more detailed analysis. Already from these short notes, it was possible to detect some glimpses, however, beginning a journey to discover the real world of Anna Maria Ortese imagery: a universe where alongside tangible signs of the places and events of the time you feel the attraction and the need to think, in a way, an ideal location , at the same time secluded and protected and surrounded by flowing , almost an improper and spurious utopia, a dream that does not ignore the real meat of the suffering that would redeem if only we could really hope to succeed.

The definition of “gypsy absorbed in a dream”, attributed to Anna Maria Ortese by Italo Calvino is emblematic in this respect. The writer is immersed in the dream but not in sleep. Absorbed, abstract, seemingly unrelated. But she does not sleep, a part of her remains vigilant, present, and sees, with eyes not only real .

“So I thought I’d go to / the Grotta,

in the bottom of which, / in a land of light, /

has been sleeping, a hundred years, the young fabulous. “

(Anna Maria Ortese, Pilgrimage to the tomb of Leopardi).

It is due to Ortese, among other things, the verse that gave rise to the title of the film that Mario Martone dedicated to Leopardi. Between the ideal sisters and brothers of Ortese, you can identify authors different from each other but united by a rebellion that manifests itself in the form of an escape to places of election, islands and defensive fortifications, concrete and metaphorical. The Elsa Morante Ortese is similar, for example, for the belief in the “non-existence”, in a “fairytale” always anchored to the truth, in the flesh of humanity. Or with Leopardi “who felt and suffered all our despairs”, but especially with foreign writers such as Thomas Mann and Ernest Hemingway, whom she called “a piece of sea and wind, a piece of the sky, and a stab of the sun.” In another artistic domain, that of painting, you can probably find one that might be called an iconographic representation of meaning and suggestions of Ortese. The books of Ortese have much in common with the metaphysical paintings of De Chirico, those shadows that lengthen dramatically in lifeless, icy squares, apparently born out of an impulse of an abstract mind. Yet, in hindsight, there is always a concrete model and existing upstream observation, careful, true. A truth that is not enough, and it is not the exact definition of surreal. The research, uninterrupted, always in the making, aims to a different reality, removed from the miseries of the contingent. To reach perhaps in a moment of absolute privilege a more intense understanding of the mystery of pain and beauty. To grasp an object, a clock that marks an inaccurate or unlikely hour, the sense of humanity.

Anna Maria Ortese struggled and lived a lifetime to snatch from reality the beauty and magic that would make it livable. Without depriving fantasy of concrete flesh, albeit painful and sorrowful: the truth. Never giving up, paying in person the right to escape, in a temporary exile from the world that is itself a form of presence, through writing, the search for the “land of light” that does not exist but whose research is itself the sense of the trip.