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LA VARIABILE IMPAZZITA

Un vecchio racconto, un ricordo sempre nuovo

LA  VARIABILE  IMPAZZITA

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La vita sarebbe più sopportabile se ci fosse uniformità nella sofferenza. Ma esiste la variabile impazzita di una potenziale felicità.

Non so neppure chi l’abbia detta questa frase, non so nemmeno se la ricordo con esattezza. A volte dubito persino di averne compreso il senso, ammesso che ne abbia uno. Eppure, nonostante ciò, quelle sillabe squinternate mi ruotano nel cervello come schiere di vecchi ubriachi che ballonzolano gli uni attorno agli altri. Bocche e occhi squarciati da un riso più agro del pianto.

Ma tacciono, adesso. Non li sento e non li vedo. Vedo la pelle delle sue gambe. Immobili, distese l’una a fianco all’altra, accoppiate in un abbraccio casto e sensualissimo. Una preghiera di carne rivolta ad occhi frementi di squame.

Dorme. Da quando siamo partiti si lascia cullare serena dal rollio dell’acqua. Il sole gelido del porto di Liverpool ce lo siamo lasciati alle spalle. Dall’oblò della cabina ora penetrano raggi più caldi. Puntiamo verso sud, verso la Francia, la douce France. È il nostro primo viaggio insieme. Quando era vivo suo marito partivano ogni estate per crociere transoceaniche. E io attendevo per settimane il suo ritorno lustrando ogni angolo della sua camera, lo specchio, i cassetti, il divano, il letto… Lord Windinghall è morto tre anni fa. Da allora lei ha smesso di sorridere. Parla con se stessa, risale all’indietro il fiume della memoria, oppure corre in avanti, sull’erba morbida di prati inesistenti. Parla di cose che non sono, non hanno forma né misura, se non nella sua mente e sulle sue splendide labbra.

I parenti l’hanno abbandonata uno dopo l’altro. Non così i creditori. In breve tempo le hanno sottratto ogni suo bene, le fattorie, i terreni, le scuderie… Le hanno lasciato solo la casa. Forse per rispetto dell’antica nobiltà del casato, o forse perché i vecchi solai, le mura e i tetti necessitano di restauri che costerebbero svariati milioni. Io sono rimasto con lei. Dello stipendio posso fare a meno. Faccio il maggiordomo da quando avevo ventisette anni e ho accumulato soldi a sufficienza per acquistare e impacchettare con coccarde dorate le pazzie senili che scelgo io, o che scelgono me. Se la dimora di Chesterhill mi crollerà addosso sbriciolandosi pezzo su pezzo, beh, sarà il lenzuolo sotto il quale mi sdraierò placido. Con lei al mio fianco.

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Parliamo di rado da quando siamo rimasti soli nella casa. Io continuo a fare il maggiordomo, spolvero, riordino, apparecchio la tavola. La guardo più spesso rispetto al passato, questo sì. Guardo le sue spalle soffici e la sua faccia serena. La ascolto fantasticare per ore, libera dalle barriere del tempo e della ragione. La ascolto e la proteggo, sfiorandole la nuca e le guance, quando i suoi sogni si trasformano in incubi.

Due settimane fa, mentre la rincuoravo dopo una crisi di pianto, mi ha guardato negli occhi, si è stretta a me, e mi ha urlato che voleva fuggire dalla casa, almeno per un po’. Fuggire via, lontano.

  È stupenda quando guarda il mare, quando si lascia sfiorare la faccia da un sole giovane e ignoto. Ci sono io vicino a lei. Niente e nessuno le farà del male in questo nostro viaggio.

Ho pensato a lei per anni, sin dal giorno in cui Lord Windinghall la sposò e la presentò al personale di servizio schierato in fila nel giardino della villa. L’ho amata subito. Ho amato il suo sorriso fragile, la sua repulsione per i riti della mondanità, il suo raccogliersi con lo sguardo tra le dita di un bambino o tra i petali di un fiore fino a smarrirsi e rinascere.

Non ho mai amato nessun’altra. Il sogno di lei avrebbe reso ipocrita il mio rapporto con le altre donne. Ho vissuto per anni in compagnia del desiderio di lei. Ogni giorno e ogni notte. L’ho stretto tra le braccia e protetto dalle pieghe e dalla polvere del tempo. I camerieri e le sguattere non hanno compreso niente di tutto ciò. Non potevano comprendere. Risolini soffocati e fulminei gesti sarcastici hanno accompagnato inesorabili i miei passi, il mio apparire e scomparire dalle stanze e dai corridoi della villa.

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Si sta addormentando di nuovo. Il moto placido delle onde tracima dentro le sue palpebre fino a chiuderle. Cerca la posizione ideale come un bambino che si rannicchia nella culla. Il letto della cabina cigola leggermente. Ma è un suono tenero adesso. Tenero e breve. Non come il graffio insistito che ho ascoltato per intere nottate mentre faceva l’amore con suo marito nel letto d’ottone della loro camera. Un gracchiare metallico che proseguiva identico a se stesso per poi accelerare e spegnersi in un grido sommesso. La gola spalancata di una vittima soffocata da un cuscino. Ma al mattino la gola di lei non era solcata da piaghe e cicatrici. Era liscia e salda, percorsa soltanto dalle vibrazioni del suo canto, dalle note appagate della sua felicità. Notte dopo notte io scivolavo furtivo fino al salotto per strappare al buio i riflessi vermigli di una bottiglia di brandy e la speranza di udire un suono diverso, una parola di odio, di disprezzo. Sillabe agre di distacco che per me avrebbero spalancato nuove porte. Ma così non è stato. Ha amato suo marito fino all’ultimo istante. Solo dopo la sua morte si è lasciata corteggiare dagli altri suoi tenaci spasimanti: il sogno, l’irreale, il delirio quieto che sguscia via alla morsa del vero e del logico. Vaga con la mente, ora, su sentieri impalpabili noti solo a lei.

“Alzheimer!” – esclamò platealmente il medico da cui la condussi, diversi mesi fa. Il suo grido è ancora conficcato nelle mie orecchie. “Sfasamento mentale, distorsione dei dati concreti del mondo esteriore in favore di immagini e eventi puramente illusori, immaginari. Sì sì, nessun dubbio, è proprio Alzheimer” – concluse lo specialista, aspirando la acca in modo tale da farmi capire che lui, oltre ad essere un luminare della sua disciplina, aveva anche un’ottima confidenza con la lingua tedesca. Non mostrai ammirazione per le sue doti né sorpresa per la diagnosi. Mi aspettavo tale responso.

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Il battere sobrio di una mano sulla porta della cabina mi strappa ai miei pensieri. Faccio cenno al giovane cameriere di non fare rumore. Posa il vassoio con la colazione sul tavolo, raccoglie la mancia e si allontana in punta di piedi. Rigiro lo zucchero nella tazzina con estrema lentezza, ma il ticchettio del cucchiaino dischiude di nuovo gli occhi di lei. Mi guarda e sorride, è di splendido umore. Parla e ride euforica come non faceva da tempo. Mi dice che quando saremo a Parigi vuole visitare tutta la città, ogni palazzo, ogni museo, e, in particolare, le chiese e i santuari. È molto religiosa, lei. Io sorrido e annuisco. Camminare al suo fianco sarà la mia festa solenne, il mio inno alla vita.

“Pensi che guarirò, Philip?” – sussurra all’improvviso alzando lo sguardo dalla tazzina di caffè che stava bevendo a piccolissimi sorsi.

“Certo signora, starà magnificamente. L’aria di mare le fa benissimo. Se mi permette di dirglielo… lei è bellissima stamattina”.

Rimane immobile per infiniti istanti. Mi scruta in silenzio. Gli occhi le si spalancano a poco a poco di luce e dalle labbra escono le note di una canzone. Canta a pieni polmoni, con voce da soprano, come faceva da giovane. Intona l’aria di un’opera italiana, la sua preferita. Non riesco a comprendere le parole, ma il suono penetra fulmineo in ogni vena, in ogni stilla di sangue. Raggiunge tutti gli angoli del corpo, ma si sofferma e si condensa soprattutto nei testicoli. Pulsa e freme lì, all’interno, violento e fluido, incontrastabile. Eccitazione e imbarazzo si fondono in un crogiolo di sudore. Lei si accorge di tutto ma non smette di cantare. Mi sfiora la fronte e la bocca con le dita. Le labbra si serrano in un bacio che dà al via al canto prolungato dei nostri corpi nudi, stretti nei liberi accordi custoditi per anni nei recessi più intimi della mente.

Lei è lucida. Dice parole solide e sensate, ricorda alla perfezione ogni istante passato e riconosce il senso esatto di ogni attimo che trascorre lieve, qui ed ora, su questo letto candido, su questo cuscino madido di sudore.

Lo psichiatra poliglotta è un incompetente. Incompetente, megalomane e anche ladro. Sì, oltretutto è anche un ladro. Andiamo al suo studio ogni giovedì, io e lei, da almeno tre anni. E lui, inesorabile, si becca sessanta sterline a visita. E le domande le fa solamente a me, per giunta. A lei non chiede mai nulla. Sta lì lei, mi accarezza, mi dice di stare tranquillo, tutto qua. Oppure resta addirittura fuori. Sì, il più delle volte lei resta fuori, in anticamera.

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