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La filosofia del sole – di Michela Zanarella . Recensione e intervista

La filosofia del sole, Michela Zanarella, Edizioni Ensemble, 2020

“Nominare tutte le cose / anche le più dolorose / luce / e chiamare nettare la vita / a ogni respiro”. I versi iniziale della seconda poesia del libro di Michela Zanarella sono ineludibili. Se ne percepisce la verità e quindi colpiscono ancora di più, soprattutto in quest’epoca in cui la tendenza ai crepuscoli e ai coprifuochi, reali e metaforici, dilaga e impera. Vale la pena soffermarci sui vari termini di questa sollecitazione, questa dichiarazione di intenti e di poetica, filosofia da applicare ai pensieri e alle azioni quotidiane. “Nominare le cose” è il fardello e il privilegio della scrittura, dell’arte, della poesia. Dare un nome alle cose le strappa al caos e all’oblio ma richiede anche un esercizio di assoluta immedesimazione, senza trucchi da ciarlatano, senza sconti, senza scorciatoie. Quindi, se si vuole cercare il lato assolato dell’esistere, quello per cui vale la pena alzarsi, vestirsi ed uscire dalle nostre comode case-galera, bisogna nominare tutte le cose, anche le più dolorose, luce. Per farlo non basta desiderarla, bisogna esserlo. Bisogna diventare noi stessi luce. Compito di immenso impegno, percorso impervio. Ma la strada è percorribile, questo libro lo conferma. E, come spesso accade, la meta è il cammino non un luogo preciso in cui arrivare. La ricompensa è quel nettare della vita. Che non è soltanto la gioia, ma l’accettazione del tutto, del bene e del male, del piacere e del dolore. Se riusciremo a fare questo, “non ci spaventeremo della notte / o della polvere che insegna alla terra / l’estensione delle nuvole”.
Come opportunamente ha rilevato Dante Maffia nella prefazione, questo libro rappresenta una svolta, o perlomeno una significativa mutazione di rotta nella scrittura e nel modo di percepire il mondo da parte di Michela Zanarella: “La filosofia del sole rinnova il rapporto della poetessa con il mondo, che muta l’originario sguardo malinconico e a volte addirittura triste, in un qualcosa di dinamico”. L’etimologia della parola “filosofia”, amore per la saggezza, può esserci utile, in questo contesto. Forse la vera saggezza è sapere cogliere “l’alba che confine con il sole”, e viceversa, percependo non solo l’alternanza ma anche la coesistenza di buio e luce. Sapendo che ognuno dei due elementi contrapposti ha senso solo in presenza dell’altro. Facendo riferimento a Mario Luzi, Maffia parla delle “controversie”, anche di quella controversia al cui fuoco siamo costantemente soggetti. “Un attimo, uno solo / accaduto e inaccaduto rifondersi, /finché insensibilmente non c’è altro, / quel fuoco, quell’acqua, quegli elementi”. Il poeta fiorentino parla di rifondersi, quasi un riforgiarsi per rinascere. Michela Zanarella accoglie la lezione e riforgia il suo scrivere all’insegna della ricerca del sole, della luminosità che pervade tutto, anche il dolore. È necessario ripetere questo concetto perché è un punto chiave, un ostacolo da superare, o meglio una porta da aprire tramite un gesto lieve e preciso.
Il linguaggio di questo libro tende all’essenzialità. Prosegue con coerenza, Michela, il processo di sfrondamento degli orpelli per giungere più leggeri a quel punto in cui è più facile guardare, cercare, percepire il mistero. La bellezza del cielo va raccolta da terra, ossia dalla realtà, ci suggeriscono alcuni versi. Di conseguenza è lineare, concreto, il linguaggio. Le “illuminazioni” (termine del tutto consono) non nascono da elucubrazioni o simbolismi complessi. Spuntano, potremmo dire sbocciano, come fiori di campo, senza forzature, senza intricati innesti. E accade che in un vasto prato di versi che ci conducono come viaggiatori verso gli appuntamenti con la luce, ci si trovi di fronte a descrizioni o sintesi di notevole forza, anche estetica: “il cuore è attratto da echi di sole / e l’amore si avvicina / a un’ipotesi di stelle”. La progressione conduce a un crescendo e a quel verso, quella ipotesi di stelle che, oltre ad essere assolutamente apprezzabile per la bellezza dei termini e dei suoni, è anche una sintesi adeguata, potremmo dire “programmatica”. Ipotizzare le stelle vuol dire non solo pensarle, immaginarne la possibilità. Vuol dire crearle, nominarle, dare loro vita nell’attimo in cui noi stessi traiamo energia e sussistenza da loro, in particolare dalla stella per antonomasia, il Sole, quasi sinonimo di vita, per gli umani.

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Polveri nell’ombra

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Though lovers be lost love shall not / And death shall have no dominion. Leggendo Polveri nell’ombra di Antonio Spagnuolo mi sono tornati alla mente, in modo graduale ma nitido, questi versi di Dylan Thomas: “Anche se gli amanti si perderanno non verrà perduto l’amore / e la morte non prevarrà”.
La traduzione come sempre può avere sfumature e accenti diversi ma la sostanza è netta, inequivocabile. Le parole chiave sono “amanti” e “morte” e la dicotomia che ne deriva si inserisce nell’amplissimo filone del binomio eros – thanatos. Le sfaccettature sono infinite, le gradazioni multiformi. L’accostamento tra i due termini è stato sviscerato e cantato con altrettante numerose modulazioni. Spagnuolo ha scelto in questo suo libro un approccio del tutto personale, assolutamente schietto e sentito. La poesia di Polveri nell’ombra pur conservando l’accuratezza lessicale e il rovello della ricerca della parola esatta, è, al contempo, un intenso, accorato omaggio alla memoria della donna amata. Spagnuolo tuttavia, per istinto, per perizia, e grazie alla sincerità (è giusto ribadirlo) di un sentimento che ha dato senso e lo dà tuttora ad una vita intera, ha evitato i baratri e i crepacci scivolosi del già detto, del patetico e del retorico fine a se stesso. Potremmo dire che la morte non prevale perché la poesia autentica (in tutte le accezioni del vocabolo) mantiene vivo un ricordo che non è semplice e patinata rievocazione ma è una forma di vita ulteriore, anche al di là dei confini fisici e cronologici.
È opportuno qui fare nuovamente riferimento ad una delle parole cardine citate nei versi d’esordio: “amanti”. L’amore a cui fa riferimento Spagnuolo, è, anche, amore sensuale, corporeo, umanissimamente concreto. Il corpo, grazie alla parola e alla sua capacità di rendere il ricordo assolutamente presente, quasi tangibile e percepibile, non si dissolve, resta lì, ad ispirare, a fare da riferimento costante per i gesti e i pensieri. La sensualità, sana ma assolutamente concreta, è sempre stata una delle caratteristiche della poesia di Spagnuolo: il corpo come strumento per esplorare non solo i sensi ma anche il senso, inteso come significato, potremmo dire “seme”, nel senso di interazione di realtà e sentimento, concretezza e sogno, indagine sull’essenza stessa dell’essere al mondo,  quindi, con un percorso circolare, torniamo al punto di partenza che è anche punto di arrivo: l’amore indaga, anche attraverso il corpo, sul senso dell’amore e quindi della vita. E viceversa.
Coerentemente, e con la tempra anche poetica che lo contraddistingue, anche dopo la morte della compagna Spagnuolo non ha spento questo canto della corporeità, non ha disattivato il tasto della nota intensa che fa da accordo tra il tangibile e il pensato, la verità e il sogno. 
Come osserva anche Daniele Giancane nella recensione qui sotto riportata, la compagna del poeta, ossia la figura femminile è “la ninfa dal viaggio indefinibile”. La parola ha assonanze sia mitologiche che concrete, riferimenti alla letteratura classica e recente, e si innesta ad un altro archetipo fondamentale: il viaggio. Non termina il viaggio condiviso con la morte della compagna. “Tra il libri dei miei vent’anni / già c’era il tuo sorriso”, scrive nella poesia di pagina 68. Il prima si intreccia saldamente all’ora e al dopo. La fine, intesa in senso fisico e cronologico in realtà non spezza, non conclude. Perché l’amore di una vita, vissuto pienamente, con mente, cuore e pensiero, non ha un inizio, c’è già nelle pagine scritte prima del primo incontro e resta anche dopo la morte.
Tutto ciò non significa che non sussista il dolore. “La fascia del tormento ha il passo lento / che ritorna più freddo, al gocciolio / delle palpebre […] T’ha rapito il tradimento delle ore / ai confini di un giorno maledetto, / senza un sussurro, senza il tuo sorriso, / sparita più volte nelle veglie, bruciate / nell’increscioso torpore del sogno. / Nel blocco del silenzio ritorna il tuo profilo.” Il tormento è costante ma non è sinonimo di sconfitta, non è resa annichilente. Il ricordo è vivido e, pur nel perdurare della pena dell’assenza, consente di vivere per dare voce a ciò che ancora del mondo vale la pena vedere, descrivere, fare oggetto di un racconto in versi. Perché ciò che la donna amata prediligeva, i fiori, i violini, il mare, sono ancora lì, e la loro bellezza è ancora sostenibile nel pensiero di lei. È come se ogni cosa Spagnuolo la vedesse e la descrivesse non solo con i suoi occhi ma anche con gli occhi di colei che ha amato ed ama.
Polveri nell’ombra è un ulteriore passo del percorso poetico e umano di  Antonio Spagnuolo. Un libro che, al valore della cura assoluta per il suono e la tornitura del verso, abbina quella che potremmo definire una riflessione vissuta e resa corporea sul senso del dolore, sul lutto, sulla perdita, ma anche sulla persistenza del ricordo, della presenza, in una parola dell’amore.
IM
 

 

 

ANTONIO SPAGNUOLO: “POLVERI NELL’OMBRA” – ED. OEDIPUS 2019
pagg.96- € 12,50
Chi segue i percorsi della poesia italiana, certamente conosce il lungo e intrigante itinerario poetico di Antonio Spagnuolo (nato a Napoli nel 1931), che è stato fondatore della rivista “Prospettive culturali”, ha curato collane di testi, dirige “Le Parole della Sybilla” e la rassegna on line “Poetrydream”. Soprattutto però Spagnuolo è un poeta di grande levatura: autore di numerose sillogi di poesia, la bibliografia sulla sua opera letteraria è assai vasta (Plinio Perilli, Elio Grasso, Bonifacio Vincenzi, Carlangelo Mauro, hanno pubblicato monografie sulla sua poesia). È tradotto in diverse lingue.
Il volumetto che ho fra le mani si intitola “Polveri nell’ombra” ed è fresco di stamp a(luglio 2019), edito da Oedipus. Occorre subito dire che è un magnifico libro, che si situa lungo una linea più discorsiva e lirica, rispetto alle sue opere precedenti (il primo Spagnuolo era certamente più sperimentale e più ermetico, a volte di difficile lettura).
“Polveri nell’ombra” nasce dal sentimento di una ‘perdita’ (la compagna di una vita). Le parole più presenti sono appunto: solitudine, silenzio, ricordi, assenza, attesa, in un contesto che però non è mai di disperazione, piuttosto di tenero rammemoramento: “Il tuo bacio aveva anche il sapore/del temporale di agosto” e “ora ti cerco di notte, tra l’uggia e il viola,/nella vecchia illusione dei capelli, imbiancati dal tempo in solitudine”. È palpabile il senso di un’assenza ‘fisica’ (questa è anche poesia della ‘tenerezza’ del corpo), che vive oramai solo nel sogno: “Ma tu ormai non sei più con me!”. Il poeta si aggira delicatamente fra i ricordi, dando vita a versi memorabili: “Ero nell’ombra e tu eri fanciulla”).La figura femminile era “la ninfa dal viaggio indefinibile”. La lingua del poeta è di una trasparenza davvero rara, unita ad una grande sapienza letteraria. Vedi il testo “Tormento”, con una serie di assonanze e rime interne: tormento, lamento, tradimento). Il libro si chiude con un testo dall’incipit originale e affascinante: “Un Dio molto complicato mi ha concesso in comodato gratuito ossa e carne per un corpo che avesse le ben note facoltà di pensare […] ora sono pronto a restituire l’involucro abbastanza consumato, ma ancora efficiente”.
Libro di tenerezza e di ricordi, che parte dall’esperienza personale dell’Autore per divenire a tutti consonante. Universale.
DANIELE GIANCANE
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Antonio Spagnuolo  è nato a Napoli il 21 luglio 1931. Ha fondato e diretto negli anni 80 la rivista “Prospettive culturali” , alla quale hanno collaborato firme autorevoli .
Ha fondato e diretto la collana “L’assedio della poesia”, dal 1991 al 2006. Pubblicando autori di interesse nazionale come Gilberto Finzi , Gio Ferri , Giorgio Bàrberi Squarotti , Massimo Pamio , Ettore Bonessio di Terzet,  Giuliano Manacorda , Alberto Cappi , Dante Maffia e altri .
Presente in numerose mostre di poesia visiva nazionali e internazionali , inserito in molte antologie ,
collabora a periodici e riviste di varia cultura  –   Attualmente dirige la collana “le parole della Sybilla” per Kairòs editore e la rassegna ”poetrydream” in internet  ( http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com ).  Presiede il premio “L’assedio della poesia 2020”-
Nel volume “Ritmi del lontano presente” Massimo Pamio prende in esame le sue opere edite tra il 1974 e il 1990 .
Plinio Perilli con il saggio “Come l’ombra di una  nuvola sull’acqua” (Ed. Kairòs 2007) rivisita gli ultimi volumi pubblicati fra il 2001 e il 2007.
Nel 2018 Elio Grasso e Bonifacio Vincenzi realizzano per lui il primo volume della collana “SUD i poeti” edito da Macabor. Fra gli ultimi riconoscimenti Premio “Libero de Libero 2017” – Premio “Salvatore Cerino 2018” –Premio “L’arte in versi 2018”– Menzione speciale al premio “Aoros 2017” – Lauro d’oro alla carriera “Premio città di Conza 2017”- Premio “N. e C. Di Nezza” Isernia 2018 – . “Premio all’Eccellenza 2019” – Roma.
Tradotto in francese , inglese , greco moderno , iugoslavo , spagnolo, rumeno .
Ha pubblicato :
* I volumi di poesia :
“Ore del tempo perduto”  – Intelisano – Milano 1953
“Rintocchi nel cielo” – Ofiria – Firenze 1954
“Erba sul muro” – Iride – Napoli 1965 – prefaz. G. Salveti
“Poesie 74” – SEN  Napoli  1974 – prefaz. Dom. Rea
“Affinità imperfette” – SEN  Napoli  1978 – prefaz. M. Stefanile
“I diritti senza nome” – SEN  Napoli  1978 – prefaz. M. Grillandi
“Angolo artificiale” – SEN  Napoli 1979
“Graffito controluce” – SEN Napoli 1980 – prefaz. G. Raboni
“Ingresso bianco” – Glaux Napoli 1983
“Le stanze” – Glaux  Napoli 1983 – prefaz. C. Ruggiero
“Fogli dal calendario” – Tam-Tam   Reggio Emilia 1984 – prefaz. G.B. Nazzaro
“Candida” – Guida  Napoli 1985  – prefaz. M. Pomilio  (Premio Adelfia 85 e Stefanile 86)
“Dieci poesie d’amore e una prova d’autore” – Altri Termini . Napoli – 1987 (Premio Venezia 87)
“Infibul/azione” –  Hetea – Alatri 1988
“Il tempo scalzato” – All’antico mercato saraceno – Treviso 1989
“L’intimo piacere di svestirsi” – L’Assedio della poesia – Napoli 1992
“Il gesto – le camelie” – All’antico mercato Saraceno – Treviso 1992  (Premio Spallicci 91)
“Dietro il restauro”  – Ripostes – Salerno 1993  (Premio Minturnae  93)
“Attese” – Porto Franco – Taranto 1994 – illustrazioni di Aligi Sassu
“Inedito 95” inserito nell’antologia di Giuliano Manacorda “Disordinate convivenze –
ediz. L’assedio della poesia – Napoli – 1996.
“Io ti inseguirò”  (venticinque poesie intorno alla Croce) – Luciano Editore – Na – 1999
“Rapinando alfabeti” – pref. Plinio Perilli – Napoli 2001 –
“Corruptions” – Gradiva Pubblications – New York . 2004 (trad. Luigi Bonaffini)
“Per lembi” – Manni editori – Lecce  2004 (Premio speciale della Giuria – Astrolabio 2005, Premio      Saturo d’argento 2006)
“Fugacità del tempo” (prefaz. Gilberto Finzi) – Ed. Lietocolle – Faloppio 2007 –
“Ultime chimere” – L’arcafelice – 2008
“Fratture da comporre” – ed. Kairòs –Napoli – 2009
“Frammenti imprevisti” – (Antologia della poesia contemporanea) ed. Kairòs – Napoli – 2011
“Misure del timore” – dai volumi 1985/2010 – Ed. Kairòs – Napoli – 2011-
“Il senso della possibilità” – ed. Kairòs – Napoli –  2013 ( premio Sant’Anastasia 2014 + Premio speciale al Camaiore 2014)
“Come un solfeggio” ed. Kairòs – Napoli – 2014-
“Oltre lo smeriglio” ed. Kairos – Napoli – 2014 –
“Ultimo tocco” – Puntoacapo editrice – Pasturana – 2015
“Da mozzare” – Ed. Poetikanten — Sesto Fiorentino – 2016
“Non ritorni” – Ed. Robin – Torino – 2016 ( premio Le Nuvole – Bertrand Russell 2017)
“Sospensioni” – Ed. Eureka – Corato – 2016 –
“Canzoniere dell’assenza” (pref. Silvio Perrella) – Kairos- Napoli 2018 (premio L’arte in versi)
“Svestire le memorie” – premio Libero delibero – Ed. Fondi 2018
“Istanti o frenesie” – punto a capo editore – 2018
“Polveri nell’ombra” – Oedipus editore – 2019 –
* I volumi in prosa :
“Monica ed altri”- racconti  – SEN  Napoli – 1980
“Pausa di sghembo” – romanzo – Ripostes – Salerno 1994
“Un sogno nel bagaglio” – romanzo – Manni ed. Lecce – 2006
“La mia amica Morèl” – racconti – Kairòs – Napoli 2008
* I volumi per il teatro :
“Il cofanetto” – due atti –  L’assedio della poesia – Napoli 1995
“Vertigini di colori” un atto per Frida Kahlo – Napoli 2007
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Di lui hanno scritto numerosi autori fra i quali A. Asor Rosa che lo ospita nel suo “Dizionario della letteratura italiana del novecento” e nella “Letteratura italiana” edizioni Einaudi , Carmine Di Biase nel volume “La letteratura come valore”, Matteo d’Ambrosio nel volume “La poesia a Napoli dal 1940 al 1987”, Gio Ferri nei volumi “La ragione poetica” e “Forme barocche della poesia contemporanea”,  Stefano Lanuzza nel volume “Lo sparviero sul pugno”,  Felice Piemontese nel volume “Autodizionario degli scrittori italiani” , Corrado Ruggiero nel volume “Verso dove”, Alberto Cappi nel volume “In atto di poesia”, Ettore Bonessio di Terzet nel volume “Genova-Napoli due capitali della poesia”, Dante Maffia nel volume “La poesia italiana verso il nuovo millennio”, Sandro Montalto in “Forme concrete della poesia contemporanea” e “Compendio di eresia”, Ciro Vitiello nel volume “Antologia della poesia italiana contemporanea”, Plinio Perilli in “Come l’ombra di una nuvola sull’acqua”, Carlo Di Lieto in “La bella afasia” , oltre a D. Rea, M. Pomilio,D. Cara, M.Fresa, G. Linguaglossa, M.Lunetta, G. Manacorda , Gian Battista Nazzaro , G. Panella, Nazario Pardini, Ugo Piscopo, G. Raboni , E. Rega, Carlangelo Mauro, e molti altri .

Altri rami e altri frutti – Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Seeds: Selected Poems 1978-2006

Adam Vaccaro, Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Avere semi, reali o poetici, implica un percorso, esso stesso reale e metaforico, simbolico, strettamente correlati. Il percorso nasce dalle radici e ad esse, ossia alla terra, ritorna, per poi ridare a sua volta vita ad altri rami e altri frutti. Altri semi, in una ciclicità vitale.

Le radici di Adam Vaccaro, tracciate anche in questo suo libro, sono quelle del Molise. Terra di confine, difficile, aspra. Lascia, spesso, solo la soluzione del viaggio, dello spostamento verso altri orizzonti.

Non è un caso che questo libro, che parla di semi, quindi di radicamento in un suolo, in realtà sia anche, simultaneamente, un libro di viaggi, reali o sognati, concreti o letterari, fino al punto in cui anche il viaggio mitico, quello di Ulisse o di Enea o di altri uomini che hanno esplorato i mari, le terre e il loro mondo interiore, diventa esso stesso reale, o meglio vissuto, come un evento concreto, tangibile, assimilato al punto da favorire una completa immedesimazione.

Il libro è un lungo diario di bordo con le varie tappe scandite da precisi riferimenti, annotazioni, schizzi descrittivi delle genti incontrate, dei gesti, degli scambi, di parole, di sensazioni, di emozioni.

È un libro in cui si registra, con preciso ma intenso stupore, quella che è una delle mete che Vaccaro, come poeta e come uomo, ha sempre tenacemente inseguito: la adiacenza. Concetto anche questo tangibile, reso carne pulsante, non concetto sterile e astratto. Adiacenza non significa semplicemente vicinanza, non vuol dire soltanto trovarsi accanto in un luogo, significa piuttosto condivisione profonda, di un ideale, una tensione, una volontà di conservare qualcosa e modificare qualcos’altro: conservare quella radici di cui si è detto, quelle di un mondo contadino fatto di autenticità e allo stesso tempo modificare il presente tramutandolo in un futuro più umano, più solidale.

Tutto ciò avviene in modo fattivo, sia nel libro che nella pratica quotidiana messa in atto da Vaccaro, non con proclami altisonanti ma astratti. Con una ben motivata concretezza, piuttosto, con parole nitide, lente, da slow food, verrebbe da dire, con la consapevolezza che solo ciò che ha un punto di appoggio solido può generare pensieri solidi e al contempo sogni, non impalpabili ma percorribili, come strade, come solchi di aratro.

Il libro, tradotto e curato nella versione inglese da Sean Mark, acquista un respiro internazionale senza abdicare alla sua autenticità. Trasportando semmai anche oltreoceano quei valori di un popolo e di una terra, che poi, ed è questo quello che conta, si scoprono universali, come le foglie d’erba di Whitman (citato in una epigrafe) o come tutto ciò che parla direttamente alla parte più genuinamente umana di ciò che siamo e di ciò che possiamo o potremmo essere.

Nella prima parte, nella sezione dal titolo “Nei biancoscuri antefatti” si parla di cose e di oggetti, di lavori, di mestieri, alcuni dei quali quasi obsoleti, di sicuro antichi, molto poco globalizzati o globalizzabili: si parla di orti, di filari, di scalpellini, di giardinieri. Quasi a dire e a dirci che gli “antefatti” in realtà sono necessari e presenti. Poco dopo, per analogia e per contrasto, una sezione dedicata a simboli, quasi magici, allegorici, simbolici, e, alla fine della prima parte, “la deligittimazione”, tra favola amara e realtà, le guerre e le cornacchie, il campo del vivere messo a repentaglio.

Nella seconda parte il racconto in versi prosegue. Con una sezione con un titolo evocativo, con un rafforzativo interno: “Nell’aperto aperto Inferno”. Dante, ma anche i miti, draghi, tesori nascosti, Clitennestra, un repertorio di riferimenti per parlare del proprio tempo facendo appello a luoghi mitici. Anche per esorcizzare il dolore, mai spento, mai del tutto avulso, quella SLA d’amore, ad esempio, quella malattia che non può esser dimenticata ma che può diventare spunto per trovare nuovi parametri per la resistenza, ognuno sul proprio fronte, sulle trincee dei propri individuali mali, “contro il deserto che avanza/ unico amore che mi sostiene in questa/ guerra che mi pare persa in partenza – solo/ tu Stefania mia quotidiana epifania/ dittongo che inventa la mia resistenza/ ma tu non sai il peso di questo scudo/ le mie braccia vuote il mio cuore piegato/ la mia voglia di fuggire e trovare una fonte/ un sorso d’oasi che mi dia un po’ di calma ai polsi/ mentre mi scruti e lanci lividi spilli che conosco” (da Sla d’amore, pagina 116).

Si riparte poi, nella sezione finale, verso il “Nilo maggiore e minore”. La prima esplorazione è quella del tempo, il nodo fondamentale, con quel richiamo a quello che non è solo un fiume ma un mito reso acqua, movimento, cultura e fascino. Con una distinzione tra maggiore e minore che separa e unisce, unisce e separa. Così come gli eventi maggiori dell’esistenza si affiancano a quelli in apparenza minori fino al punto in cui il discrimine si perde e resta soltanto il sapore e il senso del fluire, dello scorrere verso un delta ignoto, che ognuno dentro di sé è tenuto a creare, o meglio a generare, come un seme gettato, una scommessa nel niente che può diventare una forma di esistenza.

Nella visione di Vaccaro, non solo poetica, il passato e il presente si intersecano, il mito è un modo per gettare luce, e calore, umano, sul presente, per cercare di comprendere, o almeno per non comprendere ma con un moto interiore più ampio, generoso. Parlando di luoghi distanti in realtà di ragiona sull’attualità, sul mondo di oggi, imperfetto, ingiusto e aspro, quello che Vaccaro mira a mutare, senza timore di accuse di idealismo, senza rinunciare a percorrere i sentieri delle utopie. È una rincorsa dura ma necessaria, una gara olimpica, un gioco serissimo, vitale. Come quello descritto a pagina 134, Ludi a Menfi : “tu ragazzo dagli occhi sfolgoranti/ a fare il sciuscià tra smorfie e canti/ nella polvere del mercato di Menfi/ e noi turisti disfatti a bere incantati/ il tuo ludente grumo di energia/ in filastrocche incomprensibili/ sulla pelle battenti più del sole –/ chi canterà nefertiti mia Afrodite/ la rosa della tua carne esplosa/ nella risata liberata da un bisturi/ di gioia – intelligenza che apre/ deridendo questa pancia di carne/ in scatola occidentale così colma/ di detriti ruggine e deserti”.

Il corpo come simbolo vivente, quella pancia occidentale che ormai deborda, a dispetto del mondo, dell’equità, della giustizia, ed è ormai piena di ruggine e deserti, deserti fatti di un pienissimo nulla, non quelli fascinosi ricchi di silenzi e di favolose visioni oniriche.

La vera natura, e il valore di maggior rilievo di questo libro, è la capacità di Vaccaro di porre fianco a fianco, adiacenti al punto di combaciare, il proprio mondo interiore e il mondo tout court. Il dolore altrui ma anche la bellezza autentica di popoli ancora spontanei e ricchi di umanità, quella che noi abbiamo perduto e perdiamo ogni giorno, non sono osservati con occhio distaccato o con sterile commiserazione. L’autore mette in parallelo il proprio essere con il mondo che percorre e che vede, ascolta, sente. Comprendendo, e forse è questo il consiglio, la richiesta, l’invito alla riflessione che ci deriva da questo libro, che gettare semi per se stessi è efficace, può dare frutti, soltanto se li gettiamo anche per gli altri. Non per generosità fine a se stessa, o per una presunta bontà, ma per un discorso più lineare: il mondo è un insieme di corpi e di voci, un organismo unico, in cui ogni singola parte è collegata alle altre. In un mondo come il nostro, in apparenza privo di speranza, la sola via di uscita è dare per riuscire ad avere qualcosa. Per ascoltarci, davvero, è la sola vittoria possibile arriva nel momento in cui riusciamo a sentire, nel senso della percezione più sincera, il grido altrui: Haiti è un urlo (pagina 140) : “Haiti è un urlo – l’ultimo/ di questa carne umana/ macinata dalla macina/ del dominio che decide/ senza domande chi nel mondo/ navigherà nell’oro o nella merda/ Il terremoto ha rotto il silenzio/ sulla infinita colonna in-fame di/ bambini in fila verso la bocca/ corrosa che li renderà liberi! – ma/ vedete come siamo trepidi e/ bravi nell’invio di soldati e/soccorsi/ Io giravo scalzo e senza/ pazienza senza consistenza/ senza accoglienza nemmeno del/ vento che mi braccava nella polvere/ come l’ultimo invisibile granello/ qual ero e nient’altro/ anch’io/ Che all’urlo d’ali della Terra/ bastò poco per sollevare/ fino a questi prati di cielo/ limpidi e senza limiti così/ pieni dello stesso niente che/ ero – finalmente angelo e/ libero”.    IM

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive da più di 50 anni a Milano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: La vita nonostante, Studio d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997, con prefazione di Giancarlo Majorino; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003, con postfazione di Gio Ferri; e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria& Spettacolo, Roma 2006, con prefazione di Dante Maffia. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre varie pubblicazioni d’arte:, Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005; I tempi dell’orsa (2000) e Questo vento (2009) con opere di Salvatore Carbone, Edizioni Foto: Nicola Picchione – Firenze PulcinoElefante. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.

Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti (tra questi Premio Speciale Astrolabio, Pisa 2007, a La piuma e l’artiglio) ed è presente in molti Siti, blog e raccolte antologiche. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica. È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato Sotto la superficie – quaderno di approfondimento sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca Editori, Milano 2004; e tra gli autori de La poesia e la carne, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009.

Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it,), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, di cui ha curato con Rosemary L. Porta gli Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, di cui ha curato con G. Guidetti la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con Anna Santoro e Maria Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha curato con F. Squatriti 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

intervista a Dante Maffia

Cari amici, Ferragosto è davvero imminente e molti di voi saranno immersi (è il caso di dirlo) in tutt’altre acque e differenti atmosfere.
Qui sulle sponde del web la scrittura e la poesia non vanno del tutto in vacanza e rilevano eventi interessanti.
Tra i tanti segnalati e segnalabili, faccio riferimento all’iniziativa “Erato a Matera” prevista oggi, 13 agosto. Il programma prevede tra l’altro un intervento di Dante Maffia su “La poesia oggi in Italia”. L’argomento è di particolare interesse e il personaggio ha una notevole conoscenza dell’ambiente, una lunga e proficua produzione, e, non ultima, una personalità definita e autonoma. Maffia ha frequentato autori del calibro di Pasolini, Bassani, Carlo Bernari, Amelia Rosselli, Enzo Siciliano, Domenico Repaci, Elio Pagliarani, Attilio Bertolucci, Giacinto Spagnoletti, Sandro Penna, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Caproni, Aldo Palazzeschi. È stato candidato al premio Nobel per la letteratura, è poeta, scrittore, critico letterario e orgoglioso testimone della sua terra, la Calabria.
Gli ho posto alcune domande sullo stato attuale della poesia a cui ha risposto con schiettezza e verve, esprimendo il suo personale punto di vista su vari temi e argomenti, sia di carattere specifico che di portata più generale e onnicomprensiva.
Tutto ciò si inquadra alla perfezione anche nello spirito della rubrica A TU PER TU, il cui intento è quello di generare un potenziale dibattito, uno scambio di pareri e opinioni, sottolineando l’importanza di una pluralità di approcci e prese di posizione.
Partendo da questa intervista si può parlare, per analogia o per contrasto, di tutto ciò che ruota attorno al variegato pianeta della scrittura, e, in termini più ampi, di questo nostro tempo.
Qualsiasi commento che arricchisca il dibattito su questi temi è ben accetto.

L’intervista completa si può leggere anche a questo link: https://ivanomugnainidedalus.wordpress.com/2015/08/13/rubrica-a-tu-per-tu-intervista-a-dante-maffia/

Buona lettura! IM

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Intervista aDante Maffia

Che giudizio dai dell’attuale stato della poesia? Come valuti i nuovi fermenti letterari in particolar modo la sperimentazione, anche “ludica” o dissacratoria?

C’è uno stato della poesia attuale? O è soltanto un farneticare approssimativo e superficiale di velleità che crea confusione e non si pone nessun problema e soprattutto non parte dalla conoscenza del passato remoto e prossimo per confrontarsi, colloquiare, disconoscere, ampliare, indignarsi, aderire. Non ci sono nuovi fermenti se non in qualche solitario e ciò che viene offerto e imposto “ufficialmente” è ragione che non ha attinenza con la poesia. E attenti a giocare con la lingua e non fare come quello scienziato che stava studiando le stelle e s’è innamorato del cannocchiale.

Il solo significante, non mi stancherò mai di ribadirlo, non porta da nessuna parte. I giochi di prestigio e i cruciverba fatti passare per poesia sono ridicolaggini da circo equestre, che non lasciano traccia. Tra l’altro non sono affatto una novità le composizioni del nonsenso, appaiono in Gran Bretagna già nel Settecento. Ciò non significa che bisogna muoversi nell’acqua stagnante o putrida, ma con atteggiamento giusto, consapevoli che la poesia non è solo vocabolario o trovata, ma qualcosa di più profondo, un’alchimia imponderabile fatta di vari elementi che per diventare poesia devono amalgamarsi perfettamente.

A me, quando si parla di avanguardie, mi viene da ridere, perché chi scrive è sempre nella postazione delle avanguardie. E poi, ci possono essere le avanguardie se non esistono le retroguardie? Perché in Italia siamo arrivati a questo, perfino ad affermare che i classici sono roba inutile, zavorra. Intanto hanno alimentato epoche intere e alimentano anche la nostra nei più intelligenti e più accorti, perché la poesia è diversa dalla scienza. Qualsiasi insegnante di matematica e fisica delle scuole medie è più bravo di Galilei ma nessun insegnante di lettere ha una briciola di Dante Alighieri. La poesia non è sviluppo costante, approdo e svolta di un qualcosa, ma realizzazione di un miracolo di emozioni e di pensiero che spalanca la nostra coscienza ad emozioni inusitate che ci permettono di avere consapevolezza della realtà e del mondo. Insomma, la poesia, se c’è, è senza tempo e senza aggettivi, ecco perché chi mescola e fa il funambolo non coagula che aria fritta.

Pensi che la poesia, nell’intento di aprirsi ad un pubblico più ampio, rischi in alcuni casi di snaturarsi oppure che tale ampliamento sia insito nel processo innovativo?

Non ho mai capito perché la poesia dovrebbe, per alcuni deve, abbassarsi a un ruolo che non le compete e perché dovrebbe, o deve, andare a caccia di pubblico. Sento spesso, anche giornalisti di rango che però di poesia non conoscono neppure l’odore o la puzza, citare cantautori o cantanti con sussiego e convinti di avere scoperto l’acqua calda. La poesia, quella vera, può arrivare ovunque per vie impensate, ma programmarla per il cabaret è una illusione che diventa beffa. Basta fare una riflessione: il cabaret è spettacolo, la poesia è la negazione dello spettacolo, ecco perché i vari Sanguineti, Cacciatore, Balestrini, Zanzotto, Majorino, Pagliarani e i tanti figlioletti e nipotini come Santagostini, Delia, De Angelis, Cucchi, De Signoribus, Marcoaldi, Buffoni, hanno scritto pagine insulse che sembrano aborti di non si sa che cosa. Di loro non resta traccia, di loro non si ricorda di un solo verso. Anche la distruzione dovrebbe essere fatta con criteri creativi, ma se non esistono…

A volte mi domando il motivo per cui alcuni hanno scritto e pubblicato versi. E’ probabile che glielo abbia ordinato il loro medico curante per una qualche ragione psicologica. Non hanno da dire nulla, non provano e non danno vita, non accendono verso nulla… non avrebbero potuto continuare a fare i funzionari delle case editrici lautamente pagati, i traduttori, i professori universitari, i giornalisti?

È possibile andare oltre la distinzione classica tra prosa e poesia? Hai qualche suggerimento in proposito?

Anche quando sembrava che la distinzione fosse categoricamente da rispettare, la barriera o il muro compatto non ha mai impedito né ai poeti, né ai critici, di andare oltre la distinzione. Chi non ricorda le osservazioni di Luigi Russo, di Braccesi, di De Robertis, di Ravegnani, di Titta Rosa, di Sapegno su alcuni brani de I promessi sposi? Chi non ricorda quel che si disse sui poemetti in prosa di Baudelaire o di Lautreamont?
A me è sempre parsa, questa, una questione di lana caprina. Ovviamente se si tratta di prosa che ha un suo ritmo, una tenuta, un timbro, un lievito che fa smuovere il significato nel ritmo vitale delle immagini e del pensiero. Altrimenti, se è prosa sciatta non riesce ad avvicinarsi alla poesia e segue la sua natura. Tutto sta, insomma, nella bravura di chi scrive, nelle sue qualità, nella sua tenuta.

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La scrittura a tuo avviso è più ispirazione o mestiere? Ovvero, parafrasando Rilke, come interpreti il concetto di “necessità di scrivere”?

Nella Lettera al giovane poeta Rilke ha sintetizzato il problema in maniera decisiva. Ultimamente ne hanno scritto comunque in tanti, da Borges a Kundera, da Vagas Llosa a Brodskij e ho notato che alla fine sono tutti concordi su un punto: il mestiere è necessario per avere una maggiore possibilità espressiva e una più precisa consapevolezza delle qualità, ma senza il famoso “quid” che dà alla parola le ali, non si va da nessuna parte. Si fanno resoconti più o meno piacevoli, si offrono spezzoni di non si sa che cosa, si scrivono pagine senza costrutto e via dicendo… e il bello è che critici o giornalisti stupidi o prezzolati “interpretano” lo sciocchezzaio e ne danno spiegazioni estrose con un abuso sperticato della parola semantica.

“Poeti si nasce, grandi si diventa”, detta un adagio goethiano, e la natura dovrebbe insegnarci qualcosa. Ci sono le querce e ci sono i pini e i lecci, per restare agli alberi, e per quanto si possano curare le querce, potarle al tempo giusto, corteggiarle e adorarle, non porteranno mai né fichi, né arance, neppure con gli innesti più fantasiosi.

Ogni uomo nasce con predilezioni (se volete, chiamatele vocazioni) che naturalmente bisogna coltivare e innaffiare per ottenere che diano frutti. Così è anche per la poesia. Non si spiega altrimenti la dedizione totale di alcuni fino all’immolazione.

Quale rapporto sussiste tra la “necessità di scrivere” e la sperimentazione, anche “estrema”, e con l’avanguardia di cui abbiamo accennato poco sopra?

La necessità ha una capienza, una misura… e dunque non si possono giustificare gli sproloqui di nessuno. L’ho già detto, la poesia è di volta in volta sperimentazione per vedere se la parola riesce a contenere percezioni ed emozioni, pensieri ed esperienze. Nessun poeta si sognerebbe mai di adagiarsi nel comodo alveo dell’insignificanza per navigare per mari ottusi o inerti. E chi sventola la parola avanguardia credendo di lasciare indietro gli altri è un illuso che fa la corsa senza veri avversari.

La poesia, essendo creazione, è di per sé un rischio continuo. Ma rischia chi “sente”, chi “vede” oltre, chi sa scavare nel proprio io e nelle ragioni dell’altro e del fluire incessante del tempo.

Ci sono troppi mestieranti che si dicono poeti e troppi dilettanti che fanno altrettanto. E’ una marea che ormai fa quasi paura, anche perché internet permette la visibilità, che è un bene e un male. Ma a questo punto la discussione si farebbe troppo vasta con implicazioni sociologiche e antropologiche di dimensioni planetarie. La poesia vive e si genera nella semplicità, nel germogliare di una luce che è calore e dimensione umana. Non riconosce la stupidità e l’alterigia, non lega con la banalità e con la confusione. Né tanto meno con le mascherate degli pseudo avanguardisti.

Secondo te le case editrici sono ancora in grado di fare “scouting” di nuovi talenti o si limitano a rincorrere i “fenomeni ” del momento?

Le case editrici hanno cambiato natura. Dopo aver letto un mio libro un editore mi ha detto, sorridendo: “Ma questa è letteratura, per carità, pubblicarlo sarebbe un suicidio”.

Scouting di nuovi talenti? Forse quando a dirigere le collane c’erano i Vittorini e i Pavese, i Bassani e gli Spagnoletti, i Ravegnani e i Titta Rosa, i Sereni e i Bazlen… Oggi ci sono direttori commerciali e se proprio devono scegliere allora è meglio fare favori a un amico, a un compare o a un politico, tanto, la poesia chi la legge più? E chi la capisce? Ed ecco il proliferare, nelle grandi case editrici, di pagine grufolanti, di versi la cui insipienza non ha nome. L’appiattimento è assicurato, la democrazia dell’oscuro dettato può trionfare.

Non c’è la rincorsa neppure ai fenomeni del momento, perché semmai i fenomeni sono creati dai favoritismi.

Non so se siamo vicini alla morte della poesia, diciamo semmai al suo tentativo di soffocamento. Anche se questi signori dell’editoria non hanno fatto i conti che i poeti veri, quelli che hanno da dire, che hanno “necessità” di scrivere, vivono nelle catacombe e tutti sanno che dalla catacombe prima o poi rinasce il pulsare del senso nuovo.

Come giudichi la critica letteraria attuale? Esempi come Primo Levi e Tomasi di Lampedusa, le cui opere furono inizialmente rifiutate da prestigiose case editrici, sono ancora oggi un memento dell’incapacità di alcuni critici di comprendere la portata e il valore di un’opera?

In qualche modo ho già risposto a questa domanda. Aggiungo soltanto una postilla. Può succedere che un’opera non piaccia, non convinca, non mi scandalizza il fatto. Una bellissima donna, anche riconoscendola tale, può non attirarci o interessarci. Ma oggi non si tratta di questo, oggi c’è un progetto organizzato che punta a portare avanti i “propri”, al di là delle qualità. Tanto c’è l’editing, il sondaggio, la pubblicità. E se non funziona pazienza. Ci sono autori totalmente e sempre invenduti ma che continuano ad essere pubblicati dalle sigle acclarate. Non parliamo della poesia.

Cosa ne pensi dei fenomeni come l’autopubblicazione e l’editoria a pagamento?

Sono fenomeni, come tu stesso dici, e se non prendono soldi dallo stato o dagli enti, non mi tocca. Comunque a volte si trova qualche bella sorpresa impossibile, quasi, da trovare nelle collane un tempo prestigiose. Ci sono riflessi sociali? C’è un inquinamento? Non so valutarlo appieno, e comunque questo fiume immenso di carta molto spesso è avallato dai così detti grandi nomi di critici e poeti.

Oggi 13 agosto a Matera si tiene il Festival dell’arte e della poesia “Erato a Matera”. Che ruolo hai in questa manifestazione?

Sono stato invitato da amici a cui voglio bene e che stimo e andrò a Matera con gioia perché la ritengo una delle più belle città italiane. Un ruolo? Credo quello di stare insieme con altri poeti e critici, discutere, confrontarmi, mettermi in discussione, come faccio sempre, per cercare di crescere. Conosco i miei molti limiti e ho sempre voglia di eliminarne qualcuno grazie alla disponibilità culturale e umana degli altri. Lo dico senza falsa modestia.

Le tue radici sono profondamente legate alla tua terra, la Calabria. Pensi che la poesia e la cultura trovino adeguato spazio nelle politiche di valorizzazione territoriale? Hai in mente progetti, iniziative, collaborazioni che vanno in questa direzione?

La Calabria è la mia culla e la mia identità. Ha troppi nodi intricati nel suo seno e qualcuno mi si è conficcato nel sangue. È una regione troppo frastagliata, composta da oltre quattrocento paesi uno diverso dall’altro per tradizione, storia e cultura. Non ha un unico volto, tuttavia ci sono delle zone di eccellenza grazie a uomini fattivi che credono nella forza delle idee e della poesia. Manca un coordinamento generale e quindi la valorizzazione è sporadica, spesso inefficace.No, nessun progetto e nessuna iniziativa. Vivo, sogno. Sono pazzamente innamorato, ma non domandarmi di che cosa o di chi. Vivo la Poesia intensamente, totalmente.

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