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LE PAROLE AGRE

Qui di seguito la mia prefazione al libro LE PAROLE AGRE di Narda Fattori. I.M.
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Narda Fattori, Le parole agre, L’Arcolaio editrice, 2011

prefazione di Ivano Mugnaini

Molti passaggi significativi dei libri pubblicati da Narda Fattori sono dedicati al rapporto tra realtà e scrittura, al senso del fare poesia, al peso e al valore della parola scritta. In questo recente libro edito dall’editrice L’arcolaio, l’autrice, giunta ad una maturità letteraria compiuta e in possesso di strumenti espressivi consolidati, fa di questa ricerca di senso il perno stesso del suo lavoro, modulando toni e accenti, ma sempre dimostrando un’urgenza autentica, una sete di comprensione, rivolta sia ai destini individuali che alle dinamiche sociali, che non ha niente di retorico e posticcio ma risponde piuttosto ad un’esigenza vitale, sul piano letterario e non solo. Il titolo del libro, Le parole agre, è netto, deciso, perentorio. Non ammette, in apparenza, alcuna incertezza o esitazione. Ma la poesia, la lettura, la ricezione di questo libro specifico e di ogni altro volume di versi degno di tale nome, impongono e consentono sempre il beneficio del dubbio, e la fertile ricchezza che ne deriva. Il titolo di questo libro è adeguato e consono, esprime bene il percorso, il cammino, l’esplorazione di ambienti e stati d’animo oscuri ed amari che l’autrice ha scelto di attraversare, con lucidità e coraggio, passo dopo passo. Ma il gusto, il sapore del libro, non è univoco né monocorde. Domina, certo, l’asprezza delle immagini e delle situazioni. Al suo fianco però, tenace, quasi tenuta in vita controvoglia, come qualcosa che ci esprime e ci sostenta quasi nostro malgrado, c’è, a volte, ostinata, riconoscibile al di là di ogni crepuscolo, una forma di speranza, una luce che emerge dall’ombra.
L’esergo del libro è tratto dalle Poesie di Marina Cvetaeva edite da Feltrinelli: “Non farò da cardine/ agli zeri? Non è balorda la bilancia?/ E perché fra tutti i reietti/ non c’è simile orfanezza al mondo?” Di per sé è un grido di crudo e quasi stupito dolore. I punti interrogativi posti al termine di ogni frase tuttavia, al culmine di ogni verso, scavano nel corpo e nella terra, e, assieme al sangue e al fango, fanno sgorgare acqua, la tenacia del vivere, nonostante tutto. Del resto, come osservava Bertold Brecht, “tra le cose sicure la più sicura è il dubbio”, e il compito della poesia è quello di porre gli interrogativi giusti, evidenziandone il valore essenziale.
Questa capacità di far convivere l’”orfanezza del mondo” con una salvifica ironia, sapida, cosciente, è una delle costanti della produzione letteraria di Narda Fattori. Alcuni suoi volumi precedenti rivelano, a partire dai titoli, questa deliberata e istintiva coesistenza: “E curo nel giardino la gramigna” Ibiskos editore, 1995, è l’esempio più esplicito, ma anche il più recente “Cronache disadorne”, edito dalla Joker nel 2007, mette in evidenza una tendenza all’understatement, l’arte del togliere peso ai fatti e agli eventi, senza tuttavia sottrarre nulla della loro sostanza. Rendendo tutto, la luce e il buio, il piacere e il dolore, più umani, più sostenibili.
La terra di origine di Narda Fattori, la Romagna, per la precisione quella parte della Romagna a metà strada tra erba e sabbia, tra i campi e la spiaggia, contribuisce a creare il tono, l’atmosfera, lo sguardo dominante di questo libro. Il mare Adriatico, costantemente di fronte, là davanti, ineluttabile, è, a ben vedere, uno specie di lago dal colore incerto, spesso deprimente, non particolarmente limpido né brillante. Una sospensione della vita, un mare adeguato all’inverno. Preso atto di questo, subentra la capacità di osservazione, la pazienza dell’occhio. A furia di guardare ed aspettare si coglie quel riflesso di sole che arriva da chi sa dove, su angolazioni magicamente arcane. Ed in quel momento il lago bruttino rivela la sua potenzialità di bellezza. Completa l’opera, affiancandosi allo sguardo, la voce. L’attesa si fa parola, si inventano storie, tra verità e leggenda, e la sabbia si fa dorata, calda, accogliente. L’occhio romagnolo, per scelta, fa della malinconia un ingrediente essenziale del vivere, quasi una forma sublime di allegria. Il ricordo si fa racconto, con la libertà di sognare passaggi di transatlantici o semplicemente una moto dall’enorme cilindrata che sfreccia per un istante più potente del tempo e dell’angoscia. Narda Fattori porta con sé, in ogni suo lavoro letterario, questo sua terra di nascita e di elezione, la sua vivacità ma anche la tendenza a dissacrare, a smantellare gli edifici del già detto, scavando sotto la superficie per vedere quale sia davvero il colore del mare e quale sia il destino dell’uomo, la sua misera libertà ma anche la sua testarda “allegria di naufragi”.
Il mondo romagnolo è punto di partenza, radice preziosa, anche se poi, con la forza della propria personalità e con il sano individualismo proprio di ogni artista, la Fattori si è costruita una cifra autonoma, una dimensione più adatta a contenere anche la propria sete di misura, e a volte di quella sobrietà che fa sì che le passioni si sposino anche con il ragionamento, il corpo con la mente, l’euforia con la consapevolezza dei mali del mondo, con la volontà tenace di provare ad estirparli.
Come per ogni vero poeta l’orizzonte dell’autrice è quello del mondo, la sfida della realtà sognata e vissuta, il confronto tra l’ideale e la contingenza delle cose, la contabilità delle ferite e delle ingiustizie a cui, questo sottolinea l’autrice, si rischia di adattarsi perché non si ha tempo né forza per sottrarci e ripulircene. Le storie, le vicende rese e raccontate in forma di parole di questo libro, parlano di persone reali o immaginarie, fino al punto in cui le due dimensioni si confondono, rafforzandosi a vicenda. “Io gioco con le parole e con le parole/ canto e rido e faccio convito/ ballo la loro musica sempre variata/ a volte bene accordata su ampio fiato/ o dura e aspra come colpi di maglio/ che batte il tempo sulla roccia e la scaglia/ per regalarla al mare che la fa duna”, recitano i versi della lirica posta all’inizio del libro. È un quadro di paesaggi geografici ed interiori, roccia e sabbia, mare e duna. “Io mi riempio la bocca di parole sensate/ che dal ventre sono risalite alle anse/ di un cervello sconvolto di sinapsi”, prosegue la poesia d’esordio. La riflessione sul senso dello scrivere a cui si è fatto cenno trova qui un’esemplificazione adeguata. Ed è emblematica anche la sensazione, adeguatamente suggerita dall’autrice, che quell’aggettivo “sensate” abbinato al vocabolo “parole”, alla materia indocile di cui ci nutriamo e di cui siamo a nostra volta cibo e mensa, sia acutamente e deliberatamente ironico. Come a voler confermare a se stessa e al lettore che il vero senso delle parole, forse il solo senso possibile, è quello di provare a dare misura a ciò che è intimamente indefinibile, costantemente mutevole e sfuggente. A ciò che parte dal vero, dolorosamente autentico come una fitta d’amore o di dolore, arriva a colpire il cuore, inarrestabile, tagliente, e una volta giunto al livello razionale, a quel “cervello sconvolto di sinapsi”, è già un’altra cosa, una cosa altra, aliena, inafferrabile.
“Dalle parole accovacciate sulle labbra/ resta un ritmo aspro e scordato”. Questi altri versi confermano l’attenzione che la parola, in questo libro, rivolge alla sua essenza, a quella ricerca di un ritmo consono, adeguato. E alla sconfitta, puntuale, quello sbocco in echi discordi, scordati, aspri. Senza tuttavia la resa definitiva. C’è, nella dolcezza testarda dei versi e dei vocaboli che Narda Fattori sceglie e da cui è chiamata in causa, in quelle parole che ancora sono “accovacciate sulle labbra”, la forza per una nuova ricerca, a dispetto della consapevolezza, della sempre più solida “cognizione del dolore”. Perché è profondamente radicata l’espressione attraverso la parola, il verso, il cammino esistenziale coincide con quello letterario, il moto degli anni, delle realtà e dei sogni, è diventato “Il verso del moto”, per citare il titolo di un altro volume della Fattori, edito da Moby Dick nel 2009. È una caratteristica costante, e apprezzabile, dell’autrice, quella volontà-necessità di tener viva la memoria di quel mondo più autentico, di matrice contadina, quello in cui “l’ulivo era per l’olio e l’olio per il pane/ col salice si intrecciavano i panieri”. A differenza di altri autori tuttavia non si ferma alla dimensione oleografica da quadro macchiaiolo o da stornello intonato sull’aia al tramonto. La Fattori accosta sempre alla descrizione la riflessione, il ragionamento, su ciò che resta e ciò che è andato, sull’asprezza odierna ma anche sul sudore e le lacrime che si nascondono dietro le cartoline in bianco e nero del tempo che fu. Mette in relazione i punti di contatto e gli abissi, i pieni e i vuoti, e, come imprescindibile filo rosso, si rivolge alla parola, quasi chiedendole di riavvolgere il nastro, rimettendo in rapporto consequenziale e dialogico mondi ormai separati. Con il coraggio di dire e di dirci che non è possibile, che di ogni epoca resta il suo unico e solitario mistero: “Le parole scendono in gola trafiggono/ laringe e faringe s’aggrumano/ nell’inespresso dire/ nella sola parola che non viene a me a dire”.
Ma la voce dell’autrice non è incline alla mestizia fine a se stessa. Con le armi dell’ironia, del ricordo affettuoso e vivido, e dell’attaccamento passionale a tutto ciò che dà senso alla vita, emerge anche la tensione agonistica, il contrasto deciso verso lo sgretolamento del tempo e delle verità: “Il silenzio raccoglie l’impazienza/ di un cielo che corre e non svolta/ e non temo le tempeste/ che rubano il fiato ma assecondate/ regalano viatici come vela maestra”. È un’immagine di genuina potenza, un invito da tenere a mente, quello ad assecondare le tempeste. Poesia tutt’altro che elegiaca, quindi, quella de Le parole agre. Conscia della pena e del dissolvimento, certo, ma ancora ben distante dalla resa.
La forza per lottare l’autrice la attinge, come detto, dalle radici: la propria terra, i propri affetti. Non è un caso forse che nel libro alcune delle parole più ricorrenti siano proprio “padre”, “figlio”, “cari”, “nido”, “bambini”, “ritorno”, e molti altri termini appartenenti a questo ambito semantico. Ma significativi punti di riferimento sono anche gli angoli che si trovano alla confluenza, di incontro e di scontro, tra termini antitetici e in apparenza contrapposti: “parola” e “silenzio”, innanzitutto, correlate a vita e morte, amore ed odio, memoria e oblio. “Trovano pace i miei morti”, esordiscono i versi di una lirica, “in catacombe di memorie/ o cari o indimenticati”. Mettendo in tal modo in relazione il tutto e il niente, e rafforzando la speranza, anzi la certezza che, malgrado tutto, la parola possa restare, dando dimensione al dolore e al lutto.
“Ai bar i vecchi non bevono più/ non hanno di che pagare/ dopo aver svuotato magre pensioni/ ai nipoti che si fanno di frega soldi/ e qualche soft drink/ e si spiaccicano come insetti/ sul parabrezza d’asfalto”. C’è in questi versi, aspri, adeguati ad incarnare il titolo del libro, una capacità di adattare lo sguardo ed il medium espressivo anche al mondo attuale, tanto rapido da sfuggire al suo stesso cuore. Da poeta attenta a ciò che la circonda, la Fattori guarda e annota, ritrae con uno schizzo preciso e amaro il tempo che è cambiato, le nuove miserie e le guerre camuffate da benessere. Confermando che la poesia non ama parlare solo della “vispa Teresa”, ma sa anche farsi cronaca disadorna, dolorosamente sincera, della realtà.
Eppure, per sopravvivere, nell’atto di esistere e di fare poesia, bisogna aggiungere all’osservazione il sogno e alla verità una dose adeguata di menzogna: “non mi è rimasto più nulla da cercare/ – io la mentitrice – tra queste piatte/ terre padane orlate da tonde cime”. Quasi un autoritratto, amaro e sapido, come i racconti in forma di versi di Tonino Guerra, tra frequentatori di cupe osterie e progetti di cieli stellati. “Io – la mentitrice – torno sempre/ sui luoghi dei miei misfatti/ torno sempre a cercare ori dove stanno serpi”. Versi rivelatori, ricchi di chiavi di lettura, di messaggi nella bottiglia. I misfatti, termine volutamente pesante, fa pensare a crimini, azioni che infrangono regole e leggi. Forse le leggi del tempo, quello che si crede scorra in linea retta, con un presente, un passato e un’ipotesi di futuro. Alla mentitrice però poco importa di questo filo, è in grado di intrecciarlo a piacimento, o almeno, nell’atto di immaginarlo, lo dipana in modo diverso, individuale. Ed è così che le serpi diventano ori, e viceversa. E si ritrova, nonostante la fatica dei giorni, qualcosa da cercare.
“Io non ho un nido non una tegola un tetto/ esposta alle burrasche alzo la testa”, scrive la Fattori in una delle liriche della parte conclusiva del libro. È un modo emblematico, adeguatamente complesso e suggestivo, di confermare, negandoli, alcuni dei punti di riferimento di questo libro e della sua poetica. In realtà il nido, la tegola e il tetto, ci sono, negli affetti più autentici, la propria gente, i vivi e i morti, i familiari, la terra vissuta e ricordata. Solo che, per poter conservare tali affetti difendendoli dagli attacchi di un tempo alieno, è necessario tramutarli, tramite la parola, tramite la poesia. Proteggendoli da un tempo ostile, difficile da comprendere, e dal dolore, da quel sapore agro che assale perfino le parole più amate. Ecco allora che, proprio nell’istante del dolore, è concesso, ed anzi necessario, alzare la testa, dire che è ancora viva l’idea della poesia, nella sua essenza astratta e corporea.
Le parole agre è un libro non banale, non scontato, che non cerca facili consensi. Esplora piuttosto, con energia autentica e sincera, quello spazio che unisce e separa il ricordo dal presente, l’idillio dalle contingenze amare di un’epoca rapida e brusca. Parla di nidi, con pascoliane assonanze (seppure con la vasta distanza che deriva dal vigoroso e sentito adattamento dei temi ai nostri tempi e alla loro cruda essenza), ma anche di guard rail d’asfalto su cui si sfracellano i corpi e gli anni. Senza retorica ma anche evitando di indulgere in dettagli sterili e truculenti. Riassume, tramite una poesia attenta, ben curata e adatta a rappresentare ritmi e sentimenti di diversa natura, quella sensazione ambivalente che ci avvicina di qualche passo in certi istanti alla comprensione del mistero, a quella “melodia che urge in gola al sorgere/ del sole e al suo svanire”.
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Dalla parte del torto

Propongo qui un mio articolo pubblicato oggi su il Cartello , rivista con cui collaboro curando la rubrica Microcosmi. È possibile leggere l’articolo, con i commenti, a questo link a cui vi rimando:

L’Opera da Tre Soldi di Bertold Brecht è uno spaccato sulla lotta esistenziale e sociale di coloro che si battono per staccarsi dalla logica consolidata delle cose, tentando di evitare l’omologazione. Un’opera attuale e senza tempo.

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Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Con questo suo aforisma, a metà tra paradosso e verità, ironia e provocazione, Bertold Brecht ci presenta forse un biglietto da visita ancora valido, in grado di identificare, nascondere, alludere, rivelare. Dalla parte del torto, certo. Come tutti quelli che non hanno timore a collocarsi nella schiera tutto sommato non troppo numerosa, o, almeno, non abbastanza, dei poeti-sognatori. Non quella dei cesellatori di fiorite rime, castelli svettanti di torri e guglie di auliche certezze. Di tali costruttori di amene rime ce ne sono legioni, eserciti interi. Meno numerosi, molto meno, sono coloro che scrivono opere da tre soldi, erette con la materia lieve di una sola convinzione: “Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio”.

Tramite un processo di “straniamento” che ci porta fuori da noi per poi ricondurci dentro, all’interno di confini più autentici, L’Opera da tre soldi ci rammenta, come già aveva fatto la Beggar’s Opera di John Gay, che in fondo “il re dei mendicanti” orchestra il lavoro, il nostro, come un affare qualsiasi. Illumina, tramite il cerchio di un faro di scena, la linea di demarcazione tra il criminale Mackie Messer, o il bandito Macheath, ed i rispettabili borghesi. Una linea tanto netta quanto sfumata. Tutto alla fine viene inghiottito dall’ironico faro che si spalanca come la bocca stracolma di denti del pescecane evocato dalla canzone musicata da Kurt Weill. La differenza tra criminali e persone rispettabili sparisce del tutto. I soldi, l’ingordigia, l’avarizia, la fame e la sete di potere, rendono tutti uguali, cioè corrotti.

Se tutti sono dalla parte del torto, allora tutti sono dalla parte del giusto, o, perlomeno, collocati tra ammassi di macerie e rifiuti socialmente accettabili. Di fronte a questa presa di coscienza, o meglio, perdita di coscienza, resta al poeta-sognatore una sola via: l’esilio, la fuga. Come in un gioco di scacchi di vitale importanza, se il torto si riveste di giustizia e cerca di inglobarti, non resta che spostarsi dal lato opposto. Quello del torto, appunto. Purché sia un torto personale, individuale. Quello che, tramite un altro fulminante e quanto mai attuale aforisma, Brecht dipinge con queste parole e questo concetto: “Per essere creativi non bisogna partire dalle buone vecchie cose, bensì dalle cattive nuove cose”. Per essere poeti, in sostanza, e sognatori, sulle tavole del palcoscenico e sulle strade della vita, è necessario staccarsi dalla logica consolidata e trionfante e battersi per il rinnovamento. Qualunque sia il prezzo da pagare. L’esilio da nazione a nazione, da città a città, o l’amore, aspro, essenziale, per il gusto della differenza, l’opposizione all’andazzo, alla pratica del siamo tutti colpevoli e tutti beatamente innocenti.

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Tutto ciò, per nostra fortuna, ne L’Opera da tre soldi e altrove, Brecht ce lo dice in modo colorito, accattivante. Rifuggendo da prediche e piagnistei che, oltre a risultare intimamente contraddittori, sarebbero stati altresì assai poco “teatrabili”. Si canta e si balla sul palcoscenico di Brecht. L’autore fa tesoro della sua frequentazione ed amicizia con il celebre cabarettista Karl Valentin. La lotta, esistenziale e sociale, si può condurre anche tra visi truccati, fumo di sigaretta, musica assordante, risa, battute sconce miste a frammenti di verità, confessioni di fragilità e schegge di miseria. La vita come cabaret. Materiale buono non solo per i titoli delle canzoni ma anche come adeguato scenario, specchio deformante ma neppure troppo dell’esistenza vera. Quella da cui è difficile se non impossibile “straniarsi”.

La vita che ti consente di entrare a vedere lo spettacolo, anzi a farne parte, senza neppure dover pagare tre soldi di biglietto. Quella che, comunque, puntualmente, poco dopo vorrebbe scritturarti per recitare in qualche scena, con o senza travestimento, una parte da mendicante. Di soldi, oppure di gloria, di rispetto, di dignità, di amore. Quella che ti svela il trucco ma ti consiglia, anzi ti impone, di far finta di non conoscerlo. Tuttavia, osserva ancora Brecht: “chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Ed allora, per evitare di essere complici del “re dei mendicanti”, per non cedere alla logica del “nessuno è colpevole” e del “nulla può cambiare sotto il sole”, è bene tornare a schierarsi dalla parte del torto, se il torto è l’errore di chi sogna qualcosa di altro, di non inquadrato. Il sorriso di chi continua a cercare la logica dell’illogico, la speranza di nuove scene, nuovi teatri. La convinzione tenace che, a volte, per evitare l’ostacolo dell’omologazione al collaudato, strangolante meccanismo, può risultare vero che “la linea più breve tra due punti può essere una linea curva”.

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