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Un marziano del mondo e della parola

 
Leggendo e osservando sui giornali e in televisione il teatro della politica e della vita attuale, mi è venuto spontaneo chiedermi cosa avrebbe detto Flaiano dei mirabolanti eventi e mutamenti e dei memorabili tweet con i controtweet.  Probabilmente avrebbe detto “Coraggio, il meglio è passato”. O magari avrebbe taciuto, osservando con occhio da realistico sognatore “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.
Una cosa è certa: mi è venuta voglia di ripubblicare un vecchio pezzo su Flaiano, in cui, tra l’altro, viene citata anche questa sua frase: “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Il mio auspicio è che, a dispetto di tutto, anche in questi giorni non si smetta di pensare.
E magari anche di scrivere.
Se poi vi va di farmi leggere le vostre parole, edite o inedite, lo faccio volentieri.
Il mio indirizzo è sempre lo stesso: ivanomugnaini@gmail.com  .
Così come è sempre lo stesso il mio sito: https://www.ivanomugnaini.it/  . Non è un panettone, ma anche il sito è artigianale. Garantito e senza canditi.

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ENNIO FLAIANO:

UN MARZIANO DEL MONDO E DELLA PAROLA

Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato,  sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
Ma in Flaiano lo spettacolo della parola non cede mai all’autocompiacimento. Non è un caso quindi che abbia volutamente scelto una posizione defilata per osservare criticamente la realtà, una sorta di terra di confine posta a metà strada tra il coinvolgimento e il distacco, la passione e l’umorismo. In tal modo si è rivelato egli stesso quel “marziano” che ha descritto nel suo famoso racconto. E la sua navicella, inafferrabile, si è sempre sottratta ai radar e ai caccia di qualsiasi stormo di ordinari benpensanti, sorvolando e distaccandosi da quei luoghi comuni che ha sempre stigmatizzato.
«L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo», scriveva Flaiano. Questa affermazione contiene una netta presa di posizione e la conferma che solo il pensiero, una volta tramutato in parola, ci offre una chiave di lettura, e una conoscenza più elevata, o almeno più libera, non condizionata da cliché.
Flaiano nasce a Pescara, città anche di D’Annunzio, in grado di produrre questi due sguardi così distanti del medesimo circo del mondo fatto di luci, giochi d’ombra, suoni, rumori, tunnel misteriosi e caroselli rutilanti. La stessa terra d’Abruzzo genera il vate, il poeta soldato, l’immaginifico creatore di versi e slogan, e, qualche decennio dopo, l’antiretorico dissacratore, l’uomo della sintesi caustica, lo scrittore dall’aspetto di commesso viaggiatore che scardina le roboanti certezze. In comune una passione vorace per l’eloquio, un’attrazione maniacale e due diversissime e al tempo stesso inimitabili forme di funambolismo.
In Un marziano a Roma, Flaiano scrive: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.»
Meglio allora vederla già filtrata da uno schermo, la verità, o da una posizione laterale, come in un film che usa la sua natura fittizia per rappresentare la realtà. Cercando così di far ridere quando è il caso di piangere e viceversa, o indurre entrambe le cose, salvandosi però da quello sguardo insostenibile di Medusa che annienta e nasconde il pensiero. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso dell’umorismo. Lui, Flaiano Ennio, ultimo dei sette figli di Cetteo Flaiano, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Evidentemente era forse già scritto che ne dovesse parlare, producendo una serie di aneddoti che fotografano un’epoca e che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Per Flaiano Roma oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Si iscrive ad architettura ma non completa gli studi, coerente con quel senso di solida e strutturata impalpabilità, fedele a quella sua natura che egli stesso sintetizzò mirabilmente con la frase “Con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, motto della sua intera esistenza, riportata anche sulla lapide posta a futura memoria sulla sua casa romana.
La sceneggiatura non scritta, o scritta sul cemento della realtà, prosegue quando si stabilisce in Viale delle Milizie condividendo una stanza con il pittore Orfeo Tamburi. I nomi, le parole, perfino le targhe agli angoli delle strade, sembrano inseguire il suo umorismo, quel sentimento del contrario in lui innato. In quel periodo conosce tra gli altri Mario Pannunzio e Leo Longanesi e inizia a collaborare con varie riviste.
Partecipa alla Guerra d’Etiopia, e, anche in questo evento biografico accanto all’orrore reale ci sarà spazio per la memoria, per il ricordo e la testimonianza. Anni dopo ne nascerà, scritto in poco più di tre mesi, il romanzo Tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega.
Il comico e il tragico si rincorrono nella sua vita, in un appuntamento immancabile. Come la sua presenza ai tavoli dei caffè letterari romani ma soprattutto delle trattorie, veri palcoscenici di battute feroci e geniali, testimoniate in modo sublime, ad esempio, dai fedeli avventori del Re della Mezza Porzione nel film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Flaiano sposa in quegli anni un’insegnante di matematica, quasi a voler dare una misura al fluire anarcoide della vita, ma il volto tragico della vita va oltre ogni catalogazione tassonomica, oltre ogni formula ed equazione: la figlia Luisa, nata nel 1942, pochi mesi più tardi manifesta i primi segni di una encefalopatia che ne condizionerà gravemente l’intera esistenza.
Il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura.
Collabora con molti dei più significativi registi del dopoguerra, ma resta nella memoria soprattutto il suo lungo e fruttuoso sodalizio con Federico Fellini. Due personaggi simili e diversissimi, Fellini e Flaiano, due timidezze a confronto, due scontrosità di sapore differente e con specifiche modalità di difesa e di attacco. Ma con il gusto condiviso di ritrarre quel lato del mondo che affascina e inorridisce, il grottesco scrutato con attenzione divertita e feroce, forse per evidenziare il lato surreale nascosto nei meandri di ciascuno di noi come in quel malinconico e interminabile girotondo di “8½”.
All’attività di sceneggiatore Flaiano affianca quella di giornalista. Negli anni sessanta inizia un periodo di viaggi e relazioni internazionali, in Spagna, a Parigi (dove scrive per Louis Malle), e negli Stati Uniti (per l’Oscar a “8½”), poi di nuovo a Parigi (dove scrive una sceneggiatura tratta dalla Recherche di Proust per René Clément), a Praga e in Israele. Collabora tra gli altri con Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.
La “bilocazione dell’intelligenza”, quel suo modo di cogliere l’ambivalenza del reale, gli ha permesso di osservare il mondo senza esserne inglobato, rifuggendo dai meccanismi dell’omologazione, del luogo comune e dall’apparente mondo dorato dello star system. Questo suo essere dentro la realtà restandone fuori, ha prodotto alcune delle sceneggiature più significative del cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta e una serie innumerevole di aforismi che ancora oggi hanno il potere di ritrarre l’indole, il modo di essere e di pensare degli italiani.
Il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”, scriveva Flaiano. Ebbene, non saprei dire se noi italiani il suo genio lo abbiamo compreso troppo o troppo poco. Come commentare altrimenti le notizie e le immagini dei “solerti” impiegati che timbrano il cartellino in mutande per poi tornarsene a letto? Oppure gli appartamenti concessi in affitto dal Comune di Roma ai soliti ignoti (o noti, cognati e cugini di altri noti) al prezzo di un caffè al mese? Una sua critica puntuale e salace manca come la bussola ad un marinaio nel mare in tempesta.
Ci manca Flaiano. Non per una sdolcinata esaltazione quasi agiografica o per un amarcord fuori tempo, ma per una concreta e solida presa d’atto: l’assenza oggi di figure che abbiano saputo coglierne lo spirito e riceverne l’eredità. Del resto, come egli stesso aveva preconizzato, nel nostro paese vige una sorta di “culto della mancanza di personalità”, e in particolare i giovani “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
Flaiano pur essendo stato un campione della disillusione ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una storia, in un racconto, in una sequenza di immagini, o addirittura in una sola frase, in cui come per incanto è possibile cogliere immediatamente entrambe le facce della luna. Questo dono ha potuto farcelo in qualità di marziano, proveniente da galassie di ironia e stralunata lucidità. E ha potuto offrircelo perché era capace di leggere la realtà senza cedere alla patina di banalità di cui questa a volte si ammanta, utilizzando la parola come strumento per sezionare e ricomporre il mondo.
In questi tempi in cui tutto scorre velocemente, in cui il pensiero più alto vale l’esternazione di un tweet, in un mondo in cui non si scrivono più storie ma tutti fanno storytelling, risulta più che mai evidente la sua geniale capacità di sintesi e la sua lucida e visionaria lungimiranza. Ma forse, essendo Flaiano sempre un passo avanti o un passo di lato di fronte alla realtà, oggi, con un suo fulminante aforisma, ci avrebbe con ogni probabilità invitato a riscoprire il valore più profondo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione.
E forse, anzi sicuramente, da genio qual era, ancora una volta non sarebbe stato compreso.
                                                                                       Ivano Mugnaini

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A Martian of the world and of the word

Fln 8 e mezzoFln libr strg

We miss Flaiano. In these uncertain and confused times, in this autumn of the world between global crises and loss of identity, opportunism and new barbarism, we miss him. Flaiano were useful, now, to the whole world but above all to Italians, an ingenious and disenchanted people, still caught in the trap of considering cunning more important than intelligence.
With his wit and his irreverent humour, Flaiano would comfort us in his own way by saying “Come on, the best is past”, and laughing we might remind ourselves that the best must be imagined and constructed, not just waited.
Ennio Flaiano, writer, journalist, humorist, screenwriter, film critic and playwright, has given a precise picture of Italy and of the Italians in their multiple facets. Like a diamond cut, his writing, nuanced, dissected, whipped and mocked our vices and our virtues and did so in the name of a profound and highly personal faith in the word. “I believe only in the word. The word hurts, the word convinces, the word subsides. This, to me, is the meaning of writing. ”
For Flaiano the word is never just a sound or a graphic expression of a concept, it is first and foremost itself a show: comedy, tragedy, farce, a lie which contains innumerable truths. The word is a constant and yet always new and unpredictable performance, staged by the Nearly Stable Company of Life.
But in Flaiano the show of the word never means complacency. It is no coincidence then that he deliberately chose a tight angle to critically observe reality, a sort of border land located halfway between involvement and detachment, passion and humor. Thus he became the “Martian” that he described in his famous story. And his space ship is always subtracted to radar detection and hunting of any flock of ordinary well-meaning groups of people. He saves himself by flying over and detaching from those clichés that he always stigmatized.
“Man is a thinking animal, and thinking makes him soar above the surface. This is my faith. Maybe the only one. But it is enough for me to keep following the show of the world”, wrote Flaiano, and this statement contains a clear position and the confirmation that only the thought, once turned into word, gives us a clue, and a higher knowledge, or at least a free one, not conditioned by clichés.
Flaiano was born in Pescara, the city also of D’Annunzio. The same place can produce these two distant visions of the same circus of lights, shadow plays, sounds, noises, mysterious tunnels and glittering carousels. The same land of Abruzzo creates the bard, the soldier poet, the imaginative creator of verses and slogans, and, a few decades later, the rhetorical desecrator, the caustic man by the appearance of a traveling salesman able to undermine bombastic certainties. Both D’Annunzio and Flaiano share a voracious passion for the speech, a manic attraction and two very different and yet inimitable forms of acrobatics.

Fln e D'Anz
In A Martian in Rome, Flaiano wrote: “The word is used to hide the thought, and thought to hide the truth. And the truth strikes those who dare to face her. ”
Better, then, to see truth already filtered by a screen, or from a side, like a movie that uses its fictitious nature to represent reality. Thus trying to make people laugh when it is appropriate to weep, and vice versa, or induce both, though saving themselves from the unbearable gaze of Medusa that annihilates and hides the thought. The first significant event in the life of Flaiano is already in itself a script, written by an author named ironic fate, with an immense sense of humor. He, Ennio Flaiano, the last of seven children of Cetteo Flaiano, arrives in Rome in 1922 traveling on a crowded train of fascists who flocked to the capital on the occasion of the fateful march. Evidently it was perhaps already written that he had to speak about that event, producing a series of anecdotes that photograph that specific era and yet immortalize human characters subtracted to any chronological connotation.
For Flaiano Rome was not only a chosen home city. It was also an inexhaustible source of ideas, gestures, biting sarcasm, harsh inventions and genius. A source from which to draw in small sips, just enough to appreciate the taste without absorbing poisons, small cunning, gossip, and the chatter of the great fashionable circles, carefully dodged.
He enrolled in architecture but did not complete his studies, consistent with that sense of solid and structured elusiveness, true to the nature that he himself admirably summed up with the phrase “With the feet strongly rooted on the clouds”, the motto of his whole existence, reported also on the tombstone placed on his home in Rome.

Fln targa
The script, written by reality, continues when he moved to Viale delle Milizie sharing a room with Orfeo Tamburi. The words, even the names of the streets, seem to pursue his humour, that sentiment to the contrary innate in him. At that time he met among others Mario Pannunzio and Leo Longanesi and began collaborating with various magazines.
He joined the War of Ethiopia, and, even in this biographical event next real horror there will be room for memory and testimony. Years later will born from that experience, written in just over three months, the novel Time to Kill, winner of the first edition of the Premio Strega.
The comic and the tragic meet continously in his life. As his presence at the tables of Roman literary cafes but above all of the restaurants, real stages of fierce and brilliant jokes, testified in a sublime way, for example, by the faithful clients of the King of the Half Portion in C’eravamo tanto amati directed by Ettore Scola.

Fl mez porz
Flaiano in those years married a teacher of mathematics, as if to give a measure to the flow of anarchist life, but the tragic face of life goes beyond any taxonomic classification, beyond formulas and equations: his daughter Luisa, born in 1942, a few months later shows the first signs of encephalopathy that seriously affected the whole of her existence.
The film world calls him, attraction and natural outlet, in a conflictual relationship, never resolved; this is the ideal place in which to act and set in motion his ideas and paradoxes and on the other end a place of vanity and compromises that he always refused. At first he worked as a film critic for several magazines before landing on the script.
He works with many of the most significant directors of the postwar period, but remains in the memory above all his long and fruitful partnership with Federico Fellini. Two similar characters and yet very different, Fellini and Flaiano, two shynesses comparing, two grumpinesses of different flavor and specific methods of attack and defense. But with the shared pleasure of portraying that side of the world that fascinates and horrifies, the grotesque scrutinized with amused and ferocious attention, perhaps to highlight the surreal side hidden in the depths of each of us and combining like in the melancholy and endless carousel of ” 8½ “.
Flaiano also worked as a journalist. In the sixties he began a period of travels and international relations, in Spain, in Paris (where he wrote for Louis Malle), and the United States (for an Oscar for “8½”), then again in Paris (where he writes a script taken from Proust’s Recherche for René Clément), in Prague and in Israel. He collaborated among others with Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.

Fln e Flni
The “bilocation of intelligence”, his way of grasping the ambivalence of the real, has allowed him to see the world without being incorporated, avoiding the approval mechanisms, the commonplace and the apparent golden world of the star system. His being in the reality and yet staying outside, has produced some of the finest screenplays of the Italian cinema of the fifties and sixties, and an endless series of aphorisms that still have the power to portray the character, the way of being and thinking of the Italians.
“The worst that can happen to a genius is to be understood,” wrote Flaiano. Well, I can not say if the Italians have understood his genius too much or too little. How to comment otherwise the news and images of “hard-working” employees who stamp the card in underwear and then go back to bed? Or the apartments rented by the City of Rome to the usual unknown (or known, friends and cousins ​​of other parents of the parents) to the price of a coffee a month? We miss Flaiano’s sharp and salacious criticism like a sailor misses the compass on a stormy sea.
We miss Flaiano. Not for a sloppy exaltation almost hagiographic or a nostalgic memory out of time, but for a solid acknowledgment: the absence of figures able to grasp his spirit and take his heritage. After all, as he himself had predicted, in our country exists a sort of “cult of lack of personality”, and in particular young people “have almost all the courage of the opinions of the others.”
Flaiano, although deeply disillusioned, showed us that you can enclose the world in a story, a sequence of images, or even in a sentence, in which as if by magic you can immediately grasp both sides of the moon. He could make us this gift because he was indeed a Martian coming from irony galaxies and dazed lucidity. He could give it to us because he was able to read reality without succumbing to the banality patina of which it is sometimes cloaked, using the word as a tool to dissect and reconstruct the world.
In these times everything flows quickly, and the highest thought is worth the externalization of a tweet. In this world where people don’t seem to read stories but they all make storytelling, Flaiano’s brilliant synthesis and lucid and visionary foresight would be necessary more than ever. But perhaps, being Flaiano always a step forward or a step to the side of reality, today, with his withering aphorisms, he would probably invite us to rediscover the deeper value of silence, of listening, of reflection.
And perhaps, since he was a genius indeed, once more he wouldn’t be understood.

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Un marziano del mondo e della parola

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Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato, sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
Ma in Flaiano lo spettacolo della parola non cede mai all’autocompiacimento. Non è un caso quindi che abbia volutamente scelto una posizione defilata per osservare criticamente la realtà, una sorta di terra di confine posta a metà strada tra il coinvolgimento e il distacco, la passione e l’umorismo. In tal modo si è rivelato egli stesso quel “marziano” che ha descritto nel suo famoso racconto. E la sua navicella, inafferrabile, si è sempre sottratta ai radar e ai caccia di qualsiasi stormo di ordinari benpensanti, sorvolando e distaccandosi da quei luoghi comuni che ha sempre stigmatizzato.

Fln libr strg
«L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo», scriveva Flaiano. Questa affermazione contiene una netta presa di posizione e la conferma che solo il pensiero, una volta tramutato in parola, ci offre una chiave di lettura, e una conoscenza più elevata, o almeno più libera, non condizionata da cliché.
Flaiano nasce a Pescara, città anche di D’Annunzio, in grado di produrre questi due sguardi così distanti del medesimo circo del mondo fatto di luci, giochi d’ombra, suoni, rumori, tunnel misteriosi e caroselli rutilanti. La stessa terra d’Abruzzo genera il vate, il poeta soldato, l’immaginifico creatore di versi e slogan, e, qualche decennio dopo, l’antiretorico dissacratore, l’uomo della sintesi caustica, lo scrittore dall’aspetto di commesso viaggiatore che scardina le roboanti certezze. In comune una passione vorace per l’eloquio, un’attrazione maniacale e due diversissime e al tempo stesso inimitabili forme di funambolismo.

Fln e D'Anz
In Un marziano a Roma, Flaiano scrive: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.»
Meglio allora vederla già filtrata da uno schermo, la verità, o da una posizione laterale, come in un film che usa la sua natura fittizia per rappresentare la realtà. Cercando così di far ridere quando è il caso di piangere e viceversa, o indurre entrambe le cose, salvandosi però da quello sguardo insostenibile di Medusa che annienta e nasconde il pensiero. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso dell’umorismo. Lui, Flaiano Ennio, ultimo dei sette figli di Cetteo Flaiano, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Evidentemente era forse già scritto che ne dovesse parlare, producendo una serie di aneddoti che fotografano un’epoca e che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Per Flaiano Roma oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Si iscrive ad architettura ma non completa gli studi, coerente con quel senso di solida e strutturata impalpabilità, fedele a quella sua natura che egli stesso sintetizzò mirabilmente con la frase “Con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, motto della sua intera esistenza, riportata anche sulla lapide posta a futura memoria sulla sua casa romana.
La sceneggiatura non scritta, o scritta sul cemento della realtà, prosegue quando si stabilisce in Viale delle Milizie condividendo una stanza con il pittore Orfeo Tamburi. I nomi, le parole, perfino le targhe agli angoli delle strade, sembrano inseguire il suo umorismo, quel sentimento del contrario in lui innato. In quel periodo conosce tra gli altri Mario Pannunzio e Leo Longanesi e inizia a collaborare con varie riviste.
Partecipa alla Guerra d’Etiopia, e, anche in questo evento biografico accanto all’orrore reale ci sarà spazio per la memoria, per il ricordo e la testimonianza. Anni dopo ne nascerà, scritto in poco più di tre mesi, il romanzo Tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega.
Il comico e il tragico si rincorrono nella sua vita, in un appuntamento immancabile. Come la sua presenza ai tavoli dei caffè letterari romani ma soprattutto delle trattorie, veri palcoscenici di battute feroci e geniali, testimoniate in modo sublime, ad esempio, dai fedeli avventori del Re della Mezza Porzione nel film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.

Fl mez porz
Flaiano sposa in quegli anni un’insegnante di matematica, quasi a voler dare una misura al fluire anarcoide della vita, ma il volto tragico della vita va oltre ogni catalogazione tassonomica, oltre ogni formula ed equazione: la figlia Luisa, nata nel 1942, pochi mesi più tardi manifesta i primi segni di una encefalopatia che ne condizionerà gravemente l’intera esistenza.
Il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura.

Fln 8 e mezzo
Collabora con molti dei più significativi registi del dopoguerra, ma resta nella memoria soprattutto il suo lungo e fruttuoso sodalizio con Federico Fellini. Due personaggi simili e diversissimi, Fellini e Flaiano, due timidezze a confronto, due scontrosità di sapore differente e con specifiche modalità di difesa e di attacco. Ma con il gusto condiviso di ritrarre quel lato del mondo che affascina e inorridisce, il grottesco scrutato con attenzione divertita e feroce, forse per evidenziare il lato surreale nascosto nei meandri di ciascuno di noi come in quel malinconico e interminabile girotondo di “8½”.

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All’attività di sceneggiatore Flaiano affianca quella di giornalista. Negli anni sessanta inizia un periodo di viaggi e relazioni internazionali, in Spagna, a Parigi (dove scrive per Louis Malle), e negli Stati Uniti (per l’Oscar a “8½”), poi di nuovo a Parigi (dove scrive una sceneggiatura tratta dalla Recherche di Proust per René Clément), a Praga e in Israele. Collabora tra gli altri con Blasetti, Monicelli, Antonioni, Scola.
La “bilocazione dell’intelligenza”, quel suo modo di cogliere l’ambivalenza del reale, gli ha permesso di osservare il mondo senza esserne inglobato, rifuggendo dai meccanismi dell’omologazione, del luogo comune e dall’apparente mondo dorato dello star system. Questo suo essere dentro la realtà restandone fuori, ha prodotto alcune delle sceneggiature più significative del cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta e una serie innumerevole di aforismi che ancora oggi hanno il potere di ritrarre l’indole, il modo di essere e di pensare degli italiani.
“Il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”, scriveva Flaiano. Ebbene, non saprei dire se noi italiani il suo genio lo abbiamo compreso troppo o troppo poco. Come commentare altrimenti le notizie e le immagini dei “solerti” impiegati che timbrano il cartellino in mutande per poi tornarsene a letto? Oppure gli appartamenti concessi in affitto dal Comune di Roma ai soliti ignoti (o noti, cognati e cugini di altri noti) al prezzo di un caffè al mese? Una sua critica puntuale e salace manca come la bussola ad un marinaio nel mare in tempesta.
Ci manca Flaiano. Non per una sdolcinata esaltazione quasi agiografica o per un amarcord fuori tempo, ma per una concreta e solida presa d’atto: l’assenza oggi di figure che abbiano saputo coglierne lo spirito e riceverne l’eredità. Del resto, come egli stesso aveva preconizzato, nel nostro paese vige una sorta di “culto della mancanza di personalità”, e in particolare i giovani “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
Flaiano pur essendo stato un campione della disillusione ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una storia, in un racconto, in una sequenza di immagini, o addirittura in una sola frase, in cui come per incanto è possibile cogliere immediatamente entrambe le facce della luna. Questo dono ha potuto farcelo in qualità di marziano, proveniente da galassie di ironia e stralunata lucidità. E ha potuto offrircelo perché era capace di leggere la realtà senza cedere alla patina di banalità di cui questa a volte si ammanta, utilizzando la parola come strumento per sezionare e ricomporre il mondo.
In questi tempi in cui tutto scorre velocemente, in cui il pensiero più alto vale l’esternazione di un tweet, in un mondo in cui non si scrivono più storie ma tutti fanno storytelling, risulta più che mai evidente la sua geniale capacità di sintesi e la sua lucida e visionaria lungimiranza. Ma forse, essendo Flaiano sempre un passo avanti o un passo di lato di fronte alla realtà, oggi, con un suo fulminante aforisma, ci avrebbe con ogni probabilità invitato a riscoprire il valore più profondo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione.
E forse, anzi sicuramente, da genio qual’era, ancora una volta non sarebbe stato compreso.

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TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.

Ivano Mugnaini