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DI QUELLA PIRA

La vita non prevede uno spartito. Ma impone di cantare, ciascuno come può.
Un racconto, forse sul tempo, sia cronologico che musicale.
Di sicuro su due romanze, un tubo marrone e un mare verde.
Pubblicato qualche giorno fa su Versante Ripido, dove è possibile leggere anche i commenti, a questo link:
http://www.versanteripido.it/di-quella-pira-mugnaini/ .
Buona lettura, e buon “ascolto” del mistero dei misteri.
IM

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 DI QUELLA PIRA

storia di due romanze, un tubo marrone e un mare verde

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        Ogni volta che nella casa di riposo per musicisti si celebrava una festa di compleanno, Edoardo si premuniva di viveri e generi di conforto, si barricava in camera, e si preparava a sostenere la più strenua ed eroica resistenza. Il rituale che accompagnava quei pomposi ritrovi periodici gli ricordava la cerimonia di presentazione dello scheletro di un dinosauro, rimesso insieme osso dopo osso ed esposto nel padiglione di paleontologia di un museo. Quella sera però non poteva eclissarsi nella sua stanza, come suo costume e come avrebbe desiderato: il compleanno in questione era il suo. Si vestì in modo decente, fece un lunghissimo respiro, allargò a forza i muscoli della bocca fino a far apparire qualcosa che somigliasse a un sorriso e uscì fuori dalla camera, quasi di corsa, pronto ad affrontare il tremolio delle candeline, pietosamente simboliche in quanto a numero, e il tremolio delle voci dei suoi anziani colleghi che intonavano un «Happy birthday» pietosamente simile ad un sospiro.
         Passando davanti a uno specchio Edoardo gettò un’occhiata a quel vetro lucidato di fresco che rifletteva con crudele fedeltà la sua immagine. Il suo fedelissimo sorriso amaro non tardò a scavare un solco di un colore più tenue sul suo viso. Immediatamente, per ironico contrasto, si fece strada nella sua mente l’immagine di una foto che sua madre gli mostrava sovente, inorgoglita, nella quale appariva come un paffuto neonato sdraiato nudo su un letto matrimoniale, col volto ilare e con la stessa consapevolezza del motivo del proprio sorriso della vecchia bambola di plastica, solenne e grottesca, posta a sedere tra i due cuscini.
         Edoardo ricordò che sua madre ogni volta che tirava fuori quella fotografia mezza scolorita gli diceva: «Com’eri bello! Bello come il sole! E pensare che eri nato alla rovescia. Eri girato dalla parte sbagliata, come se volessi tornare indietro, come se avessi paura o non fossi pronto… o come se ci avessi ripensato, chi lo sa… ma l’ostetrica era brava e cocciuta, e l’ebbe vinta lei, e venisti fuori, bello e sano, gridando forte come non s’era mai sentito prima».
         Forse per il dolore – pensò Edoardo con un nuovo ghigno di sarcasmo – o forse perché, ancora prima di nascere, avevo già perduto una battaglia.
        Le parole di sua madre ora, di fronte a quella torta e alle fiammelle delle candeline colorate ormai quasi del tutto consumate, come il suo tempo, assunsero per lui un senso nuovo, rivelatore. Per lunghi anni gli sembrava di aver corso a rovescio, a ritroso, sempre in cerca di qualcosa che non sperava di trovare davanti e che cercava, follemente e ostinatamente, dietro di sé.
Eppure la sua vita non era stata un vuoto fallimento, anzi. La sua carriera di cantante lirico era stata più che brillante, come dimostravano le locandine dei concerti e delle tournée, le incisioni e le copertine delle riviste che conservava in un cassetto del comodino, su una delle quali veniva addirittura definito «La voce del 1957».
         Edoardo però non era soddisfatto. Aveva una penosa, subdola consapevolezza dei propri limiti, o meglio dei limiti che lui stesso si ritagliava addosso, ripetendo in continuazione a se stesso che ciò che aveva raggiunto non era abbastanza e impantanandosi di proposito sul terreno di improbabili, ingrati confronti con veri e propri miti del passato, casi unici e irripetibili, baciati dalla sorte oltre che dal talento. Restava testardamente sordo alla voce del buon senso, e non riusciva a reprimere un moto interno d’ira ogni volta che si trovava tra le mani una di quelle foto in bianco e nero che lo ritraevano su un palcoscenico, a bocca spalancata e con un braccio immancabilmente sospeso per aria, o nell’atrio di un teatro, in mezzo a reporter e ammiratori.

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Edoardo odiava e temeva le foto. Ciò che lo inquietava in esse era il loro potere di bloccarci, intrappolandoci senza via d’uscita nell’attimo nudo delle nostre assurdità, privandoci del fluido mistificante del movimento, il gesto che confonde i contorni lasciandoci lì, con quegli oggetti inutili in mano e quegli sguardi straniti sul volto, sempre fuori tempo, anzi, sempre dentro il tempo, dentro la gabbia di un passato che anche dopo un breve attimo è già lontano, svanito, irriconoscibile.
         Nessuno avrebbe mai potuto indovinare che una delle fotografie che maggiormente lo spaventavano era quella in cui era ritratto a fianco di un’ammiratrice, intento a firmarle, con volto sorridente, il più classico degli autografi. La ragazza sconosciuta lo guardava estasiata mentre scriveva il suo nome sul poster che gli aveva porto. La foto non diceva che quella giovane donna un attimo dopo aver avuto indietro la sua preziosa reliquia era corsa soddisfatta nella sua umile casetta dal fidanzato o dal marito, mentre Edoardo era rientrato a passo lento nella suite del suo grande albergo, da solo, a pensare al concerto mai realizzato, quello con il suo sogno, la donna del suo cuore.
         Il trillare insistente del pianoforte, solcato dalle dita zoppicanti di un musicista fallito, autore di canzonette e marcette infantili, riportò Edoardo alla realtà, e al ruolo di festeggiato. Di fronte a lui, in suo onore, una ex ballerina di fila, ridotta ormai ad un misero vestitino multicolore sballottato per aria dagli sghignazzi del tempo e della morte, continuava a danzare in cerchi concentrici come la figurina di un vecchio carillon. E intanto i busti dei compositori, quelli veri, osservavano la festa con volto scontroso e impietosito. Beethoven avrebbe desiderato essere cieco oltre che sordo.
      Esasperato dalla monotona, innocua, terrificante normalità degli attimi che scorrevano, Edoardo cominciò a cullare nella mente il progetto della fuga. Non posso resistere un attimo di più in questo mausoleo autocelebrativo per statue di cera ancora vive… sì, ancora vive… ancora per poco, ma vive – si disse. Trovò una scusa, tanto banale quanto incontrovertibile, e sparì, inglobato dallo spazio familiare della sua stanza. Riesumò la vecchia valigia che aveva dimenticato in un angolo, la riempì delle prime cose che gli capitarono a tiro, quindi sgattaiolò fuori, attraverso la portafinestra che dava sul balcone, e da lì sull’erba del giardino, all’esterno, finalmente.
         La sala d’aspetto della stazione era affollata, nonostante l’ora notturna. Sembrava che la gente fosse accorsa in massa, intuendo per istinto che stava per aver luogo uno spettacolo. Il protagonista apparve puntuale sulla scena. Il costume che indossava non lasciava adito a dubbi: recitava la parte del barbone. Quando apparvero le comparse però, dalle loro divise azzurre e dal loro sguardo apatico e concentrato, tutti quanti si resero conto che in realtà si trattava di una di quelle rappresentazioni gratuite gentilmente offerte dalla compagnia semistabile della vita. Il barbone fu invitato con cortese freddezza ad esibire un biglietto, anzi un “titolo di viaggio”, che, ovviamente, non apparve, dopo di che fu scortato all’esterno, come un capo di stato. Dopo cinque minuti riapparve dal lato opposto, sereno come un angioletto. Il suo metodo era semplice ma efficace: salire su un treno a lunga percorrenza, uno a caso, sdraiarsi e dormire per qualche ora al caldo in quella «quasi-casa», finché non veniva scoperto e fatto scendere.

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Lo sguardo e i pensieri di Edoardo si soffermarono su di lui. Che differenza c’è? – si chiese. Tutto ciò che ci distingue è questa mia valigia di lusso e questo biglietto di prima classe. Per il resto siamo uguali – pensò. Entrambi fuggiamo da qualcosa, entrambi non sappiamo dove andare e non sappiamo in quale luogo ci condurrà il caso. Sappiamo solo che come compagni di viaggio avremo rimpianti e isteriche illusioni. Lo guardò ancora un istante, poi, d’un tratto, si alzò e si offrì di pagargli il biglietto per il suo prossimo treno, non prima però di essersi scrollati il freddo di dosso con un paio di bicchieri. Agostino il barbone, sbalordito da quelle parole rivolte a lui da un signore che indossava un cappotto col quale avrebbe potuto comprare sigarette e liquori per un anno e sette mesi, rimase a bocca aperta, e una mezza lacrima rigò un volto di carta vetrata, una faccia che aveva avuto per anni tanti motivi per piangere, che, paradossalmente, si era dimenticato come erano fatte le lacrime.
        Un istante dopo sciolse il freno alla lingua, e, contrastando l’emozione con uno sfoggio di disinvoltura, prese a braccetto il generoso signore come se fossero stati amici da sempre. Sembravano due distinti gentiluomini che vanno a passeggio; solo l’abbigliamento era lievemente diverso. Sull’onda dell’entusiasmo Agostino trascinò l’ignoto benefattore a «casa sua», non ci fu modo di declinare l’invito. All’interno dell’enorme pilone di un ponte ferroviario, in un’intercapedine usata un tempo dagli operai come deposito attrezzi, Agostino aveva installato la sua abitazione. Era un bugigattolo con le pareti di cemento armato, senza finestre, rivestito sul davanti da un «portone» grigio, di lamiera.

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Appena entrato Edoardo si trovò di fronte una gigantografia di Silvana Mangano, colta nell’attimo della sua splendida floridezza, con i piedi a bagnomaria, tra risi e sorrisi. «Ah, questa è la mia fidanzata. Ora è su, al nord, per il matrimonio della sorella. Torna la settimana prossima» – spiegò Agostino. Edoardo si girò, pronto a condividere con lui una bella risata, ma vide gli occhi del padrone di casa accesi di una luce calda e serena. Capì che non scherzava.

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Una foto più piccola, appesa sopra un traballante tavolino, mostrava un personaggio preso di spalle mentre stringeva la mano ad Albert Einstein. «Questo sono io – chiarì Agostino – e questo è un mio amico. Viene spesso qui… si gioca a carte e parliamo, un po’ di tutto. È un po’ svitato sai… ma è abbastanza sveglio, e tutto sommato è un bel tipo». Questa suppongo che sia la tua macchina, stava per osservare Edoardo quando scorse il poster di una Ferrari Testarossa sopra un improvvisato giaciglio. Ma si fermò un attimo prima di aprire la bocca.
         Il silenzio fu rotto ancora una volta da Agostino, che mise una mano sulla spalla del suo ospite, e gli sussurrò: «Mi sei simpatico. Ti voglio rivelare il mio segreto. Ora mi vedi così, in incognito, diciamo, ma io sono un grande cantante». Per dimostrare che non mentiva intonò un «Di quella pira» che fece quasi tremare le pareti, ma non riuscì, nonostante il tema della celebre aria, a scaldare lo stanzino.
«Te ne intendi di lirica? » – incalzò Agostino.
«Beh, sì… un po’ » – replicò Edoardo.
«Bene! Allora cantiamo! », propose entusiasta il barbone.
Edoardo scosse la testa, con espressione cupa, e Agostino riprese a macinare parole. «lo ero il più grande tenore del mondo. Me lo disse Caruso, un giorno, e mi bisbigliò all’orecchio che era felice che io avessi scelto altre strade, perché non avrebbe potuto reggere la mia concorrenza ».
          Edoardo lo ascoltò con attenzione, guardandolo fisso in volto. Poi sorrise, con gratitudine.
      Bevvero insieme, fischiettando romanze verdiane e pucciniane, in un crescendo di allegria, finché le due teste bianche si reclinarono in avanti, una accanto all’altra, sul tavolo, sommerse dalla sonnolenza, e dal leggiadro peso del vino, dei sogni e della nostalgia.
          Intanto la vecchia stufa arrugginita in cui Agostino aveva provveduto a gettare cartone, buste di plastica e pezzi di copertone, esalava un fumo denso, nero e subdolo, da una crepa sottile che si era aperta in una delle spirali del tubo marrone che sbucava all’esterno come un serpente.

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       Dalla foto ritagliata da un libro e applicata al muro con un pezzo di scotch annerito, un panorama immenso e indistinto, forse una pianura, o magari un mare verde solcato da onde incessanti, osservava la scena. Presto avrebbe accolto il fiume dei loro ricordi e il legno delle loro radici. Avrebbe finto stupore, e li avrebbe fatti cantare insieme, applaudendo entrambi con eguale entusiasmo.

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TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.

Ivano Mugnaini