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Ninfe e soli feroci

 

Anticipazioni sito Milanocosa - Ivano Mugnaini

 

Pubblicato il 1 febbraio 2019 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: http://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa

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Ivano Mugnaini
Sette Inediti da
Ninfe e soli feroci

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Con un commento di Laura Cantelmo

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UNO SGUARDO ALTRO: salvifiche, umanissime follie
Il titolo, “Ninfe e soli feroci”, è provvisorio. Tuttavia già contiene alcuni dei punti cardine di questa raccolta, in particolare la riflessione, o meglio la descrizione delle sensazioni che derivano dall’accogliere, dentro, il pensiero della grandezza opposto alla miseria del tempo, il mito e la realtà, l’osservazione delle potenzialità del sogno messe a confronto con la ferocia del vero. E, a questo punto, subentra quello che avrebbe potuto essere un altro titolo provvisorio alternativo, “Umanissime follie”. La follia è intesa non come eversione fine a se stessa ma come sguardo e gesto che volutamente e potremmo dire lucidamente si distacca dalla pratica corrente e vincente, allontanandosi dalla sopraffazione comoda, dalle scorciatoie, dalla ragione che si schiera dalla parte della marea trionfante. La follia è uno sguardo altro, avulso, sghembo, coglie traiettorie non ortodosse e non ortogonali, lo spazio in cui, negli ambiti che davvero contano, ciò che è umano si conserva, cerca di salvare e di salvarsi, in attesa di tempi altri, o comunque di luoghi del mondo e della mente non omologati in cui ci si possa ancora sentire parte di qualcosa che va oltre i grafici e le statistiche. Uno spazio differente, da cercare nei gesti e nelle parole, nel fare e nel pensare, costi quel che costi.

Ivano Mugnaini

*

Dici di essere una strega

Dici di essere una strega,
tu che hai il terrazzo pulito,
un inverno spazzato dal vento
e la tua fede nell’uomo,
il credo saldo e le immagini
di mani giallo sole
e azzurro cielo.
Non ti bruceranno. No,
non andrai sul rogo, mia
tonda e candida Savonarola.
Ci andrò io, muto e a capo basso,
per non far vedere il mio sorriso
mentre porto nella mente
un pensiero toccato con le dita:
il rosario di carne del tuo seno,
e la tua voce, parole folli e buone
che sai dire anche in mezzo
al casino e al dolore.
Porterò tra la legna ardente
il sogno e il sugo
delle tue labbra
e il ricordo di una lunga e sconcia
colazione sulla tua pancia calda.

***
Arte umanissima

Bisogna amare qualcuno
che ti abbia visto cadere
rovinosamente dalle scale
senza ridere, senza tremare,
senza odio, senza disprezzo,
senza commiserazione.
Sapendo che è normale;
è arte umanissima
toccare il marmo e il granito
con la schiena. La spina, elastica,
calca lo iato tra la materia
e il niente, il vuoto e il pieno.
Non conta come, dopo,
è messo il corpo, le ossa,
la postura.
Conta la forza di conciliare
la carne e il pensiero,
l’io e l’altro,
il vetro e il riflesso,
il caso, il destino,
il volo e la paura.

* * *

L’argine

Abbiamo camminato lungo l’argine
di un fiume ignoto, acqua, fango,
polvere, passi lenti, muti.
Non sappiamo dove finisce.
Dopo un ponte fatiscente
c’è solo altra strada,
altro cammino.
Abbiamo incontrato una capra
legata ad un palo.
Io ho piegato il capo, tu ti sei fermata
e le hai parlato.
Hai urlato contro quella corda
di ferro, il cerchio interminabile
dei suoi passi, il dislivello
che la rende zoppa, claudicante.
Non la dimentichi, quella capra,
progetti di liberarla, spezzando
la catena. Io faccio il saggio
e ti dico che non si può e che se anche
si potesse non ne varrebbe la pena.
Ma mentre guardo i tuoi occhi di eterna
guerriera bambina
ti amo più di sempre e la mia
catena di ferro e rancore
cade al suolo.
Posso correre
verso i prati della radura.
Posso credere che esiste
ancora il sole,
l’odore della primavera.

* * *

Ninfe e soli feroci

Le foglie d’erba, non retoriche,
non whitmaniane, ci vedono
e non ci guardano. Non giudicano
i cambi di partito, le querce, gli olivi,
le palme da dattero, l’olio, le scissioni,
noi e le nostre menti, i corpi
e i desideri, gli amori di ieri
e di sempre, le miserie vomitate
di sabato sera su un tavolo
di birra e di Cif Ammoniacal.
Ridono di noi, senza ferocia,
con panica compassione,
le greggi lente sugli antichi tratturi.
Hanno conosciuto, loro, guerre e amori
combattuti col cuore, ninfe e soli feroci,
orgasmi che hanno fatto tremare i boschi
e gli orchi nelle grotte muschiose di tufo.
Hanno sentito gridare e godere la terra
aperta in un sisma di sangue e di linfa
chiara di sacre puttane, amate con gusto
da satiri figli del Tempo, ignari di lattice
e plastiche colorate.
Ora, qui, in questa specie di vita che è
tutto ciò che ho, mi muovo lungo questa
strada di steli verdi stinti, solitudini
e silenzi infranti, di schianto, da un’ombra
di vita e di morte che mi cammina accanto.

* * *

Per nessuna ragione

Abbiamo creato la nostra divinità,
nei nostri abbracci infiniti nel buio.
Abbiamo generato il dio che ci genera,
nostro padre e nostro figlio, il nostro
spirito per niente santo.
Se in qualche luogo del cosmo ci sono
altri dei, forse adesso ridono di noi,
del nostro misero, imperfetto paradiso
da pagare ogni mattina con una tassa
e una manciata di monete versate
una ad una alla portinaia davanti
a cui passiamo con le mani piene
di buste di spazzatura, cibi in scatola
da gettare con vergogna come scorie nucleari.
Eppure, ora, per nessuna ragione cambierei
la nostra stanza di pochi metri quadri
con le galassie immense e innumerevoli,
mai baratterei le nostre ore rubate
a freddi inverni con l’eternità
di un’impassibile estate.

* * *

Quasi ciechi

Sarebbe bello essere quasi ciechi come te,
amico mio inventore di misure
spaziali e visure di edifici di storie ancora
da costruire. Sarebbe bello, ogni tanto,
trovare i gradini con i piedi e i corpi
con le dita scegliendo dagli odori.
Bello sarebbe un buio profumato di mistero
antico, ombre che nessun trillare
di cellulare può tramutare in poliuretano.
Essere ciechi e sordi. Parlare soltanto
tra di noi, durante le solenni cerimonie
sacre e profane di amiche in comune
che chiami puttane ma con un moto
così intenso di affetto e desiderio
che resto quieto e serio come di fronte
al discorso di un saggio asceta tibetano.
Ma se fossimo del tutto ciechi e sordi
non avremmo visto entrare nel salone
rinascimentale l’assessora alla cultura,
le sue spalle nude abbronzate da far morire
Rubens e Tiziano, fargli mozzare una mano
per la frustrazione di non poter accarezzare
la sua pelle vera sulla tela nuda del reale.
Io l’ho vista, tu l’hai intravista con il tuo
magico occhiale. Ci ha fregato entrambi,
inesorabile. La bellezza cancella ogni proposito,
tramuta il non essere in respiro, il silenzio
in fiato accelerato, la paura in fame e riso,
l’afa in vibrante frescura.

* * *

Io sono te

Io non ho te. Io sono te.
Non ti ho. Ti vivo. Vivo
quando sono il tuo respiro.
Non sono padrone di niente,
neppure del tempo avuto
in sorte, del corpo
che tengo vivo mentre lui
nasce ogni giorno e muore,
corre verso la morte a braccia
distese.
Sono padrone del pensiero
che mi unisce a te, ed è
lo stesso amplesso a occhi
chiusi che lega le nostre braccia,
le dita, la mente, i cuori, a dispetto
del niente che incalza e preme
sui muri divisori.
Il nostro battere all’unisono
conferma la tenace
consistenza
dell’inesistenza.

* * *
Notizia biobibliografica
Ivano Mugnaini è nato a Viareggio e si è laureato a Pisa. È autore di romanzi, racconti, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste tra cui “Nuova Prosa”, “Gradiva”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Doppiozero”, “L’ Immaginazione” e altre. È curatore di recensioni, editing e traduzioni, sia per alcune case editrici che come freelance. Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario”, www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com e il sito www.ivanomugnaini.it .
Ha collaborato con diverse associazioni culturali. Ha presentato sue prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico”, all’interno della Biennale d’Arte di Venezia.
Ha pubblicato le raccolte di racconti La casa gialla e L’algebra della vita, i romanzi Il miele dei servi e Limbo minore e i libri di poesie Controtempo, Inadeguato all’eterno e Il tempo salvato. Il suo racconto Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio e il suo racconto lungo Un’alba è stato pubblicato da Marcos y Marcos. Di recente pubblicazione i romanzi Lo specchio di Leonardo e la raccolta di poesie La creta indocile. Tra i critici e scrittori che si sono occupati della sua attività letteraria: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alberto Bevilacqua, Luigi Fontanella, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Saviane.

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Nota di lettura

Due sono le personae che agiscono in questo “discorso amoroso” di Ivano Mugnaini e sono, ovviamente, un Io e un Tu connotati secondo i parametri di definizione dei due generi, ma la voce “narrante” è quella maschile e dunque suo il punto di vista sulla relazione, spirituale e carnale, sulla dinamica derivante dal diverso modo di vedere e vivere la vita (“Dici di essere una strega”).
Si dipana così una sorta di emotivo report sui diversi comportamenti, stridenti tra loro, benché entrambi profondamente umani, segnati da una battagliera bontà di lei “strega” e insieme… ”guerriera bambina” (“L’argine”) e da una compiaciuta e forte sensualità di lui, colorata di ironia e intrisa della fragilità che è in ciascuno di noi. Due facce di una stessa medaglia, si direbbe.
L’amore è al centro – quello in cui gli amanti si immergono profondamente e tempestosamente fino ad assurgere a un Olimpo di dèi, quasi che l’amore rappresenti il cuore di tutto e che da lì tragga forza e linfa la vita, essendo l’estasi amorosa l’unica condizione “folle”, perché fuori dagli schemi, e al contempo estremamente reale, concessa in questo imperfetto e impagabile paradiso in cui ci è dato vivere. Una condizione in cui la natura leopardiana, impassibile, insieme a un reale esterno e volgare ci hanno relegati. E dunque si intende come la richiesta di amore non sia solo quella che unisce nell’amplesso, ma comprenda una più estesa richiesta di accettazione della fragilità dell’Altro, perché “conta la forza di conciliare la carne e il pensiero…il volo e la paura” (“Arte umanissima”).

Laura Cantelmo

I. Mugnaini     L. Cantelmo       Poesia

 

Altri rami e altri frutti – Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Seeds: Selected Poems 1978-2006

Adam Vaccaro, Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Avere semi, reali o poetici, implica un percorso, esso stesso reale e metaforico, simbolico, strettamente correlati. Il percorso nasce dalle radici e ad esse, ossia alla terra, ritorna, per poi ridare a sua volta vita ad altri rami e altri frutti. Altri semi, in una ciclicità vitale.

Le radici di Adam Vaccaro, tracciate anche in questo suo libro, sono quelle del Molise. Terra di confine, difficile, aspra. Lascia, spesso, solo la soluzione del viaggio, dello spostamento verso altri orizzonti.

Non è un caso che questo libro, che parla di semi, quindi di radicamento in un suolo, in realtà sia anche, simultaneamente, un libro di viaggi, reali o sognati, concreti o letterari, fino al punto in cui anche il viaggio mitico, quello di Ulisse o di Enea o di altri uomini che hanno esplorato i mari, le terre e il loro mondo interiore, diventa esso stesso reale, o meglio vissuto, come un evento concreto, tangibile, assimilato al punto da favorire una completa immedesimazione.

Il libro è un lungo diario di bordo con le varie tappe scandite da precisi riferimenti, annotazioni, schizzi descrittivi delle genti incontrate, dei gesti, degli scambi, di parole, di sensazioni, di emozioni.

È un libro in cui si registra, con preciso ma intenso stupore, quella che è una delle mete che Vaccaro, come poeta e come uomo, ha sempre tenacemente inseguito: la adiacenza. Concetto anche questo tangibile, reso carne pulsante, non concetto sterile e astratto. Adiacenza non significa semplicemente vicinanza, non vuol dire soltanto trovarsi accanto in un luogo, significa piuttosto condivisione profonda, di un ideale, una tensione, una volontà di conservare qualcosa e modificare qualcos’altro: conservare quella radici di cui si è detto, quelle di un mondo contadino fatto di autenticità e allo stesso tempo modificare il presente tramutandolo in un futuro più umano, più solidale.

Tutto ciò avviene in modo fattivo, sia nel libro che nella pratica quotidiana messa in atto da Vaccaro, non con proclami altisonanti ma astratti. Con una ben motivata concretezza, piuttosto, con parole nitide, lente, da slow food, verrebbe da dire, con la consapevolezza che solo ciò che ha un punto di appoggio solido può generare pensieri solidi e al contempo sogni, non impalpabili ma percorribili, come strade, come solchi di aratro.

Il libro, tradotto e curato nella versione inglese da Sean Mark, acquista un respiro internazionale senza abdicare alla sua autenticità. Trasportando semmai anche oltreoceano quei valori di un popolo e di una terra, che poi, ed è questo quello che conta, si scoprono universali, come le foglie d’erba di Whitman (citato in una epigrafe) o come tutto ciò che parla direttamente alla parte più genuinamente umana di ciò che siamo e di ciò che possiamo o potremmo essere.

Nella prima parte, nella sezione dal titolo “Nei biancoscuri antefatti” si parla di cose e di oggetti, di lavori, di mestieri, alcuni dei quali quasi obsoleti, di sicuro antichi, molto poco globalizzati o globalizzabili: si parla di orti, di filari, di scalpellini, di giardinieri. Quasi a dire e a dirci che gli “antefatti” in realtà sono necessari e presenti. Poco dopo, per analogia e per contrasto, una sezione dedicata a simboli, quasi magici, allegorici, simbolici, e, alla fine della prima parte, “la deligittimazione”, tra favola amara e realtà, le guerre e le cornacchie, il campo del vivere messo a repentaglio.

Nella seconda parte il racconto in versi prosegue. Con una sezione con un titolo evocativo, con un rafforzativo interno: “Nell’aperto aperto Inferno”. Dante, ma anche i miti, draghi, tesori nascosti, Clitennestra, un repertorio di riferimenti per parlare del proprio tempo facendo appello a luoghi mitici. Anche per esorcizzare il dolore, mai spento, mai del tutto avulso, quella SLA d’amore, ad esempio, quella malattia che non può esser dimenticata ma che può diventare spunto per trovare nuovi parametri per la resistenza, ognuno sul proprio fronte, sulle trincee dei propri individuali mali, “contro il deserto che avanza/ unico amore che mi sostiene in questa/ guerra che mi pare persa in partenza – solo/ tu Stefania mia quotidiana epifania/ dittongo che inventa la mia resistenza/ ma tu non sai il peso di questo scudo/ le mie braccia vuote il mio cuore piegato/ la mia voglia di fuggire e trovare una fonte/ un sorso d’oasi che mi dia un po’ di calma ai polsi/ mentre mi scruti e lanci lividi spilli che conosco” (da Sla d’amore, pagina 116).

Si riparte poi, nella sezione finale, verso il “Nilo maggiore e minore”. La prima esplorazione è quella del tempo, il nodo fondamentale, con quel richiamo a quello che non è solo un fiume ma un mito reso acqua, movimento, cultura e fascino. Con una distinzione tra maggiore e minore che separa e unisce, unisce e separa. Così come gli eventi maggiori dell’esistenza si affiancano a quelli in apparenza minori fino al punto in cui il discrimine si perde e resta soltanto il sapore e il senso del fluire, dello scorrere verso un delta ignoto, che ognuno dentro di sé è tenuto a creare, o meglio a generare, come un seme gettato, una scommessa nel niente che può diventare una forma di esistenza.

Nella visione di Vaccaro, non solo poetica, il passato e il presente si intersecano, il mito è un modo per gettare luce, e calore, umano, sul presente, per cercare di comprendere, o almeno per non comprendere ma con un moto interiore più ampio, generoso. Parlando di luoghi distanti in realtà di ragiona sull’attualità, sul mondo di oggi, imperfetto, ingiusto e aspro, quello che Vaccaro mira a mutare, senza timore di accuse di idealismo, senza rinunciare a percorrere i sentieri delle utopie. È una rincorsa dura ma necessaria, una gara olimpica, un gioco serissimo, vitale. Come quello descritto a pagina 134, Ludi a Menfi : “tu ragazzo dagli occhi sfolgoranti/ a fare il sciuscià tra smorfie e canti/ nella polvere del mercato di Menfi/ e noi turisti disfatti a bere incantati/ il tuo ludente grumo di energia/ in filastrocche incomprensibili/ sulla pelle battenti più del sole –/ chi canterà nefertiti mia Afrodite/ la rosa della tua carne esplosa/ nella risata liberata da un bisturi/ di gioia – intelligenza che apre/ deridendo questa pancia di carne/ in scatola occidentale così colma/ di detriti ruggine e deserti”.

Il corpo come simbolo vivente, quella pancia occidentale che ormai deborda, a dispetto del mondo, dell’equità, della giustizia, ed è ormai piena di ruggine e deserti, deserti fatti di un pienissimo nulla, non quelli fascinosi ricchi di silenzi e di favolose visioni oniriche.

La vera natura, e il valore di maggior rilievo di questo libro, è la capacità di Vaccaro di porre fianco a fianco, adiacenti al punto di combaciare, il proprio mondo interiore e il mondo tout court. Il dolore altrui ma anche la bellezza autentica di popoli ancora spontanei e ricchi di umanità, quella che noi abbiamo perduto e perdiamo ogni giorno, non sono osservati con occhio distaccato o con sterile commiserazione. L’autore mette in parallelo il proprio essere con il mondo che percorre e che vede, ascolta, sente. Comprendendo, e forse è questo il consiglio, la richiesta, l’invito alla riflessione che ci deriva da questo libro, che gettare semi per se stessi è efficace, può dare frutti, soltanto se li gettiamo anche per gli altri. Non per generosità fine a se stessa, o per una presunta bontà, ma per un discorso più lineare: il mondo è un insieme di corpi e di voci, un organismo unico, in cui ogni singola parte è collegata alle altre. In un mondo come il nostro, in apparenza privo di speranza, la sola via di uscita è dare per riuscire ad avere qualcosa. Per ascoltarci, davvero, è la sola vittoria possibile arriva nel momento in cui riusciamo a sentire, nel senso della percezione più sincera, il grido altrui: Haiti è un urlo (pagina 140) : “Haiti è un urlo – l’ultimo/ di questa carne umana/ macinata dalla macina/ del dominio che decide/ senza domande chi nel mondo/ navigherà nell’oro o nella merda/ Il terremoto ha rotto il silenzio/ sulla infinita colonna in-fame di/ bambini in fila verso la bocca/ corrosa che li renderà liberi! – ma/ vedete come siamo trepidi e/ bravi nell’invio di soldati e/soccorsi/ Io giravo scalzo e senza/ pazienza senza consistenza/ senza accoglienza nemmeno del/ vento che mi braccava nella polvere/ come l’ultimo invisibile granello/ qual ero e nient’altro/ anch’io/ Che all’urlo d’ali della Terra/ bastò poco per sollevare/ fino a questi prati di cielo/ limpidi e senza limiti così/ pieni dello stesso niente che/ ero – finalmente angelo e/ libero”.    IM

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive da più di 50 anni a Milano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: La vita nonostante, Studio d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997, con prefazione di Giancarlo Majorino; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003, con postfazione di Gio Ferri; e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria& Spettacolo, Roma 2006, con prefazione di Dante Maffia. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre varie pubblicazioni d’arte:, Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005; I tempi dell’orsa (2000) e Questo vento (2009) con opere di Salvatore Carbone, Edizioni Foto: Nicola Picchione – Firenze PulcinoElefante. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.

Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti (tra questi Premio Speciale Astrolabio, Pisa 2007, a La piuma e l’artiglio) ed è presente in molti Siti, blog e raccolte antologiche. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica. È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato Sotto la superficie – quaderno di approfondimento sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca Editori, Milano 2004; e tra gli autori de La poesia e la carne, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009.

Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it,), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, di cui ha curato con Rosemary L. Porta gli Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, di cui ha curato con G. Guidetti la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con Anna Santoro e Maria Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha curato con F. Squatriti 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.