Tutte le cose che chiudono gli occhi

Facendo un’operazione di sintesi estrema, leggendo il materiale che ho ricevuto da Annalisa Ciampalini mi soffermerei su alcune parole, tratte dalla nota personale dell’autrice e dalla recensione di Giancarlo Sissa. L’autrice, parlando del suo libro, osserva: “sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura”. Avere cura degli eventi è un’espressione che sfugge agli schemi. In genere ci si preoccupa di affrontarli, gli eventi, di ottimizzarli, di organizzarli e mille altre azioni pratiche e utilitaristiche. Annalisa Ciampalini si ripropone di ascoltarli e riconoscerli. Gli eventi come persone. Forse perché ogni accadimento, ogni attimo che viviamo, ogni passo che percorriamo e che ci percorre, è fatto del pensiero di persone, presenti o assenti, fragili ed effimere e allo stesso tempo assolutamente indelebili.
C’è in questo libro della Ciampalini una sincerità che traspare. Non c’è sfoggio né volontà di stupire. C’è una necessità vera di avere cura per potere ricevere cura. Dagli altri, ma anche dai fatti della vita, dal bene e dal male, dagli occhi dolci e da quelli feroci, dalle cose, dai passi sull’erba ma anche sul fango, sulle rocce, sui rovi.
Alle parole della Ciampalini fa eco adeguata la nota critica di Sissa, anch’essa da leggere nella sua totalità, nella sua struttura completa, organica. Tenendo fede alla promessa della sintesi, propongo, tra i tanti passaggi interessanti della recensione, questo estratto:
 “La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
In questo brano, seguito da alcuni versi di Annalisa, Sissa individua “ipotesi d’amore e di pietas partecipata”. L’utilizzo della parola “ipotesi” ci conduce su un terreno simile a quello precedentemente accennato. Non ci sono certezze, non c’è un sentiero asfaltato su cui avanzare baldanzosi. L’amore è una scommessa. Non di rado persa. Così come altrettanto di sovente gli eventi di cui cerchiamo di avere cura ci strangolano senza neppure concederci una parola ulteriore. Eppure, ed è qui il percorso che combacia con la meta, esiste quella pietas, quell’atteggiamento difficile da definire e da inquadrare in termini logici, razionali. Forse, la direzione da seguire è quella dello sguardo dei malati veri, dei fragili, dei non integrati né integrabili. Gli occhi che fissano un punto fuori campo e colgono nel segno.
Potrebbe non essere casuale, allora, il titolo del libro, Tutte le cose che chiudono gli occhi. Non è escluso che per avere cura, per ricevere cura, per giungere alla pietas autentica, davvero condivisa, gli occhi si debbano chiudere invece che spalancare. Oppure, ma un’ipotesi non esclude l’altra, che si debba essere fragili, al punto di farsi buio, cecità quasi letale, per potere cogliere il riflesso autentico della luce, quello che, a tratti, risana anche il corpo.
Anche in questa occasione il mio intento è quello di stimolare la curiosità dei lettori. Queste mie succinte note spero possano incuriosire e indurre a cercare e leggere il libro di Annalisa Ciampalini, scritto senza paillettes e senza il photoshop. Con l’autenticità di chi si mette a nudo, non per esporsi in vetrina ma per fuggire lungo un dirupo boschivo. Senza tuttavia smettere di pensare e sentire, continuando ad avere cura di quella parte di mondo e di tempo, di fragilità e di bellezza, che ognuno, a dispetto di tutto, ospita dentro di sé. 
IM
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 ESTRATTI DALLA RECENSIONE DI GIANCARLO SISSA
“Quarta raccolta dopo L’istante si dilata (2008), L’assenza (2014) e Le distrazioni del viaggio (2018), Tutte le cose che chiudono gli occhi (2022), rispettato l’intervallo di quattro anni che separa un libro dall’altro – e che testimonia di una scrittura governata dalla cura e dalla ponderatezza e avulsa dunque da frette e smanie – ci consegna il punto d’arrivo, provvisorio ma certo, di una scrittura in versi di elegante compostezza e di serena severità anche formale. L’estrema pulizia del dettato poetico di Annalisa Ciampalini è infatti senza dubbio il più corretto strumento, oltre che il più affidabile posizionarsi rispetto alle possibilità stilistiche (….)
 
È questa l’ora del fuoco
in un tempo deciso oltre il cielo.
Rendi caldo il mio posto liquido
infondi l’idea del grano,
dell’impasto che poi sarà pane.
Il tuo mezzogiorno ampio
in questa luce di fondale.
come già lasciava presagire l’esergo da un’altra poetessa grande e di nitida pronuncia quale Silvia Bre:
Come quando in una qualche stagione
spicca l’istante che la farà nostra. “
“Ruota peraltro, questa raccolta, attorno a due sezioni che a me paiono fondanti di quello che si può considerare sia il punto d’arrivo – provvisorio – della poesia di Ciampalini, sia il luogo dal quale ripartire per nuove ipotesi di scrittura. Mi riferisco a Il posto (la terza dopo Stagioni in prestito e Forme del tempo) e a La stanza condivisa (la quarta, prima della conclusiva Viaggi). La sezione Il posto si apre con una prosa di straordinaria resa onirica caratterizzata da un’aura diffusa d’incantesimo, di cosa che non si vuole scordare.”
“La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
Nella stanza condivisa
i posti vuoti
creano il luogo di un amore cresciuto a dismisura
la forma sensuale dei corpi
tramutati in assenza.”
Giancarlo Sissa
**************
 
Annalisa Ciampalini
Tutte le cose che chiudono gli occhi
Prefazione
di Valeria Serofilli
 
È coerente il percorso di Annalisa Ciampalini, la strada espressiva intrapresa e condotta con costanza. Si muove tra visione e riflessione, buio e ricerca di luce, corporeità e nitidezza. Non è casuale il titolo di questa sua raccolta: “Tutte le cose che chiudono gli occhi”. È adeguato allo specifico dei testi che compongono la silloge e anche al percorso più ampio a cui si è fatto cenno in precedenza. La chiusura degli occhi è un gesto in apparenza minimo, quasi impercettibile, eppure in grado di contenere vasti orizzonti di significati e di simboli. In primo luogo il punto che separa ed unisce la veglia dal sonno (e quindi dal sogno) e la morte dalla vita. In quel gesto minimo è racchiuso il tutto. È anche un gesto di estrema dolcezza e delicatezza, che tuttavia esprime anche la forza di una necessità che è altresì, potenzialmente, una scelta. Chiudere gli occhi vuole poter dire anche schierarsi altrove, scegliere di non vedere, non guardare, rifugiarsi in un mondo altro, differente.
L’esergo, tratto dai versi di Silvia Bre, contribuisce anch’esso a determinare l’atmosfera, l’approccio, il punto di vista: “Come quando in una qualche stagione / spicca l’istante che la farà nostra”. Il libro della Ciampalini parla della ricerca di quell’attimo, di quella stagione, di quel tempo che si distingue perché rivela ciò che veramente siamo, l’essenza. A tutto ciò si collega anche l’inizio del libro, la lirica iniziale: “I nostri corpi complementari / il tuo chiarore / la mia esile oscurità. / Tua è la pietra dell’inverno / il seme dormiente nel giaciglio scuro / le mani che sanno dove premere. / A me resta l’albero lontano / il bianco che si accumula piano / il fiore pallido / esitante tra le dita”.
La cito nella sua totalità perché contiene in sé molte parole chiave, molti spunti utili ed illuminanti. Prima di tutto una diversità che però risulta essere “complementare”. Tutto ciò ci riporta ai contrasti fondamentali a cui si è fatto cenno all’inizio di questa disanima. Dicotomie che costituiscono il filo rosso dell’intera raccolta. Chiarore e oscurità, innanzitutto, che fa pensare anche a quegli occhi, a quelle palpebre aperte e chiuse evocate nel titolo. La poetessa si descrive di riflesso, per contrasto, appunto.
Nei confronti di un destinatario reale, un “tu” a cui si rivolge, un compagno di viaggio, o forse di vita. Ma quell’essere in carne e ossa potrebbe essere anche a sua volta un simbolo, una metafora: potrebbe essere la vita stessa, o forse la poesia, o forse il doppio che ciascuno di noi ospita dentro di sé, la controparte della propria luce e del proprio buio. La complementarietà che è necessaria per definire noi stessi in rapporto al mondo.
Non sono mai puramente descrittivi i riferimenti della Ciampalini. Il giaciglio scuro, l’albero lontano il fiore pallido, non sono richiami estetici o un contorno. Si tratta dell’essenza, del punto di confine che allo stessopunto separa ed unisce due modi di essere e di vedere. La silloge si muove tra gli estremi del tempo, inteso come sequenza cronologica ma anche come susseguirsi di calore e gelo, buio e oscurità. Ancora una voltaquesto contrasto è essenziale: il buio si distingue dalla luce e ognuno concede all’altro senso e significato. Ci sono varie poesie in questo libro dedicate all’inverno, alla stagione che attende inesorabile. Sappiamo che arriverà, ma non è un caso che la poetessa sottolinei più volte l’impossibilità di farsi trovare pronti, preparati.
L’inverno non è solo la controparte dell’estate. È una condizione più ampia, una stagione interiore. Interessante, è giusto confermarlo, è l’intreccio che si crea nelle liriche di questa raccolta tra il clima meteorologico e lo scorrere del tempo umano. Tra i colori del cielo e gli stati d’animo.
“La fragilità sta nel verso che non dura / scriverlo su carta / voltarsi per leggerlo di nuovo / e il segno muore. / Il verso frontale volitivo e pieno / la parola stretta sotto la palpebra che duole / e poi il vuoto”.
Questi versi riassumono bene l’intento, l’approccio a cui si è fatto riferimento: la caducità di ogni cosa umana, ribadita, confermata. Ma, accanto ad essa, la volontà e la necessità di scrivere su carta quella fragilità che è punto di partenza e di arrivo allo stesso tempo. Così come la stessa palpebra che muore ma conferma di essere stata viva con l’atto stesso di provare dolore.
Per trovare nelle liriche della Ciampalini un chiarore di speranza, bisogna attendere una lunga, adeguata riflessione sul contrasto fondamentale. “La luce sulla soglia / è promessa di futuro / un sogno bisbigliato all’orecchio. / Un’alba che vince / la sua stessa agonia”.
La luce non è certezza, è promessa. Non è una realtà conseguita e assoluta. È un sogno. Ma è un sogno essenziale alla vita stessa. Proprio perché nasce dalla certezza reale del dolore ma sa andare oltre. Nonostante tutto. A dispetto di tutto.
Una silloge matura, consapevole, questa di Annalisa Ciampalini. Percorsa con attenzione al dettaglio, alla sfumatura. Mai distratta da frasi roboanti ma vuote. L’autrice si muove all’interno di simboli costanti e fondamentali esplorando un’ampia gamma di richiami e di rimandi. Il dolore è alimento di tutti i versi, e la conquista di una stagione di luce, anzi di un istante di luce, passa attraverso una lunga serie di immagini di fragilità e di oscurità, il processo necessario per acquisire una visione nitida, accurata: “Le parole – poche, solo d’annuncio / si dispongono a contorno della scena. / Luce condivisa, forma circolare di un’idea. / Perfetta, mai pronunciata aderenza”. Alla fine della silloge e della strada espressiva da essa percorsa, resta una ferita che non si cuce. Ma il libro della Ciampalini è una interessante e sincera testimonianza in versi della volontà della poesia di aprire le palpebre sul dolore individuale e sul buio del mondo, trattenendo, nel riflesso, la scommessa della luce.
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NOTA PERSONALE
 di Annalisa Ciampalini
 SULLA RACCOLTA
 
Nonostante volessi scrivere di ciò che mi stava attorno, sentivo forte il desiderio di riposo e di distanza dal tumulto della vita. Sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura. Durante la composizione della silloge è sorta la necessità di una condivisione con altre persone: di costruire, o anche solo individuare una meta comune, un punto di ritrovo, un sentimento che fossero significativi per me e per quanti percepivo vicini.
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Nota biobibliografica di Annalisa Ciampalini
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968 e lavora a Empoli, dove risiede. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica “Le distrazioni del viaggio” con Samuele editore, libro tradotto in spagnolo da Antonio Nazzaro. Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore. Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro Pierino Porcospino e l’analista selvaggio (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori.
Nell’aprile 2022 pubblica “Tutte le cose che chiudono gli occhi” (peQuod, collana portosepolto diretta da Luca Pizzolitto)
Dal 2017 frequenta la scuola “La poesia è di tutti” diretta da Massimiliano Bardotti.

“Crisalidi”, di Giuliana Donzello

“Il vero viaggio della scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. La frase è di Proust, ma ben si addice al senso e alla direzione del percorso letterario di Giuliana Donzello. Lei stessa la cita, appropriatamente, nel sincero e dettagliato resoconto che mi ha inviato per descrivere le tappe che l’hanno condotta a scrivere il libro di poesie Crisalidi.
Segnalo volentieri il libro di Giuliana, e consiglio a chi leggerà questo post di dare un’attenta occhiata anche alla nota in cui l’autrice parla del suo volume. Per le informazioni che contiene, utili ad una comprensione partecipata delle tematiche e delle simbologie, ma anche per il rispetto sincero nei confronti della poesia che l’ha condotta ad avvicinarsi gradualmente al mondo dei versi, senza fretta, senza approssimazioni ed improvvisazioni.
“La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il bruco in farfalla. Il ricorso metaforico alle crisalidi del titolo doveva indicare il mio stato iniziale di poetessa. Mi sono sentita bruco, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in farfalla”, scrive la Donzello.
In un mondo caratterizzato da frettolose prosopopee, è bello osservare la solenne e progressiva sacralità di questo passaggio compiuto con la cura e l’eleganza di un rito orientale.
Il risultato è un libro maturo e consapevole, ma, per fortuna dell’autrice e dei lettori, i versi sono pervasi anche dall’immediatezza di uno stupore sincero (torna con frequenza questo aggettivo chiave perché costante è l’impressione di genuinità non forzata e non di maniera che traspare dalle pagine).
Come sempre accade in questo spazio riservato alla segnalazioni di libri, mi limito volutamente ad accennare ad alcuni punti cardine.
È giusto ed è bello che sia il lettore a scoprire i momenti in cui la crisalide muta il suo aspetto in farfalla. E il modo in cui accade, nel mondo della scrittura, è sia forma che sostanza.
Il consiglio è quello di sempre: cercare il libro, magari anche contattando l’autrice o l’editore, e leggendolo confrontare le proprie impressioni con le coordinate fornite qui succintamente, ma anche in maniera più diffusa nella prefazione che pubblico integralmente in questo stesso post.
Da parte mia, confermando il mio consiglio di lettura, e, auspicando per tutti i “dedalonauti” un favorevole ritorno alle attività dopo la pausa vacanziera, aggiungo solo un altro breve ma luminoso dettaglio tratto anche in questo caso dalla nota dell’autrice:
“Dalla memoria affiora il ricordo che consente un viaggio dalle diverse connotazioni e fedeli al dualismo di Henri Bergson sono le liriche affidate a due diverse sezioni: “presenze e desideri”, affidate ad un linguaggio volutamente più lirico; “mancanze e assenze” dove il linguaggio si fa introspettivo della realtà”.
Nel momento in cui “de-sidera” e percepisce il senso del pieno e del vuoto il bruco è già farfalla.
IM
Crisalidi, G.Donzello
Crisalidi – Nota dell’autrice 
Il libro nasce da un atto di consapevolezza. Per molti anni ho fatto della prosa poetica il mio stile, perché consideravo la poesia così alta e destinata ad essere privilegio di pochi eletti, da considerare ancora immaturo e maldestro il mio approccio. Eppure in tutto ciò che scrivevo la poesia si rivelava. Determinante per me è stato il percepire imminente e necessario un mutamento.
La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il “bruco” in farfalla. Il ricorso metaforico alle “crisalidi” del titolo doveva indicare il mio stato “iniziale” di poetessa. Mi sono sentita “bruco”, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in “farfalla”.
Per scelta i testi sono brevi ed essenziali, risultato di un lavoro di limatura condotto soprattutto sul ritmo, le sonorità delle parole e le immagini a cui esse aprono attraverso l’uso delle metafore, lasciando al lettore libertà di lettura e di immedesimazione. Sullo sfondo della ricerca c’è sempre il rapporto tra la realtà dello spirito e la realtà della materia, come insegna Bergson.

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IN-CHIOSTRO Giovedì di autori e di libri

 Un luogo bellissimo e molti libri di autori che spaziano tra vari generi e tematiche ma sono tutti accomunati dalla verve espressiva e dalla voglia di raccontare il mondo che osservano e immaginano.
Segnalo volentieri l’iniziativa a cura di Elisir, ideata e curata da Manuela Minelli e Vanna Alvaro.
Buona estate e buoni giovedì all’insegna della lettura e del dialogo. IM

LOCANDINA CON PROGRAMMA

             

IN-CHIOSTRO Giovedì di autori e di libri

Incontri letterari con autori e libri a Borgo Ripa, Lungotevere Ripa, 3 – Roma

 

Si terranno tutti i giovedì a partire da dopodomani 4 agosto e fino al 29 settembre, con due diversi appuntamenti (18.45 e 20.00) gli incontri con i libri e gli autori chiamati a raccolta da Elisir, in collaborazione con Mondrian Suite, all’interno della suggestiva location che è il chiostro di S. Francesca Romana, ex convento del 1400 sito in Trastevere, nel cuore di Roma.
Otto serate per un totale di venti incontri e trenta autori (l’ultima sera verrà presentato un libro corale realizzato da undici autori italiani), una rassegna culturale che vedrà in scena autori di diversi generi, proprio per offrire al pubblico un panorama letterario diversificato: fiabe e favole, narrativa sociale, romanzi di formazione, saggi, romanzi storici, racconti, poesie, romance, thriller e tanto altro.
Siamo arrivate emozionatissime e assai cariche ai blocchi di partenza – affermano le signore di Elisir, Manuela Minelli e Vanna Alvaro – Lavorando ormai da tanti anni nell’editoria, siamo spinte dalla profonda convinzione che ogni forma d’arte possa e debba essere portata al di fuori dai contesti istituzionali e accademici, per coinvolgere il più ampio pubblico e mettersi al servizio dello sviluppo culturale e della crescita individuale e collettiva della città. E questo luogo magico, nel cuore di Roma, nella Trastevere più genuina e più vera, è sicuramente il luogo migliore che mai potessimo desiderare per la nostra Rassegna In-Chiostro, giovedì di autori e di libri per la quale abbiamo lavorato molto intensamente, proprio per presentare una Rassegna Letteraria capace di dare espressione e visibilità ad autori provenienti da tutta Italia.
MANU Fiabe
Sono molto soddisfatto della collaborazione avviata con Elisir, l’agenzia di Servizi letterari di coloro che, dopo tanto lavorare insieme, sono diventate amiche preziose, Manuela e Vanna, e del programma della maratona editoriale presentato da Elisir – afferma Klaus MondrianE  saranno serate dense di cultura, in cui tanta bella gente arriverà a Borgo Ripa, e potrà  fermarsi a sorseggiare cocktail o anche gustare le nostre specialità gastronomiche, ascoltando poesia e letteratura – gli fanno eco i gestori della location.
Immersa in un vastissimo giardino del cuore di Roma, oggi Borgo Ripa è considerata la location più elegante della zona Trastevere. Ma facciamo qualche passo indietro…Nel 1640 proprio nel cuore di Trastevere, alle spalle di piazza S. Cecilia, sorge un borgo appartenente all’antica dinastia romana dei Doria Pamphilj, che vanta anche un Pontefice, Innocenzo X, conosciuto come gran benefattore. Il magnifico giardino che lambisce le sponde del Tevere, il famoso “Giardino delle delizie”, apparteneva a Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, già cognata del Papa, conosciuta anche per la sua sagacia e furbizia, e soprannominata la Pimpaccia e anche la Papessa, per il suo forte potere e la condotta di vita sopra le righe. Si narra che in quel giardino storico, proprio dove si terrà “In Chiostro, giovedì di autori e di libri”, Donna Olimpia coltivasse ciliegie, prugne e albicocche. Ancora oggi rigogliosi alberi di fico, di limoni, aranci e cespugli di lavanda riparano dal sole e profumano l’aria. Una vera “delizia”, immortalata anche nelle tele del Vanvitelli.
 
Le attrici Giorgia Locuratolo e Roberta Frascati, in più serate, daranno voce e volto ai personaggi dei libri degli autori, per offrire al pubblico un mini spettacolo teatrale nello … spettacolo letterario.
Tutte le serate saranno riprese da HTO.tv web.
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Chiostro dell’ex convento S. Francesca Romana – Lungotevere Ripa, 3 – Roma – Ingresso gratuito
Info: elisirletterario@gmail.com
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LOST (AND FOUND) IN TRANSLATION

LOST (AND FOUND) IN TRANSLATION
La scrittrice e poetessa serba Valentina Novković, che ringrazio, mi ha rivolto alcune empatiche ed interessanti domande. Ho accettato volentieri di rispondere. Il problema è che Valentina non parla italiano e io non parlo serbo. Abbiamo dialogato in inglese e Valentina ha poi inviato le domande alla rivista Pokazivač. Ringrazio anche la scrittrice Khosiyat Rustam per aver pubblicato l’intervista nella rivista uzbeca Kitob dunyosi.
Ho ritradotto domande e risposte in italiano.
Viva Babele, e buona estate a tutte e a tutti, IM
Lost 2
 Intervista di Valentina Novković
a Ivano Mugnaini
 
  • Tra i classici della letteratura italiana ci sono Ludovico Ariosto, Italo Calvino, Umberto Eco, Alessandro Manzoni e molti altri. Quali scrittori italiani o mondiali hanno avuto la maggiore influenza su di te, ricordi il primo libro che hai letto?
Comincio dall’ultima parte, che è la più facile: qualche anno fa (meglio non contarli) un’anziana signora che abitava vicino a  me mi regalò un pallone e un libro. Mi sono piaciuti entrambi i regali. Mi hanno dato un senso di libertà. Il libro era Il giro del mondo in ottanta giorni. Forse era solo un caso, o forse un segno.
Gli autori che hai elencato nella tua domanda hanno dimostrato che la letteratura può volare (e far volare i lettori) attraverso epoche e luoghi diversi, nel mondo e nella dimensione ancora inesplorata, selvaggia e meravigliosa che è la mente umana.
Mi piacciono gli scrittori che indagano, con ironia, la condizione umana. Potrei citarne diversi, Pirandello, Beckett, Jonesco e molti altri.

 

  • Ti sei laureato in Lettere moderne all’Università di Pisa, sul tema del teatro rinascimentale. Quali drammaturghi ti hanno lasciato l’impressione più forte e perché?
Ho studiato soprattutto Letteratura. Partendo dagli autori classici per arrivare gradualmente a scrittori e poeti contemporanei. Come sai, tutto ha forti connessioni, nell’arte e nella vita. La mia tesi riguardava alcuni autori contemporanei di William Shakespeare. Studiarli è stato anche un modo per riflettere sull’influenza di Shakespeare su altri drammaturghi e, in termini più generali, sui legami che i grandi scrittori creano con le idee e le opere passate, presenti e future. La voce di Amleto è presente in molti dei nostri pensieri, e citando liberamente T.S. Eliot, possiamo dire che indugia nei frammenti con cui puntelliamo le nostre rovine.

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“BATTIATO – Incontri” : conversazione con Giordano Casiraghi

 

Battiato Incontri - copertina

Conversazione con Giordano Casiraghi

autore di

“BATTIATO – Incontri”

con scatti inediti del fotografo Uliano Lucas

1 ) Inizierei da una domanda che ci consente di introdurre sia il libro sia la lunga frequentazione umana e artistica che lo ha ispirato. È una domanda da un milione di dollari, mi rendo conto, ma è necessaria, o comunque mi incuriosisce molto: quali emozioni hai provato scrivendo il libro e come si sono evolute nel tempo sovrapponendosi a ricordi e a sensazioni vissute e condivise in precedenza?

 Domanda complessa che implica una certa introspezione, ma per tradurre sensazioni maturate nel tempo, questo libro è stato per me un omaggio e riconoscimento nei confronti di Battiato che mi ha permesso di seguirlo in tante occasioni. La mia non è stata una conoscenza con l’artista che si ritrova ogni volta che fa un disco e lo presenta alla stampa, oppure in qualche concerto dove lo si va a trovare nei camerini, prima o dopo l’evento. Anche quello, ma ho avuto la fortuna di passare del tempo con lui indipendentemente dal ruolo giornalista-artista.

*

2 ) Uno dei “valori aggiunti” del volume è l’ampio reportage di Uliano Lucas con scatti che ritraggono l’artista agli esordi. In che modo le fotografie contribuiscono a ricreare l’atmosfera di quegli anni lontani eppure vivissimi e vivacissimi di spunti e creazioni ancora oggi fertili, intensi?

 

Avevo scoperto questo reportage fotografico circa una quindicina d’anni fa. Alla prima occasione di una mostra di fotografie di Uliano lo andai a incontrare e gli rivelai che sapevo di quel reportage rimasto pressoché inedito. Lo invitai a non cederlo ad altri che da anni stavo scrivendo un libro su Battiato e avrei avuto piacere di dedicare a quel servizio uno spazio importante. Abbiamo salvato venti scatti, tutto molto belli e suggestivi, in una Milano che non c’è più. Battiato e Gregorio Alicata, a quel tempo si facevano chiamare Gli Ambulanti, vengono ripresi fuori da una fabbrica, alla darsena, con gli studenti all’uscita di un liceo, al mercato delle bancarelle. In quel periodo Battiato aveva in mente Dylan e scriveva canzoni di protesta.

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inizio corso II livello di Scrittura Creativa Emozionale

Ricevo e volentieri condivido da Manuela Minelli e Vanna Alvaro la notizia riguardante questo corso di scrittura creativa emozionale. 
E l’aggettivo “emozionale” è sempre bello da leggere. Porta sempre buoni frutti.
Qui sotto la notizia che ho ricevuto da Manuela Minelli.
Chi fosse interessato a ricevere informazioni più dettagliate può contattare Manuela Minelli e Vanna Alvaro tramite Facebook oppure attraverso il sito Elisir Letterario:  https://elisirletterario.com/ oppure ai numeri riportati nella locandina qui sotto pubblicata.
Buone letture e buone scritture, IM

Locandina corso scrittura emozionale

Elisir di Parole - raccolta di racconti
Cari tutti/e condivido con voi la notizia dell’ inizio corso II livello di Scrittura Creativa Emozionale, delle cui classi precedenti io e l’ altra insegnante, Vanna Alvaro, andiamo super fiere ed orgogliose in quanto gli allievi hanno tirato fuori racconti appassionanti, fantasiosi e ben congegnati e ben 4 di loro hanno vinto premi letterari. Tanto che di tutto questo materiale letterario ne abbiamo fatto un libro di cui sono andare a ruba in un mese quasi 200 copie ( infatti il libro è in ristampa).
Chi volesse info su programmi, modalità di partecipazione, costi (irrisori, euro 400 pagabili in due tranche x circa 30 ore di lezioni totali) può telefonare ai numeri in locandina o scrivere alla mail che trovate sempre lì. 
 PS: lezioni vengono tutte registrate e inviate in automatico al gruppo Whatsapp-classe, per sopperire in caso di perdita lezione oppure per approfondire argomenti trattati.
 Abbiamo ancora 5 posti, le classi infatti sono a numero chiuso per permettere un più efficace svolgimento delle lezioni.

Manuela Minelli e Vanna Alvaro

Elisir Letterario

TI RACCONTO UNA CANZONE

Quando Massimiliano Nuzzolo e Eleonora Serino mi hanno chiesto di scegliere una canzone su cui scrivere un racconto per il libro TI RACCONTO UNA CANZONE me ne sono venute in mente trenta, o forse trecento.
 Ho optato per il più semplice, in apparenza, dei temi: l’amore. Che in realtà, è, puntualmente, il più complesso. 
Ma, per fortuna, esiste anche il ritmo.
Lo scrittore inglese W. H. Pater nel libro The Renaissance sostiene che “Ogni arte aspira alla condizione della musica”, alla sua possente, essenziale, sensualissima immediatezza.
Ho scritto così un racconto ispirato alla canzone Io che amo solo te di Sergio Endrigo.
Ne copio qui di seguito un brano.
L’invito è a dare un’occhiata al volume intero, edito da Arcana Edizioni.
Dare un’occhiata e magari comprarlo.
Perché l’idea è bellissima e perché le autrici e gli autori dei racconti hanno confermato che la ricchezza è nella varietà, nelle infinite variazioni sul tema.
IM

TI_RACCONTO_UNA_CANZONE_COVER

 
Uno stralcio

del racconto

IO CHE AMO SOLO TE
[…]

Cerco nella memoria, rovisto negli scaffali polverosi dei ricordi, per individuare il punto esatto in cui ho ascoltato quella canzone per la prima volta.
Mi viene in mente la piazza del mio paese. Quell'asfalto scuro e squamoso percorso da cani ossuti e vecchi orgogliosi su cui, giocando e cazzeggiando, ho lasciato vari strati di pelle delle ginocchia e dei gomiti.
Ma quella sera il piazzale era pieno di sedie e di luci e di un palco degno della Sanremo de noartri, il Festival delle Borgate.
Tre ragazzine battevano le dita sul microfono per scimmiottare Whitney Houston e gruppi di eredi degli eredi dei Beatles con capelli a schiaffo sulla fronte vuota urlavano in falsetto lasciando perplessi i piccioni schifati affacciati sul cornicione del campanile. Apatici al punto di non voler neppure effettuare la manovra per cui sono famigerati e temuti. Eppure, in quell’attimo di non vita, nel bel mezzo di un familiare non mondo, comparve chi non mi sarei mai aspettato. Lui, il quasi ergastolano, il silenzioso, il duro che passava con la sua macchina grigia e lo sguardo di Lee van Cleef nei film di Sergio Leone.
Proprio lui, el hombre, il gringo che mi aveva sempre inquietato, intimorito, irritato. Lui, l’antipatia fatta persona, era concorrente a tutti gli effetti, regolarmente iscritto alla gara canora.
Venne il suo turno. Salì sul palco con passi rapidi e furtivi degni di Diabolik. Impugnava il microfono come una pistola. Temevo ci avrebbe sparato. Una canzone esplosiva e il festival sarebbe approdato sui giornali. Non sulla pagina degli spettacoli ma nel bel mezzo della cronaca nera. Il borgo avrebbe finalmente acquisito una notorietà solida come il piombo.
Invece, con voce timida, quasi dolce, iniziò a cantare.
Guardava di lato verso la terza fila, dov’era seduta sua moglie.
Non gliene fregava niente del pubblico, né, tantomeno, della giuria. Tutto sommato non si curava neppure della band che cercava affannosamente di tenere il ritmo delle sue stonature.
Cantava per lei. Commosso, sincero, con gli occhi, con le mani, con il cuore.
“C'è gente che ama mille cose / e si perde per le strade del mondo. / Io che amo solo te, / io mi fermerò / e ti regalerò / quel che resta / della mia gioventù”.
Quel giorno ho imparato alcune cose.
Mai giudicare una persona dalla faccia che fa o che gli fanno fare.Mai giudicare una canzone dalla somma dei voti di una giuria che poi alla fine premiò un emulo improbabile di Julio Iglesias vestito con un doppio petto bianco da settecentomila lire senza IVA e con la tasca in cui infilare la mano collocata tra cuore e fegato, lì dove fa più scena.
Quel giorno ho imparato che il vero vizio del presunto puttaniere, giocatore d'azzardo, fumatore seriale, era amare.
Amare e avere il coraggio di cantarlo di fronte a duecento persone che lo odiavano con tutto il cuore e almeno tre quarti della milza e di tutti gli organi interni.
Lui, lì, quella sera, come sempre, cantava per lei e per l'amore.
E io, commosso e divertito, mi sentivo un coglione. Io avrei votato per lui. Senza alcuna esitazione.Ripenso oggi, ancora una volta, a quella sera e a quella canzone.
Tu non c'eri.
Non esistevi ancora per me.
Non c’eravamo ancora conosciuti, o “riconosciuti”, come dici tu.
E allora vorrei dirti... andiamo a cercare quella piazza.
È cambiata, ora è un parcheggio per SUV di casalinghe in carriera che fanno la spesa per fare una foto alla pastasciutta col pomodoro e con la mozzarella dietetica, quasi sintetica anch’essa.
Ma il Festival c'è ancora. E c'è ancora l’ormai storica Sagra ad esso legata.
Se te lo dicessi, alla prima sillaba della parola “sagra” saresti già pronta, già vestita, già con il cappellino da turista sulla testa al di sopra di un sorriso felice e autentico come quello di una bambina. Una bambina di cinquant’anni, molto più saggia di me.
Io invece mi sgomento già alla prima lettera, per il parcheggio, per le file, per le posate di plastica, per le urla etiliche dei vicini di panca, per le note malinconiche e le danze atletiche dei novantenni, i millennials del secolo scorso molto più vitali di me.
La Sagra non la nomino neppure.
Mangiamo anche stasera sulla nostra terrazza, nella nostra casa in Via dei Matti al numero zero, in un posto sperduto, al margine di una strada che non prosegue oltre se non nei prati di un'asina geniale dal nome Fiona, tra lucciole che danzano nel buio e tronchi di alberi caduti su cui sedere, quelli che tu chiami “alberi delle fate”. Ci sediamo sul terrazzo, nella semioscurità della tua lampada di sale, rosa ovviamente, perché a te danno noia le luci elettriche troppo nitide. E infatti le mie ginocchia conoscono alla perfezione tutti gli spigoli del letto. Ormai siamo molto più che amici. Fanno finta di non sentire le mie imprecazioni in dialetto e in italiano. Ma vale la pena sacrificare un residuo di un eroico menisco per giungere ad un tuo abbraccio. Metto su YouTube, sul tuo tablet che lagga molto meno del mio, Io che amo solo te, per vedere sul tuo viso, a sorpresa, la tua reazione.
Dopo qualche secondo mi dici: “È bella, ma è vecchia”.
Immediatamente cerchi Irama e Fred de Palma.
[…]

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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

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Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
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L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

DECIMA EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA “GRADIVA” (2022)

 

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THE STATE UNIVERSITY OF NEW YORK AT STONY BROOK, LONG ISLAND

DECIMA EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA “GRADIVA” (2022)

 

Gradiva Publications bandisce la decima edizione del Premio Internazionale di Poesia “Gradiva”. Al Premio si concorre con un libro singolo di poesia in lingua italiana, pubblicato fra gennaio 2020 – aprile 2022. Sono escluse plaquettes e antologie che non contengano anche testi inediti. Alla partecipazione sono esclusi membri della Redazione della rivista «Gradiva».  I libri concorrenti non saranno restituiti. Non è prevista alcuna quota di partecipazione. I partecipanti possono facoltativamente sostenere, in forma di donazione spontanea e aperta, la non-profit Gradiva Publications, i cui intenti sono quelli di promuovere la poesia italiana nelle università dei Paesi anglofoni. *   Sito:  www.gradivapublications.com

 

Al vincitore sarà assegnato un premio di $1000 (mille dollari), il rimborso al 50% delle spese di viaggio relative unicamente al biglietto aereo in classe economica dalla città italiana di partenza al JFK  Airport, oppure in treno nel caso in cui la cerimonia di premiazione dovesse tenersi a Firenze.  Case editrici o singoli autori devono spedire una copia del loro libro ENTRO IL 30 APRILE 2022 (farà fede il timbro postale) a ciascuno dei membri della Giuria, sotto elencati, in ordine alfabetico, con l’indicazione dell’indirizzo, telefono e email di ogni partecipante al Premio.

Si prega NON spedire i libri per raccomandata.

ALESSANDRO CARRERA, Modern & Classical Languages, University of Houston, 3553 Cullen Blvd, Room 612, Houston, Texas 77204-3006, USA.

MAURIZIO CUCCHI, via De Amicis 57, 20123 Milano

LUIGI FONTANELLA, 303 Mountain Ridge Dr., Mt. Sinai, New York 11766, USA.

IRENE MARCHEGIANI, Department of European Languages, Literatures, and Cultures, Humanities Bldg.  Nicolls Rd, Stony Brook, New York 11794, USA.

ALESSANDRA PAGANARDI, Corso Lodi 37, 20135 Milano, Italia.

 

Presidente Onorario: Dr. Len Marino (senza diritto di voto a cui non va inviato il libro).

Segreteria del Premio: Irene Marchegiani :  gradivasunysb@gmail.com

Assistente editoriale: Lorenzo Abbatiello

 

La Giuria selezionerà i libri in concorso. Successive consultazioni determineranno la cinquina finalista. Un’ultima votazione determinerà il libro vincitore del Premio. La cerimonia di premiazione avrà luogo nel corso dell’autunno 2022 presso il Center for Italian Studies della State University di New York a Stony Brook, oppure a Firenze presso Palazzo Medici e sarà comunicata all’autrice/autore, con l’obbligo di presenziare alla cerimonia pena il decadimento pecuniario del Premio. Per ulteriori informazioni, contattare la segreteria via email: gradivasunysb@gmail.com  oppure il sito www.gradivapublications.com ove saranno pubblicati man mano gli esiti del Premio. La Giuria si riserva il diritto di non assegnare alcun premio, ove ritenesse non idoneo il materiale valutato, senza per questo essere oggetto di reclamo o denuncia.

 

* Per sostenere l’attività dell’editrice non-profit Gradiva Publications effettuare bonifico, come donazione spontanea, con spese bancarie a carico dell’ordinante, presso Banco BPM, Sede Firenze 1606, IBAN: IT55 T 05034 02813 000000010982, Swift: BAPPIT22, conto corrente intestato a Luigi Fontanella, che ne rende conto all’Amministrazione di Gradiva Publications.  Spedire la ricevuta scannerizzata, via email, all’indirizzo elettronico dell’editrice: gradivasunysb@gmail.com

 

 

Vincitori delle precedenti edizioni. 2013: Sauro Albisani; 2014: Maurizio Cucchi; 2015: Massimo Scrignoli; 2016: Milo De Angelis; 2017: Maria Attanasio; 2018: premio non assegnato; 2019: Alba Donati; 2020: Marco Vitale; 2021: premio non assegnato.