I PROMESSI (quasi) SPOSI

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Quel ramo del caseggiato di via Como che dà sulla Standa l’ho percorso almeno un milione di volte. Su e giù per le scale rischiando ogni volta i colpi di ramazza della portiera dati col manico con la perizia di Joe Di Maggio dei tempi d’oro. Ho giocato a pallone lì davanti, da bambino, a giornate intere, prendendo come pali di una porta immaginaria una Centoventotto Special parcheggiata lì dal settantasei e un cassonetto su cui i writers avevano scritto con un acrilico viola fuck the world. Raccolta differenziata antelitteram. Qui c’è poco di differenziato. Cemento, a tonnellate, negozi più squallidi di un garage usato come ripostiglio, una farmacia ogni cinquanta metri e un barbùn ogni venticinque.

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        Lucia l’ho conosciuta quando era ancora una ragazzina. Timida, sgraziata. I suoi occhi però sono grandi e profondi come un lago. Se li guardi bene li vedi attraversare da riflessi caldi di sole. Ci siamo conosciuti a scuola. Mi guardava e non mi guardava. Sembrava non cambiare mai espressione. Ma io sono testardo. Più testardo di lei. Ho continuato a guardarla e alla fine l’ho visto. Un accenno di sorriso: l’imbarazzo e la gioia di essere vista, pensata, amata. Le ho mandato un SMS. Non so neanche cosa ho scritto. Di sicuro so che devo aver fatto almeno una mezza dozzina di errori di ortografia su centoquaranta caratteri. Sono uno di periferia, io, un ignorante, un mezzo coatto. Pero c’ho messo il cuore. Quando ho sentito il suono del suo messaggio di risposta ho ringraziato la Provvidenza, e la TIM. Un po’ l’una e un po’ l’altra. Quel giorno ci siamo visti al parco. Non ha detto una parola, Lucia, e mi ha sì e no guardato una mezza volta, di sbieco, di striscio. Però, a sera, prima di tornare a casa, mi ha concesso di prenderle la mano nella mano.
        Don Rodrigo sta sempre davanti al bar tabacchi cartoleria ricevitoria della strada più trafficata del quartiere. Parcheggia lì davanti verso le undici di mattina la sua Mercedes nera modello zingaro benestante anni settanta, si siede a gambe larghe sulla sedia di plastica bianca e resta lì fino alle otto di sera. Fa due cose soltanto: con una mano dà ad intervalli regolari una rimestatina all’apparato da riproduzione, con quell’altra, quella piena di anelli da un etto e oltre, indica tutti quelli che passano. Vuole sapere tutto di tutti Rodrigo, chi sono, chi frequentano, che conto in banca hanno. Chiede informazioni su ognuno ai suoi scagnozzi. È sempre circondato da un gruppetto assortito di bravi ragazzi. Per comodità conviene chiamarli bravi, si risparmia. Don Rodrigo dice di essere spagnolo, di Valencia. Secondo il mio amico Cristoforo detto Christopher invece è calabrese di Vibo Valentia. Per la sua abitudine di aspirare le consonanti, tutte quante, con un rumore di risucchio che fa concorrenza a un lavandino. Eh sì, aspira Rodrigo, aspira spesso e volentieri. E, sempre secondo Chris, non solo le consonanti.

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        Per farla breve posso dirvi, cari miei venticinque lettori o giù di lì, che è successa la più antipatica delle cose: il calabro-spagnolo ha messo gli occhi addosso a Lucia. Sono certo che a lui personalmente non è mai piaciuta. A lui fanno sangue le tettone truccatissime e appariscenti modello Moira Orfei. Lucia è l’esatto contrario. Però sa bene, il maledetto, che una buona fetta della sua clientela sarebbe ottimamente disposta ad accettare l’articolo. Sa bene, l’infame, che, soprattutto su certi mercati esotici, la bianca esile e delicata riscuote grande successo.
        Ho parlato con Lucia. Abbiamo concluso che il solo modo per difenderci dagli assalti di Rodrigo e dei suoi tirapiedi è far capire a tutti che stiamo insieme, che siamo una coppia. Fidanzarci immediatamente, e, appena possibile, sposarci.
        Dire che Agnese, la madre di Lucia, non mi vede di buon occhio è dire poco. Mi odia, o, per dirla alla maniera di Aniello, un mio amico napoletano, mi schifa. In parte la capisco: ogni madre sogna il meglio per la propria figlia. E quello che posso offrire io al momento al meglio non somiglia neppure un po’. Cerco lavoro da mesi, da anni. Tutto ciò che ho trovato però, tramite una sottofiliale della Adecco, è un posto che non so neppure io di preciso cosa sia. Se a tutt’oggi qualcuno mi chiede se ho un lavoro oppure no, sono costretto a rispondere “non lo so”. Facendo la figura dello scemo, certo. Ma quello è il meno. A quello sono abituato. Ciò che faccio è più o meno questo: distribuisco volantini ed altra roba pubblicitaria. Quando va di lusso consegno anche qualche pacco a domicilio. Impazzisco a trovare case e appartamenti, non di rado suono i citofoni ma non mi fanno neppure entrare, e la benzina del motorino in ogni caso devo pagarmela da solo.
        Agnese mi considera un buono a nulla, scioperato e sciroccato. Dovendo scegliere tra me e Don Rodrigo sarebbe certamente molto incerta. Quasi un match alla pari. Alla fine però di sicuro preferirebbe lui. Almeno lui ha una Mercedes, si veste in gessato grigio dal lunedì alla domenica ed ha al collo una catena d’oro massiccio e un crocifisso di rubini color porpora. Inoltre, e questo fa la differenza, lui ha offerto a Lucia un futuro di ricchezza e prestigio: un futuro da modella.
        La sera in cui sono andato alla canonica di Don Abbondio per spiegargli la mia situazione e chiedergli un aiuto, ho avuto una conferma: non mi ha mai perdonato. Prima di tutto una colpa non mia, quella di venire da una famiglia che si è sempre vista poco o nulla alle messe e ai vespri. Poi, con memoria degna di un elefante, continua a rinfacciarmi una cosa: non aver voluto fare il chierichetto. Il fatto è che io di chierichetti ne conoscevo parecchi ed avevo ascoltato ciò che si dicevano. Servivano messa per potersi bere, dopo, in sacrestia, il vino rosso. Qualcuno si attaccava anche alle ostie. Quelle ancora da consacrare, per fortuna. E tutti o quasi aspettavano in gloria il momento d’oro, le benedizioni pasquali delle case. Le famiglie facevano a gara per offrire ai chierichetti biscotti e fette di torta. A me a sentire quei discorsi è venuto quasi il diabete. Mi è passata la voglia. Ho preferito starmene a casa mia a mangiare pane e salame, e, qualche volta, pane e Nutella.
        Don Abbondio non me l’ha mai perdonato. Un po’ capisco anche lui. Capisco lui che non capisce me. Voglio dire che, a ben pensarci, non ha torto: mi ha sempre visto poco, ha scambiato con me pochissime parole, e tutto quello che sa o crede di sapere l’ha sentito dagli altri. Chissà cosa gli avranno detto le sante donne e i fedelissimi della sua sacrestia. Nel migliore dei casi gli hanno sussurrato, a fin di bene, manco dirlo, che sono uno strano, uno che se ne sta per conto suo, uno che ha amicizie strampalate, parla con gli extracomunitari e con i gay, e, alla sua età, non è neppure fidanzato.
        C’è da capirlo, Don Abbondio. Non è neppure difficile intuire la sua reazione quando, a sorpresa, mi sono presentato all’uscio della sua ordinatissima canonica per dirgli che avevo necessità di sposarmi presto, anzi prestissimo, con la figlia di Agnese. Già, deve aver pensato, questo qua, un balordo, uno senza un lavoro fisso, si è messo in testa di far la vita comoda e di farsi i comodi suoi accasandosi con la figlia di una delle donne più ricche del quartiere. Una donna pia come Agnese, una che fa l’elemosina tutte le domeniche e ad ogni primavera dona una busta piena di maglie dismesse per i poveri. Chissà quali progetti si è messo in testa questo tipo qua, quali idee losche e strampalate. È un poco di buono questo, come si chiama… Remo, Renzo… non ha importanza. L’ho capito fin da quando era un bimbetto che è un ribelle, uno pericoloso. Eh, ma con me trova pane per i suoi denti! Sono un osso duro io. Un vaso di coccio, certo, ma di coccio robusto come il marmo.
        Sono uscito dalla canonica con le orecchie piene di latinorum e di italiano ancor più incomprensibile. Una cosa comunque l’ho capita: mi avrebbe sposato con Lucia solo se mi fossi ripresentato di fronte al suo cancello con le scarpe di Gucci, i pantaloni di Cavalli e la giacca di Versace. Solo questi tre Re Magi avrebbero potuto compiere il miracolo.
        L’immagine dell’abbigliamento stile Richard Gere in “Pretty Woman” mi fece venire in mente Gianguido Gherardelli, un mio compagno delle elementari attualmente avvocato di grido con tanto di studio a due passi da Via Montenapoleone. Solo lui avrebbe potuto consigliarmi dove e come trovare un posto che potesse darmi montagne di euro, bancomat superfornito e carte di credito come se piovesse. Non potevo presentarmi da Gianguido a mani vuote. Entrai in un negozio e comprai due grossi flaconi di gel a fissaggio totale. Un regalo consono al suo look. Durante il tragitto a piedi lungo la zona pedonale sbattevano l’uno contro l’altro, i flaconi, con un suono cupo e costante. Sembrava mi parlassero. “Che mi… ci vai a fare? Che mi… ci vai a fare?” – ripetevano. Erano gel siculi, saggi e sintetici. Avevano ragione loro. Fu gentile, Gianguido. Mi diede almeno una ventina di pacche sulla spalla, parlò dei tempi andati, di come eravamo pirla, di come cambiano le cose. Mi disse che mi trovava bene e che mi faceva un grosso in bocca al lupo, anzi un grande in culo alla balena. Chiamò la segretaria, si scusò e mi disse che aveva parecchio da fare.

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        Quella sera provai a telefonare a Lucia ma mi rispose la madre. Mi urlò di non disturbare più sua figlia, di trovarmi qualcun’altra, una adatta a me. Mi disse che Lucia sarebbe andata per molto tempo da una sua zia di Monza. Mettiti il cuore in pace, mi disse. Lucia non è per te, non è lo e non lo sarà mai.
        Durante tutto il periodo in cui Lucia è rimasta da sua zia abbiamo potuto comunicare solo tramite il computer. Ci scriviamo due e-mail al giorno. Il computer è quello della zia, ma chiude un occhio, fa finta di non vederla la nostra posta. La zia si chiama Gerry. Lei dice che Gerry sta per Gertrude, ma una volta Lucia mi ha scritto che il suo nome è Gerarda, l’ha sentita chiamare così da una sua amica d’infanzia. Si vergogna, Gerry, del suo vero nome. Anche se, a dirla tutta, a me non pare granché neppure Gertrude come nome. Non si vergogna invece, la zia Gerry, del suo passato di spogliarellista in un locale di lap-dance. È lì che ha conosciuto un ragazzo di Lugano, Egidio mi pare si chiamasse. Lo ha conosciuto quando era già sposata, con uno parecchio importante, tra l’altro. Si sono conosciuti e si sono innamorati. C’è chi dice che sia nato anche un bambino dalla loro storia. Poi Gerry è rimasta sola. Sola e seria. Non così seria però da proibire a me e Lucia di continuare a scriverci e ad inseguire il nostro sogno.
        Un paio di settimane fa, in un mattino che sembrava calmo, è successa la catastrofe. Ho aperto la posta ed ho scaricato tutti i messaggi. Ce n’era uno con un oggetto che mi ha fatto tremare il cuore di gioia: “I love you – Marry me”. Ho pensato subito a Lucia, L’ho aperto all’istante senza neppure guardare chi lo inviava. Era un virus, un verme affamato che mi ha divorato tutta la memoria. Computer bloccato, impossibile inviare o ricevere altri messaggi. Sono salito in macchina di corsa. Alla radio ho sentito che il contagio si era diffuso con rapidità impressionante. Una vera epidemia, una micidiale peste telematica. Gli hackers avevano fatto un ottimo lavoro, i computer cadevano uno dopo l’altro, febbricitanti, folli e alla fine morti, inservibili.

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        Parcheggiai in divieto di sosta nel bel mezzo della Zona a Traffico Limitato. Decine di altre macchine erano state lasciate lì come la mia, altre erano sulle strisce pedonali, altre ancora in tripla fila di fronte ai passi carrabili. Frotte di cittadini dagli occhi sbarrati e feroci puntavano dritti verso i negozi di elettronica. “Norton, Norton!”, urlavano. “Dateci il Norton o facciamo saltare tutto!”. Alcuni commessi erano stati sollevati per aria e rischiavano di essere scaraventati contro pile di scatoloni di hardware. Dovetti lottare per entrare. Feci a gomitate con un branco di clienti abituali di un Internet Cafè. Alla fine riuscii ad abbrancare un CD Rom con la versione più aggiornata dell’Universal Providential Firewall Judgement Day Antivirus.
        Tornando a casa incrociai un temporale estivo, un autentico uragano. Polverizzò la multa che, nonostante tutto, un vigile era riuscito a piazzare sotto al tergicristalli. Vedevo poco o nulla, ma ero emozionato, quasi felice.
        Volai su per le scale ed installai l’Antivirus. Funzionò, si dimostrò all’altezza delle attese. Aprii la posta e scoprii che anche Lucia era viva. Non era stata contagiata, poteva inviare e ricevere.
        Da quel giorno capimmo che bisognava agire, che dovevamo trovare il modo e il coraggio per incontrarci di nuovo. Gerry ci è venuta incontro. Ci ha capito e sostenuto. Non ha potuto consentirci di incontrarci a casa sua, questo no. Abita lì assieme ad altre signore molto serie e assai poco spiritose. Non avrebbero compreso e di sicuro avrebbero riferito tutto ad Agnese. Ha potuto chiudere un altro occhio invece, e ne è stata ben lieta, quando Lucia le ha chiesto di uscire con me la sera. Ha fatto finta di nulla. Ha sorriso però, con dolcezza e nostalgia, ogni volta che Lucia è salita sulla mia macchina e ci siamo salutati con un bacio.
        Abbiamo la macchina adesso, io e Lucia. La mia vecchia Peugeot 205 è tutto ciò che abbiamo. Lucia deve rientrare verso mezzanotte, e casa mia è troppo lontana. In più ci sono i miei genitori. La macchina è la nostra casa, la nostra camera. Lì siamo felici, in certi momenti. Parliamo poco, ma ci capiamo. Con le dita, con le carezze. Lucia rimane timida. Si spoglia malvolentieri, un po’ alla volta. Ogni sabato un millimetro in meno di gonna, un millimetro in più di pelle. Se continua così i pargoli li avremo all’incirca nel 2059.
        Io continuo a recapitare pubblicità e lettere a domicilio, lei continua ad essere una ragioniera diplomata col massimo dei voti in attesa di prima occupazione. Ci amiamo però. Questo è l’importante. Siamo uniti, un tutt’uno, dividiamo i giorni, il presente e la speranza di un futuro. Se oggi come oggi non fosse pericoloso affermarlo, direi che siamo “una famiglia di fatto”. Ci amiamo. È questo che conta.
        Il problema reale è che, alla fine di tutto, bisognerà cambiare il titolo di questa vicenda. I promessi (quasi) sposi, potrebbe essere la soluzione attuale. Sì, mi sa proprio che si dovrà cambiare il titolo della storia. E non solo quello. 

Ivano Mugnaini

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