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“BATTIATO – Incontri” : conversazione con Giordano Casiraghi

 

Battiato Incontri - copertina

Conversazione con Giordano Casiraghi

autore di

“BATTIATO – Incontri”

con scatti inediti del fotografo Uliano Lucas

1 ) Inizierei da una domanda che ci consente di introdurre sia il libro sia la lunga frequentazione umana e artistica che lo ha ispirato. È una domanda da un milione di dollari, mi rendo conto, ma è necessaria, o comunque mi incuriosisce molto: quali emozioni hai provato scrivendo il libro e come si sono evolute nel tempo sovrapponendosi a ricordi e a sensazioni vissute e condivise in precedenza?

 Domanda complessa che implica una certa introspezione, ma per tradurre sensazioni maturate nel tempo, questo libro è stato per me un omaggio e riconoscimento nei confronti di Battiato che mi ha permesso di seguirlo in tante occasioni. La mia non è stata una conoscenza con l’artista che si ritrova ogni volta che fa un disco e lo presenta alla stampa, oppure in qualche concerto dove lo si va a trovare nei camerini, prima o dopo l’evento. Anche quello, ma ho avuto la fortuna di passare del tempo con lui indipendentemente dal ruolo giornalista-artista.

*

2 ) Uno dei “valori aggiunti” del volume è l’ampio reportage di Uliano Lucas con scatti che ritraggono l’artista agli esordi. In che modo le fotografie contribuiscono a ricreare l’atmosfera di quegli anni lontani eppure vivissimi e vivacissimi di spunti e creazioni ancora oggi fertili, intensi?

 

Avevo scoperto questo reportage fotografico circa una quindicina d’anni fa. Alla prima occasione di una mostra di fotografie di Uliano lo andai a incontrare e gli rivelai che sapevo di quel reportage rimasto pressoché inedito. Lo invitai a non cederlo ad altri che da anni stavo scrivendo un libro su Battiato e avrei avuto piacere di dedicare a quel servizio uno spazio importante. Abbiamo salvato venti scatti, tutto molto belli e suggestivi, in una Milano che non c’è più. Battiato e Gregorio Alicata, a quel tempo si facevano chiamare Gli Ambulanti, vengono ripresi fuori da una fabbrica, alla darsena, con gli studenti all’uscita di un liceo, al mercato delle bancarelle. In quel periodo Battiato aveva in mente Dylan e scriveva canzoni di protesta.

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Il diavolo veste Gaga

Chiara Zanetti, poliedrica autrice e redattrice, mi ha segnalato uno dei libri di cui cura la promozione tramite l’Agenzia Aletheia. Si tratta di Il diavolo veste Gaga di Andrea Biscaro. Chiara sintetizza l’essenza del volume osservando che l’autore ha colto “la sfrontata ambiguità di intenti dell’Arte di questa diva mondiale, vista nella sua infinita purezza come nella sua totale trasgressione”.
Sulla base di questa accattivante premessa, e conoscendo la passione autentica di Chiara per Lady Gaga di cui ha tradotto tra l’altro l’intera discografia, ho accettato volentieri di porre ad Andrea Biscaro alcune domande sul suo “innamoramento” per Lady Gaga e sul libro che è frutto dell’intenso “colpo di fulmine”.
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Il diavolo veste Gaga - solo fronte_rev1_2 (1)

 

5 domande a

 Andrea Biscaro:

autore del libro

Il diavolo veste Gaga.

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” ai lettori di Dedalus?

Un giornalista qualche anno fa mi ha definito “scrittore multitasking”. Credo sia vero. La scrittura è la mia vita e mi muovo su decine di binari paralleli: narrativa, canzoni, fumetti, libri per bambini, sceneggiature. Ma non solo. Sono anche un ghostwriter. Mi piace immedesimarmi nella vita degli altri.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo rapporto più intimo con questo tuo recente lavoro, indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

È stata la visione di “A star is born” a innescare in me il desiderio di approfondire la conoscenza di Gaga. Dopo il film mi sono inabissato nella sua opera. Un’opera, anche in questo caso, “multitasking”. Adoro chi sa muoversi su più piani. Gaga è un vulcano, un genio. Qualunque medium tocchi, questo diventa oro. Ho deciso di scrivere un libro su di lei, perché era l’unico modo per incanalare l’esplosione di sensazioni che mi scatenava la sua opera, per darle un ordine. Mi è sembrato assurdo, anzi, che non esistessero libri, saggi, studi su di lei. Manca un bibliografia su Gaga. Forse ho colmato una lacuna.

 

3 ) Il titolo del tuo libro richiama in modo immediato un noto film. Ma è anche una sintesi efficace dei contrasti e delle tensioni tra gli estremi opposti di cui si nutre (e ci nutre) l’artista di cui parli.

A tuo avviso quanto è concesso alla scrittura di esplorare la realtà e quanto invece si muove essa stessa nell’ambito dell’immaginazione? Per dirla con Amleto, in che misura siamo all’interno di un sogno e quanto invece ci è dato di cogliere della “verità”, fosse pure la verità della trasgressione?

Scrivere è un giano bifronte: da una parte dà forma e senso al reale, dall’altra quella stessa realtà la destruttura, fino a distruggerla, fino a trasformarla in un sogno, in una visione. D’altronde parliamo di arte. Nulla è più reale di ciò che è irreale. Scrivere di Gaga, poi, è un doppio sogno: onirica e psichedelica, pur con radici antichissime conficcate al suolo, Lady G. racconta di verità terrene e arcane. “Il Diavolo veste Gaga” cerca di far luce nel suo buio, e di far buio nella sua luce.

 

4 ) Hai rivelato in un’intervista che il libro nasce da un innamoramento, o meglio da un colpo di fulmine.

In che modo hai conciliato la passione irrazionale con il necessario rigore logico della scrittura?

La scrittura dà forma all’amore. Scrivo per dare ordine al caos dell’amore. E forse anche per allungarne l’effetto inebriante. Per capirlo, anche.

5 ) Quali sono stati i momenti più esaltanti durante la realizzazione del libro, e, qualora ci siano stati, quelli più frustranti e duri da affrontare?

Credo nel potere rivelatorio della scrittura. L’atto stesso dello scrivere fa affiorare verità nascoste. Gaga scrive e canta attraverso codici e simboli, soprattutto nei primi album e nei primi video. È stato esaltante capire i suoi messaggi in filigrana. Penso a “Paparazzi”, “Alejandro”, “Bad Romance”, “Telephone” in particolare.

Devo dire che non ci sono stati momenti frustranti da affrontare.

6 ) Dopo questo libro, dopo questa ampia e documentata dichiarazione d’amore, il tuo rapporto di passione e attrazione per Lady Gaga è rimasto lo stesso o si è in qualche misura modificato?

Scrivere un libro è come vivere intensamente un rapporto d’amore. Quando finisci di scriverlo, in qualche modo si esaurisce quella carica erotica iniziale. Si esaurisce perché tutta quella passione, tutto quel sentimento galvanizzante, l’hai travasato nel libro. Diciamo che adesso il mio “rapporto” con Gaga è più sereno, meno psichedelico. Più quieto e razionale, ecco.

7 ) Quali sono le vie, non solo artistiche ma anche esistenziali, che a tuo avviso Lady Gaga indica, senza volerlo magari, con il suo percorso biografico di persona, di essere umano dotato di grande fragilità e altrettanto grande forza, prima ancora che di cantante?

Rispondo a questa domanda citandoti un brano del mio libro:

Quante cicatrici ci stanno sulla superficie di un cuore?

Quanto ha sopportato per arrivare dov’è adesso?

Nel brano “Free Woman”, dall’ultimo splendido album “Chromatica”, canta:

Questo è il mio dancefloor

ho combattuto per conquistarlo

Su quante macerie di se stessi sorgono le fondamenta di un successo come il suo?

Quanta forza serve per conservare, vivere e sviluppare una fama come la sua?

Lady Gaga ha detto che la sua forza è la sua capacità di amare.

Crede che avere una voce forte sia essenziale per amare il mondo.

«Io amo tantissimo il mondo, ecco perché la mia voce è così forte» ha detto in un’intervista. Alla domanda: «Ti ricordi il momento in cui hai scoperto per la prima volta la tua voce?» ha risposto: «Credo che una persona scopra la sua voce quando scopre se stessa».

8 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra gli autori classici che tra i contemporanei?

Sono un lettore onnivoro, da sempre. E come tutti gli autori, ho avuto i miei maestri. Te ne cito alcuni, in ordine sparso: Bret Easton Ellis, Bukowski, Lovecraft, Poe, Tiziano Sclavi, Dino Buzzati, Pasolini, Thoreau, Cioran.

Non amo confrontarmi con i miei colleghi. Gli scrittori sono noiosi, parlano solo di se stessi. Gli autori contemporanei? In Italia l’unica vera grande scrittrice è Isabella Santacroce, una sublime outsider, un genio che ha scardinato le “buone” regole della narrazione. Adoro gli artisti fuori dal coro, quelli che sanno giocare e smontare i giochi.

9 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

Vivo su un’isola da 15 anni, in una sorta di lockdown volontario. Per me non è cambiato molto, devo dire. Artisticamente, forse, sono cambiate le richieste, i temi. Meno thriller, ad esempio. La gente ha meno voglia di brividi. Editori e committenti in questi ultimi anni hanno più voglia di storie d’amore. Meglio se vere, autentiche. Il mondo ha bisogno di conforto, anche dall’arte.

10 ) Concludo con un’ipotesi, uno scenario immaginario più che una domanda: se avessi modo di incontrare di persona Lady Gaga, quale sarebbe la prima cosa che le diresti, e, quale sarebbe invece, eventualmente, la frase che non le diresti mai, pur sentendola o pensandola?

Credo che non le direi niente, se non: “Grazie, Stefani!”.

Mi piacerebbe abbracciarla e basta.

E penserei per lei il migliore dei miei sorrisi.

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                    COMUNICATO STAMPA
 Il diavolo veste Gaga: l’ultima pubblicazione di Andrea Biscaro
 IL LIBRO
Proprio in concomitanza con l’uscita nelle sale cinematografiche di “House of Gucci”, Andrea Biscaro pubblica con Officina di Hank il libro “Il diavolo veste Gaga”, disponibile nei negozi e negli store online dal 13 dicembre 2021.
Lady Gaga è Arte in ogni sua manifestazione, questa la tesi dell’autore, il cui testo rappresenta un tentativo di afferrare, smembrare e analizzare il corpo dell'opera di una grande artista, dell'ultima grande diva mondiale, le cui canzoni non sono che la punta di un iceberg. Gaga, infatti, percorre a un tempo musica, moda, cinema, pubblicità, politica, ribaltando il concetto di PopArt. Non è più l'arte ad essere al servizio della cultura di massa, ma la cultura di massa a porsi a servizio dell'arte; ArtPop, quindi, come recita il titolo del terzo album della cantautrice statunitense, pubblicato a novembre 2013.
Ogni passo, ogni apparizione, ogni album di Lady Gaga è una rivoluzione culturale e di costume. Scandalosa, eccessiva, “Mother Monster” è diventata il simbolo di un’orgogliosa diversità, così come il suo brano “Born This Way”, cantato in occasione dell’Europride di Roma 2011.
Inafferrabile e iconica, Gaga gioca con la sua molteplice personalità, esibendo le mille facce del suo cuore messo a nudo, alla stregua di ciò che scriveva nel suo omonimo testo Charles Baudelaire:
“Si possono fondare imperi gloriosi sul delitto, e nobili religioni sull'impostura.”
Come un veggente travestito da esteta, l'autore-dandy svelava in questo modo al lettore la verità in tutta la sua nudità perturbante, la stessa operazione eseguita dalla diva analizzata da Andrea Biscaro.
Angelo e demone, Lady Gaga sa offrirsi come la ragazza acqua e sapone di “A star is born” e nello stesso tempo come la diabolica Contessa assetata di sangue di “American Horror Story”.
Un libro multiforme e camaleontico, proprio come il soggetto narrato e, in ultima analisi, come la verità dell’essere umano.
UN ESTRATTO DAL TESTO
“Quante cicatrici ci stanno sulla superficie di un cuore?
Quanto ha sopportato per arrivare dov'è adesso?
Nel brano “Free Woman”, dall'ultimo splendido album “Chromatica”, canta:
 Questo è il mio dancefloor
ho combattuto per conquistarlo
 Su quante macerie di se stessi sorgono le fondamenta di un successo come il suo?
Quanta forza serve per conservare, vivere e sviluppare una fama come la sua?
Lady Gaga ha detto che la sua forza è la sua capacità di amare.
Crede che avere una voce forte sia essenziale per amare il mondo.
«Io amo tantissimo il mondo, ecco perché la mia voce è così forte» ha detto in un'intervista. Alla domanda: «Ti ricordi il momento in cui hai scoperto per la prima volta la tua voce?» ha risposto: «Credo che una persona scopra la sua voce quando scopre se stessa».”
 NOTE D’AUTORE
Andrea Biscaro è nato a Ferrara nel 1979. Vive e lavora all'Isola del Giglio. Romanziere, cantautore, poeta e ghostwriter è considerato dalla critica una delle voci più interessanti e poliedriche del panorama letterario italiano.
Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo: la biografia rock “Io sono il Nirvana – la storia di Kurt Cobain” (Caissa 2018), il libro-cd “Ballate della notte scura” scritto a quattro mani con il padre di Dylan Dog, Tiziano Sclavi (Squilibri 2013, Repubblica XL 2013), il graphic novel “Pornopoema” (Eretica 2020), “La foresteria delle tre sorelle” (Segreti in giallo 2020), “Un cuore pulsante di medusa su uno sfondo rosa” (Nulla Die 2021).
L’EDITORE
Officina di Hank è il marchio editoriale che dal giugno 2020 contraddistingue i prodotti di HC S.r.l., società attiva in campo editoriale dal 2006. La casa editrice ha da sempre come tratto fondamentale quello di raccontare storie dal mondo della musica, e il suo catalogo, in cui spicca quest’anno l’autobiografia di Mark Lanegan, ne è testimonianza diretta. Al di là della musica, il rock fra le righe dell’Officina di Hank si esprime con l’impegno in progetti come la collana “La Raccolta”, nata per diffondere il pensiero antiproibizionista e rinnovare la percezione del pubblico sul tema della cannabis e dintorni.
www.officinadihank.com

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Raccontare la poesia

Raccontare la poesia - cover
 
Luigi Fontanella, Raccontare la poesia (1970-2020). Saggi, ricordi, testimonianze critiche,
Moretti & Vitali, 2021, 760 pp., € 36,10
 
Molto è già stato detto del libro di Luigi Fontanella Raccontare la poesia. Già detto e detto bene, con passione, acutezza e brillantezza. Sono arrivato in ritardo. Quindi, brechtianamente, tocca sedersi di lato. Non dalla parte del torto, nel caso specifico, ma da prospettive asimmetriche, sperando di poter mettere in luce qualche aspetto non ancora esplorato. Cercando di compensare lo svantaggio cronologico con la possibilità di basarmi su materiali interessanti, in particolare sull’intervista rilasciata dallo stesso Fontanella a Francesco Capaldo per il quotidiano “Pickline”. Utili mi saranno anche alcuni dialoghi che ho avuto di persona con l’autore nel suo studio fiorentino di Via Guelfa, zeppo di libri, di ottimo tè e di sassi di svariate forme e colori, souvenir del suo amato mare greco.
Comincerei dal titolo. In apparenza è lineare, descrittivo. In realtà mi sembra racchiudere un accostamento di mondi, un allineamento tra pianeti, quasi un ossimoro, di forma, di linguaggio, di struttura. Questo libro in fondo è un romanzo in forma di saggio sulla poesia. Di un romanzo ha la diacronicità, il coinvolgimento costante dell’autore e il suo interagire con gli altri personaggi, affini o più distanti, alleati o antagonisti in un conflitto incruento ma costante che ha come scopo primo e come meta finale l’agnizione più significativa, quella che riguarda il volto autentico dell’eroina femminile, la poesia. Il tutto giocato su un piano reso ulteriormente complesso e multiforme dalla coesistenza del piano letterario con quello esistenziale, in senso stretto e in senso lato. Ossia, in poche parole, mi sembra che questo libro non parli della poesia tout court ma della poesia nella vita, o, meglio, della poesia della vita. Quest’ultima definizione non vuole essere un abbellimento estetizzante ma piuttosto un tentativo di definire la necessità, sia della materia trattata sia del progetto che ha condotto alla compilazione e alla pubblicazione del volume.

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Verso un altrove – recensione con intervista

Verso un Altrove

Cristina Lastri Verso un Altrove, Le Mezzalane, 2019

Recensione di Ivano Mugnaini
 
“In sana sommossa / verso l’isola che forse c’è”, scrive Cristina Lastri in una delle liriche di questo suo recente libro. I versi ci indicano una strada fatta di rettilinei e di curve oltre cui bisogna trovare il coraggio di andare. La sommossa, innanzitutto, è un momento di svolta, un deliberato scarto; ma il vocabolo si integra con quell’aggettivo “sana” fino a costituire un binomio inscindibile, un tutt’uno. La natura dell’aggettivo non modifica la forza e la schiettezza della rivolta. Anzi, semmai la rafforza. Una vera sommossa nasce da radici salde, dall’esperienza delle cose viste e percepite, perfino dagli errori, dagli sbagli di valutazione. Solo con quel bagaglio di esperienze si può intraprendere il viaggio verso la meta auspicata, quell’isola che, ribaltando un noto riferimento letterario, in questo caso c’è, esiste. Il libro è la sintesi dettagliata di un viaggio, un tragitto che, come ci indica il titolo, ci porta lontano.
Come ha sottolineato Cristina Lastri nell’intervista per la rubrica A TU PER TU, il timone idealmente è rivolto verso “un altrove”, non verso l’Altrove indistinto e assoluto.  Il cammino personale dell’autrice si estrinseca in varie “tappe” all’interno di questo libro.  Si può rilevare una prima forma di “evoluzione”, un mutamento di prospettiva, sia cronologico che “visivo”, per così dire, un differente punto di vista: “La sete di conoscenza mi ha permesso di emergere da una sorta di eremitaggio introspettivo e di rivolgere lo sguardo oltre, verso un fuori da sé”.  
        Il materiale di base con cui costruire l’imbarcazione per raggiungere l’auspicata isola è la conoscenza, ottenuta tramite la passione per i libri e per tutto ciò che arricchisce il bagaglio personale, non di nozioni ma di empatia, per il mondo, per il bene e il male, per i chiaroscuri la cui accettazione può condurre al prezioso senso dell’armonia con il cosmo. L’abbandono dell’eremitaggio permette di estendere il campo visivo e di favorire l’uscita da sé, ossia l’acquisizione di una dimensione interiore altra, situata in un altrove che più che un punto fermo è un processo graduale e costante di “simpatizzazione” con il mondo.
 La cura può avere luogo nel momento in cui la mente e il corpo dialogano sulle stesse frequenze e sulla stessa lunghezza d’onda. Non è un caso che a volte il solo modo di accelerare il passo, sul piano poetico e non solo, sia quello di rallentarlo, e non è un caso che questo libro faccia riferimento esplicito e costante alla pratica dello zen, alle strade che conducono a percorsi zen utili al perdersi e al ritrovarsi.

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Alice nel labirinto – intervista a Roberta De Tomi

Spazia con curiosità e fantasia, Roberta De Tomi,  in vari ambiti e tra vari generi. Ha scritto libri diversi l’uno dell’altro ma con il comun denominatore di una passione vivida, a tratti “speziata”, che la porta a cercare storie e argomenti in grado di suscitare a loro volta la curiosità, l’interesse e la passione del lettore, conducendolo in ambiti in cui realtà e dimensione onirica si incontrano, giocando a creare nuovi spazi, mondi possibili.
L’intervista qui pubblicata ci offre l’opportunità di approfondire la conoscenza con questa autrice vivace che opera attivamente anche in rete. Ci conduce inoltre a esplorare territori del panorama letterario che hanno molti appassionati lettori.
IM

2021Alice nel labirinto

                            A TU PER TU
                         UNA RETE DI VOCI
 L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica. IM

 

5 domande

a

Roberta De Tomi

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Un saluto ai lettori e alle lettrici e un grazie per l’attenzione che mi dedichi. Non sarà un “autoritratto”… alla Dorian Gray, anche se sarebbe bello immortalare un pizzico di bellezza in questo momento storico così difficile. A parte questo, ho dipinto di colori diverse pagine che sono diventati racconti e romanzi. Ho iniziato in sordina, dopo essermi laureata al DAMS di Bologna, partecipando ad alcuni concorsi letterari, all’interno dei quali ho ottenuto buoni esiti. In parallelo ho iniziato un percorso lavorativo nella comunicazione che ha toccato diversi ambiti in maniera trasversale: dal giornalismo ai blog, passando per la gestione di eventi e uffici stampa. Parallelamente mi sono occupata anche di altre mansioni, ma sempre tenendo stretta la passione per la scrittura; passione che, dopo le prime prove, mi ha portato alla pubblicazione.
Ho vissuto e vivo con un certo travaglio la precarietà della mia generazione, tanto che ai tempi, con un blog e articoli dedicati, ho cercato di parlarne; ma mi rendo conto che certi argomenti sono spine che bruciano, vasi di cristallo da maneggiare con cura. Viviamo tempi complessi, sospesi, forse stiamo aspettando Godot; sinceramente io non riesco a stare ferma, in attesa di un miracolo salvifico. Non è nella mia indole, ho bisogno di creare, di fare qualcosa e di incuriosirmi. Creare è vivere.

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Il sirtaki con le stelle

Il niente, l’annichilimento, sono le minacce, le Sirene che ci chiamano a sé. Ma se è vero l’assunto che il percorso individuale coincide su diversa scala al destino del mondo, la tenacia, il rifiuto della resa incondizionata, traggono linfa dalla stessa fonte: “sarà che la Terra è un posto dove / mi è toccato vivere, / non affretto la corsa / respiro e danzo il sirtaki / con le stelle”.
Una mia recensione a “Di albe e di occasi” di Grazia Procino e le sue risposte alla rubrica A TU PER TU. Buona lettura, IM

 

Copertina libro Procino

Grazia Procino, Di albe e di occasi,

Macabor editore,
collana Quaderni di Macabor, 2021
 
Sarà che vivo in controluce / con le albe e i tramonti di un sole / che, anche / quando non splende, / sorge per tutti”, scrive Grazia Procino in una delle liriche di questo suo recente libro. Vi sono segnali disseminati in questi versi. Mai resi smaccatamente palesi. Allusi, piuttosto, o evidenziati tramite richiami interni, ricorrenze e sottolineature sottese, e per questo più efficaci. La vita, innanzitutto. Quella condizione che, l’autrice lo evidenzia a più riprese, non è scontata, oggi più che mai. La vita individuale e quella collettiva, condivisa, quell’essere parte di un insieme più grande e complesso, illuminato da un sole, che, almeno lui, non fa distinzioni. Altro ineludibile concetto, ente o idea, è il tempo. La sequenza di albe e di tramonti non è mai lineare successione di istanti ma complessa interazione di presente, memoria e ipotesi di futuro. Tenendo conto del titolo c’è, inoltre, nei versi citati in apertura, una variazione solo in apparenza di scarso rilievo. Nel titolo si parla di “occasi”, nelle poesie del libro più volte di fa ricorso al vocabolo “tramonti”. Occasi è un vocabolo che fa riferimento al mondo classico. E non sembra solo un omaggio a volumi tanto amati e a lungo studiati dall’autrice. Appare quasi come un traguardo, un punto elevato raggiunto passo dopo passo, gradualmente, con tenacia, senza mai scordare il contatto dei piedi con il terreno. La cultura in questo libro non è esposta in vetrina in teche fosforescenti e tra fiocchi dorati. È presente anch’essa “in controluce”, potremmo dire, come strumento privilegiato di osservazione di un mondo il cui senso, quando è possibile coglierlo, è individuabile nella coesistenza di presente e passato, concretezza, sogno e memoria, indagine del sé in rapporto agli altri, al bene e al male della vita che scorre, a dispetto di tutto, nell’alveo del tempo.
            Il tempo, dunque, ancora lui; punto di partenza ed eterno ritorno. Ma, come opportunamente evidenzia Alessandra Corbetta nella prefazione “Se il lettore si attende una rievocazione nostalgica del perduto perché passato o una proiezione illusoria in un futuro indistinto rimarrà deluso, perché alba e occaso non rappresentano punti statici corrispondenti all’inizio e alla fine, bensì parti di un andamento ciclico, dove l’ago della bussola è sempre ben puntato sul presente.”
A fianco di questa condivisibile considerazione, viene fatto di soffermarci sull’evoluzione anche del modo di scrivere dell’autrice, ossia il suo modo di porsi di fronte alla scrittura come mezzo di espressione del proprio universo interiore. Nell’intervista rilasciata per la rubrica “A tu per tu”, Grazia Procino annota: “Ho dato forma a questa silloge, raccolto testi che avevo già elaborato e ne ho scritti altri sull’onda di un’energia rinnovata e di una volontà che non si piegava; è stata una fase di fervore creativo, in cui ho toccato vertigini corroboranti. Ho detto a me stessa che non potevo lasciarmi sconfiggere senza lottare; così, è nata […] la più personale delle mie raccolte, la più rivelatrice del mio vissuto, dove la narrazione di me come donna sovrasta qualunque altra sovrastruttura intellettualistica”. Siamo così di fronte ai due estremi di questo libro, la dimensione cronologica in sé, il concetto del tempo, e, sul fronte opposto (ma in realtà sovrapponibile, se non coincidente) l’evoluzione del proprio modo di essere e di scrivere (e anche in questo caso è possibile rilevare una tendenza sempre più netta al coincidere dei punti e dei segmenti di queste rette ideali).

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Tempo innocente di Rosa Salvia – recensione e intervista

L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza.
Una mia recensione al libro. Buona lettura, IM
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Rosa Salvia, Tempo innocente

Lietocolle, Collana Erato, 2019.

 

recensione di Ivano Mugnaini

 
L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza. L’autrice è troppo scrupolosa e conscia per aver semplicemente voluto divertirsi a stupire con un titolo ad effetto. Il libro è un invito alla ricerca, al pensiero critico, ad una visione attenta, divergente, laddove è necessario. È una lunga e appassionata “caccia al tesoro” per giungere a scoprire un frammento di verità, sia essa pietra salda o fiato impalpabile di un’ipotesi condivisa. Più esattamente, è una specie di gioco dei mimi in cui si tratta di indovinare chi è il personaggio, cosa fa, quale azioni compie, e, soprattutto, cosa siamo noi in rapporto a lui. Forse, in ultima istanza, si tratta di scoprire se quel personaggio che cerchiamo di indovinare, quello che viene definito innocente ma ci atterrisce, quello che ci terrorizza ma in realtà non ha colpa, in fondo, siamo noi. L’immagine di noi, l’essenza di noi.
“Oggi il sole è uno splendore!” Il primissimo verso della raccolta è questo. Sembra una pura descrizione, un’esclamazione di gioia estatica, lineare, incondizionata. Invece, per fortuna dell’autrice e del lettore, in questo libro di semplice c’è poco o niente e di puro c’è solo il desiderio di scoprire ambivalenze, coesistenze di realtà e sensazioni, in poche parole “impurità”. Solo ciò che è spurio, in grado di leggere allo stesso tempo le righe e lo spazio misterioso che le separa e le unisce, ci avvicina di qualche passo, senza annichilirci, allo splendore di quel sole da cui siamo partiti. Non è un caso che un passo oltre, nei versi successivi della lirica d’esordio, faccia la sua comparsa un “immenso occhio curioso” che gioca “fra i ghirigori della tenda”.

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Il bestiario delle bestiacce

Il titolo del recente libro di Annalisa Macchia è attraente. Incuriosisce. Invita a scrutare all’interno per vedere cosa spunta, cosa compare. Magari ci troveremo di fronte un animale tra il mitico e il reale, tra verità e invenzione fantastica.
Coerentemente con lo stile di Annalisa, il libro è serio e giocoso allo stesso tempo. Ma in maniera sincera e profonda, non di maniera. Annalisa gioca sempre con grande attenzione al senso, soprattutto a quello ulteriore, a ciò che non si vede ma c’è, e magari ci fa pensare, mentre sorridiamo.
La leggerezza di questo libro è consistente. Calvino approverebbe. Le Cosmicomiche qui diventano Le Bestiacomiche. Ma l’impressione è che ciascun animale sia, a bene vedere, al di là della pelle e delle squame, al di là dei colori camaleontici e cangianti, un’immagine della bestia per eccellenza, l’animale selvatico e sospettoso, che siamo, a tratti, noi tutti.
C’è molto metodo nell’apparente lievità del libro, come direbbe Amleto. Si percepisce un’accurata preparazione “a monte”, si nota un’accurata suddivisione speculare delle varie sezioni, saltano all’occhio analogie e contrapposizioni per niente casuali. Vengono in mente Esopo, Alice, i suoi specchi e i suoi animali parlanti e pensanti, si rammentano Trilussa e Rodari, ma soprattutto si beneficia di un libro che si legge volentieri, che fa tornare bambini senza scordarci il gusto agrodolce, ma necessario, di guardare il nostro volto riflesso nello specchio di bestiacce che, non di rado, sono molto meno bestiacce di noi.
IM

Annalisa Macchia, Il bestiario delle bestiacce, Pagine, Roma 2020
                          A TU PER TU
                       UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.Saranno volta per volta le stesse domande.Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.IM

 

5 domande

a

Annalisa Macchia

 
1 )Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
 
     Certamente e grazie per questo invito. Mi chiamo Annalisa Macchia, abito a Firenze, dove vivo da tanti anni, ma sono nata a Lucca; ho studiato a Pisa (Lingue e Letterature straniere) e frequento da sempre l’area livornese, luogo d’origine della mia famiglia. Dunque sono d’identità toscana, seppure variegata, dettaglio non trascurabile, perché credo che la mia scrittura sia rimasta “contaminata” da tutte quante queste frequentazioni. Sono un’autrice tardiva, se mi passate il termine. Dopo gli studi universitari e una prima pubblicazione (Pinocchio in Francia, edito dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi di Pescia), ho dedicato molti anni alla cura della mia numerosa e onerosa famiglia, scoprendo solo alla fine quanto avessero reso preziosa la mia formazione di persona, anche se mi avevano apparentemente allontanato dalla scrittura. Prepotente è però tornata la voglia insopprimibile di comunicare con la parola scritta. Sono nati così i primi lavori, storie in rima per l’infanzia (con l’assurda speranza che le parole scritte fossero più efficaci di quelle dette a voce…). Da allora, però, lettori o non lettori, non ho più smesso, cercando di conciliare i miei impegni familiari e di insegnante  – ho insegnato lingua e letteratura francese in vari istituti fiorentini – con la mia nuova attività. Sono seguite raccolte poetiche e narrative, frequentemente dedicate all’infanzia, all’avviamento della parola poetica anche tra i più piccoli (un mondo a me familiare, dal momento che ho avuto quattro figli ed ora ho quattro nipotini), ma anche qualche testimonianza critica e traduzione. Attualmente collaboro con qualche racconto e soprattutto con recensioni, con la rivista “Erba d’Arno” e sono redattrice della rivista Gradiva, ammirevole ponte di poesia e letteratura tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ho anche diretto una collana di poesia per l’infanzia con la casa editrice Poiein, occupazione purtroppo di breve durata per la prematura scomparsa del suo direttore Gianmario Lucini, un carissimo amico, a cui devo molto e che ancora oggi rimpiango. Nella città in cui vivo, compatibilmente con il mio tempo libero, ho cercato di seguire i movimenti letterari che l’hanno animata in questi ultimi anni. Con presentazioni di autori e varie attività collaboro strettamente con l’Associazione Pianeta Poesia (www.pianetapoesia.it ), a cura di Franco Manescalchi. Un’attività che ha contribuito non poco alla mia formazione, aprendomi a mondi poetici altri, talvolta d’insospettabile interesse e bellezza.
 

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Cucendo i fili della vita – rec. a “La sarta”, di Marilena La Rosa

La sarta, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse la ricama e rammenda con la fantasia, nella terra di nessuno tra verità e immaginazione.
Ho letto con piacere questo libro e altrettanto volentieri ne ho scritto.
Ci conduce lungo un sentiero poco battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina “con una M gigante sulla maglia” o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, “versi che si baciano”.
Buona lettura, IM

 

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.Saranno volta per volta le stesse domande.Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

immagine copertina

5 domande

a

Marilena La Rosa

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Questa è senz’altro la domanda più difficile. Provo a rispondere.

Sono nata e vissuta ad Acireale, che non è un fatto da poco, perché la mia è una città colta, elegante, di una bellezza struggente ma è anche la patria del cavolo trunzo la cui caratteristica principale pare sia legata indissolubilmente al dna degli abitanti (e quindi anche al mio): è duro come è dura la loro e la mia testa. Quindi, sono testarda e ho modo frequentemente di mostrare questa “dote” – che misteriosamente non tutti sembrano apprezzare – , nelle scelte, nelle relazioni familiari e sociali, nel raggiungere gli obiettivi. Nel bene e nel male, insomma. Mi sono poi trasferita a Palermo e qui ho incontrato un altro tipo di bellezza, quella sfrontata, maestosa, abbagliante del barocco o cupa, possente e austera del gotico-normanno. E nelle contraddizioni di Palermo mi sono persa e poi ritrovata e Palermo è riuscita così a diventare metafora piena della mia vita. Posso giurare, quindi, che l’ambiente condiziona l’esistenza. Anche quello familiare, ovviamente. Sono cresciuta con una mamma che mi raccontava i miti e le tragedie greche, ho conosciuto Dafne, Polifemo e Medea prima di Cappuccetto Rosso o Cenerentola. E quindi ho sempre letto e sono cresciuta fra i libri e le conversazioni a tavola avevano il sentore di un’interrogazione agli Esami di Stato: “Chi ha scritto le poesie a Casarsa?”, chiedeva mia madre mentre faceva scivolare una cucchiaiata di purè nel piatto.

Credo che con questo imprinting, il mio futuro fosse irreparabilmente condizionato: mi sono laureata in Lettere e ho iniziato a insegnare all’età di ventitrè anni. In una scuola serale. In una scuola serale frequentata da adulti lavoratori a cui dovevo parlare di Dante e Petrarca. Ed è stato bellissimo.

Da lì è stato tutto un crescendo di attività, ricerche, scritture, viaggi, studi, successi, sconfitte, gioie e pianti.

Ho scritto e scrivo tanto e mi dedico a quello che amo: la mia famiglia, i miei alunni, i miei libri. E trovo il tempo per guardare il cielo stellato, il mare d’inverno, i cuccioli di gatto o le albe trasparenti. E per il cioccolato. Per quello trovo sempre tempo.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Si scrive per vivere e sopravvivere, per tendere all’infinito, per piacere, per presunzione, per romanticismo, per vanità, per lasciare o per centrare un segno. Si scrive perché grumi di idee, parole ed emozioni possano concretizzarsi e ordinarsi in segni striscianti sulla carta. Si scrive per dire “ci sono” e perché dicano “c’era”. Si scrive anche per gioco, per sfida, per evasione. E anche per divertimento.

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La filosofia del sole – di Michela Zanarella . Recensione e intervista

La filosofia del sole, Michela Zanarella, Edizioni Ensemble, 2020

“Nominare tutte le cose / anche le più dolorose / luce / e chiamare nettare la vita / a ogni respiro”. I versi iniziale della seconda poesia del libro di Michela Zanarella sono ineludibili. Se ne percepisce la verità e quindi colpiscono ancora di più, soprattutto in quest’epoca in cui la tendenza ai crepuscoli e ai coprifuochi, reali e metaforici, dilaga e impera. Vale la pena soffermarci sui vari termini di questa sollecitazione, questa dichiarazione di intenti e di poetica, filosofia da applicare ai pensieri e alle azioni quotidiane. “Nominare le cose” è il fardello e il privilegio della scrittura, dell’arte, della poesia. Dare un nome alle cose le strappa al caos e all’oblio ma richiede anche un esercizio di assoluta immedesimazione, senza trucchi da ciarlatano, senza sconti, senza scorciatoie. Quindi, se si vuole cercare il lato assolato dell’esistere, quello per cui vale la pena alzarsi, vestirsi ed uscire dalle nostre comode case-galera, bisogna nominare tutte le cose, anche le più dolorose, luce. Per farlo non basta desiderarla, bisogna esserlo. Bisogna diventare noi stessi luce. Compito di immenso impegno, percorso impervio. Ma la strada è percorribile, questo libro lo conferma. E, come spesso accade, la meta è il cammino non un luogo preciso in cui arrivare. La ricompensa è quel nettare della vita. Che non è soltanto la gioia, ma l’accettazione del tutto, del bene e del male, del piacere e del dolore. Se riusciremo a fare questo, “non ci spaventeremo della notte / o della polvere che insegna alla terra / l’estensione delle nuvole”.
Come opportunamente ha rilevato Dante Maffia nella prefazione, questo libro rappresenta una svolta, o perlomeno una significativa mutazione di rotta nella scrittura e nel modo di percepire il mondo da parte di Michela Zanarella: “La filosofia del sole rinnova il rapporto della poetessa con il mondo, che muta l’originario sguardo malinconico e a volte addirittura triste, in un qualcosa di dinamico”. L’etimologia della parola “filosofia”, amore per la saggezza, può esserci utile, in questo contesto. Forse la vera saggezza è sapere cogliere “l’alba che confine con il sole”, e viceversa, percependo non solo l’alternanza ma anche la coesistenza di buio e luce. Sapendo che ognuno dei due elementi contrapposti ha senso solo in presenza dell’altro. Facendo riferimento a Mario Luzi, Maffia parla delle “controversie”, anche di quella controversia al cui fuoco siamo costantemente soggetti. “Un attimo, uno solo / accaduto e inaccaduto rifondersi, /finché insensibilmente non c’è altro, / quel fuoco, quell’acqua, quegli elementi”. Il poeta fiorentino parla di rifondersi, quasi un riforgiarsi per rinascere. Michela Zanarella accoglie la lezione e riforgia il suo scrivere all’insegna della ricerca del sole, della luminosità che pervade tutto, anche il dolore. È necessario ripetere questo concetto perché è un punto chiave, un ostacolo da superare, o meglio una porta da aprire tramite un gesto lieve e preciso.
Il linguaggio di questo libro tende all’essenzialità. Prosegue con coerenza, Michela, il processo di sfrondamento degli orpelli per giungere più leggeri a quel punto in cui è più facile guardare, cercare, percepire il mistero. La bellezza del cielo va raccolta da terra, ossia dalla realtà, ci suggeriscono alcuni versi. Di conseguenza è lineare, concreto, il linguaggio. Le “illuminazioni” (termine del tutto consono) non nascono da elucubrazioni o simbolismi complessi. Spuntano, potremmo dire sbocciano, come fiori di campo, senza forzature, senza intricati innesti. E accade che in un vasto prato di versi che ci conducono come viaggiatori verso gli appuntamenti con la luce, ci si trovi di fronte a descrizioni o sintesi di notevole forza, anche estetica: “il cuore è attratto da echi di sole / e l’amore si avvicina / a un’ipotesi di stelle”. La progressione conduce a un crescendo e a quel verso, quella ipotesi di stelle che, oltre ad essere assolutamente apprezzabile per la bellezza dei termini e dei suoni, è anche una sintesi adeguata, potremmo dire “programmatica”. Ipotizzare le stelle vuol dire non solo pensarle, immaginarne la possibilità. Vuol dire crearle, nominarle, dare loro vita nell’attimo in cui noi stessi traiamo energia e sussistenza da loro, in particolare dalla stella per antonomasia, il Sole, quasi sinonimo di vita, per gli umani.

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