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Editi ed inediti

Se avete scritto delle poesie, oppure un romanzo, o dei racconti, inviatemi i file in lettura a:
ivanomugnaini@gmail.com.
Sarò lieto di leggerli per un’eventuale pubblicazione, se si tratta di inediti, o per una recensione nel caso di volumi già pubblicati.
Oppure per la traduzione in inglese di brani di prosa o poesie,  sillogi o interi libri o manoscritti. 

IM

Tutte le cose che chiudono gli occhi

Facendo un’operazione di sintesi estrema, leggendo il materiale che ho ricevuto da Annalisa Ciampalini mi soffermerei su alcune parole, tratte dalla nota personale dell’autrice e dalla recensione di Giancarlo Sissa. L’autrice, parlando del suo libro, osserva: “sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura”. Avere cura degli eventi è un’espressione che sfugge agli schemi. In genere ci si preoccupa di affrontarli, gli eventi, di ottimizzarli, di organizzarli e mille altre azioni pratiche e utilitaristiche. Annalisa Ciampalini si ripropone di ascoltarli e riconoscerli. Gli eventi come persone. Forse perché ogni accadimento, ogni attimo che viviamo, ogni passo che percorriamo e che ci percorre, è fatto del pensiero di persone, presenti o assenti, fragili ed effimere e allo stesso tempo assolutamente indelebili.
C’è in questo libro della Ciampalini una sincerità che traspare. Non c’è sfoggio né volontà di stupire. C’è una necessità vera di avere cura per potere ricevere cura. Dagli altri, ma anche dai fatti della vita, dal bene e dal male, dagli occhi dolci e da quelli feroci, dalle cose, dai passi sull’erba ma anche sul fango, sulle rocce, sui rovi.
Alle parole della Ciampalini fa eco adeguata la nota critica di Sissa, anch’essa da leggere nella sua totalità, nella sua struttura completa, organica. Tenendo fede alla promessa della sintesi, propongo, tra i tanti passaggi interessanti della recensione, questo estratto:
 “La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
In questo brano, seguito da alcuni versi di Annalisa, Sissa individua “ipotesi d’amore e di pietas partecipata”. L’utilizzo della parola “ipotesi” ci conduce su un terreno simile a quello precedentemente accennato. Non ci sono certezze, non c’è un sentiero asfaltato su cui avanzare baldanzosi. L’amore è una scommessa. Non di rado persa. Così come altrettanto di sovente gli eventi di cui cerchiamo di avere cura ci strangolano senza neppure concederci una parola ulteriore. Eppure, ed è qui il percorso che combacia con la meta, esiste quella pietas, quell’atteggiamento difficile da definire e da inquadrare in termini logici, razionali. Forse, la direzione da seguire è quella dello sguardo dei malati veri, dei fragili, dei non integrati né integrabili. Gli occhi che fissano un punto fuori campo e colgono nel segno.
Potrebbe non essere casuale, allora, il titolo del libro, Tutte le cose che chiudono gli occhi. Non è escluso che per avere cura, per ricevere cura, per giungere alla pietas autentica, davvero condivisa, gli occhi si debbano chiudere invece che spalancare. Oppure, ma un’ipotesi non esclude l’altra, che si debba essere fragili, al punto di farsi buio, cecità quasi letale, per potere cogliere il riflesso autentico della luce, quello che, a tratti, risana anche il corpo.
Anche in questa occasione il mio intento è quello di stimolare la curiosità dei lettori. Queste mie succinte note spero possano incuriosire e indurre a cercare e leggere il libro di Annalisa Ciampalini, scritto senza paillettes e senza il photoshop. Con l’autenticità di chi si mette a nudo, non per esporsi in vetrina ma per fuggire lungo un dirupo boschivo. Senza tuttavia smettere di pensare e sentire, continuando ad avere cura di quella parte di mondo e di tempo, di fragilità e di bellezza, che ognuno, a dispetto di tutto, ospita dentro di sé. 
IM
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 ESTRATTI DALLA RECENSIONE DI GIANCARLO SISSA
“Quarta raccolta dopo L’istante si dilata (2008), L’assenza (2014) e Le distrazioni del viaggio (2018), Tutte le cose che chiudono gli occhi (2022), rispettato l’intervallo di quattro anni che separa un libro dall’altro – e che testimonia di una scrittura governata dalla cura e dalla ponderatezza e avulsa dunque da frette e smanie – ci consegna il punto d’arrivo, provvisorio ma certo, di una scrittura in versi di elegante compostezza e di serena severità anche formale. L’estrema pulizia del dettato poetico di Annalisa Ciampalini è infatti senza dubbio il più corretto strumento, oltre che il più affidabile posizionarsi rispetto alle possibilità stilistiche (….)
 
È questa l’ora del fuoco
in un tempo deciso oltre il cielo.
Rendi caldo il mio posto liquido
infondi l’idea del grano,
dell’impasto che poi sarà pane.
Il tuo mezzogiorno ampio
in questa luce di fondale.
come già lasciava presagire l’esergo da un’altra poetessa grande e di nitida pronuncia quale Silvia Bre:
Come quando in una qualche stagione
spicca l’istante che la farà nostra. “
“Ruota peraltro, questa raccolta, attorno a due sezioni che a me paiono fondanti di quello che si può considerare sia il punto d’arrivo – provvisorio – della poesia di Ciampalini, sia il luogo dal quale ripartire per nuove ipotesi di scrittura. Mi riferisco a Il posto (la terza dopo Stagioni in prestito e Forme del tempo) e a La stanza condivisa (la quarta, prima della conclusiva Viaggi). La sezione Il posto si apre con una prosa di straordinaria resa onirica caratterizzata da un’aura diffusa d’incantesimo, di cosa che non si vuole scordare.”
“La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
Nella stanza condivisa
i posti vuoti
creano il luogo di un amore cresciuto a dismisura
la forma sensuale dei corpi
tramutati in assenza.”
Giancarlo Sissa
**************
 
Annalisa Ciampalini
Tutte le cose che chiudono gli occhi
Prefazione
di Valeria Serofilli
 
È coerente il percorso di Annalisa Ciampalini, la strada espressiva intrapresa e condotta con costanza. Si muove tra visione e riflessione, buio e ricerca di luce, corporeità e nitidezza. Non è casuale il titolo di questa sua raccolta: “Tutte le cose che chiudono gli occhi”. È adeguato allo specifico dei testi che compongono la silloge e anche al percorso più ampio a cui si è fatto cenno in precedenza. La chiusura degli occhi è un gesto in apparenza minimo, quasi impercettibile, eppure in grado di contenere vasti orizzonti di significati e di simboli. In primo luogo il punto che separa ed unisce la veglia dal sonno (e quindi dal sogno) e la morte dalla vita. In quel gesto minimo è racchiuso il tutto. È anche un gesto di estrema dolcezza e delicatezza, che tuttavia esprime anche la forza di una necessità che è altresì, potenzialmente, una scelta. Chiudere gli occhi vuole poter dire anche schierarsi altrove, scegliere di non vedere, non guardare, rifugiarsi in un mondo altro, differente.
L’esergo, tratto dai versi di Silvia Bre, contribuisce anch’esso a determinare l’atmosfera, l’approccio, il punto di vista: “Come quando in una qualche stagione / spicca l’istante che la farà nostra”. Il libro della Ciampalini parla della ricerca di quell’attimo, di quella stagione, di quel tempo che si distingue perché rivela ciò che veramente siamo, l’essenza. A tutto ciò si collega anche l’inizio del libro, la lirica iniziale: “I nostri corpi complementari / il tuo chiarore / la mia esile oscurità. / Tua è la pietra dell’inverno / il seme dormiente nel giaciglio scuro / le mani che sanno dove premere. / A me resta l’albero lontano / il bianco che si accumula piano / il fiore pallido / esitante tra le dita”.
La cito nella sua totalità perché contiene in sé molte parole chiave, molti spunti utili ed illuminanti. Prima di tutto una diversità che però risulta essere “complementare”. Tutto ciò ci riporta ai contrasti fondamentali a cui si è fatto cenno all’inizio di questa disanima. Dicotomie che costituiscono il filo rosso dell’intera raccolta. Chiarore e oscurità, innanzitutto, che fa pensare anche a quegli occhi, a quelle palpebre aperte e chiuse evocate nel titolo. La poetessa si descrive di riflesso, per contrasto, appunto.
Nei confronti di un destinatario reale, un “tu” a cui si rivolge, un compagno di viaggio, o forse di vita. Ma quell’essere in carne e ossa potrebbe essere anche a sua volta un simbolo, una metafora: potrebbe essere la vita stessa, o forse la poesia, o forse il doppio che ciascuno di noi ospita dentro di sé, la controparte della propria luce e del proprio buio. La complementarietà che è necessaria per definire noi stessi in rapporto al mondo.
Non sono mai puramente descrittivi i riferimenti della Ciampalini. Il giaciglio scuro, l’albero lontano il fiore pallido, non sono richiami estetici o un contorno. Si tratta dell’essenza, del punto di confine che allo stessopunto separa ed unisce due modi di essere e di vedere. La silloge si muove tra gli estremi del tempo, inteso come sequenza cronologica ma anche come susseguirsi di calore e gelo, buio e oscurità. Ancora una voltaquesto contrasto è essenziale: il buio si distingue dalla luce e ognuno concede all’altro senso e significato. Ci sono varie poesie in questo libro dedicate all’inverno, alla stagione che attende inesorabile. Sappiamo che arriverà, ma non è un caso che la poetessa sottolinei più volte l’impossibilità di farsi trovare pronti, preparati.
L’inverno non è solo la controparte dell’estate. È una condizione più ampia, una stagione interiore. Interessante, è giusto confermarlo, è l’intreccio che si crea nelle liriche di questa raccolta tra il clima meteorologico e lo scorrere del tempo umano. Tra i colori del cielo e gli stati d’animo.
“La fragilità sta nel verso che non dura / scriverlo su carta / voltarsi per leggerlo di nuovo / e il segno muore. / Il verso frontale volitivo e pieno / la parola stretta sotto la palpebra che duole / e poi il vuoto”.
Questi versi riassumono bene l’intento, l’approccio a cui si è fatto riferimento: la caducità di ogni cosa umana, ribadita, confermata. Ma, accanto ad essa, la volontà e la necessità di scrivere su carta quella fragilità che è punto di partenza e di arrivo allo stesso tempo. Così come la stessa palpebra che muore ma conferma di essere stata viva con l’atto stesso di provare dolore.
Per trovare nelle liriche della Ciampalini un chiarore di speranza, bisogna attendere una lunga, adeguata riflessione sul contrasto fondamentale. “La luce sulla soglia / è promessa di futuro / un sogno bisbigliato all’orecchio. / Un’alba che vince / la sua stessa agonia”.
La luce non è certezza, è promessa. Non è una realtà conseguita e assoluta. È un sogno. Ma è un sogno essenziale alla vita stessa. Proprio perché nasce dalla certezza reale del dolore ma sa andare oltre. Nonostante tutto. A dispetto di tutto.
Una silloge matura, consapevole, questa di Annalisa Ciampalini. Percorsa con attenzione al dettaglio, alla sfumatura. Mai distratta da frasi roboanti ma vuote. L’autrice si muove all’interno di simboli costanti e fondamentali esplorando un’ampia gamma di richiami e di rimandi. Il dolore è alimento di tutti i versi, e la conquista di una stagione di luce, anzi di un istante di luce, passa attraverso una lunga serie di immagini di fragilità e di oscurità, il processo necessario per acquisire una visione nitida, accurata: “Le parole – poche, solo d’annuncio / si dispongono a contorno della scena. / Luce condivisa, forma circolare di un’idea. / Perfetta, mai pronunciata aderenza”. Alla fine della silloge e della strada espressiva da essa percorsa, resta una ferita che non si cuce. Ma il libro della Ciampalini è una interessante e sincera testimonianza in versi della volontà della poesia di aprire le palpebre sul dolore individuale e sul buio del mondo, trattenendo, nel riflesso, la scommessa della luce.
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NOTA PERSONALE
 di Annalisa Ciampalini
 SULLA RACCOLTA
 
Nonostante volessi scrivere di ciò che mi stava attorno, sentivo forte il desiderio di riposo e di distanza dal tumulto della vita. Sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura. Durante la composizione della silloge è sorta la necessità di una condivisione con altre persone: di costruire, o anche solo individuare una meta comune, un punto di ritrovo, un sentimento che fossero significativi per me e per quanti percepivo vicini.
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Nota biobibliografica di Annalisa Ciampalini
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968 e lavora a Empoli, dove risiede. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica “Le distrazioni del viaggio” con Samuele editore, libro tradotto in spagnolo da Antonio Nazzaro. Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore. Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro Pierino Porcospino e l’analista selvaggio (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori.
Nell’aprile 2022 pubblica “Tutte le cose che chiudono gli occhi” (peQuod, collana portosepolto diretta da Luca Pizzolitto)
Dal 2017 frequenta la scuola “La poesia è di tutti” diretta da Massimiliano Bardotti.

“Crisalidi”, di Giuliana Donzello

“Il vero viaggio della scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. La frase è di Proust, ma ben si addice al senso e alla direzione del percorso letterario di Giuliana Donzello. Lei stessa la cita, appropriatamente, nel sincero e dettagliato resoconto che mi ha inviato per descrivere le tappe che l’hanno condotta a scrivere il libro di poesie Crisalidi.
Segnalo volentieri il libro di Giuliana, e consiglio a chi leggerà questo post di dare un’attenta occhiata anche alla nota in cui l’autrice parla del suo volume. Per le informazioni che contiene, utili ad una comprensione partecipata delle tematiche e delle simbologie, ma anche per il rispetto sincero nei confronti della poesia che l’ha condotta ad avvicinarsi gradualmente al mondo dei versi, senza fretta, senza approssimazioni ed improvvisazioni.
“La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il bruco in farfalla. Il ricorso metaforico alle crisalidi del titolo doveva indicare il mio stato iniziale di poetessa. Mi sono sentita bruco, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in farfalla”, scrive la Donzello.
In un mondo caratterizzato da frettolose prosopopee, è bello osservare la solenne e progressiva sacralità di questo passaggio compiuto con la cura e l’eleganza di un rito orientale.
Il risultato è un libro maturo e consapevole, ma, per fortuna dell’autrice e dei lettori, i versi sono pervasi anche dall’immediatezza di uno stupore sincero (torna con frequenza questo aggettivo chiave perché costante è l’impressione di genuinità non forzata e non di maniera che traspare dalle pagine).
Come sempre accade in questo spazio riservato alla segnalazioni di libri, mi limito volutamente ad accennare ad alcuni punti cardine.
È giusto ed è bello che sia il lettore a scoprire i momenti in cui la crisalide muta il suo aspetto in farfalla. E il modo in cui accade, nel mondo della scrittura, è sia forma che sostanza.
Il consiglio è quello di sempre: cercare il libro, magari anche contattando l’autrice o l’editore, e leggendolo confrontare le proprie impressioni con le coordinate fornite qui succintamente, ma anche in maniera più diffusa nella prefazione che pubblico integralmente in questo stesso post.
Da parte mia, confermando il mio consiglio di lettura, e, auspicando per tutti i “dedalonauti” un favorevole ritorno alle attività dopo la pausa vacanziera, aggiungo solo un altro breve ma luminoso dettaglio tratto anche in questo caso dalla nota dell’autrice:
“Dalla memoria affiora il ricordo che consente un viaggio dalle diverse connotazioni e fedeli al dualismo di Henri Bergson sono le liriche affidate a due diverse sezioni: “presenze e desideri”, affidate ad un linguaggio volutamente più lirico; “mancanze e assenze” dove il linguaggio si fa introspettivo della realtà”.
Nel momento in cui “de-sidera” e percepisce il senso del pieno e del vuoto il bruco è già farfalla.
IM
Crisalidi, G.Donzello
Crisalidi – Nota dell’autrice 
Il libro nasce da un atto di consapevolezza. Per molti anni ho fatto della prosa poetica il mio stile, perché consideravo la poesia così alta e destinata ad essere privilegio di pochi eletti, da considerare ancora immaturo e maldestro il mio approccio. Eppure in tutto ciò che scrivevo la poesia si rivelava. Determinante per me è stato il percepire imminente e necessario un mutamento.
La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il “bruco” in farfalla. Il ricorso metaforico alle “crisalidi” del titolo doveva indicare il mio stato “iniziale” di poetessa. Mi sono sentita “bruco”, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in “farfalla”.
Per scelta i testi sono brevi ed essenziali, risultato di un lavoro di limatura condotto soprattutto sul ritmo, le sonorità delle parole e le immagini a cui esse aprono attraverso l’uso delle metafore, lasciando al lettore libertà di lettura e di immedesimazione. Sullo sfondo della ricerca c’è sempre il rapporto tra la realtà dello spirito e la realtà della materia, come insegna Bergson.

Continua la lettura di “Crisalidi”, di Giuliana Donzello

“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

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Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.
Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM
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L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.
Non è soltanto il carattere narrativo ad impressionare, ma anche l’ironia che arriccia il verso, lo increspa ed è certamente anomala, se ravvisata in un cielo poetico. E così, punteremo il dito verso l’alto: “unidentified flying object!”, quando, sorridendo, leggeremo: “Si cammina, sul Lungarno, / soldati in libera uscita, studenti tra riso e terrore /in un fiume che appare anche lui fuori / corso”. Stile e forma qui stupiscono non poco: la parola poetica sgambetta, recalcitra: il verso sembra non compiere il suo senso, spezzandosi come pane tra le dita. Tuttavia, esso, tutto può ed è lo stesso autore ad affermarlo: “Lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso. / Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. ( dalla lirica Con sollievo in La creta indocile)
L’autore spinge verso la vita nella sua essenza più pura: “nel sacco entrambe / le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso, / e recidivo, di essere ancora vivi, / ancora umani. (Quale amnistia) e pone una sola condizione al nostro esistere: l’umanità. Nulla, neppure la sofferenza può privarci del diritto ad una vita piena ed autentica. “Almeno allora uno sconto di pena alla pena  / dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita, / il lusso di un carcere aperto alla speranza” (Quale amnistia).  Ed ancora: Non c’è bellezza nel dolore, […] La sola vera morte / è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro, / chi lo loda, da qualunque pulpito,  /con qualsivoglia intenzione. ( da Il tempo salvato in La tempesta e La tregua e Altre Poesie, La Recherche, 2010) Corrono lungo una strada a strapiombo sul mare, questi versi, tragici, nel dolore che manifestano, ma illuminati nella loro parte più intima.
Ci chiediamo se la Poesia abbia un senso, se possa essere al cospetto della sofferenza. Come può la Poesia giocare alla pari col dolore? Dovrebbero depositare la penna, raccogliere tutti i fogli, i poeti? Con Auden diremmo: “The stars are not wanted now: put out every one; /Pack up the moon and dismantle the sun; /Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good.” (Funeral Blues, 1938)
Ha polsi abbastanza forti per sollevarci, la Poesia? Ha spalle abbastanza ampie da sorreggere la sofferenza, come Anchise sulle spalle di Enea? Ne ha il diritto? In “Una danza di cose”, tratta da “La creta indocile”, una figura femminile si staglia altissima nel cielo poetico. Il corpo di Carmela è avvinto dal boia ma ella ride: “Ma Carmela Ride. / Piega occhi e bocca / come un fabbro rende docile l’acciaio, / e il lucernaio diventa guardabile, / percepibile senza vomitare […] porge fogli densi / di parole strappate al boia, ad ogni /giorno di gelo penetrato nelle fessure / e nel ferro delle chiavi. (Una danza di cose) I fogli densi di parole diventano l’appiglio, lo sperone di roccia a cui aggrapparsi, perché la parola non può restare in silenzio, essa le appartiene, è il suo sorriso, la speranza.
E la speranza è il dono in “La speranza di settembre”, lirica opaca, sospesa sul filo del tempo,  “fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male, ancora / soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori “.  il poeta è alla ricerca di “una voce, una chiave / nelle ossa spezzate dei cani” (La speranza di settembre)”, come colui che si chiede quali siano le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da macerie di pietra: “what are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (T. S. Eliot, The Waste Land, 1922)” e, infine, trova soltanto un mucchio di immagini spezzate, “a heap of broken images”. Settembre, tuttavia, accende una luce, perché ogni fine racchiude in sé un nuovo inizio: “In my beginning is my end. In my end is my beginning” (T. S. Eliot, Four Quartets, 1943)
Riempiamo il vuoto che ci annienta, dunque, attraversiamo il dolore: “Sweat is dry and feet are in the sand”, non scorre, lieve, l’Arno, qui: “If there were water / And no rock / If there were rock/ And also water”. Facciamo ritorno alla vita, a Pisa, “sulla strada circolare che costeggia / il fiume, ciò che conta è ritrovare il respiro” E poi, “verso lo sbocco, le labbra rosa della Marina, laggiù, verso / Sud. (L’aria del Lungarno). Perché non c’è una risposta univoca, ognuno cerca il proprio senso, il risvolto chiaro, il suo passo, forse incerto. “Forse solo il gabbiano forestiero possiede / la risposta. Sorvola le pietre /della piazza e si nutre di istanti. Sorride, /con garbo, vira e si getta ad occhi chiusi / nella corrente d’aria che solo lui percepisce.” ( da “La certezza del mare” in La creta indocile)
Giulia Sonnante
Limbo minore
 “Limbo minore”: la coscienza d’un servo nel vivere quotidiano
 Profumo di letteratura promana dalle pagine di “Limbo minore” (Manni Ed. Lecce, 2000), romanzo di Ivano Mugnaini, come dal bocciolo d’una rosa selvatica.
Numerose sono le citazioni letterarie che si rincorrono libere come ragazzi dalla frangia lunga e ginocchia al vento: da Leopardi a Mallarmé, passando per Allen Ginsberg fino a Conrad. Ma qui, il narratore non è il marinaio Marlow, come in “Cuore di tenebra”, ma un personaggio altrettanto minore, un servo, tuttofare, una figura priva di ruolo definito, d’una vera identità. Così, egli si confessa: Io sono il servo. Io non ho un nome.
Riflettendo ancora sulla propria condizione di subalterno, dichiara: “Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace però.” Si commisera, forse, sembra giocare il ruolo della vittima tra le righe di una struggente malinconia, tuttavia, non tenta di mutare la propria condizione, la accetta, rivelandone i benefici.
Interessante è anche il passaggio in cui confessa d’essere stato sempre attratto dalla Barbie di turno, dalla “bambolina biondina di plastica ed aria compressa” a discapito della bruttina, ignorata da tutti al pari “d’una scatola anonima, un pacco postale privo di interesse posato in un angolo e lasciato lì, settimana dopo settimana.” Ed in seguito, quando, “per distrazione o per noia, per compensare la momentanea assenza della pupazza patinata, o magari per pura vanità e buffoneria, sono entrato nel suo raggio d’azione con apparente interesse, lei, appena superato lo sbalordimento, si è sempre dimostrata pronta ad aprirsi, disposta a tentare, nonostante tutto, dimenticando ere geologiche di rocciosa indifferenza. Il gioco si è concluso, puntualmente, al primo riapparire sulla scena della bella e impossibile corteggiata da mezzo mondo.” E qui, noi, lettrici, non possiamo che allontanarci per un attimo dal narratore per raggiungere la bruttina poiché siamo tutte dalla sua parte! Tuttavia, il servo riconosce subito d’aver sbagliato, cosicché, torniamo, con piacere, al suo fianco.
Non si tratta di un racconto ricco d’avventure, fitti intrecci o colpi di scena, ma d’un romanzo del quotidiano; il servo getta lo sguardo sulla realtà che lo circonda, disegnandola ora con sfrenata ironia, ora con intensa malinconia, quella “saudade”, capace di unire, in un fragile equilibrio, il dolore al desiderio, il cielo alla terra, la materia allo spirito.
Come nodi d’un cingolo francescano, si susseguono scene di vita quotidiana: la messa dominicale, una giornata al mare, il viaggetto a Roma in cui una saggia guida mescola fiato ad accenti romaneschi di belliana memoria, la festa di paese o il racconto di Ottavio, il fattore, che sopravvive al campo di concentramento, strappando misere radici alla fame.
Le parole si predispongono all’ascolto spingendosi come ignari soffioni nell’aria chiara dell’Estate.” Un silenzio che sfiata dalla calce, avanza a bocca spalancata e ingurgita sé stesso (…) Non è la pioggia ma ha un battito vivo e leggero. È il tocco ripetuto di una mano sul legno della porta di camera mia.” Risuonano, qui, echi poetici che troveranno vibrante pienezza nella poesia: “Grado zero”, in “La creta indocile”, dello stesso autore, (Oèdipus, Salerno, 2018) “Ma più colpevole e più tenace è / l’udito, fisso sul legno della porta, / inchiodato, crocifisso, appeso /ad un battito, un tocco ansioso, / incerto, furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino; / forse il calore, sincero di una mano.”
 Particolarmente toccanti, le pagine dedicate alla malattia del conte, accompagnato sino alla fine dal suo fedele servo; qui, mentre la morte ha già disteso una densa ombra sul corpo del malato, giunge una donna, l’unica che il conte abbia mai amato. Al suo capezzale si uniscono, in un disperato abbraccio, amore e morte a rappresentare uno straordinario topos letterario, perché l’amore è l’unico che valga ricordare, l’unico che risarcisca della morte. “Smette di parlare il conte, e abbandona le spalle alla soffice morsa del lenzuolo. Appare provato, ma gli occhi sono spalancati e lucenti. Fissi su di me. Cerca di captare in ogni gesto, in ogni minima contrazione muscolare, una reazione ed un verdetto.”
 Un romanzo che è una lunga confessione, sincero scandaglio dei sentimenti più celati, un racconto che sa di intimità e famiglia. E, di certo, qualcosa rimanda a Zeno per lo svelamento autentico della coscienza e per l’incedere brioso della scrittura.
Sereno, il narratore si congeda così: “All’esterno il panorama non è mutato. Il calderone della piazza è ancora pieno di aria bollente che trema, inorridita da impenetrabili trasparenze. Cammino a testa bassa nascondendo alle strie bianche del cielo un illogico sorriso. È giusto accontentarsi di uno sguardo condiviso, forse, per un breve istante? È logico sentirsi quasi felice per una parola affidata ad una carezza al pelo di un cane? È normale sentirsi bene con il dolore di un attimo che è già ricordo, e rimpianto, ombra trapassata ancora prima di prendere vita? ”In fondo, è la stessa luce che rischiara le pagine finali di Svevo:posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.”.
 Giulia Sonnante

Figlie uniche

Una mia recensione al libro Figlie uniche,  di Claudia Marin.
Buona lettura, IM

Figlie uniche, copertina

Claudia Marin, Figlie uniche, Iride, 2021

Figlie uniche è fluido, scorrevole, divertente, ironico, in grado di sdrammatizzare in tutti i modi possibili le ferite della vita, the slings and arrows of outrageous fortune. Si legge con un sorriso, desiderosi di scoprire come procede, paragrafo dopo paragrafo, con rapida voracità. Ma, attenzione, qualcosa resta. Non scorre via anodino e indolore. Perché quell’acqua chiara, fresca, a tratti dolce e a tratti amara, si fa specchio di esistenze possibili, forse reali, forse del tutto inventate, ma di sicuro verosimili, umanissime. Parla simultaneamente di un universo circoscritto e dello spazio e del tempo che ciascuno vive dentro di sé, tra analogie e contrasti, nello scorrere ininterrotto che cambia e ci trasforma.
Costanza, la protagonista, avrebbe tutto per essere contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il rapporto complesso e conflittuale con la madre la condiziona, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.
L’accadimento che genera il mutamento mettendo in moto una progressiva “agnizione”, è la nascita della figlia di Costanza. La protagonista si rende conto, razionalmente e per istinto, che in seguito a quell’evento niente sarà più come prima. Dovrà abbandonare la rassicurante condizione di trentenne ancora protetta e viziata da moine adolescenziali e dovrà finalmente guardare negli occhi le sue debolezze, le malattie reali e quelle immaginarie, ma anche i punti di forza, le energie nascoste proprio nei luoghi che teme di attraversare, nelle verità che ha paura di cercare e di scoprire.
Lo specchio, è opportuno ribadirlo, è uno dei simboli più rilevanti della vicenda narrata. Una metafora lineare e stratificata, a livelli multipli, non di rado contrapposti. Sofia, la figlia di Costanza, è l’immagine della madre ma è al tempo stesso una proiezione anche di Celeste, sua nonna. È una sorta di ponte tibetano, danzante, inebriato e inebriante, complicato da attraversare, percorso da scosse e venti giovanili, da energie e cupezze, da intelligenza e ingenuità. Grazie a questo ponte, Costanza e Celeste troveranno modo di avvicinarsi, esitanti, ognuna con il suo passo, ognuna con i suoi testardissimi orgogli, con una sfida che volta dopo volta si rinnova.
Questo romanzo racchiude un microcosmo femminile. Un universo assolutamente intimo, fatto di gesti e di pensieri, di confessioni aspre e desideri di dolcezza. Il vetro riflettente, liscio e aspro, è il romanzo stesso. Una superficie in cui tre volti si sovrappongono ma in cui ogni lettrice (ma in fondo anche ogni lettore) può riconoscersi trovando qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, della difficoltà a ritagliarsi uno spazio autonomo nel mondo, in quello familiare e in quello esterno.
La malattia irrompe nella trama mettendo ulteriormente a nudo caratteri e rapporti personali. Costanza si ammala di melanoma. Allo stesso tempo deve pensare a proteggere sua figlia dai suoi dolori personali e da quelli che la malattia comporta. Celeste, in quei frangenti, senza rinnegare se stessa, rivela la parte più umana della sua personalità. Quella che era emersa dai racconti della sua infanzia trascorsa in un orfanotrofio, prima della fama che l’avrebbe portata di colpo in Francia, in compagnia di un amore che costituisce anche il nodo da sciogliere del romanzo, il mistero concernente l’identità del padre di Costanza. Sì, perché questo libro sembra nascere “in presa diretta” da dialoghi immediati e realistici, ma possiede anche una struttura interna ben curata ed elaborata in grado di condurre a progressive rivelazioni o anche, per scelta e necessità, a soluzioni aperte, ad altri sviluppi ancora da vivere e da immaginare.
Il romanzo, come detto, spazia tra presente e passato con un costante gioco di rimandi. A sua volta ricalca le rifrazioni da cui trae origine: i volti delle tre donne, le loro tre generazioni e personalità ben distinte, si scontrano, si respingono, si accostano in un bacio finalmente tenero, senza orgogli, per poi respingersi e cercarsi di nuovo. I tre personaggi principali, in eterno conflitto, a ben pensare e a ben sentire, non hanno misura, non hanno senso e non hanno amore, se non una nell’altra e per l’altra.
Ne deriva un duplice processo: in primo luogo la personalità della protagonista, Costanza, compressa tra orgogli e paure, tra la voglia di gettarsi nella vita come in una piscina, finalmente libera e coraggiosa, e, sul fronte opposto, il timore dell’ignoto, dell’imponderabile. Altra sfaccettatura, strettamente correlata alla prima, è la complessa coesistenza delle tre protagoniste, tre esseri fieramente autonomi, e, come suggerisce il titolo, unici.
Il finale del romanzo, ineluttabilmente aperto, offrirà un punto di vista per cogliere allo stesso tempo le singole parti e la figura d’insieme. Lasciando spazio ad ulteriori prospettive, ad altre ottiche, tra cui, determinante, quella del lettore, chiamato non solo a scegliere un proprio personale punto di osservazione ma anche ad entrare in prima persona all’interno della cornice, portando con sé le proprie paure e i propri desideri: le proprie, irrinunciabili, unicità.
  Ivano Mugnaini

 

claudia-marin-libro-figlie-uniche-recensione

Claudia Marin

Napoletana con ascendenze venete, vive a Roma. Giornalista per il Quotidiano Nazionale, da sempre è ostaggio della follia della scrittura creativa. Fin dai banchi delle elementari, quando si inventava gli «amici immaginari», ha scritto, riscritto, sovrascritto e cancellato storie e racconti. Stavolta ha deciso di venire allo scoperto: ed ecco Figlie uniche.

 

Raccontare la poesia

Raccontare la poesia - cover
 
Luigi Fontanella, Raccontare la poesia (1970-2020). Saggi, ricordi, testimonianze critiche,
Moretti & Vitali, 2021, 760 pp., € 36,10
 
Molto è già stato detto del libro di Luigi Fontanella Raccontare la poesia. Già detto e detto bene, con passione, acutezza e brillantezza. Sono arrivato in ritardo. Quindi, brechtianamente, tocca sedersi di lato. Non dalla parte del torto, nel caso specifico, ma da prospettive asimmetriche, sperando di poter mettere in luce qualche aspetto non ancora esplorato. Cercando di compensare lo svantaggio cronologico con la possibilità di basarmi su materiali interessanti, in particolare sull’intervista rilasciata dallo stesso Fontanella a Francesco Capaldo per il quotidiano “Pickline”. Utili mi saranno anche alcuni dialoghi che ho avuto di persona con l’autore nel suo studio fiorentino di Via Guelfa, zeppo di libri, di ottimo tè e di sassi di svariate forme e colori, souvenir del suo amato mare greco.
Comincerei dal titolo. In apparenza è lineare, descrittivo. In realtà mi sembra racchiudere un accostamento di mondi, un allineamento tra pianeti, quasi un ossimoro, di forma, di linguaggio, di struttura. Questo libro in fondo è un romanzo in forma di saggio sulla poesia. Di un romanzo ha la diacronicità, il coinvolgimento costante dell’autore e il suo interagire con gli altri personaggi, affini o più distanti, alleati o antagonisti in un conflitto incruento ma costante che ha come scopo primo e come meta finale l’agnizione più significativa, quella che riguarda il volto autentico dell’eroina femminile, la poesia. Il tutto giocato su un piano reso ulteriormente complesso e multiforme dalla coesistenza del piano letterario con quello esistenziale, in senso stretto e in senso lato. Ossia, in poche parole, mi sembra che questo libro non parli della poesia tout court ma della poesia nella vita, o, meglio, della poesia della vita. Quest’ultima definizione non vuole essere un abbellimento estetizzante ma piuttosto un tentativo di definire la necessità, sia della materia trattata sia del progetto che ha condotto alla compilazione e alla pubblicazione del volume.

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Una danza di cose . Una lettura de “La creta indocile”

La creta indocile - cover
Pubblico volentieri il commento di Giulia Sonnante, autrice e traduttrice,  al mio libro La creta indocile, perché si tratta di una lettura che abbina immediatezza e indagine attenta, acuta, appassionata. Pone fianco a fianco l’empatia e la capacità di cogliere il dettaglio che racchiude il tutto, l’impalpabile e la concretezza, la danza e le cose.
Grazie a Giulia, e, per chi vorrà, buona lettura,  IM

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La creta indocile, Oèdipus, Salerno, 2018

È già nel titolo il primo contrasto, il sussulto, la prima sorpresa, e gli occhi s’allargano per un istante.
È perché la creta di Ivano Mugnaini è molto poco cedevole, poco arrendevole, come la vita!
Sono versi che vivono, respirano e spingono verso l’esistere nella sua essenza più pura e autentica. Allora indica la direzione, l’autore, la via da percorrere, dal buio verso la luce, e nell’oscurità delle nostre stanze lascia filtrare sempre un barbaglio, un chiarore.
Scopre le nostre fragilità e le accarezza, le abbraccia strettamente. Per questo, il più colpevole dei nostri sensi è l’udito, fisso sul legno della porta “inchiodato, crocifisso, appeso / ad un battito, un tocco ansioso / incerto furtivo: forse il tonfo, / l’incedere cieco del destino / forse il calore, sincero, di una mano” (Il grado zero). Sono queste, davvero, le nostre braccia protese in avanti a sfiorare, quasi disperatamente, altre braccia, altre mani, altri cuori.
Non ci troviamo di fronte soltanto figure umane nelle loro struggenti fragilità ma anche il mondo animale è qui efficacemente rappresentato perché amato.

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Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

Spesso accade che le persone che sanno ridere (e nel caso specifico anche far ridere) siano anche molto serie, con molte cose da dire, capaci di ascoltare e di fornire coordinate  interessanti per esplorare la geografia, la storia e alcuni angoli della metropoli, del mondo e del tempo che in genere sfuggono agli sguardi frettolosi, da turisti.
Oreglio canta, nel duetto con Roberto Vecchioni e in questo suo Milano OltrePop, “con i piedi nel passato e lo sguardo dritto e attento nel futuro”.
Per riassumere tutti e temi gli spunti trattati nell’intervista ci vorrebbe veramente troppo tempo. Meglio, per chi vorrà, leggerla direttamente.
Buona lettura e buon ascolto
IM

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Milano OltrePop

Intervista a Flavio Oreglio

1 ) “Con i piedi nel passato/ e lo sguardo dritto e attento nel futuro”. Comincerei col proporti più che una domanda un tema a piacere (come si faceva a scuola qualche annetto fa). Ossia qualche tua considerazione a ruota libera per mettere in relazione il disco con i versi di Pierangelo Bertoli che ho citato, con piacere, in apertura.

La citazione di Bertoli che ho inserito nell’introduzione al disco non è casuale. Troppo spesso, infatti, la riproposta di brani del passato (chiamata “tributo” oppure “omaggio”) è vista come operazione-nostalgia, come un “Do you remember?” o un “Bei tempi quelli”… ecco… niente di tutto questo mi appartiene. Io guardo avanti con la consapevolezza del punto di partenza, in questo senso i piedi sono nel passato ma lo sguardo è dritto e attento nel futuro. E a proposito delle cosiddette “radici” permettimi di aggiungere una cosa: la loro riscoperta non deve essere coltivata per ostentare una sorta di “appartenenza” ad excludendum, modello il Marchese del Grillo “Noi siamo noi e voi non siete un cazzo” e non deve servire per erigere o giustificare muri di separazione con chi quelle radici non condivide. Le radici sono memoria e ricchezza culturale, vanno sicuramente tramandate ma anche analizzate criticamente. Molti loro aspetti che oggi ci appaiono come “politicamente scorretti” si possono giustificare con l’esistenza di una mentalità, ma non devono servire oggi per giustificare una mentalità con la loro esistenza. Continua la lettura di Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

Verso un altrove – recensione con intervista

Verso un Altrove

Cristina Lastri Verso un Altrove, Le Mezzalane, 2019

Recensione di Ivano Mugnaini
 
“In sana sommossa / verso l’isola che forse c’è”, scrive Cristina Lastri in una delle liriche di questo suo recente libro. I versi ci indicano una strada fatta di rettilinei e di curve oltre cui bisogna trovare il coraggio di andare. La sommossa, innanzitutto, è un momento di svolta, un deliberato scarto; ma il vocabolo si integra con quell’aggettivo “sana” fino a costituire un binomio inscindibile, un tutt’uno. La natura dell’aggettivo non modifica la forza e la schiettezza della rivolta. Anzi, semmai la rafforza. Una vera sommossa nasce da radici salde, dall’esperienza delle cose viste e percepite, perfino dagli errori, dagli sbagli di valutazione. Solo con quel bagaglio di esperienze si può intraprendere il viaggio verso la meta auspicata, quell’isola che, ribaltando un noto riferimento letterario, in questo caso c’è, esiste. Il libro è la sintesi dettagliata di un viaggio, un tragitto che, come ci indica il titolo, ci porta lontano.
Come ha sottolineato Cristina Lastri nell’intervista per la rubrica A TU PER TU, il timone idealmente è rivolto verso “un altrove”, non verso l’Altrove indistinto e assoluto.  Il cammino personale dell’autrice si estrinseca in varie “tappe” all’interno di questo libro.  Si può rilevare una prima forma di “evoluzione”, un mutamento di prospettiva, sia cronologico che “visivo”, per così dire, un differente punto di vista: “La sete di conoscenza mi ha permesso di emergere da una sorta di eremitaggio introspettivo e di rivolgere lo sguardo oltre, verso un fuori da sé”.  
        Il materiale di base con cui costruire l’imbarcazione per raggiungere l’auspicata isola è la conoscenza, ottenuta tramite la passione per i libri e per tutto ciò che arricchisce il bagaglio personale, non di nozioni ma di empatia, per il mondo, per il bene e il male, per i chiaroscuri la cui accettazione può condurre al prezioso senso dell’armonia con il cosmo. L’abbandono dell’eremitaggio permette di estendere il campo visivo e di favorire l’uscita da sé, ossia l’acquisizione di una dimensione interiore altra, situata in un altrove che più che un punto fermo è un processo graduale e costante di “simpatizzazione” con il mondo.
 La cura può avere luogo nel momento in cui la mente e il corpo dialogano sulle stesse frequenze e sulla stessa lunghezza d’onda. Non è un caso che a volte il solo modo di accelerare il passo, sul piano poetico e non solo, sia quello di rallentarlo, e non è un caso che questo libro faccia riferimento esplicito e costante alla pratica dello zen, alle strade che conducono a percorsi zen utili al perdersi e al ritrovarsi.

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Tempo innocente di Rosa Salvia – recensione e intervista

L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza.
Una mia recensione al libro. Buona lettura, IM
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Rosa Salvia, Tempo innocente

Lietocolle, Collana Erato, 2019.

 

recensione di Ivano Mugnaini

 
L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza. L’autrice è troppo scrupolosa e conscia per aver semplicemente voluto divertirsi a stupire con un titolo ad effetto. Il libro è un invito alla ricerca, al pensiero critico, ad una visione attenta, divergente, laddove è necessario. È una lunga e appassionata “caccia al tesoro” per giungere a scoprire un frammento di verità, sia essa pietra salda o fiato impalpabile di un’ipotesi condivisa. Più esattamente, è una specie di gioco dei mimi in cui si tratta di indovinare chi è il personaggio, cosa fa, quale azioni compie, e, soprattutto, cosa siamo noi in rapporto a lui. Forse, in ultima istanza, si tratta di scoprire se quel personaggio che cerchiamo di indovinare, quello che viene definito innocente ma ci atterrisce, quello che ci terrorizza ma in realtà non ha colpa, in fondo, siamo noi. L’immagine di noi, l’essenza di noi.
“Oggi il sole è uno splendore!” Il primissimo verso della raccolta è questo. Sembra una pura descrizione, un’esclamazione di gioia estatica, lineare, incondizionata. Invece, per fortuna dell’autrice e del lettore, in questo libro di semplice c’è poco o niente e di puro c’è solo il desiderio di scoprire ambivalenze, coesistenze di realtà e sensazioni, in poche parole “impurità”. Solo ciò che è spurio, in grado di leggere allo stesso tempo le righe e lo spazio misterioso che le separa e le unisce, ci avvicina di qualche passo, senza annichilirci, allo splendore di quel sole da cui siamo partiti. Non è un caso che un passo oltre, nei versi successivi della lirica d’esordio, faccia la sua comparsa un “immenso occhio curioso” che gioca “fra i ghirigori della tenda”.

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