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A TU PER TU – Milica Lilic

La quarta intervista di A TU PER TU mette in pratica l’intento di estendere anche oltreconfine la rete delle voci e dei dialoghi.
La destinataria delle domande è Milica Lilic, poetessa e scrittrice serba che nel corso della sua vita e della sua carriera letteraria ha intessuto rapporti di collaborazione e amicizia con persone e con artisti di diverse nazioni e latitudini. Un dialogo privilegiato è quello con l’Italia. Ne forniscono la prova sia le testimonianze di stima che anche da noi ha ricevuto da parte di critici, letterati e lettori, e lo confermano anche le interessanti risposte a questa intervista che Milica ha fornito direttamente in italiano.
Come ho già detto in altre occasioni (sta diventando un “mantra”, mi rendo conto, ma è ciò che penso), molto meglio di queste mie note introduttive potrà essere utile a chi vuole approfondire la conoscenza con Milica Lilic la lettura delle sue risposte e dei suoi scritti, sia lirici che narrativi.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.

Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.

Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.

Saranno volta per volta le stesse domande.

Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

 

il fuoco e il verbo

 

5 domande

a

Milica Lilic

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

 

Grazie per l’invito a presentarmi ai tuoi lettori. Il mio nome è Milica Jeftimijevic Lilic. Sono una scrittrice serba. Sono madre di due figlie e una persona che ama tutte le persone del mondo. Credo che la vita possa essere bella e significativa se facciamo il lavoro che amiamo. La letteratura è stata il mio amore fin dall’infanzia.

Ho letto molto e ho assorbito contenuti artistici prima ancora di rendermi conto di avere un dono per la creazione artistica. La mia vita è stata completamente orientata e ispirata da quell’inclinazione. Ho studiato letteratura e per un po’ ho lavorato come professore all’Università di Pristina, poi sono passata alla Televisione di Pristina con il ruolo di editore e critico televisivo. Ho un master in filologia. Tuttavia, al di là di questi impegni lavorativi, la scrittura, soprattutto di poesie, era, come lo è tuttora, il mio richiamo più forte, il bisogno dominante. Da questa possente attrazione sono nati i miei libri. Mi sono dedicata anche alla critica letteraria e alla narrazione. Ho trascorso tanto tempo in campagna e all’estero quando il mio lavoro me lo consentiva. Dopo aver terminato il mio tirocinio ho avuto più tempo a disposizione e ho potuto viaggiare più spesso. I frutti migliori di questa possibilità di viaggiare sono stati i numerosi contatti con persone di tutto il mondo e lo sviluppo della mia carriera internazionale con premi e riconoscimenti, nonché traduzioni delle mie poesie. Ho pubblicato 26 libri di poesia, prosa e critica.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

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Nuvolario. Nuvole, parole, follie

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Il racconto è strano: parla di nuvole, pioggia, parole, follie…

Ma a volte le nuvole, la pioggia e una tenace, umanissima follia spazzano via follie peggiori.

A TU PER TU con Chiara Rossi

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

Inauguro oggi la rubrica A TU PER TU – Una rete di voci.
L’obiettivo della rubrica è riportato qui sotto.
L’intento è quello di porre cinque domande fisse ad artisti e letterati provenienti da ambiti, nazionalità ed esperienze diverse ma accumunati dalla capacità di dialogo, dalla tendenza a “fare rete” creando connessioni e interazioni, quanto mai preziose nel tempo che stiamo vivendo.
Inauguro la rubrica con Chiara Rossi, di cui riporto in calce all’intervista anche un racconto e alcune note biografiche che ho ricavato dalla sua pagina di LinkedIn.
Chiara è giornalista, lavora nell’ambito dei progetti editoriali e di comunicazione, e scrive, tra l’altro, ottimi lavori teatrali. La lettura dell’intervista, del racconto e della nota biografica, forniranno un quadro più completo delle sue attività professionali e creative che, chi vorrà, potrà approfondire tramite i link riportati nell’intervista.
Presto pubblicherò le risposte di altri autori ed autrici.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.

Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.

Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.

Saranno volta per volta le stesse domande.

Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

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5 DOMANDE A

Chiara Rossi

1) Il mio benvenuto, innanzitutto. Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie per l’ospitalità squisita e pregiata, prima di tutto. Sono molto onorata di stare in compagnia di tanti Autori importanti e stimolanti.

Di me. ‘Longobarda’ di nascita, ligure di adozione: vivo a Santa Margherita Ligure, elegante borgo lambito dai lampi blu e dalle lingue verdi del mare, che ho il privilegio di ammirare dalle finestre di casa.

Sono giornalista pubblicista dal 1992, laureata in Esperto nei processi formativi e in Scienze dell’Educazione degli Adulti e della Formazione continua. Le mie esperienze professionali sono legate a progetti editoriali e di comunicazione, oltre che di consulenza e coaching nell’ambito della redazione di tesi di laurea in Scienze umane e psico-sociali e di writing coaching. Curriculum professionale e artistico completo su LinkedIn, www.imaginabunda.it

Appassionata di scrittura (in tutte le sue declinazioni, ghostwriting compreso) & musica, viaggi & fotografia (adoro incrociare gli sguardi di persone che vivono in paesi lontani), sociologia delle religioni & cultura del mondo islamico, nonché di molte altre cose… credo fermamente nel LifeLong Learning e nell’utilità dell’Inutile, ossia dei saperi (meglio se contaminati e connessi) che, pur non producendo guadagno, migliorano l’Uomo. Nella mia ottica, sono più importanti le domande che le risposte e imparare che sapere; lo stupor è la molla di ogni conoscenza. È questo, che spesso mi fa trovare ciò che non sto cercando, facendomi sentire viva.

Soprattutto scrivo. Ritengo che scrivere storie – che a mio parere affondano sempre le loro radici nella Mitologia, in quanto rivelatrice di senso – sia un complesso progetto di ingegneria & architettura narrativa, in cui l’accuratezza intellettuale debba fondersi in curiosità, entusiasmo e competenze necessariamente trasversali: per concepire narrazioni occorre essere immaginatori di professione.

Della mia scrittura. L’aura sacrale della Scrittura discende dalla consolidata convinzione che sia dono degli dèi. Non a caso il profilo di Thot, nume tutelare degli scribi dell’Antico Egitto, in quanto divulgatore della Scrittura (inventata però dalla sua controparte femminile: Seshat, la ‘Signora della Casa dei Libri’), caratterizza il mio logo.

Da sempre mi affascina la potenzialità di un foglio vergine, che m’invita, seduttivo come la duna intatta di un deserto, pronta ad accogliere le mie orme: la pagina bianca è una possibilità.

Fin da giovane, mi appartiene un atteggiamento riflessivo, sostenuto dall’idea che i pensieri che penso mi possiedono, e così mi sono sempre data la forza di sottrarmi alle versioni già dette del mondo, ai territori rassicuranti dei paradigmi predefiniti, azzardando la ricerca di altre partiture della mia essenza pensosa. Da questo, il vezzo di annotare frasi e citazioni su taccuini, che custodisco con affetto: quelle scritte, tracciate con inchiostri colorati, sono ‘segni’ del mio modo di attraversare l’orizzonte del mondo.

Ho una certezza: le parole si toccano, si scelgono. Le parole si guardano. Si ascoltano. Prima di leggere quelle scritte, infatti, le osservo: le assaporo visivamente, tentando di intuirne il significato; deformazione professionale – l’editing e le impaginazioni editoriali – ma anche conseguenza dell’attrazione che esercitano su di me Arte, Estetica e Calligrafia. La Scrittura ha molto a che fare con le immagini, nel suo organizzare le parole nella complessità spaziale della pagina, in fondo, proprio come fa la Vita, che si costruisce sulle intersezioni della memoria, della visione e dell’attesa: uva acerba, uva matura, uva passa. Tutto è trasformazione, non verso il non essere, ma verso ciò che non è ancora. Marco Aurelio ne era convinto.

Iscritta al Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC), Roma; alla Societá Italiana Autori Drammatici (SIAD), Roma; alla Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), Roma, alla Federazione Italiana dei Cineclub (FEDIC) e alla SIAE, sezione DOR (opere drammatiche e radiotelevisive). Faccio anche parte della comunità di autori di www.dramma.it (N.d.R. curriculum artistico completo), www.autoriexpo.it e di SCRIBIOMEMO (gli Scribi di Memoria) e sono membro del comitato scientifico di CROMOSOMA T(eatro) – Teatro & Drammaturgia tra evoluzione e tradizione, collana di teatro e spettacolo edita da Pro(getto)scena edition, Milano, di cui sono anche vice-presidente. http://www.progettoscena.it/progettoscenaedition/

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni? Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale. Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica). Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

Tra i miei lavori più recenti, scelgo di parlare di UNA LUNGA NUOTATA, testo teatrale in corso di pubblicazione, avendo vinto la terza edizione (2019) del Premio letterario nazionale Macabor, e già finalista alla quarta edizione (2018) del Premio CENDIC Segesta alla drammaturgia italiana contemporanea, Roma.

Un anno prima della sua morte nel 1986, l’Ente israeliano per la Memoria della Shoah insignì del riconoscimento di Giusto tra le nazioni Chiune Sugihara, unico giapponese ad avere il suo nome inciso nel Giardino dei Giusti del museo Yad Vashem di Gerusalemme, per aver rilasciato (nel 1940, disobbedendo agli ordini di Tōkyō) visti di transito per migliaia di Ebrei Lituani in fuga dalla Polonia e da altri paesi dell’Europa orientale durante l’occupazione nazista.
Da questo spunto, che crea lo sfondo, nasce la pièce teatrale, in cui, a partire dalla figura di Lucio, mai presente in scena, si intrecciano le storie di Dalya, Lucilla e Metella, tre donne inconsapevolmente legate da un destino comune, che inciderà per sempre sui loro reciproci rapporti. Dalla lunga nuotata – quale è stata la vita della protagonista – si evince che, al di là di allusioni, illusioni e delusioni, esiste una quinta stagione: quella che appartiene alla scelta di viverla, come ognuno di noi la crea. Nella vita di Dalya, felicità, sofferenza e amore sono accaduti per grazia, avendo potuto scegliere le diramazioni in cui incamminarsi, sarà per questo che “Alla soglia degli ottant’anni, mi sveglio e mi scopro allegra”, afferma nel monologo finale, e che “Più viva di così non sarò mai”.

Critica. Violetta Chiarini – per la quale il Teatro rappresenta il fil rouge di una lunga e prestigiosa carriera di attrice, cantante e autrice – nella prefazione al volume in stampa, scrive:

Un testo che piacerebbe a Robert Mc Kee, il maestro della moderna sceneggiatura, perché risponde perfettamente alle leggi della narrazione che sono le stesse per tutte le forme in cui essa si può declinare. Stiamo parlando di quella che certamente è una virtù di Chiara Rossi, il suo eclettismo, inteso nel senso umanistico rinascimentale del termine, che affonda le radici nel suo studium, nel significato latino, cioè desiderio, aspirazione, sete di sapere.

(…)

Attraverso il suo testo, Chiara Rossi esprime la propria visione del mondo e della realtà. In particolare, ha scelto di comunicare la sua Weltanschauung con pregnanti monologhi delle protagoniste a se stesse, anziché con l’evento scenico che è proprio del teatro e lo distingue dalla mera letteratura. Se tale opzione potrebbe far sembrare didascalici i monologhi stessi, subito l’impressione svanisce, perché si è conquistati dallo stile della scrittura: un linguaggio elegante, immaginifico, colto, che si potrebbe pensare rivolto a un pubblico di nicchia, e invece è talmente ricco di immagini poetiche, tenere, suggestive, piene di grazia e piacevolezza, splendide, che riesce ad arrivare anche allo spettatore meno preparato, perché, si sa, la vera poesia arriva al cuore di tutti.

Queste parole ovviamente mi gratificano particolarmente, perché ho da sempre molto rispetto e cura delle parole. La Scrittura, che ritengo sia un continuo andare e venire lungo la linea che collega l’Urlo (l’azione non verbale che esprime una pura emozione) alla Mania (la tecnica e la parola assolutamente controllata, in cui nulla sfugge), mostra la sua vocazione euristica nel bisogno di continua (ri)scoperta del sé: sono convinta che sia la coltivazione di noi stessi, attraverso un esercizio appassionato di riflessione & interpretazione, di immaginazione & narrazione; e che sia un percorso di formazione trasformante, che muove dalla triade: Conoscenza, Coscienza, Cultura.

Concept. La gestazione di Una lunga nuotata ha avuto tempi per me insolitamente lunghi, perché, dato che si scrive perché si ha qualcosa da dire e non viceversa – come giustamente affermano i letterati – non trovavo un’adeguata chiave di lettura per affrontare una tematica che, in questi anni più recenti della mia vita, mi ha posta di fronte a parecchie considerazioni a livello personale: quella del rapporto zia vs nipote. Nella mia esperienza privata in questo ambito, affetto e tensioni si sono miscelati e, forse proprio per questo, mi sono spesso domandata come mi sarebbe invece piaciuto sperimentare uno scambio emotivo positivo e costruttivo con una zia. Da qui la writing quest, poi sfociata in questo testo teatrale (che probabilmente diventerà anche uno script per lungometraggio), in cui ipotizzo una relazione a cui avrei sinceramente ambito.

3) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe? In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?

Ho ricevuto premi e riconoscimenti – alcuni anche con relativa pubblicazione dei testi – per la mia scrittura drammaturgica, cinematografica e narrativa, il che testimonia che mi attrae e mi stimola sperimentare tipologie di scrittura in diversi ambiti. Ho al mio attivo un paio di romanzi, scritti a sei mani (Viola & Riccardo, attualmente in fase di stampa), racconti, script cinematografici per corto- e lungometraggio, ma soprattutto testi e monologhi teatrali. Mi dedico raramente alla Poesia, ma la mia scrittura viene spesso giudicata ‘poetica’.

Scrivere per il Teatro, nelle mie intenzioni, è dar voce, attraverso immagini e azioni, a un’urgenza – hic et nunc –, grazie alle parole che cadono dalle situazioni, nella logica del vedere-pensare-parlare. Avere uno sguardo poetico e poietico sul mondo è però anche resilienza, è andare ‘oltre’ il limite intrinseco dell’Uomo (la Morte), per rimettere la Vita e la Speranza al centro.

In questa nostra società globalizzata, sovraffollata di ‘narconauti’, in cui nulla è stabile né prevedibile, ma tutto è incerto (nell’accezione di Bauman, quando parla di ‘modernità liquida e rarefatta’ e unsicherheit, insicurezza) e il tema del rischio (come propone Beck) aleggia cupo, accrescendo la paura, la Scrittura si conferma più che mai arma potente, forma di comunicazione e di svelamento di se stessi a se stessi.

Essa trova una delle sue più feconde aperture nel Teatro contemporaneo, luogo ideale per la sperimentazione, la ricerca e la contaminazione tra le arti.

Dal mio percorso di studi, discende la mia personale applicazione pratica nella Scrittura (sia professionale che creativa) del Systems Thinking (il Pensiero sistemico nell’accezione di Peter Senge): le connessioni più interessanti e utili tra gli elementi che compongono la realtà, infatti, a mio parere, non sono quelle lineari – di concatenazioni di cause e di effetti – ma quelle circolari, i feedback e i loop, che rendono quegli elementi non solo connessi, ma anche interconnessi, non solo dinamici, ma anche interattivi. E proprio qui colloco le mie writing quest e la mia ricerca di equilibrio tra costante apprendimento (tecnico e cognitivo) e ingaggio emotivo (imparare sempre più ad ascoltarmi e a comprendere meglio il mio bisogno di scrivere e le mie domande, cui attribuisco più importanza che non alle risposte).

La comprensione della connessione e della dinamica delle parti e del tutto si dà come caratteristica fondamentale dell’intelligenza operativa e creativa: Non importa quello che stai guardando, – avverte ilfilosofo Thoreau – ma quello che riesci a vedere, là dove ‘vedere’ significa capire, scoprire e interpretare ciò che ci circonda.

Praticare la Scrittura creativa – lo affermo per diretta esperienza – comporta effetti benefici:

  • sapersi ascoltati (perché scriviamo per essere letti o per essere messi in scena) ci rende, infatti, più attenti a ciò che diciamo;
  • sentirsi oggetto di attenzione da parte di un ascoltatore empaticamente attento (il cui sé si fa silente, così che l’esperienza dell’Altro risuoni in lui senza che sia filtrata da nessuna valutazione preventiva), intensifica le capacità di pensiero;
  • provare gioia, testimonia che l’emozione creativa sta raggiungendo il suo obiettivo.

4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale? Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?

Scrittura a più mani. Sono sempre stata convinta che percorrere tratti di strada in compagnia di idee e menti diverse costituisca un arricchimento, un potenziamento della creatività. Partendo dall’assunto teorico che gli spazi di possibilità di più neuroni riescano a concepire narrazioni interessanti, ho sperimentato scritture condivise, sia in ambito narrativo che in quello della scrittura drammaturgica e cinematografica. Io sono per mia natura una studiosa, una persona inquieta che non si accontenta e continua a cercare, il che mi porta sempre a nuovi approdi che disegnano nuove rotte. Purtroppo, mi è capitato di riscontrare che non sempre i partner di scrittura sono spinti dalle mie stesse motivazioni, dalla mia accuratezza che si appoggia su disciplina e metodo, su tecniche base imprescindibili (non basta la sola ispirazione) e su un lavoro preparatorio intenso, per cui, a volte, per me è stato complicato concludere progetti che io stessa avevo proposto di condividere. Resta comunque interessante la verifica sul campo della varietà dei modelli mentali che a volte sono compatibili, a volte creano discussioni: sono quindi molto lieta di aver potuto vivere l’esperienza della scrittura come di un’attività di esplorazione artistica, proprio perché sono incuriosita dalla diversità e dall’unicità di ciascuno di noi.

Punti di riferimento.  Fondamentali sono nella mia ottica i Miti, che non rispondono a domande, ma le rendono indomandabili: con essi ri-scopriamo costantemente il fascino del meraviglioso, che è quello di far dimenticare a chi legge/ascolta di chiedere spiegazioni (uno spettatore/lettore deve abbandonarsi al racconto). Grande la mia ammirazione nei confronti di Ghiannis Ritsos, poeta e drammaturgo che ha riscritto il mito, creando un esemplare collegamento all’antica drammaturgia ellenica classica, riscoprendone l’incredibile attualità.

Imprescindibile, poi, la mia devozione nei confronti dei Classici (i Greci, Shakespeare, Wilde, Pirandello…), che non vengono dal passato, ma dal futuro, come afferma Mario Sciaccaluga, essendo dei profeti da cui attingere e imparare, dato che hanno avuto la capacità di osservare il loro presente attraverso la loro conoscenza del passato per proiettarsi a immaginare il futuro.

Tra i moltissimi autori, cito, anche per esempio Yasmina Reza, per la sua disarmante abilità ritmica nella scrittura teatrale di costruire il crescendo con delle domande, per rendere incalzante il dialogo o la variazione di una frase.

Concludo, lasciando la parola a un altro famoso drammaturgo, sceneggiatore e regista David Mamet, che stimo anche per questa sua riflessione: Viviamo in un mondo straordinariamente degenerato, interessante e incivile, in cui le cose non quadrano mai. Lo scopo del dramma autentico è di aiutarci a ricordarlo.

5) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale. Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare? Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

Fino all’anno scorso pronunciare il vocabolo virus ci faceva pensare di aver a che fare con le tecnologie, i guai ai sistemi operativi, i ‘bachi’ nell’hard disk o nei sistemi di comunicazione. Oramai, invece, abbiamo tutti imparato che siamo costretti a convivere con un insolente quanto enigmatico Covid 19, parassita intracellulare obbligato, costituito essenzialmente di acidi nucleici circondati da capside (un rivestimento proteico), che può replicarsi solo in cellule metabolicamente attive, e sta devastando l’umanità. Auspicando che questo virus competente (nel senso che pare proprio saperla lunga, ma anche nel senso che ci compete) perda la sua scaltrezza e ci permetta di riappropriarci di una normalità che ora ci appare auspicabile, impantanati come siamo in questo stato di ‘eccezione’ (forse più consono rispetto a stato di ‘emergenza’), personalmente ho scritto e continuo a scrivere.

Nella prima settimana di clausura protettiva, nel marzo 2020, ho accolto la proposta di aggiungere un petalo alla corolla dell’eteroclito fiore a cui gli Autori FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) stavano infondendo vita: in moltissimi, abbiamo fatto convergere testimonianze e riflessioni, che ora troveranno compimento in un’antologia variegata, intitolata Diario In Coronavirus. Ho poi aderito alla costruzione di un Alfabeto pandemico, in www.lostatodeiluoghi.com, con il contributo delle voci: EVOLVENZA, ESSERE, PRESTITI, SALVEZZA.

Ho anche scritto DRAGON LADY, monologo teatrale (flussi e reflussi di dilemmi e paure, nel dialogo introspettivo di un medico donna che vive con dedizione e energia il servizio in ospedale tra i malati di Corona Virus. Dragon Lady – ‘nome di battaglia’ affettuoso che i colleghi hanno dato alla protagonista del testo perché ‘plana sulle corsie’ – si rifà al Lockheed U-2, aereo monoposto statunitense da ricognizione ad alta quota), in corso di pubblicazione in Sospensione 19 – Scritti teatrali al tempo del contagio, editore Alpes Italia (Roma), Collana La Scena Nova, oltre ad altri due testi teatrali: Wannabes Muses, che sullo sfondo della vita sospesa del Covid 19 vuol essere un divertissement che si conclude con l’utopica nascita dell’Homo Novus che riscopre la Bellezza e le Muse (quelle vere); e Cardiomanzie, una attualizzazione del mito di Medea, testo teatrale quest’ultimo che non ha nulla a che fare con la pandemia.

Posso quindi affermare che il periodo strano in cui ci siamo dovuti calare si è dimostrato fecondo per riflettere ed esorcizzare, scrivendo, ansia & paura. L’Io e il Me si sono ascoltati, riflettendo, interpretando, immaginando per raccontarsi, in un momento speciale della Vita che ci chiama alla sfida. Inventare storie per me è stato, e continuerà ad esserlo, nutriente e vitale.

 

E mi sorride il cuore

Racconto

di Chiara Rossi

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,

Luxe, calme et volupté.

« L’invitation au voyage », Charles Baudelaire

Due della Terra i polmoni: uno verde – le foreste – e l’altro blu – il mare –, antico, caleidoscopica elegia di vita, ispiratore dei più straordinari miti. Non so sottrarmi al richiamo del respiro maschio dell’Oceano o di quello lieve del Mediterraneo, palcoscenico di prodigi e d’immani sventure.

Punteggiato d’innumeri isole dai profili frangiati, l’Egeo protegge templi di oracoli, sibille e déi, sempre immersi nel medesimo sacro silenzio: lo ringrazio, devota, pur conscia dei molteplici appassionati amori che, tra menta, zagare e fieno – nel vento salato che leviga le scogliere –, nelle sue acque hanno incontrato la Morte giunta a punire (occorre ricordare Fedra, Andromaca o Elle, Io, Cassandra o Medea? Tutte lo traversarono e più d’una non ne uscì). Se pur dalle spumose onde si compiacque di essere Afrodite, vien da pensare che tutto sia intriso di lacrime e sperma.

Il nostrum resta il mare dei colossi e dei labirinti, delle grotte e delle trame di Dioniso, al confine tra estinzione e delirio. È, tuttavia, anche il mare dei Poeti che accolgono nel cuore l’azzurro che non ha fine, il sole che genera vita e il vento che non ha patria. È il mare che apre la mente all’idea della partenza e del ritorno, dell’esperienza e della conoscenza. Lo sciabordio del passato confonde la ragione, l’intelligenza e i riflessi, eppure qui, nell’azzurro bifronte, il Cielo è più vicino che altrove, anche se il Sole appare stanco, per la regressione dell’Uomo, per la perdita di consapevolezza del Male, per le stragi che han sostituito i sacrifici, per le oscure liturgie di dissoluzione delle relazioni: allusioni, illusioni, delusioni, nient’altro che vacui, ricorrenti spettri di ogni generazione di noi umani. Per fortuna, sboccia un universo diverso a ogni decisione: occorre distinguersi tra il rumore e il niente, via via che le lune spargono i loro vapori. Solo quando ci ricomporremo, passando dal «Mio» all’«Io», si ricomporrà il mondo, che è kósmos, non cháos. E, incaute, le farfalle continueranno a volteggiare smaglianti di colori tra gli odorosi fiori; eleganti, gli eucalipti con la loro ombra manterranno intermittente la luce nei boschi; ieratiche, le sette stelle dell’Orsa non si stancheranno di far da mappa nel velluto della notte. Come Sisifo, non dobbiamo smettere di credere alla risalita: sarà ancora il Giorno. Sarà ancora la Notte. E guarderemo la Vita da entrambe le parti, arrischiando pensieri, oltre il nulla che lento divora.

A volte mi sento come Pandora, con in mano il coperchio di un vaso pieno di Speranza & Sgomento, vagliando zattere di ipotesi, tesi & antitesi, oppressa da un gravame intollerabile di pensieri che non sanno dove andare. Allora mi siedo di fronte a un’onda morbida, quasi silenziosa, indifferente al mio tormento. Gradazioni di blu, orizzonti fluidi come in un acquerello. Solo io, l’acqua & il sale: ringrazio di quanto la vita sappia essere tiranna e poi generosa. Fuori di me l’illusione del mondo o il mondo? Io sarò. Noi saremo. Alzati da una vita seduta, avremo rubato la schiuma del mare. Finirà, finirà questo continuo-dolente-infinito-presente.

Non ‘cosa sono’, ma ‘chi sono’ è la domanda. Sono spirito in un corpo, persona in un individuo. Appartengo alla sacra potenza del Predominante, come la Terra e il Mare. Sono parola, intelletto e passione; sono sangue, muscoli, nervi e ossa. Col corpo faccio esperienza della vita, per il tramite del corpo farò esperienza della morte, che è il tutto e il nulla, il sempre e il mai. Tra il Cielo e me deve esserci sempre la Speranza.

Noi sfibrati umani ci consumiamo, più di quanto ci consumino gli eventi e il tempo. Abitiamo un’isola fluttuante, invisibile a chi rifiuta lo stupor di fronte all’Inatteso, e il nostro destino di Vulnerabili sta nel volvere, verbo degli astri eterni: girare, rotolare, come sassi, flutti, lacrime o astri, come il fuso delle Parche o la caduta di Fetonte.

Evolvo, dunque: indietreggiare sul mio Desiderio sarebbe l’imperdonabile. Il maggior peccato è disconoscere la fame ardente, l’appetito squisito di vivere. Per possedere ciò che non possiedo, devo passare attraverso la mancanza: a monte dell’onda c’è grande stasi, a valle il caos, è sulla cresta il picco di energia. E mi dico: osa, vai, e scegli i tuoi fiori di campo, come Proserpina colse i gialli narcisi dei prati di Enna, e danza come un derviscio e vibra come la corda di un arco o di una lira, perché anche a costo di incontrare il Minotauro, dall’inacquistabile tempo della vita non ci si può ritirare.

Liscia, ignara di anfratti, chiara come il mio nome, percorro isotere e isoterme, per scoprire quali raggi balenano nel buio delle porte di Tannhäuser e cosa naviga al largo dei bastioni di Orione.

Voglio un viaggio sulla Luna, come Cyrano, Astolfo e Luciano. Voglio evolvenza. E finalmente cum-prehendo che non basta il corpo, non basta il cuore: Desiderio è uno dei nomi dell’Erranza.

Giorni pieni. Sere stanche.

È il tempo scellerato della grande narcosi,

in cui è più facile chiudere gli occhi:

meglio sarebbe stato esser ciechi come Edipo.

Falesie di parole si fanno accessibili,

squarci pregnanti illuminano dentro al guscio le notti insonni della corrotta Babilonia 4.0.

La vita, come la intendo io,

non esiste quasi più:

l’uomo si crede un dio,

non sopporta d’esser concluso, limitato.

Il mondo si modifica come un mostro dalle facce sempre nuove.

Ovunque solo un molesto brusio & schermi gravidi di immagini oscene.

Aspetti il Nulla, attendi l’Invano &, intanto, la vita si srotola

e il tuo sangue percorre centoventimila chilometri dentro i vasi,

quasi tre volte la lunghezza dell’equatore.

Sono uscita dal tempo di Kronos, dove è negato il fluire,

per tornare in quello di Zeus, ritmato dal sorgere & dal calar del sole.

Dal morso di mela, tutti siamo puro dolore in attesa di accadere,

andiamo da un dove all’altro diventando tutte le cose,

scrittori che correggono & riscrivono,

alla ricerca di quell’impalpabile sfuggente, giallo polline di giglio,

che vive nascosto tra mille possibili scelte,

in cui, talvolta, cogli l’impronta del Creatore.

Noi, quaggiù, nomadi, come là in alto le stelle.

Il tempo è una traccia che torna,

un passato che non passa.

Giorni & persone sono prestiti,

il tempo è un bambino che gioca.

Siamo ciò che la vita ci consente,

in un divenire continuo di illusioni & fiori;

siamo rigurgiti delle maree,

eventi mobili,

piume,

pulviscolo,

aliti d’aria,

elitre,

vele.

Vele.

Sciolgo al vento la mia, piena di colori & faccio rotta, tra quadrature & siżìgie,

verso l’orizzonte dell’Isola che C’è,

perché Dio è nel mio cuore, o meglio,

perché io sono nel cuore di Dio.

Io so che ci è dato di scegliere: di rischiare, di lottare, di imboccare la strada più comoda, di non volerci emozionare. Spesso le salite sono impervie, ma poi… poi la vista è meravigliosa.

È saper godere, non possedere, a renderci felici.

Un giorno non esistevo.

Un giorno non esisterò più in questa forma.

Tra queste due ‘assenze’ cammino, assecondando la vibrante scansione del Desiderio, che mi fa pulsare come una stella.

Non esistono stagnazioni felici.

Noi, i vivi, siamo orgogliosamente in divenire. Ci scegliamo. C’inventiamo. Viaggiamo. Scivoliamo dal Tempo Precipitato in cui ci dibattiamo: senza sperimentare momenti di irragionevole ottimismo, non sopravvivremmo all’ostile quotidiano.

La mia unica possibilità di durare è non cancellarmi. E, pur nel tramonto inevitabile del corpo, pur con il cuore sbucciato per le sfide senza protezione nel Labirinto degli Inganni, scintillo, come metallo in fusione. Auspico che sia sempre giugno, con le sue gloriose giornate, sospese all’inizio dell’estate, quando fiocchi di nubi colorano di ciliegia il cielo, rose e oleandri accendono i giardini, navi alla fonda meditano nuove rotte, origano e sentore di sale s’insinuano nella brezza.

Più viva di così non sarò mai.

Ho smesso di essere silenzio, sono in costruzione. Vivere esige audacia. Essere come verbo, non come sostantivo. Esistere, insistere, resistere. Donarsi, non cedersi. Perdonare qualcuno, non qualcosa.

Essere al mondo. Essere mondo.

Configurarsi.

E, come fossi ancora sotto il Tropico del Capricorno, dove il vorace sole del solstizio d’inverno non fa ombra, mi metto addosso l’allegria: so che camminerò senza fermarmi.

E mi sorride il cuore.

 

 

CHIARA ROSSI [www.imaginabunda.it]: eteròclita ‘longobarda’ di nascita, ligure di adozione, giornalista pubblicista dal 1992, laureata in Esperto nei processi formativi e in Scienze dell’Educazione degli Adulti e della Formazione continua.

Esperienze professionali legate a progetti editoriali e di comunicazione (anche per conto di associazioni no profit), oltre che di consulenza e coaching nell’ambito della redazione di tesi di laurea in Scienze umane e psico-sociali e di writing coaching.

Appassionata di scrittura (in tutte le sue declinazioni, ghostwriting compreso) & musica, viaggi & fotografia (adoro incrociare gli sguardi di persone che vivono in paesi lontani), sociologia delle religioni & cultura del mondo islamico, nonché di molte altre cose…
credo fermamente nel LifeLong Learning e nell’utilità dell’Inutile, ossia dei saperi (meglio se contaminati e connessi) che, pur non producendo guadagno, migliorano l’Uomo. Nella mia ottica, sono più importanti le domande che le risposte e imparare che sapere; lo stupor è la molla di ogni conoscenza. È questo, che spesso mi fa trovare ciò che non sto cercando, facendomi sentire viva.
Ritengo che scrivere storie – che a mio parere affondano sempre le loro radici nella Mitologia, in quanto rivelatrice di senso – sia un complesso progetto di ingegneria & architettura narrativa, in cui l’accuratezza intellettuale debba fondersi in curiosità, entusiasmo e competenze necessariamente trasversali: per concepire narrazioni occorre essere immaginatori di professione.

Ho ricevuto premi e riconoscimenti – alcuni anche con relativa pubblicazione dei testi – per la mia scrittura drammaturgica, cinematografica e narrativa.

Iscritta al Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC), Roma; alla Societá Italiana Autori Drammatici (SIAD), Roma; alla Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), Roma, alla Federazione Italiana dei Cineclub (FEDIC) e alla SIAE, sezione DOR (opere drammatiche e radiotelevisive). Faccio anche parte della comunità di autori di http://www.dramma.ithttp://www.autoriexpo.it e di SCRIBIOMEMO (gli Scribi di Memoria) e sono membro del comitato scientifico di CROMOSOMA T(eatro) – Teatro & Drammaturgia tra evoluzione e tradizione, collana di teatro e spettacolo edita da Pro(getto)scena edition, Milano.

CRIMINAL PROFILING – racconto

Il sole nella storia dell'arte. L'astro di Grosz splende sul male ...
Il racconto è stato pubblicato dal portale “L’Ottavo” a questo link: https://www.lottavo.it/2020/05/criminal-profiling/
 

CRIMINAL PROFILING

 

La metà della vita di un uomo

è passata a sottintendere,

a girare la testa e a tacere.
Albert Camus

 

Era la notte più buia mai apparsa sulla terra. Anzi, era una notte che si rifiutava di apparire, perfino come essenza oscura. Non si camminava per le strade, ci si immergeva, quasi a memoria, in ipotesi di vie e marciapiedi. Uno dei rarissimi rumori che si potevano udire in tutta la città era la voce cupa di Marco Rattis, alias Markophone. Il dee-jay di Radio Utopia 2000 era scarso, a partire dal nome d’arte che si era scelto. Ma lavorava in una radio libera, libera veramente, per dirla con le parole di una canzone che era solito programmare con gusto. Era tanto libera, la sua radio, che a volte gli sembrava non esistesse. Etere nel buio, niente nel niente. Ma nel buio non c’è il nulla: c’è carne, sangue, linfa vitale. Quella notte a Markophone era riemerso lo sfizio di un vizio: capire qualcosa.
La sola cosa che Marco sapesse fare bene era riprodurre le voci. Imitava alla perfezione chiunque, o quasi. Selezionò il più squillante e solenne dei jingle che aveva in repertorio, poi, con la voce di Donald Trump, proclamò la necessità di una pronta e duratura pace universale. Con le voci alternate del Ministro delle Finanze e del Telecardinale per antonomasia annunciò poco dopo sostanziose detrazioni fiscali per i clienti delle lucciole. Fece replicare loro dalla Portavoce del Sindacato Prostitute Organizzate, la quale, roca ma suadente, parlò di una speciale misura promozionale: le operatrici del settore dopo l’atto sarebbero andate a cena con i clienti e avrebbero pagato alla romana. In seguito, a tarda notte, gli uni e le altre avrebbero camminato per le strade in cerca di gatti randagi a cui donare carezze e il tepore dei caloriferi.
Si sentì grande, Markophone. Un universo di vibrazioni umane. Senza alcun pudore fece risuonare a tutto volume una cassetta di applausi registrati al termine di un’opera sinfonica. Un istante dopo si sentì una nullità. Non che prima di allora non gli fosse mai successo, ma in quel preciso momento ebbe la percezione fisica, ghignante, della distanza tra sogno e realtà. Per reazione, o forse per crogiolarsi ancora di più in quella ruffiana malinconia, si rivolse mentalmente all’Imitatore Massimo, l’unico in grado di riprodurre l’intera esistenza, gli esseri viventi in tutte le loro forme. Dalla finestra dello studio alzò gli occhi verso il cielo. Niente. Solo un immenso telo scuro. Mise un CD di brani e commenti strampalati registrati mesi prima e schiacciò il tasto “loop”, la programmazione ad anello, senza interruzioni. Avrebbe avuto tutto il resto della notte a disposizione, in tal modo. Nessun ascoltatore si sarebbe accorto della sua assenza. Sempre ammesso che la sua radio lo avesse avuto davvero qualche ascoltatore. Uscì fuori e si avviò lento, impacciato, lungo il marciapiede. Guardò ancora in alto, poi scrutò di fianco a sé e davanti. Ancora niente. Solo un sibilo acuto alle sue spalle. Una vecchia Lancia Fulvia Coupé con i freni da rifare si fermò a un metro dai suoi polpacci. Marco non cambiò espressione. Si allontanò piano, con faccia serenamente disperata, certa del tanfo di gomma e metallo del mondo. Ma alla fine la curiosità prevalse. Si voltò di scatto per gettare un’occhiata al mirabile autista. Una sigaretta e un sorriso. Abiti eleganti, perfino una gardenia bianca nell’occhiello. Dalla radio della macchina uscivano le note de “L’uomo in frac” di Modugno. Marco riconobbe, in quell’istante, la faccia dolce e disincantata dell’uomo più inadatto alla vita che avesse mai conosciuto. Eccetto se stesso, chiaramente. Lo fissava, staccando il gomito posato sul volante solo per aspirare la sigaretta, suo zio Remo. Il fatto che fosse morto venti anni prima non turbò Marco più di tanto. Gli sembrò, in quel contesto, un particolare secondario, una macchia lievemente più scura nel mantello antracite della notte. Tutto ciò che riuscì a fare e a pensare fu correre verso il finestrino e offrire all’uomo una mano da stringere e qualcosa di forte da bere in qualche bar. La seconda offerta fece centro. La sigaretta, seppure a malincuore, venne schiacciata sull’asfalto umido, e le labbra uscite dal buio si misero in moto, pigre quasi quanto le gambe.
            «Ho provato, sai, Marco?»
            «Hai provato cosa, zio?»
            «Ho provato, in tutti questi anni, dopo che sono… andato via. Ho tentato di chiedere una modifica dell’iter stabilito per te e per gli altri, per voi che mi state a cuore e che siete ancora quaggiù. Non è stato possibile. Non è concesso, umanamente e neppure “postumanamente”. Il sistema di controllo lassù è ciclico, circolare. Ogni richiesta di concessione viene girata ad un Controllore Ulteriore. E così via. Neppure l’Eternità è sufficiente. La burocrazia terrestre al confronto è snella e fulminea.
Non ho solo cattive notizie da darti, comunque, altrimenti, mi conosci, non sarei venuto da te. Visti i miei crediti acquisiti sulla terra, mi è stato elargito qualche privilegio. Posso portarti vicino a loro. Voglio, anzi devo farlo».
            «Loro chi?».
            «Non pensare che ci sia bisogno di mezzi ipertecnologici per rendere possibile il meeting. Ti basterà percorrere questo viale. Saranno loro a venire incontro a te. Sii te stesso. Io ti aspetto in fondo».
Marco entrò e uscì dai locali aperti e giunse, più suonato che mai, al termine della Via Crucis dell’amaro notturno.
            «Bravo, Marco! Loro hanno visto e annotato tutto: quello che hai preso, in quali locali, parlando oppure tacendo, con quale gente, con quali parole. Ora hanno raccolto una messe di dati ulteriori. Forse potranno inserirti finalmente in una cartella, un modello, un cluster. Sì perché, caro nipote, devo dirti la verità: il problema è che al momento you match with noone and nothing. Non combaci con niente e con nessuno».
            «È una colpa?».
            «Domanda troppo filosofica per me. Io sono solo un messaggero, capiscimi. Sono dalla tua parte, certo, ma molte cose non le comprendo nemmeno io. Comunque credo che ora possa essere ultimata la scheda del tuo Criminal Profiling.
            Ah, come avrai notato da quando sono passato all’altra dimensione un vantaggio sicuro l’ho avuto: adesso so bene l’inglese. Appena arrivi lassù ti fanno un corso intensivo e accelerato. In men che non si dica diventi, per forza o per amore, un potenziale madrelingua».
            «Mi fa piacere, zio, ma anch’io, pur non avendo seguito nessun corso simile, sono in grado di capire che la definizione è assurda. “Criminal” implica la certezza che io abbia commesso delitti, o comunque infranto codici o leggi. Quando mai? Io ho sempre lavorato alla radio, tutte le notti o quasi. Dicendo semplici parole, le mie idee, il mio modo di vedere. Cazzatelle, niente di meno e niente di più. Discorsi leggeri tra un disco e l’altro. Nulla di importante».
            «Ne sei sicuro? Forse ti sottovaluti. O forse non hai capito bene il funzionamento del General Data System. Non è colpa tua, del resto. Non ne sono padrone del tutto neppure io che mi trovo lassù, in posizione panoramica, da anni e anni.
            Quello che conta, comunque, lo ribadisco, è il supplemento di indagine che abbiamo appena reso possibile. Vedrai che un fascicolo telematico in cui archiviarti lo trovano adesso. Sarai libero! Torna alla tua radio, vai. E sii più lieve. Non parlare delle cose del mondo, parla di musica giovane, inventa barzellette sceme, fai qualche gridolino ogni tanto, e canticchia in falsetto prima, dopo e durante i pezzi. Meglio se metti parecchia dance, sai? Impara a fare il dee-jay come si deve. Sono anni che lo fai e continui a sbagliare tono e argomenti! Torna alla tua radio e lascia stare la cronaca, i fatti, gli accadimenti. Meglio la Disco Anni 80. Farai più ascolto, vedrai. In tal modo ti farai uno zoccolo duro di aficionados. Come vedi so anche lo spagnolo, figliuolo!».
 Marco Rattis detto Markophone salutò lo zio con un sorriso e con un gesto rapido della mano. Anche l’Uomo in Frac lo guardò un solo istante. Sollevò l’ennesima sigaretta e la fece scorrere nell’aria come una minuscola cometa. Si volto di scattò e si avviò in direzione del buio più fitto. Marco lo fermò con un grido, e con un’ultima domanda.
            «Posso raccontare almeno ciò che mi è successo stanotte? L’incontro con te e con loro, la raccolta dati, l’Archivio Universale. Concedetemi di raccontarlo, dai, almeno, per una volta, avrò qualcosa di interessante da dire ai radioascoltatori».
            «Credevo che avessi fatto qualche progresso, Marco. Invece, mi ricresce di doverlo dire, ma sei rimasto lo stesso. È chiaro che non puoi dire niente. Credevo fosse lampante. Purtroppo, al contrario, devo specificare sempre tutto con te. No, non puoi raccontare nulla di nulla. E anche se lo facessi è chiaro che nessuno ti crederebbe. Riflettici!».
            «Ma, allora, se nessuno mi crederebbe, perché non mi è concesso di raccontarlo?».
L’uomo guardò il nipote con sdegno. Gettò la sigaretta per terra e si allontanò definitivamente a passo rapido, quasi aereo.
Marco lo inseguì come poté e gli urlò tutta d’un fiato una delle sue storielle, un aneddoto mezzo vero e mezzo inventato.
            «Sai zio, un tempo assieme ai miei amici frequentavo un bar. C’era una tipa selvaggia, dai modi duri ma sinceri. Non era più giovane, ma era ancora fresca, sensuale. Moltissimi l’avevano odiata e la odiavano. Altri l’avevano frequentata, alcuni erano stati fidanzati con lei e un paio l’avevano addirittura sposata. Ma tutti, presto o tardi, l’avevano abbandonata al suo destino. Era pericolosa, lo sapevano tutti. Rischiava di portarti dove non vuoi, dove non sei stato prima. Se ti guardava negli occhi ti sentivi vivo, ma nessuno osava farle la corte come si deve. Troppo autentica, diversa dalle altre. I miei amici, per scherzo, cominciarono a dirmi che era la mia donna ideale. Mi dissero che era follemente innamorata di me. All’inizio ci risi su, ma presto mi accorsi che qualcosa era successo. Non lo volevo, non era nelle mie intenzioni, ma mi ci avevano fatto pensare. Ecco zio, è accaduto anche stanotte. In questo buio fitto, lungo il viale dove si deve parlare e non parlare, guardare e non guardare, tu, e loro, mi ci avete fatto pensare. Stanotte, zio, l’ho vista, l’ho pensata, l’ho amata di nuovo».
Marco guardò le spalle rigide dell’uomo allontanarsi. Lo smoking impeccabile, più scuro della notte, ebbe solo un ultimo fremito di sdegno. Poi svanì nel nulla. Marco pensò alla sua Radio. Se si sbrigava poteva tornare al microfono prima dell’inizio dei programmi a quiz del mattino. In tempo per raccontare una storia a cui, forse, nessuno avrebbe creduto. 

Racconto del 25 aprile su Repubblica. parma

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Sono molto lieto che il mio racconto NOMI CONCRETI E NOMI ASTRATTI sia stato pubblicato nelle pagine de “la Repubblica” di Parma proprio oggi, 25 Aprile, anniversario della Liberazione.
Il racconto, pur partendo da un’ambientazione in apparenza distante, la scuola, ha in realtà proprio l’intento di sottolineare l’importanza della libertà, di pensiero, di scelta, di opinione.
E, a fianco, intimamente connesso ed essenziale, il diritto di chiunque, a prescindere da qualsiasi connotazione individuale, a essere se stessa o se stesso.
Ringrazio Tito Pioli e Lucia de Ioanna per la selezione e la cura con cui il racconto è stato proposto.
Per chi vorrà, il racconto completo è a questo link: https://parma.repubblica.it/cronaca/2020/04/25/news/il_sabato_del_racconto_e_firmato_da_ivano_mugnaini
Buona Liberazione a tutte e a tutti,
IM

Frammenti di ipotesi

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  Pensando alla chiave rafforziamo la galera ?
Alcune personali ipotesi sui possibili Sì e sui possibili NO.
IM

Frammenti  di ipotesi

These fragments I have shored against my ruins, Questi frammenti che ho eretto a protezione delle mie rovine.
La traduzione del verso de La terra desolata di Eliot è libera. Ed è forse la sola cosa libera che posso permettermi in questi giorni di gabbie invisibili e inesorabili. O forse no. È libero, a suo modo, anche il pensiero che mi porta ad erigere con la mente frammenti di parole e di pensieri a protezione della mente stessa, e del corpo, ad essa inesorabilmente e mirabilmente collegato.
La prima decisione, da quando è iniziato il contagio e la quarantena, è stata strana: mettermi a rileggere, con l’aggravante della lettura in lingua originale, La peste di Camus. Strategia autolesionistica, la definirebbe qualcuno. È forse è vero. Eppure, in quelle parole crude e sincere, scelte con precisione chirurgica dallo scrittore-filosofo francese, ho trovato il veleno ma anche le gocce dell’antidoto.
“Quando si chiusero le porte alle nostre spalle – scrive Camus – un sentimento individuale come quello della separazione da un essere amato, all’improvviso, dopo le prime settimane, fu quello di tutto un popolo, e, assieme alla paura, divenne la sofferenza principale di questo lungo tempo d’esilio”. Dalla consapevolezza della condivisione di una condizione innaturale nasce la riflessione che porta con sé, in modo inconscio, il cambiamento.  “Il sentimento di cui nutrivamo la nostra vita, assunse un volto nuovo. Mariti e amanti che avevano immensa fiducia nelle loro compagne si scoprirono gelosi. Uomini che si ritenevano leggeri in amore ritrovarono la costanza. Figli che avevano vissuto accanto alle loro madri guardandole appena, misero tutta la loro inquietudine e il loro rimpianto nella piega del viso oppressa dal ricordo. Soffrivamo due volte, per la nostra sofferenza e per quella degli assenti, figli, spose, amanti”.
Eppure, ogni peste, reale o metaforica, ogni malattia, ogni ferita nella carne di un’epoca ha caratteristiche proprie, specifiche. Camus scrive: “Perfino la piccola soddisfazione di scrivere ci era negata. Tutta la corrispondenza era bloccata per timore che le lettere fossero veicolo d’infezione”. Oggi non è così. Le nostre gabbie, Internet, i messaggi, le chat, le immagini, le voci trasmesse via etere, possono diventare la chiave per uscire dalla gabbia dell’isolamento. Un fertile paradosso. A patto che si riesca a mutare di segno anche un’altra frase cardine de La peste: “Per settimane fummo ridotti a ricominciare senza tregua la medesima lettera, a ricopiare gli stessi appelli e le stesse raccomandazioni, fino al momento in cui le parole che erano uscite tutte vibranti dai nostri cuori si fecero prive di senso. Questo monologo sterile, questa conversazione arida, non sarebbe cessata con la fine dell’epidemia”.
Ecco, questo è il nodo da sciogliere, è questa la sfida. L’epidemia passerà, presto a tardi. Così come finirono, ad un certo punto, perfino i “quattro anni, undici mesi e due giorni” di pioggia di Cent’anni di solitudine. Quella pioggia che rese necessario “scavare canali per prosciugare la casa, e sbarazzarla dai rospi e dalle lumache, di modo che si potessero asciugare i pavimenti, e togliere i mattoni da sotto le gambe dei letti e camminare di nuovo con le scarpe”. Finirà anche questa pioggia invisibile fatta di paura, alienazione, solitudine. Ma finirà davvero solo se le mascherine che il contagio ci ha obbligato a indossare ci avranno insegnato a togliere le maschere che avevamo sul viso da sempre senza che nessuno ci obbligasse. Finirà se alla fine dell’incubo avremo imparato a sorridere con gli occhi. E, si sa, gli occhi riescono a sorridere solo se sorride anche il cuore. Finirà se capiremo, come ci suggeriva il drammaturgo che ha scritto e vissuto del Caos e della Follia, che “la vita non si spiega, si vive”; e che le cose minuscole per cui ci azzuffiamo se fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ripartendo da queste consapevolezze, da questi frammenti eretti a proteggere le nostre pietre, possiamo provare, noi sommersi e noi salvati, a guarire dal male nuovo e passeggero e da altri, antichi, inveterati, che abbiamo lasciato penetrare da tempo all’interno delle nostre mura senza neppure provare a combattere.
                                                                                                        IM

( Questo brano è stato letto in collegamento Facebook in occasione dell’iniziativa PAROLE DAGLI ARRESTI DOMICILIARI a cura di Roberto Caracci ) .

 

 
 
 
 
 
 
 

Arte e Scienza – Antologia de “La Recherche”

Una bella copertina e una bella iniziativa de LaRecherche a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani.
Un modo per ritrovarsi in un volume assieme a cari amici e  per riproporre un mio racconto (che trascrivo qui in calce), un po’ scientifico e molto folle.
Per fortuna, per ora, di pura fantasia.IMNessuna descrizione della foto disponibile.
ARTE E SCIENZA: QUALE RAPPORTO?
[ L’arte della scienza, la scienza dell’arte ]

(disegno di copertina realizzato da Alessandra Magoga)

Al suo interno troverete l’arte e la scienza in 72 autori, a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani.

L’antologia è liberamente e gratuitamente scaricabile da queste pagine:

https://www.larecherche.it/librolibero_ebook.asp?Id=245
http://www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=245

in formato pdf, epub e mobi per Kindle.

L’antologia è disponibile su amazon.it nel formato copertina flessibile, in due versioni, con interno in bianco e nero e con interno a colori; è possibile acquistare le copie da queste pagine (Il prezzo fissato è quello più basso possibile che amazon ci ha imposto):

Interno in bianco e nero (ISBN: 979-8613138517; € 8,32): https://www.amazon.it/Arte-scienza-quale-rapporto-dellarte/dp/B084QD65SZ/

Interno a colori (ISBN: 979-8612874157; € 37,44): https://www.amazon.it/Arte-scienza-quale-rapporto-dellarte/dp/B084QLDSHT/

Gli autori antologizzati:

Agostina Spagnuolo | Aldo Roda | Alessandra Magoga | Anna Maria Gargiulo | Annamaria Ferramosca | Annamaria Vanalesti | Antonio Spagnuolo | Brunello Gentile | Carmen De Stasio | Claudio Damiani | Corrado Calabrò | Davide Morelli | Denise Grasselli | Eliana Bassetti | Eliana Farotto | Enea Roversi | Enrico Meloni | Enzo Rega | Fabrizio Bregoli | Fernando Della Posta | Franca Colozzo | Francesco Bianconi | Francesca Farina | Francesco Rossi | Franco Buffoni | Gaetano Lo Castro | Giacomo Leronni | Giorgia Pellorca | Giovanna Iorio | Giulia Bellucci | Giuliano Brenna | Gualberto Alvino | Guglielmo Peralta | Irene Grandi | Irene Sabetta | Ivano Mugnaini | Laura Costantini | Loreta Salvatore | Luca Ariano | Lucianna Argentino | Luciano Nanni | Lucio Janniello | Luigi Cannillo | Manuel Paolino | Marcel Proust | Marcello Colozzo | Marco Furia | Maria Angeles Lonardi | Maria Grazia Maiorino | Maria Luperini | Maria Musik | Mariagrazia Dessi | Mariella Bettarini | Michele De Luca | Nicola Romano | Ornella Mamone Capria | Oronzo Liuzzi | Paolo Maggiani | Paolo Polvani | Pietro Rainero | Rita Stanzione | Roberto Maggiani | Roberto Mosi | Salvatore Solinas | Serena Rossi | Sergio Gallo | Silvia Favaretto | Simone Carunchio | Ugo Berardi | Valentina Ciurleo | Valentino Zeichen | Walter Mereu

     L’AMIGDALA

(racconto inserito nell’antologia Arte e Scienza)

            “L’amigdala è un’area del cervello, grande in media come una mandorla, fondamentale nei processi emotivi. Alcuni studi recenti hanno identificato in quest’area profonda del cervello i meccanismi chimici che scatenano, tra gli altri, il sentimento della paura. Non solo. La ricerca ha anche dimostrato che le connessioni tra le cellule nervose che compongono l’amigdala si consolidano di fronte ad una situazione di pericolo. Lo stesso accade per le passioni, l’invidia, l’ira, l’odio, l’amore. La corteccia cerebrale contiene solo i dati astratti, il ragionamento, la conoscenza. Tramite la corteccia si può avere solo un’idea, un “concetto”, delle passioni. È l’amigdala che cattura le esperienze ad alto tasso di emotività. Fornendo ad ogni stimolo il livello ottimale di attenzione, arricchendolo, e, infine, immagazzinandolo sotto forma di ricordo”.
            Ripeto a me stesso, in una sintesi estrema, come per un ulteriore e più probante esame, quanto ho appreso in anni di studio. La teoria, lo spartito mentale mandato a memoria. Oggi però, è davvero arrivato il momento: ho deciso di cambiare. Voglio, anzi devo mutare pelle come un bruco, uno sgusciante serpente. Da esecutore divento creatore. Scelgo io, d’ora in poi, i tempi e i modi, i toni e i colori. Desidero dare vita alla mia musica. Sopra e con un corpo umano.
            Io e Cosimo eravamo amici. Abbiamo fatto l’università assieme. Stessi drammi, stesse sciocchezze, lo slalom gigante tra professori equi e professori infami. Siamo diventati entrambi chirurghi. Colleghi, come nei sogni, nei progetti cullati per mesi e mesi. Colleghi, ma con sbocchi del tutto diversi. Io ora dirigo una clinica di lusso, lui è poco più che un medico della mutua.
            Siamo rimasti in contatto. Mi parla, Cosimo, mi racconta di sé. Senza più leggerezza, senza simpatia. «Un giorno ti batterò» – mi ha sussurrato l’ultima volta al telefono. Sentivo lo stridore degli incisivi nella morsa delle mandibole. «Le cose cambiano, vedrai. A vincere ci tengo. Da morire».
            Ho continuato a sperare che scherzasse. Poi ho riflettuto. Cosimo non scherza mai. Ha preso a tempestarmi di telefonate, a seguirmi con la macchina mattina e sera, a fissare per ore da un’apertura della siepe me e la mia famiglia.
            Ieri ho deciso di chiamare Giacomo. Il mio miglior amico, senza ombra di dubbio. Fratello gemello di Cosimo, due autentiche gocce d’acqua. Anche Giacomo ha studiato con noi, ed è divenuto fatalmente un chirurgo, abile e ambizioso. Con lui, con Giacomo, ho osato confidarmi. Gli ho detto di suo fratello, dei sentieri di follia su cui è incamminato. Gli ho prospettato la soluzione: “disinnescare” Cosimo. Nel solo modo possibile. Disattivando l’amigdala. Una volta scollegata la mandorla avvelenata, l’amato fratello ed amico sarebbe tornato un agnellino. Saggio e mite come un monaco di clausura.
            Con un solo, lentissimo gesto della testa, senza mai guardarmi negli occhi, Giacomo ha acconsentito.
            Ho fatto preparare una sala superattrezzata nei sotterranei della mia clinica. Volevo operarlo io Cosimo. Ma Giacomo mi ha implorato di lasciar fare a lui. Conosco bene l’amore che Giacomo prova per il fratello. Non ho potuto che dire di sì.
            Fa un caldo insopportabile. Forse perché da anni non sono più abituato ad assistere ad un’operazione da semplice spettatore. Giacomo appare calmo, rilassato. Direi persino divertito. Muove rapide e sicure le mani, ma l’intervento procede in modo per nulla ortodosso. Il bisturi tocca punti del cervello da evitare ad ogni costo. Cerco di bloccarlo, ma vengo spinto via da due energumeni che si è portato dietro con la qualifica di “assistenti”. Posso solo guardare. Fino in fondo.
            L’operazione è fallita. Condotta e completata in modo opposto rispetto a quanto stabilito. Solo alcuni punti della corteccia sono stati disattivati. L’amigdala è intatta. Intatta e pulsante. Il reattore nucleare delle passioni è più vivo che mai.
            L’operazione è stata un autentico fiasco. Dal mio punto di vista.
            Guardo meglio il braccio sinistro dell’uomo che ha appena posato il bisturi e si lava con cura le mani. Sotto il gomito c’è una cicatrice che non avevo notato. Inconfondibile. Di forma trapezoidale. L’ultimo rabbioso colpo di becco assestato da una poiana alle braccia torturatrici di Cosimo un attimo prima che le spezzasse le ali.
            L’uomo disteso sul lettino si risveglia gradualmente dall’anestesia. Ha negli occhi uno sguardo di odio infinito adesso. Identico a quello del fratello.
            Entrambi fissano, con interesse per nulla professionale, la mia giugulare che trema di impulsi parossistici.
            Negli ultimi istanti mi aggrappo ad un filo di ironia. L’operazione sbalorditiva, sebbene in maniera del tutto particolare, è avvenuta. Senza alcun intervento sui tessuti e sulle cellule, senza utilizzo diretto di bisturi o laser, la mia corteccia cerebrale è stata completamente scollegata. Resta solo lei ora, minuscola e trionfante: l’amigdala. Perla densa fremente di orrore.
            Sì, l’operazione è degna delle pagine di «Lancet» e del «New England Journal of Medicine». Avrebbe ottime prospettive anche in chiave Nobel. Peccato che nessuno, da questo momento in poi, potrà e vorrà documentarla.
                                                                                                       IM

 

 

IL PONTE DEI SUICIDI (Non è Thelma e Louise)

The color of sunshine

Non è Thelma e Louise

 
Lo Skyway Bridge. 
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperto della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
          Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle.  Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre ora di rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.

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TAMPA, Fla. (AP) — A grand jury has indicted the ex-wife of a prominent attorney who was shot to death in his home.
Katherine King Freeman, 41, was indicted Wednesday on one count each of first-degree murder, attempted first-degree murder and armed burglary. She is accused of forcing her way into her ex-husband’s home May 15 and fatally shooting him.Grover Cleveland Freeman, 54, managed to call 911 but died later that evening. His wife, Connie, 50, suffered minor injuries after she was beaten with a gun during the attack and almost thrown off a second-floor balcony.
Six hours after the slaying, Katherine Freeman survived a 175-foot jump off the Sunshine Skyway Bridge. She underwent surgery after being pulled from Tampa Bay and remains in sheriff’s custody at Bayfront Medical Center in St. Petersburg.

TAMPA — A prominent attorney was shot to death in his home and his ex-wife survived a 175-foot jump off the Sunshine Skyway Bridge on Tuesday as detectives searched for her as a suspect.

Grover Cleveland Freeman, 54, called 911 but died at about 11:30 p.m. Monday from a gunshot to the upper body, the Hillsborough County Sheriff’s Office said.

Freeman’s wife, Connie, 50, had minor injuries after she was beaten with a gun and slightly strangled.

His ex-wife, Katherine King Freeman, 41, had surgery at Bayfront Medical Center in St. Petersburg after a fire department rescue crew pulled her from Tampa Bay. She was in critical condition.

Katherine Freeman is being charged with first-degree murder, aggravated battery and armed burglary of a dwelling, sheriff’s spokesman Rod Reder said.

Katherine and Grover Freeman have a daughter, Westin, 13, who was being cared for by family. They divorced in 1996 and friends said it was an amicable split, Reder said.

There were no prior domestic violence calls at either of the Freemans’ homes, Reder said. Katherine Freeman lived about a mile from her ex-husband, who had bought the home so he could be close to Westin, friends said.

Grover Freeman’s law partner Howard Hunter said he spoke with Connie Freeman on Tuesday, and she told him there was no trouble with Katherine Freeman.

The killing shocked Tampa’s legal and medical communities, where Grover Freeman had a reputation for defending doctors being disciplined by medical regulators.

Sheriff’s officials said the incident began Monday evening when Katherine Freeman forced her way into her ex-husband’s lakefront home and shot him. Reder said Connie Freeman confronted her.

The two woman struggled. Connie Freeman broke free and fled to a neighbor’s house to call for help.

Detectives searched for Katherine Freeman throughout the night. Shortly after 6 a.m., they received a telephone call that a woman was in the water below the bridge.

 

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The color of sunshine

(This is not Thelma and Louise)

 
Sunshine Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
The sea is a blue postcard. As if millions of dwarf slaves of the goddess of beauty painted every drop to make it more beautiful than that of Osaka or Adelaide, much sleeker, more American. It is only a bridge. Nay, it is the way to heaven. The road leading somewhere else, where the blue does not need to be painted and polished every day by the sweat of brow and arms.
Nearby lives Liza, my American beauty.
She loves Italy, and I love her love.
She says that she has Sicilian roots. But she’s like the Statue of Liberty – she comes from Europe but no one remembers that. She laughs, with those teeth eternally young and her brilliant mind far away from self-centered billionaires with hair resembling the fur of unkempt cats. She laughs and runs each day among her true cats, black and healthy, and her smooth lawns, no fences.
Today she has run to the airport, to take me, the sloth Italian drawn by her, by the thought of her flesh and mind, in this huge playground where every step brings you toward astonishment and fear. Where even the morning is bigger, thirstier, and the evening is a smooth lawn to walk and dream on.
She keeps talking and laughing, with that voice that sways like a song on the skin and sinks into the veins. She laughs, and before I can embrace her, she has already told me about her life, her brother, her cousins, relatives, work, the glasses of more and more colorful and alcoholic drinks, friends, gyms, massages, the steps of a lifetime between heat and wind, laughing and crying, perseverance and dreams.
I step into her giant car. She tells me that there, by them, that is a small car, similar to our Panda, the old model, square, still not completely extinguished. She has been in Italy, with her love, far away now. She saw St. Peter and St. Siro, the sun and the frost. She brought with her huge suitcases and heavy memories, regrets of cast iron and lead evenings. She has not stopped loving this crazy and strange country that is ours. But she is here now, in her own world. Playing at home, she is favored. She is the captain of the soccer team, as they say, of my overseas dreams.
She drives without hardly an eye to the road ahead, along wide and straight roads. I look at the road with one eye and at her with the other, and squinting has never been more full of fear and excitement. She brings me, first, to see their most beautiful monument: the Ocean. A huge installation on which no man has put a hand.
We cross the Skyway Bridge. And it’s like flying. Rapid and unstable, away from the ground. Close to the words of the story which, with a more intense laughter, she gives me as a gift.
She tells me of Kathy Freeman. The name is similar to that of the former Australian athlete specialized in speed. But our Kathy is another. She was used to walking slowly. Only in the final moment she accelerated.
Our Kathy Freeman one morning, that morning, prepared some homemade cookies, in her bathroom gently washed the child of a friend, chatted amiably with the neighbors in the early afternoon, then, a few hours later, shot a dozen bullets into her former husband, a successful lawyer.
Soon after she attempted to strangle the companion of her ex spouse, then, at the dawn of the next day, she got into her ’99 Cadillac and headed to the Sunshine Skyway Bridge. Yes, the Bridge of the Sun. The same endless, inescapable thing we are crossing now. She then threw herself into the air from the center span.
She survived. Against all logic, against all odds. Kathy wanted to do a complete job: she also violated the laws of physics.
According to police experts the strong winds of the bay slowed the velocity of her 138 pounds into the void. She was still conscious when, after being at the mercy of the ocean for forty minutes, she was fished out as a relic by the St. Petersburg fire brigade. A first check of her physical condition revealed a fracture of the legs and pelvis. She was taken to the Bayfront Medical Center and underwent surgery. Her condition was critical for internal injuries.
The following afternoon, less than twenty-four hours later, the Hillsborough sheriff accused the housewife and former stockbroker of first degree murder, armed robbery and aggravated assault.
The events have shocked her friends and neighbors. According to the testimony of her dear friend, Michelle, Katherine Freeman was a jovial person who cared lovingly for her daughter and had maintained a friendly relationship with her ex-husband despite their divorce in 1996 after ten years of marriage. She and her husband were two best friends who had gotten married. Michelle remembers that sometimes Kathy said that she missed her husband. And she added, referring to him, “Now I realize how much I liked him as a person.”
Katherine, Liza says again, had come to her husband’s house at eleven thirty in the evening, and had fired several shots at him. Then, after struggling with his current wife, she had fled. She had not returned home to her daughter whom she loved and protected with all her heart. Someone declared that an argument between her daughter and the wife of her ex-husband triggered Kathy’s fury.
The incident surprised those who knew that Kathy and her former husband were an example to point out to all of friendly separation.
The divorce decreed that, after they separated, to her husband had been awarded the marital house, valued at $ 650,000, several apartments, sports cars, and numerous bank accounts and stocks. Kathy had obtained 110.00 dollars in cash and $ 96,000 of alimony, plus half of the furniture and photographs. Grover Freeman, the famous lawyer, had married six months later with Constance (Constant) Elaine King. It happened on October 12. The same day America was discovered. We Italians always meddle. We cannot do without.
However, what matters is that the friends of the former couple claimed in unison that if Kathy had somehow suffered the separation and division, she didn’t show it. Basically it was just one of the many challenges she had faced, and overcome, in her life. In 1983 Kathy’s boyfriend had been shot to death. A year later she was taken hostage and beaten during a robbery in her jewelry shop on E. Busch Boulevard in Tampa. In 1986 Kathy had been assaulted by a stranger who had entered her home while her husband was out of town. Despite all this, her friends state, Kathy was not aggressive or resentful.
“Life goes on”, was her philosophy.
Recently, continued her friend Michelle, she was very full of optimism and had planned to take her daughter to Hawaii. When she spoke of her former husband, says Janine Rosen, she did it with respect. Indeed, with admiration for the successes he had managed through his work. But perhaps, says Janine, Kathy hid behind her jokes, spread via e-mail to friends and behind the parties that she organized for the neighborhood kids, her pain.
The Bridge is almost finished.
For sure the story of Kathy is over. The story that my beloved American baby (beautiful alliteration) told me in detail.
Liza adds some images. She always does. She does it as only she can do, with sweet malice, just like the ocean below us, that lulls us and would like to swallow our bodies.
Liza makes me reflect on the summary process. Here they do them quickly seriously, the trials. Sometimes better than a direct train would be an “accelerated”, or a regional, a train which stops at all the small stations. She tells me to try to imagine Kathy completely immobilized in plaster, present as a tragic and ridiculous statue to the trial where they tear to pieces and badly reassemble her life. Liza informs me that the Skyway Bridge is the suicide bridge. Every day there is a row of aspiring birds without wings.
She adds that some days, especially on Christmas Eve, there are volunteers who patrol the bridge to try to dissuade depressed men and women from taking the extreme action.
She tells me that she often thought about the Skyway Bridge. With love. I cannot stand her now, I cannot even watch her. I have a cramp in my stomach.
I would like to kill her. Without even preparing, the morning before, biscuits and baby baths.
I would like to return to Italy.
But through water routes.
I would like to throw myself into that sea larger than the world.
Then my lovely friend opens her mouth again.
She invites me to think how beautiful Kathy would be with her red hair blowing in the wind during her flight.
Before the impact.
When she was still air and freedom.
I, now, want to kiss her.
I look forward to the moment when the bridge is finally behind us. I cannot wait to get to Liza’s house, her patio, her swimming pool, her red bed always full of cats, books and phones. Always warm, always to be made.
I, now, I want to embrace her.
Skyway Bridge will forgive me.
Maybe on my way back I will think about it a little, about the jump.
Not now.
I have to think about what to say to convince Liza to wear that really small yellow bikini for me. The color of sunshine, yes! Like the bridge.

 

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CREDITS:

Ringrazio ACG per avermi raccontato la storia di Katherine e del suo libero e folle volo.

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Thanks to ACG from Florida for telling me the story of Katherine and of her crazy free jump.

IM

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
On May 15, 2000, the suspect, Ms Katherine Freeman entered the residence of the victims, shot Mr. Freeman, causing his death and then becoming involved in a physical altercation with Ms. Constance Freeman. She struck Constance Freeman in the head several times with the handgun and then fled the scene. Constance  Freeman fled the residence to a friend’s house. Mr. Freeman called 9-1-1 and died soon after. As the Homicide Unit was investigating this incident, Ms. Katherine Freeman drove her 1999 Cadillac to the center span of the Sunshine Skyway Bridge, exited the vehicle and jumped off of the bridge. Katherine Freeman was located in the water by St. Petersburg Fire Rescue and brought to land where she was airlifted to Bayfront Medical Center. As a result of the investigation, Sheriff’s detectives obtained a warrant for Katherine Freeman’s arrest, charging her with 1st degree murder, armed burglary (dwelling) and aggravated battery.
05.16.00, St. Petersburg Times, Tampa attorney slain; ex-wife jumps from Skyway and survives
Tampa lawyer Grover Cleveland Freeman Jr., 54, was shot to death about 11:40 p.m. Monday at his Carrollwood home by his ex-wife, who beat up his current wife, drove to the Sunshine Skyway and jumped off one of its lower spans, surviving the plunge, authorities say. 
Kathy Freeman broke both legs when she jumped from the bridge, Hillsborough sheriff’s deputies have reported. 
Freeman’s current wife, Connie, was treated and released from a local hospital. 
The shooting occurred at the home Mr. Freeman shared with his current wife at [address withheld]in Carrollwood. Mr. Freeman practiced law in the Tampa firm of Freeman, Hunter & Malloy. 

05.17.00, St. Petersburg Times, Top lawyer slain; ex-wife charged, Suspect survives leap off Skyway
Investigators say prominent lawyer Grover Cleveland Freeman Jr., 54, was shot to death Monday night by his ex-wife, Katherine, in his home in Tampa’s Carrollwood. Grover Cleveland Freeman lived there with his current wife, Constance. 
By AMY HERDY
TAMPA — Katherine Freeman delivered home-baked poundcakes, bathed a friend’s young daughter and chatted with neighbors Monday afternoon in her tony Carrollwood subdivision.
Hours later, investigators say, she shot to death her ex-husband, successful lawyer Grover Cleveland Freeman Jr., 54, before beating and attempting to strangle his wife in the couple’s two-story lakefront home in Carrollwood.
Katherine Freeman then drove her 1999 Cadillac to the Sunshine Skyway bridge early Tuesday morning and leaped from the center span.
Remarkably, she survived. Officials credited brisk winds with slowing the 140-pound woman’s descent. She is thought to be the fifth person to survive the 200-foot fall since the bridge opened in 1987.
Katherine Freeman was still conscious after drifting more than 40 minutes in the main shipping channel before being plucked from the water by officials with St. Petersburg Fire Rescue, said spokesman David Nolsheim. An initial assessment of her condition showed possible broken legs and a broken pelvis, Nolsheim said.
She was taken to Bayfront Medical Center, where she underwent surgery and was in critical condition with internal injuries.
Tuesday afternoon, Hillsborough sheriff’s deputies charged the 41-year-old homemaker and former stockbroker with first-degree murder, armed burglary and aggravated battery.
The chain of events stunned her upscale community and left the couple’s 13-year-old daughter in shock, friends said.
“We can’t fathom any of this happening,” said Michele Karpenko, a friend of Katherine Freeman’s who answered the door Tuesday morning at Freeman’s home at [address withheld], just blocks from her ex-husband’s house at [address withheld].
Like many neighbors, Karpenko described her friend as a vivacious, upbeat person who doted on her daughter and maintained a friendly relationship with her ex-husband despite their 1996 divorce after 10 years of marriage.
“They were best friends who got married,” she said. After the divorce, she said, Katherine Freeman would sometimes comment she missed her ex-spouse.
“She would say, “I realize how much I liked him as a person,”‘ Karpenko recalled.
Yet for some reason, investigators said, she armed herself with a handgun and entered her ex-husband’s home shortly after 11:30 p.m. Monday. She then confronted him, said sheriff’s spokesman Rod Reder, shooting him several times.
Upon hearing shots, Freeman’s wife, Constance Freeman, 50, approached the pair and was attacked by Katherine Freeman, who choked her, pistol-whipped her and broke one of her fingers, Reder said.
“Mrs. Freeman then ran to a friend’s house, and the suspect fled,” Reder said.
Grover Freeman called 911 but died at the scene.
It is not clear how Katherine Freeman spent the time after the shooting and before leaping off the Sunshine Skyway bridge Tuesday morning about 6.
However, she did not return to her home where her daughter was in the care of her mother, said Karpenko, who was watching after the teen Tuesday.
A neighbor and close friend of the couple, Laurie Winkles, said Katherine Freeman may have reacted to tensions between her daughter and Constance Freeman, who had been with the teen Monday when the girl placed a call to her mother.
“She was very protective” of her daughter, said Winkles, who described the woman as “passionate, and utterly devoted” to her child. “Something must have been said to really tick her off.”
The incident came as a surprise to others who said that Grover and Katherine Freeman were an ideal example of an amicable split.
Divorce records show that after the couple’s breakup, Grover Freeman kept the marital home, valued at $650,000, as well as several condominiums, sports cars and various bank and stock accounts.
Katherine Freeman received $110,000 in cash, $96,000 in alimony and $1,450 in monthly child support, plus half the furniture and photographs.
Six months later, court records show, Grover Freeman remarried on Oct. 12, 1996, to Constance Elaine King. If that situation was difficult for Katherine Freeman, friends say, she never showed it.
It was one of many challenges she had faced in life.
In March 1983, sheriff’s deputies said, someone shot to death her boyfriend, 30-year-old Ronald Heinlein, in his jewelry store on N Dale Mabry Highway.
“Kathy was dating Ronald, and he was a homicide victim,” said Reder, the sheriff’s spokesman, adding that the case remains open.
A year later, in February 1984, a robber took Katherine Freeman hostage after beating and robbing her in a jewelry store she owned on E Busch Boulevard in Tampa.
The suspect was shot by Tampa police 11 times in the store’s parking lot. He recovered and eventually was sentenced to prison.
In 1986, friends said, Freeman had recently given birth and was living in the Mossvale Lane home when she was attacked by an intruder while her husband was out of town.
Yet despite her hardships, friends said, Katherine Freeman was not angry, bitter or resentful.
“Her attitude was, “Life goes on,”‘ said her friend Karpenko.
Recently, she had been typically upbeat, neighbors said, and making plans to take her daughter to Hawaii in two weeks.
When she did talk of her ex-husband, it was with respect, said Janine Rosen, who lives across the street from Katherine Freeman’s one-story stone home.
“She spoke of him with admiration, talked of his successes,” Rosen said.
For her part, Winkles speculated that the friend who e-mailed her jokes and organized outings for their kids was perhaps hiding an inner pain, accumulated from her life experiences.
“I wonder if it all just added up.”

 
 
 
 
 
 

I PROMESSI (quasi) SPOSI

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Quel ramo del caseggiato di via Como che dà sulla Standa l’ho percorso almeno un milione di volte. Su e giù per le scale rischiando ogni volta i colpi di ramazza della portiera dati col manico con la perizia di Joe Di Maggio dei tempi d’oro. Ho giocato a pallone lì davanti, da bambino, a giornate intere, prendendo come pali di una porta immaginaria una Centoventotto Special parcheggiata lì dal settantasei e un cassonetto su cui i writers avevano scritto con un acrilico viola fuck the world. Raccolta differenziata antelitteram. Qui c’è poco di differenziato. Cemento, a tonnellate, negozi più squallidi di un garage usato come ripostiglio, una farmacia ogni cinquanta metri e un barbùn ogni venticinque.

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        Lucia l’ho conosciuta quando era ancora una ragazzina. Timida, sgraziata. I suoi occhi però sono grandi e profondi come un lago. Se li guardi bene li vedi attraversare da riflessi caldi di sole. Ci siamo conosciuti a scuola. Mi guardava e non mi guardava. Sembrava non cambiare mai espressione. Ma io sono testardo. Più testardo di lei. Ho continuato a guardarla e alla fine l’ho visto. Un accenno di sorriso: l’imbarazzo e la gioia di essere vista, pensata, amata. Le ho mandato un SMS. Non so neanche cosa ho scritto. Di sicuro so che devo aver fatto almeno una mezza dozzina di errori di ortografia su centoquaranta caratteri. Sono uno di periferia, io, un ignorante, un mezzo coatto. Pero c’ho messo il cuore. Quando ho sentito il suono del suo messaggio di risposta ho ringraziato la Provvidenza, e la TIM. Un po’ l’una e un po’ l’altra. Quel giorno ci siamo visti al parco. Non ha detto una parola, Lucia, e mi ha sì e no guardato una mezza volta, di sbieco, di striscio. Però, a sera, prima di tornare a casa, mi ha concesso di prenderle la mano nella mano.
        Don Rodrigo sta sempre davanti al bar tabacchi cartoleria ricevitoria della strada più trafficata del quartiere. Parcheggia lì davanti verso le undici di mattina la sua Mercedes nera modello zingaro benestante anni settanta, si siede a gambe larghe sulla sedia di plastica bianca e resta lì fino alle otto di sera. Fa due cose soltanto: con una mano dà ad intervalli regolari una rimestatina all’apparato da riproduzione, con quell’altra, quella piena di anelli da un etto e oltre, indica tutti quelli che passano. Vuole sapere tutto di tutti Rodrigo, chi sono, chi frequentano, che conto in banca hanno. Chiede informazioni su ognuno ai suoi scagnozzi. È sempre circondato da un gruppetto assortito di bravi ragazzi. Per comodità conviene chiamarli bravi, si risparmia. Don Rodrigo dice di essere spagnolo, di Valencia. Secondo il mio amico Cristoforo detto Christopher invece è calabrese di Vibo Valentia. Per la sua abitudine di aspirare le consonanti, tutte quante, con un rumore di risucchio che fa concorrenza a un lavandino. Eh sì, aspira Rodrigo, aspira spesso e volentieri. E, sempre secondo Chris, non solo le consonanti.

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        Per farla breve posso dirvi, cari miei venticinque lettori o giù di lì, che è successa la più antipatica delle cose: il calabro-spagnolo ha messo gli occhi addosso a Lucia. Sono certo che a lui personalmente non è mai piaciuta. A lui fanno sangue le tettone truccatissime e appariscenti modello Moira Orfei. Lucia è l’esatto contrario. Però sa bene, il maledetto, che una buona fetta della sua clientela sarebbe ottimamente disposta ad accettare l’articolo. Sa bene, l’infame, che, soprattutto su certi mercati esotici, la bianca esile e delicata riscuote grande successo.
        Ho parlato con Lucia. Abbiamo concluso che il solo modo per difenderci dagli assalti di Rodrigo e dei suoi tirapiedi è far capire a tutti che stiamo insieme, che siamo una coppia. Fidanzarci immediatamente, e, appena possibile, sposarci.
        Dire che Agnese, la madre di Lucia, non mi vede di buon occhio è dire poco. Mi odia, o, per dirla alla maniera di Aniello, un mio amico napoletano, mi schifa. In parte la capisco: ogni madre sogna il meglio per la propria figlia. E quello che posso offrire io al momento al meglio non somiglia neppure un po’. Cerco lavoro da mesi, da anni. Tutto ciò che ho trovato però, tramite una sottofiliale della Adecco, è un posto che non so neppure io di preciso cosa sia. Se a tutt’oggi qualcuno mi chiede se ho un lavoro oppure no, sono costretto a rispondere “non lo so”. Facendo la figura dello scemo, certo. Ma quello è il meno. A quello sono abituato. Ciò che faccio è più o meno questo: distribuisco volantini ed altra roba pubblicitaria. Quando va di lusso consegno anche qualche pacco a domicilio. Impazzisco a trovare case e appartamenti, non di rado suono i citofoni ma non mi fanno neppure entrare, e la benzina del motorino in ogni caso devo pagarmela da solo.
        Agnese mi considera un buono a nulla, scioperato e sciroccato. Dovendo scegliere tra me e Don Rodrigo sarebbe certamente molto incerta. Quasi un match alla pari. Alla fine però di sicuro preferirebbe lui. Almeno lui ha una Mercedes, si veste in gessato grigio dal lunedì alla domenica ed ha al collo una catena d’oro massiccio e un crocifisso di rubini color porpora. Inoltre, e questo fa la differenza, lui ha offerto a Lucia un futuro di ricchezza e prestigio: un futuro da modella.
        La sera in cui sono andato alla canonica di Don Abbondio per spiegargli la mia situazione e chiedergli un aiuto, ho avuto una conferma: non mi ha mai perdonato. Prima di tutto una colpa non mia, quella di venire da una famiglia che si è sempre vista poco o nulla alle messe e ai vespri. Poi, con memoria degna di un elefante, continua a rinfacciarmi una cosa: non aver voluto fare il chierichetto. Il fatto è che io di chierichetti ne conoscevo parecchi ed avevo ascoltato ciò che si dicevano. Servivano messa per potersi bere, dopo, in sacrestia, il vino rosso. Qualcuno si attaccava anche alle ostie. Quelle ancora da consacrare, per fortuna. E tutti o quasi aspettavano in gloria il momento d’oro, le benedizioni pasquali delle case. Le famiglie facevano a gara per offrire ai chierichetti biscotti e fette di torta. A me a sentire quei discorsi è venuto quasi il diabete. Mi è passata la voglia. Ho preferito starmene a casa mia a mangiare pane e salame, e, qualche volta, pane e Nutella.
        Don Abbondio non me l’ha mai perdonato. Un po’ capisco anche lui. Capisco lui che non capisce me. Voglio dire che, a ben pensarci, non ha torto: mi ha sempre visto poco, ha scambiato con me pochissime parole, e tutto quello che sa o crede di sapere l’ha sentito dagli altri. Chissà cosa gli avranno detto le sante donne e i fedelissimi della sua sacrestia. Nel migliore dei casi gli hanno sussurrato, a fin di bene, manco dirlo, che sono uno strano, uno che se ne sta per conto suo, uno che ha amicizie strampalate, parla con gli extracomunitari e con i gay, e, alla sua età, non è neppure fidanzato.
        C’è da capirlo, Don Abbondio. Non è neppure difficile intuire la sua reazione quando, a sorpresa, mi sono presentato all’uscio della sua ordinatissima canonica per dirgli che avevo necessità di sposarmi presto, anzi prestissimo, con la figlia di Agnese. Già, deve aver pensato, questo qua, un balordo, uno senza un lavoro fisso, si è messo in testa di far la vita comoda e di farsi i comodi suoi accasandosi con la figlia di una delle donne più ricche del quartiere. Una donna pia come Agnese, una che fa l’elemosina tutte le domeniche e ad ogni primavera dona una busta piena di maglie dismesse per i poveri. Chissà quali progetti si è messo in testa questo tipo qua, quali idee losche e strampalate. È un poco di buono questo, come si chiama… Remo, Renzo… non ha importanza. L’ho capito fin da quando era un bimbetto che è un ribelle, uno pericoloso. Eh, ma con me trova pane per i suoi denti! Sono un osso duro io. Un vaso di coccio, certo, ma di coccio robusto come il marmo.
        Sono uscito dalla canonica con le orecchie piene di latinorum e di italiano ancor più incomprensibile. Una cosa comunque l’ho capita: mi avrebbe sposato con Lucia solo se mi fossi ripresentato di fronte al suo cancello con le scarpe di Gucci, i pantaloni di Cavalli e la giacca di Versace. Solo questi tre Re Magi avrebbero potuto compiere il miracolo.
        L’immagine dell’abbigliamento stile Richard Gere in “Pretty Woman” mi fece venire in mente Gianguido Gherardelli, un mio compagno delle elementari attualmente avvocato di grido con tanto di studio a due passi da Via Montenapoleone. Solo lui avrebbe potuto consigliarmi dove e come trovare un posto che potesse darmi montagne di euro, bancomat superfornito e carte di credito come se piovesse. Non potevo presentarmi da Gianguido a mani vuote. Entrai in un negozio e comprai due grossi flaconi di gel a fissaggio totale. Un regalo consono al suo look. Durante il tragitto a piedi lungo la zona pedonale sbattevano l’uno contro l’altro, i flaconi, con un suono cupo e costante. Sembrava mi parlassero. “Che mi… ci vai a fare? Che mi… ci vai a fare?” – ripetevano. Erano gel siculi, saggi e sintetici. Avevano ragione loro. Fu gentile, Gianguido. Mi diede almeno una ventina di pacche sulla spalla, parlò dei tempi andati, di come eravamo pirla, di come cambiano le cose. Mi disse che mi trovava bene e che mi faceva un grosso in bocca al lupo, anzi un grande in culo alla balena. Chiamò la segretaria, si scusò e mi disse che aveva parecchio da fare.

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        Quella sera provai a telefonare a Lucia ma mi rispose la madre. Mi urlò di non disturbare più sua figlia, di trovarmi qualcun’altra, una adatta a me. Mi disse che Lucia sarebbe andata per molto tempo da una sua zia di Monza. Mettiti il cuore in pace, mi disse. Lucia non è per te, non è lo e non lo sarà mai.
        Durante tutto il periodo in cui Lucia è rimasta da sua zia abbiamo potuto comunicare solo tramite il computer. Ci scriviamo due e-mail al giorno. Il computer è quello della zia, ma chiude un occhio, fa finta di non vederla la nostra posta. La zia si chiama Gerry. Lei dice che Gerry sta per Gertrude, ma una volta Lucia mi ha scritto che il suo nome è Gerarda, l’ha sentita chiamare così da una sua amica d’infanzia. Si vergogna, Gerry, del suo vero nome. Anche se, a dirla tutta, a me non pare granché neppure Gertrude come nome. Non si vergogna invece, la zia Gerry, del suo passato di spogliarellista in un locale di lap-dance. È lì che ha conosciuto un ragazzo di Lugano, Egidio mi pare si chiamasse. Lo ha conosciuto quando era già sposata, con uno parecchio importante, tra l’altro. Si sono conosciuti e si sono innamorati. C’è chi dice che sia nato anche un bambino dalla loro storia. Poi Gerry è rimasta sola. Sola e seria. Non così seria però da proibire a me e Lucia di continuare a scriverci e ad inseguire il nostro sogno.
        Un paio di settimane fa, in un mattino che sembrava calmo, è successa la catastrofe. Ho aperto la posta ed ho scaricato tutti i messaggi. Ce n’era uno con un oggetto che mi ha fatto tremare il cuore di gioia: “I love you – Marry me”. Ho pensato subito a Lucia, L’ho aperto all’istante senza neppure guardare chi lo inviava. Era un virus, un verme affamato che mi ha divorato tutta la memoria. Computer bloccato, impossibile inviare o ricevere altri messaggi. Sono salito in macchina di corsa. Alla radio ho sentito che il contagio si era diffuso con rapidità impressionante. Una vera epidemia, una micidiale peste telematica. Gli hackers avevano fatto un ottimo lavoro, i computer cadevano uno dopo l’altro, febbricitanti, folli e alla fine morti, inservibili.

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        Parcheggiai in divieto di sosta nel bel mezzo della Zona a Traffico Limitato. Decine di altre macchine erano state lasciate lì come la mia, altre erano sulle strisce pedonali, altre ancora in tripla fila di fronte ai passi carrabili. Frotte di cittadini dagli occhi sbarrati e feroci puntavano dritti verso i negozi di elettronica. “Norton, Norton!”, urlavano. “Dateci il Norton o facciamo saltare tutto!”. Alcuni commessi erano stati sollevati per aria e rischiavano di essere scaraventati contro pile di scatoloni di hardware. Dovetti lottare per entrare. Feci a gomitate con un branco di clienti abituali di un Internet Cafè. Alla fine riuscii ad abbrancare un CD Rom con la versione più aggiornata dell’Universal Providential Firewall Judgement Day Antivirus.
        Tornando a casa incrociai un temporale estivo, un autentico uragano. Polverizzò la multa che, nonostante tutto, un vigile era riuscito a piazzare sotto al tergicristalli. Vedevo poco o nulla, ma ero emozionato, quasi felice.
        Volai su per le scale ed installai l’Antivirus. Funzionò, si dimostrò all’altezza delle attese. Aprii la posta e scoprii che anche Lucia era viva. Non era stata contagiata, poteva inviare e ricevere.
        Da quel giorno capimmo che bisognava agire, che dovevamo trovare il modo e il coraggio per incontrarci di nuovo. Gerry ci è venuta incontro. Ci ha capito e sostenuto. Non ha potuto consentirci di incontrarci a casa sua, questo no. Abita lì assieme ad altre signore molto serie e assai poco spiritose. Non avrebbero compreso e di sicuro avrebbero riferito tutto ad Agnese. Ha potuto chiudere un altro occhio invece, e ne è stata ben lieta, quando Lucia le ha chiesto di uscire con me la sera. Ha fatto finta di nulla. Ha sorriso però, con dolcezza e nostalgia, ogni volta che Lucia è salita sulla mia macchina e ci siamo salutati con un bacio.
        Abbiamo la macchina adesso, io e Lucia. La mia vecchia Peugeot 205 è tutto ciò che abbiamo. Lucia deve rientrare verso mezzanotte, e casa mia è troppo lontana. In più ci sono i miei genitori. La macchina è la nostra casa, la nostra camera. Lì siamo felici, in certi momenti. Parliamo poco, ma ci capiamo. Con le dita, con le carezze. Lucia rimane timida. Si spoglia malvolentieri, un po’ alla volta. Ogni sabato un millimetro in meno di gonna, un millimetro in più di pelle. Se continua così i pargoli li avremo all’incirca nel 2059.
        Io continuo a recapitare pubblicità e lettere a domicilio, lei continua ad essere una ragioniera diplomata col massimo dei voti in attesa di prima occupazione. Ci amiamo però. Questo è l’importante. Siamo uniti, un tutt’uno, dividiamo i giorni, il presente e la speranza di un futuro. Se oggi come oggi non fosse pericoloso affermarlo, direi che siamo “una famiglia di fatto”. Ci amiamo. È questo che conta.
        Il problema reale è che, alla fine di tutto, bisognerà cambiare il titolo di questa vicenda. I promessi (quasi) sposi, potrebbe essere la soluzione attuale. Sì, mi sa proprio che si dovrà cambiare il titolo della storia. E non solo quello. 

Ivano Mugnaini