Archivio mensile:Giugno 2020

MARLOWE VS SHAKESPEARE

 1200px-sipario

 DRAMATIS PERSONAE:

SHAK : William Shakespeare
BURB : Richard Burbage, principale interprete dei maggiori lavori teatrali di Shakespeare
MARY : Mary Winifred Burbage, moglie di Richard Burbage

High-resolution 3d Animation of the : video stock a tema (100 ...

 

SHAK : La notizia è ufficiale: è morto Christopher Marlowe. Uno dei due maggiori autori del suo tempo. L’altro è ancora vivo, e, spero, lo rimarrà ancora a lungo!
BURB : E’ possibile William che tu non riesca a comportarti come si deve neppure di fronte alla morte?
SHAK : Come no? Ci riesco perfettamente. Faccio ciò che si deve. Ciò che si adatta alla morte. Anzi, esattamente il contrario. Se resto me stesso, se non cambio, rimane vivo anche Christopher. Se scherzo come se fosse in vita, e lo amo e lo odio come prima, Christopher c’è ancora. E ancora sopravvivono i suoi scritti, le sue parole. E’ qui, con noi, lo è stato, lo è e lo sarà. Sì, viva quel figlio di un cane di Christopher Marlowe!
[Esce Shakespeare, cantando versi sconci]     
BURB : Non riesco a capirlo. È un uomo fatto di nulla, di fiato, di aria impalpabile.
MARY : Ogni uomo è fatto a suo modo. William è le sue parole.
BURB : È stato lui ad ucciderlo! Ne sono convinto. Ora più che mai.
MARY : Ma cosa dici, Richard?
BURB : So bene cosa dico, lo so alla perfezione. William ha sempre odiato Marlowe. Lo ha sempre considerato un ostacolo, un impedimento. Ora, togliendolo di mezzo, si è spianato la strada per la gloria e il successo. Marlowe era l’unico in grado di tenergli testa. Anzi, forse gli era superiore per ispirazione e inventiva. William lo ha fatto assassinare da un sicario in una rissa di taverna. Marlowe era facile all’ira, è stato facile attirarlo in un tranello.
MARY : Stai dicendo cose senza senso, Richard.
BURB : Magari fosse così! Ne sarei felice. Ma si tratta solo della verità. La realtà nuda e cruda. Tolto di mezzo il rivale, William può volare solitario nei cieli della fama. Era un pollastro di campagna, un gallinaccio impolverato di Stratford, ancora mezzo sporco di letame. Ora, grazie al teatro, grazie a me, alla voce e alla faccia che gli presto da anni, si è potuto rivestire di piume nobili d’aquila e di falco. E di falco ha sviluppato anche gli artigli e la cupidigia. Ha eliminato Marlowe senza alcuna esitazione. Un taglio netto alla gola, una ferita mortale. Ma William è un falco astuto, civilizzato. Non si è sporcato di sangue. Lo ha fatto fuori per interposta persona.
MARY : Non credo a una sola parola di quello che dici! Marlowe è sempre stato una testa calda. Non ha fatto altro che mischiarsi ai delinquenti, alla peggiore feccia. È chiaro che presto o tardi un incidente del genere poteva accadergli. Si è trattato solo di una disgrazia, e Marlowe ha fatto di tutto per andarsela a cercare. Perché ti accanisci contro William? Sono certa che anche lui, a suo modo, soffre per la scomparsa di Marlowe. Come puoi accusarlo in questo modo? E perché proprio adesso? Hai sempre amato William, lo hai sempre rispettato. Cosa è cambiato ora?
BURB : Non è cambiato niente, è questo il punto. Solo che, in questo preciso istante, mi ha colto un senso di vertigine, la coscienza del vuoto. Mi sento sull’orlo di un baratro, e l’aria, adesso, pesa come pietra. Sono stanco di recitare. La morte trasforma le cose. Ti penetra dentro e ti cambia, anche quando non è la tua. Perché la morte è di tutti, identica, democratica, giusta, inesorabile. Marlowe lo conoscevo appena. Non ho mai recitato in un suo dramma, non ho mai parlato con lui. Però ho ascoltato le sue parole. Le ho fatte mie. I suoi versi, le ambizioni, le tragedie, le miserie e le grandezze. Sera dopo sera, mentre davo vita a Enrico IV, a Riccardo III e a Tito Andronico, dentro di me sentivo crescere l’urlo di rabbia di Faust e Tamerlano, la loro sete di potere e di conquista. Diventavo Marlowe, mentre recitavo, frase per frase, i testi cesellati da William.
MARY : È normale, Richard. Sei un attore, ma hai diritto anche tu, come tutti, ai tuoi pensieri e ai sogni al di fuori della scena. È giusto conservare spazio per il mondo autentico, le passioni reali, le verità.
BURB : Già, è normale. Ma mio padre mi ha portato su un palcoscenico molto prima che fossi in grado di parlare e camminare. Facevo la parte del neonato rapito dai pirati. Mi infagottavano in un drappo azzurro e mi sballottavano da una parte all’altra. Dalle braccia dell’attrice che impersonava mia madre a quelle dei guitti vestiti da bucanieri. Piangevo, atterrito. Una recitazione perfetta, del tutto adeguata al ruolo. Ecco, posso dirti che i primi versi che ho recitato sono stati i singhiozzi di un pianto. E quelle sono state le prime e le uniche volte in cui la mia parte è stata sincera. Le sole volte in cui la finzione ha combaciato con la vita. Solo che non avevo coscienza, ero un bimbetto frignante, incapace di pensare. Capace soltanto di sentire paura e dolore. Ho potuto ragionare solo in seguito su quella beffarda ironia. Solo più tardi, quando ero già un attorino giovane, solerte, rispettoso del testo alla virgola, attento al ritmo, alle pause, alle entrate in scena e alle uscite imposte dal copione. Sono stato sincero, in vita mia, solo quando non lo sapevo. Quando esprimevo la sofferenza per istinto, come un qualsiasi animale. Dopo, per anni, per lunghe stagioni di esordi e di repliche, sono stato sempre e soltanto un fantoccio. Pieno di vento e orgoglio, carico di gesti e follie generate da altre mani, altre menti. Sangue e inchiostro alieno. Sono stato William Shakespeare, per anni interi. I suoi eroi, i bellimbusti, i condottieri, i Romani, gli Ebrei, i Veneziani, i vincitori e vinti della sua fantasia. Tutti trionfanti, alla fine, gli uni e gli altri. Acclamati dal pubblico, osannati, imitati. Sono stato William Shakespeare. Restando me stesso, però, un sacco vuoto colmo di echi nudi di parole. Poi, un giorno, è giunta a me la voce di Marlowe. Ho scoperto che esisteva qualcosa, qualcuno in grado di coprire quell’eco con un grido possente. Qualcuno più forte, più folle, più dotato di disperato talento. Ho lasciato che la voce di Christopher crescesse in me, sera dopo sera, spettacolo dopo spettacolo in un vitale e distruttivo controcanto.
MARY : Ora capisco la ragione del tuo dolore. Ma non puoi lasciarti accecare dalla rabbia. Marlowe è morto, ma restano le sue parole, le invenzioni, la verità. La verità, sì. Bisogna averne rispetto, conservarne la natura, lo spirito profondo. Non puoi accusare William. C’è un confine netto tra realtà e finzione, ragione e follia. È la verità, che ti piaccia o no. Bella o brutta, dolce o agra come veleno, è necessario riconoscerla, rispettarla; è il solo dio, la verità, che si concede alla nostra vista. Si tratta di chinare la testa, guardarlo negli occhi un istante, e venerarlo una vita intera.
BURB : Hai ragione. Hai sempre ragione, Mary. Bisogna venerare la verità. È un comandamento, una necessità. Allora, finalmente, mi inchino. Grazie a te ne trovo la forza. Mi genufletto, davanti a te, che sei il mio amore, la sola persona in cui posso specchiarmi senza vedere il baratro della distanza e dell’indifferenza. Dono a te la mia verità, ad occhi chiusi, piangendo, come quando ero un fagotto di carne conteso da braccia sconosciute sulle tavole di un palcoscenico. Piangendo e gridando, ti regalo la verità che desideri. Ma è un dono che faccio soprattutto a me, ad essere onesto. Liberandomene, mi sgravo del fardello di me stesso.
Christopher Marlowe l’ho ucciso io. Sì, io, Richard Burbage, attore ricco e famoso. Non è stato difficile, in fondo. Ho solo indossato un travestimento in più, un tabarro scuro con un cappuccio che mi copriva la faccia lasciando scoperti solo gli occhi. Ho impersonato la parte di un cupo e taciturno sicario. Ho provocato Christopher quel tanto che è bastato per costringerlo a reagire. L’ho sopraffatto, colpendolo più volte ai fianchi, al petto, al cuore. Ho guardato il suo sangue colare a fiotti. Sono scappato via, gettando il mantello tra gli arbusti di una boscaglia. Sono andato a passi lenti, poi, da aristocratico in gita di piacere, fino alla cittadina più vicina. Ho preso una carrozza e sono tornato a casa, sereno, pulito.
 Tutto facile. Anche raccontarti, fin qui, cosa ho fatto. Più complesso, molto di più,  è parlarti dei perché. Potrei dirti che per William ho provato immediatamente un’istintiva antipatia. Mi è sempre risultato indigesto, lontano, incompatibile con il mio modo di vedere e pensare. Christopher, invece, lo amavo. O meglio, cominciavo ad amarlo. Sentivo nascere in me quella passione, quella comunanza che ti fa riconoscere nell’altro, fino a sentirlo dentro, percependo te stesso in lui. Cominciavo ad amarlo. E ho dovuto fermare quell’amore. Ad ogni costo. Perché sarebbe accaduto come con William: mi sarei accorto di non essere nulla al suo confronto. Il paragone mi avrebbe annichilito. Solo che, nel suo caso, l’amore sarebbe stato un ulteriore carico, un macigno in più. Posso sopportare di essere il fantoccio di stracci di qualcuno che mi sta indifferente o che odio, ma non riesco ad esserlo nei confronti di qualcuno che amo. L’abisso di distanze tra il desiderio e la realtà mi avrebbe schiacciato, tramutando la mia mente in poltiglia. L’ho ucciso per salvarmi. C’è qualcosa di più forte della pietà umana, dei dettami della morale; qualcosa di più forte dell’orrore, e perfino dell’amore: l’egoismo, il grido assordante dell’istinto di sopravvivenza. Chiamala come vuoi, anche solo pazzia, magari. Qualunque nome gli diamo, non muta la sua essenza.
È questa la verità che volevi. La sola, l’unica che mi è stata data in sorte in questo “racconto pieno di rumore e furia narrato da un idiota”. Ecco, vedi, neppure in questo momento riesco a smettere di recitare. Sono e rimango un attore, è condanna e privilegio. Forse anche tutto ciò che ti ho confessato è una fandonia. Il mio tentativo personale di creare una vicenda di cui, per una volta, sono anche il regista e l’autore. Certo, magari è così. Decidi tu. Il compito è tuo, adesso. Ora sei anche tu un’attrice, amore mio. Attrice e sceneggiatrice costretta a far combaciare la faccia con la trama. Quella che pensi di architettare pagina dopo pagina, atto dopo atto, e che spesso, al contrario, si scrive da sola. La vicenda nasce nell’atto di recitarla, mentre, magari, pensi a qualcos’altro, o provi a sperare un epilogo diverso. Ma questa è un’altra storia, vecchia, risaputa. Riguarda ciò che rimane, ciò che si salva, e che, spesso, non salva te.
“Il resto è silenzio”, scrive il grande William Shakespeare. E, come sempre o quasi, ha ragione lui. Il silenzio è cosa buona e giusta, è pietoso, generoso. Lo affermo io, contro il mio interesse, io che vivo di fiato e suono di parole. Il silenzio è pietoso, ma tu, amore mio, hai voluto ascoltare il frastuono di metallo della verità. Ora anche tu ne ascolti il clamore. Devi muoverti, correre su tavole impolverate, per non sentirlo più, o fingere con te stessa di non sentirlo. Devi scegliere anche tu, da questo preciso istante, la verità che vuoi e puoi sostenere, quella che ti consentirà di campare, venendo a patti con la vita, fino alla scommessa scontata e persa con qualche sollievo, la morte.
Scegli tu la verità, Mary. Traccia il confine, la linea rossa di vernice e sangue tra realtà e finzione. Adesso siamo davvero uniti per il bene e per il male, amore mio. Facciamo la stessa strada, sotto un cielo che ti scruta senza mollarti un istante. Fai la tua scelta. Dovrai decidere anche tu quale realtà percorrere, da quale cammino lasciarti attraversare. Anche tu ora, come me, dovrai dire a te stessa, istante dopo istante, se sei bugiarda oppure assassina”.
William Shakespeare 2Richard Burbage, amico di William Shakespeare

A List Of 27 Most Famous #Hamlet #Quotes | Betrayal quotes, Life ...

Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese

anna-maria-ortese
Anna Maria Ortese è nata a Roma il 13 giugno 1914. in questi giorni in cui ricorre l’anniversario della sua nascita, ripubblico un “viaggio” sulle tracce del suo “realismo visionario”.
IM

Anna Maria Ortese

Viaggio nel realismo visionario di Anna Maria Ortese: la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”

“Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di sé stessa Anna Maria Ortese.
Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.
         Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice.  Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.
Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.
“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione” (L’Infanta sepolta, Adelphi, Milano 1994, p. 17).
Questo è uno dei ritratti che la scrittrice delinea con meticolosa passione del volto, di uno dei volti possibili, della sua amata. Ma la città in cui la libertà espressiva della gente è assoluta e autentica è troppo vivida e lacerante, forse, persino per lei. Per chi, come la Ortese, anela un ponte che possa mettere in contatto le sponde del vero e del sognato, la realtà coloratissima, vibrante ma anche cruda di una città inafferrabile come Napoli è spiazzante, è un’attrazione tanto intensa da risultare dolorosa. Un luogo in cui si ritrova, si riconosce, ma inesorabilmente si smarrisce. Forse non è un caso che uno dei libri più noti che la Ortese dedica alla città partenopea sia contraddistinto già nel titolo da una negazione: Il mare non bagna Napoli. Quasi a sottolineare, montalianamente, che tutto ciò che possiamo sapere, oltre che avere, di questo vasto insieme di vicoli e vite, è ciò che non sappiamo e che ciò che non possediamo. Oppure, in modo più semplice e più intricato allo stesso tempo, potremmo ipotizzare che il paradosso logico e geografico alla base del titolo sia una presa di posizione, una trincea difensiva: negare il dato di fatto per sottrarsi alla morsa contrapposta di troppa verità e di troppo mistero, “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” generano una confusione che è sì meravigliosa ma anche difficile da conciliare con quell’amore per la solitudine, con la sua altrettanto meravigliosa e ugualmente assoluta necessità.
 
Il porto di Toledo, quindi, il romanzo a cui la Ortese si è dedicata una vita intera, come un’immensa tela di Penelope, è la risposta, o meglio il modo per prolungare in eterno una domanda, un persistere di idee e sensazioni contrapposte: l’attrazione irresistibile e la necessità di fuggire verso un altrove che è soprattutto interno, interiore, quindi ulteriore paradosso, il ritorno ad un punto di partenza che non si può accettare come stabile. Questa è la condanna dell’autrice, una fuga costante, una diaspora della mente e del cuore per tornare a ciò che le corrisponde ma da cui deve costantemente fuggire.
Nel gennaio del 1933 muore alla Martinica il fratello Emanuele, marinaio. Lo smarrimento la porta a scrivere poesie. Pubblicate dopo alcuni mesi dalla rivista La Fiera Letteraria le valgono il primo incoraggiamento a scrivere. Nel 1943 termina il suo primo racconto, “Pellerossa”. Il tema è coerente con il suo approccio, lo sguardo e il punto di osservazione che le sono propri. Lei stessa sostiene che in questo racconto «è adombrato un tema fondamentale della [sua] vita: lo sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove saranno condotti gli uomini comuni».
Nel 1937 pubblica i racconti Angelici dolori, anche in questo caso traspare la volontà di mediare tra corporeo e immateriale, proiettando l’umano in una dimensione ulteriore che tuttavia è anch’essa afflizione, inesorabile eterno ritorno.
In seguito la sua ispirazione artistica sembra affievolirsi. Si sposta in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze e Trieste, nel 1939 è a Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritorna a Napoli, e collabora alla rivista Sud, dove, tra gli altri, conosce Luigi Compagnone e Raffaele La Capria.
Nel 1953 pubblica II mare non bagna Napoli, a cui ho fatto cenno sopra, uno dei romanzi chiave, dal punto di vista letterario e umano. L’ultimo racconto del libro, “II silenzio della ragione”, dedicato agli scrittori napoletani, suscita in città violente opposizioni. Sembra un messaggio indirizzato ad un amore tormentato, una lettera volutamente cosparsa di veleno. Per generare lo strappo, la scissione da un sentimento di appartenenza troppo stretto, tanto grande da risultare annichilente. A partire da quel momento, da quello scritto estremo, la Ortese avrà difficoltà a tornare a Napoli. A tornarci di persona, in carne ed ossa, perché in realtà il legame resta vivissimo, come si è detto. Oltre a II porto di Toledo del 1975, anche II Cardillo addolorato scritto molti anni dopo, nel 1993, testimonia e conferma un pensiero mai spento, una compenetrazione profonda.
In uno dei suoi trasferimenti a Milano scrive i racconti Silenzio a Milano, titolo anch’esso emblematico, quasi a voler contrapporre due mondi che costituiscono due sue dimensioni, esistenziali ed espressive, l’esuberanza espressiva del sud e la necessità dei colori e dei toni più tenui, quasi offuscati. La scrittrice nei primi anni ha un rapporto speciale con il capoluogo lombardo, inoltre qui, negli anni ’50, nasce il suo amore con il caporedattore dell’Unità, Marcello Venturi. Anche Milano con il tempo si tramuta in un luogo d’esilio. Come se anche con le città, così come con i suoi simili, la scrittrice provasse un’attrazione che a un certo tempo si trasforma, cambia di segno, forse per eccesso di affetto o per una consapevolezza che subentra, per un mistero che, una volta penetrato, la appaga o la spaventa. La scrittrice lascerà Milano, definitivamente, durante gli anni della contestazione, nel 1969, dopo avere cominciato qui la prima stesura de Il Porto di Toledo, per rifugiarsi a Roma. Di fronte agli accadimenti della storia, alle rivolte e ai conflitti, la Ortese fugge, ancora una volta, prima in una metropoli, poi in un ambiente più raccolto, consono alla necessità dell’isolamento, Rapallo. Qui vivrà a lungo con la sola compagnia della sorella, Maria, pittrice afflitta da disabilità, quasi un alter ego, uno specchio in cui si osserva e si riconosce.
È facile immaginare che nella quiete appartata di Rapallo, circondata dai gesti alacri e dal dialetto rapido dei liguri, alla Ortese capitasse, per contrasto, di ripensare alle lentezze ataviche del Sud, a quel mondo così diverso da quello delle nebbie ovattate. La Ortese percepiva nel Mezzogiorno la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. Annota, tra l’altro, che a Vieste, in Puglia, «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente». Questa dichiarazione, anzi, questa prova assoluta, espressa dal corpo oltre che dalla mente, della disperazione, intesa nell’accezione esatta e inesorabile di “mancanza di speranza”, con ogni probabilità ha sempre inorridito la scrittrice. Forse perché, anche in questo caso, vi riconosceva molto di suo. La sua risposta personale è stata la scrittura: dare una forma, e una voce, a quella mancanza di punti di appoggio, a quella dimensione amata eppure estranea, ferocemente aliena, incomprensibile perché sommersa dalla verità del mondo.
 In Città involontaria scrive: «tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata» e in un altro racconto osserva: «per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra». In un’intervista rilasciata molto più tardi, nel 1994, quasi un resoconto o un compendio, dichiara:  
“Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia”.
La “lacera condizione universale” del Meridione non è solo un puntuale reportage, una testimonianza. È anche e soprattutto un paradigma dello spaesamento interiore, di quello smarrimento totale, inteso anche come perdita dei riferimenti essenziali. Come sosteneva Pasolini, l’autenticità perduta era l’unica ricchezza di un mondo snaturato e smarrito. L’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato la propria unica speranza nel momento in cui si è disfatta delle proprie radici ed è crollata in un baratro da cui è impossibile risalire.
Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura  tanto tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo». Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla».
L’analisi è lucida, aspra, non per una forma di compiacimento o di paternalismo infarcito di un senso latente di superiorità. C’è un desiderio autentico di comprendere, di individuare le radici del male. Ci sono parallelismi, per certi aspetti, anche nel brano tratto da Il mare non bagna Napoli qui di seguito riportato, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. In particolare nel riferimento al “sonno”, all’apatia atavica. Il Sud è scrutato con occhio lucido ma sincero. Con una compenetrazione autentica, non con l’occhio di un colonizzatore o di un entomologo che descrive un insetto strano e malato: «Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro ‘regolata’, sono dovute le condizioni di questa terra, e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.
Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste ragioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa».
Naturale, non solo in virtù di un gioco di parole, è anche l’accostamento con le tematiche leopardiane, quell’oppressione che è imputabile in parte alla natura in parte al destino e alla storia.
Le terra del Sud è «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato», in quel silenzio che è anche tentativo di dialogo, muto ma tenace, con qualcosa che non si scorge ma si fa sentire, spesso come oppressione, afa, bagliore immenso e accecante, si individua il senso interiore della condizione meridionale.
La complessità della scrittrice avrebbe richiesto un’analisi molto più approfondita. Già da questi brevi appunti è stato possibile tuttavia intravedere qualche scorcio, iniziando un viaggio alla scoperta dell’immaginifico quanto reale mondo di Anna Maria Ortese: un universo dove accanto ai segni tangibili dei luoghi e degli eventi del tempo si percepisce l’attrazione e la necessità di pensare, e pensarsi, in un luogo altro, una collocazione ideale, allo stesso tempo defilata e protetta e immersa nel fluire, quasi un’utopia impropria e spuria, un sogno che non ignora la carne reale delle sofferenze che vorrebbe riscattare se solo potesse sperare davvero di riuscirci.
L’appellativo di «zingara assorta in sogno» attribuitole da Italo Calvino è emblematico, in quest’ottica. La scrittrice è immersa nel sogno ma non nel sonno. È assorta, quindi astratta, in apparenza estranea. Ma non dorme, una parte di lei resta vigile, presente, e vede, con occhi non solo reali.
Così ho pensato di andare/ verso la Grotta,
in fondo alla quale,/ in un paese di luce,/
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”
(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi).
Si deve alla Ortese, tra l’altro, il verso che ha dato origine al titolo del film di Mario Martone dedicato a Leopardi. Tra le sorelle e i fratelli ideali della Ortese, si possono individuare autrici e autori molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati da una ribellione che si manifesta nelle forme di una fuga verso  luoghi di elezione, isole e fortificazioni difensive, concrete e metaforiche.   Le è affine Elsa Morante, ad esempio, che come lei ha creduto nella «inesistenza», in un mondo “fiabesco” ma sempre ancorato al vero, all’umanità in carne ed ossa. Oppure Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, da lei definito «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole». In un altro dominio artistico, quello delle arti figurative, si può forse individuare quella che si potrebbe definire una raffigurazione iconografica del senso e delle suggestioni profonde della Ortese. Le pagine della Ortese si possono accostare ai quadri metafisici di De Chirico, a quelle ombre che si allungano a dismisura in piazze in apparenza inanimate, algide, apparentemente partorite da un impulso astratto della mente. Eppure, a ben vedere, c’è sempre un modello concreto ed esistente, un’osservazione a monte, attenta, del vero. Un vero che tuttavia non basta, così come non è sufficiente e non è esatta la definizione di surreale. La ricerca, mai interrotta, sempre in fieri, è quella di una realtà altra, sottratta alle miserie del contingente. Per giungere forse in un attimo di privilegio assoluto ad una comprensione più intensa del mistero del dolore e della bellezza. Per cogliere in un oggetto, in un orologio che segna un’ora inesatta o improbabile, il senso dell’umano.

di Ivano Mugnaini

Nazione Indiana – recensione a “La Cosa”

img-book
“La cosa, quindi, è il centro dell’interesse. Non la cosa da un altro mondo, ma da questo. O meglio da questo mondo e da tutti i mondi, reali e immaginari, saggi e pazzi, belli e orrendi che questo nostro folle folle mondo racchiude”.
Su Nazione Indiana una mia recensione al libro “La Cosa” di Gianluca Garrapa, con qualche escursione su cinema, pittura, poesia e altre “cose” belle

Nazione Indiana – recensione a “La Cosa”

200 opere e un'anteprima mondiale. Escher a Trieste - LivingCorriere

 

Note a margine di Ivano Mugnaini

su

La cosa, di Gianluca Garrapa

Edizioni Ensemble, Roma, 2020

 
La nota sulla quarta di copertina de La Cosa è di Paolo Zardi, autore tra l’altro di Antropometria e Il giorno che diventammo umani, due titoli che fanno cenno a “misurazioni” e “metamorfosi”. Zardi osserva che «Garrapa guarda al mondo con l’occhio lucido e curioso di un filosofo, e poi ce lo racconta con voce di poeta». Cedendo all’istinto di mettere in relazione in modo arbitrario (ma si sa, si resiste a tutto tranne che alle tentazioni) i “dati” fin qui raccolti, potremmo dire che il Garrapa filosofo misura il mondo, soprattutto l’estensione della follia, e il Garrapa poeta immagina un modello nuovo di zecca, un prototipo ipotetico. O forse è vero il contrario. O entrambe le ipotesi, anzi, le cose.
Sì, perché non è ignorabile la consistenza scabra del titolo di questo libro, ulteriormente rafforzata da un’altra raccolta di racconti dello stesso Garrapa, battezzata con un nome più esteso, quasi un verso, sia in senso poetico sia come esclamazione di fronte ad un senso di oppressione, acustica e morale: Un ronzio devastante e altre cose blu. La cosa, quindi, è il centro dell’interesse. Non la cosa da un altro mondo, ma da questo. O meglio da questo mondo e da tutti i mondi, reali e immaginari, saggi e pazzi, belli e orrendi che questo nostro folle folle mondo racchiude.
La follia è una formidabile navicella per esplorare universi. Per attraversarli, crearli, distruggerli, esserne distrutti a nostra volta e creati, mutati, senza essere mutanti. Garrapa lavora in ambito scolastico e psichiatrico come counselor a orientamento psicoanalitico e conduce laboratori ludico-creativi e di scrittura ‘desiderante’. Tutto ciò potrebbe anche non avere alcuna influenza diretta sulla sua narrativa, ma il parallelismo tra la natura ludico-creativa dei suoi racconti e ancor più l’attrazione dell’etimologia della parola “desiderante” sono troppo potenti, sono magneti che ci conducono a caccia di meteoriti. De-siderare indica la “mancanza di stelle”, di buoni presagi, di buoni auspici. Quindi per estensione questo verbo ha assunto anche l’accezione corrente, intesa come percezione di una mancanza e, di conseguenza, come sentimento di ricerca appassionata.
In una biografia semiautobiografica Garrapa si definisce, tra le altre cose, “descrittore cromatico”. Quindi questo libro potremmo definirlo come il de-siderio del de-scrittore. E l’aggettivo “cromatico” si ricollega, forse, anche al cenno alla “poesia” a cui ha fatto riferimento Zardi. La poesia colora il mondo con occhi liberamente folli, e quindi saggi, penetranti. Una mia amica pittrice, Susanna Barsotti, anche lei poliedrica artista, colora i limoni di blu. Garrapa colora le cose del mondo con una gamma cromaticamente libera ed assolutamente fedele al vero, a quella verità che va altre il confine, il limen. L’autobiografia semiseria e semivera dell’autore prosegue così: «Ama la bicicletta e da due settimane si è riscritto in palestra, ma non durerà molto. Crede nell’esistenza degli extraterrestri». Forse anche gli extraterrestri credono nell’esistenza di Garrapa. Sì, perché, nel “ludus” di Garrapa, anche nelle parti più esplicitamente bizzarre o surreali, c’è sempre un rigore quasi chirurgico, una precisione che conserva anche nel riso un’attenzione al dettaglio millimetrico. Che la comicità sia una cosa serissima, l’autore di questo libro lo ha capito, anzi lo ha metabolizzato da tempo. Il suo è uno sguardo alla Buster Keaton: la gag è comica, il mondo inciampa, si ribalta, anche per effetto di un singulto esilarante, ma la faccia è immancabilmente, rigorosamente, potremmo dire necessariamente tragica. Il regista William Asher disse di Keaton: «I always loved Buster Keaton. He would bring me bits and routines. He’d say, ‘How about this?’ and it would just be this wonderful, inventive stuff.» Il primo film girato da Keaton per la Metro-Goldwyn-Mayer fu “Il cameraman”. Ecco, potremmo dire che Garrapa è un cameraman alla Keaton, osserva il mondo reale e quello possibile, quel pianeta popolato da extraterrestri che è la psiche umana. La cinepresa narrativa si intrufola in ambienti disparati, a volte disperati, ma sempre con quel filo di salvifica ironia a cui aggrapparsi. Modula, Garrapa, anche il ritmo dei dialoghi a seconda delle situazioni. A volte si ha un taglio di montaggio breve, immediato, come nel racconto “La siepe”, caratterizzato da un incipit fulmineo: «Mio fratello morì prima di mezzanotte». In altri casi, al contrario, c’è un indugio esteso, diluito, deliberatamente estenuante: «Oltre il muro di cinta aguzzo in cima di sbreghi di cielo capovolto desiderio di nebbia che scivola insinuante tra le fessure inconcludenti della coscienza che non sa mai dove finisca lo sguardo e l’oggetto che preme sui sensi, avvolgendo di pregnante fragranza di tiglio, all’inizio d’estate, la percezione del limite tra dentro e fuori – esiste ancora lo scheletro di un albero di fico parsimonioso ormai di rami e foglie, che violentemente tenace rimanda a un confuso e ubertoso periodo della mia esistenza nel villaggio dei morti. Il corteo funebre, uno degli ultimi, passò di lì, lento e silenzioso, i figuranti mimavano il loro cordoglio».
Oppure mima gli errori, le imperfezioni colorate imitandone il linguaggio: «Un adesso che dura adesso, perché dopo non e più così. Lui prima cera e adesso non ce più. Ma però non e giusto questo». E ci ricorda, che niente è più vero di ciò che è lontano, in apparenza, e che l’altrove, e l’altro, sono già qui, sono già tra noi, anzi, siamo già noi: «Mentre costruiva il suo ennesimo diorama, il bambino, il marziano, come lo chiamavano i compagni delle elementari non per via della sua conoscenza nettamente superiore a quella di qualsiasi adulto laureato (parlava 12 lingue, dipingeva come Michelangelo, calcolava la radice cubica di numeri a 9 cifre con l’efficienza di un computer quantistico), ma per la sua non comune generosità, l’empatia che spesso diventava potere telepatico e un’intelligenza emotiva tale da costringere i genitori degli altri bambini a escluderlo spesso dalle feste di compleanno, borbottava, senza ovviamente comprenderle, le parole di un brano che sarebbe diventato questo racconto.» Autoritratto di una storia o de-scrizione di un de-scrittore? Ai posteri l’ardua sentenza, potremmo dire, se non avessimo già avuto la netta impressione di essere noi i posteri a noi stessi.
Non resta allora che osservare lo specchio del mondo, ossia noi nelle facce degli altri, e cambiare idea, e stile, con toni e modi plasmabili, duttili, e una gamma di variazioni sul tema, come fa Garrapa, quando, ad esempio, si ispira alle Centurie di Giorgio Manganelli: «La donna che dovrà incontrare è una persona di cui non conosce il nome. Egli l’aspetta sotto casa, indossa un impermeabile nero e un completo dello stesso colore, gli occhi spiritati, a dispetto dell’esteriore eccessiva calma, equivocabile per apatia. Ma adesso, pomeriggio di pioggia odoroso di ricordi e premonizioni, egli è agitato».
Non ci resta che seguire la colonna sonora e danzare al ritmo, serissimo e grottesco della follia, immaginando, con Garrapa, l’esistenza di un Istituto di Bruttezza e seguendo i discorsi di Narratovov (nome tutt’altro che casuale): «La riserva degli indiani disposta a strategia difensiva – considerava a sua volta Narratovov che osservava con scrupolosa dovizia nevrotica, rispondendo al pensiero delle cose, mentre ascoltava vagamente la sua Alexia, come stesse leggendo un libro davanti a un televisore senza decoder, con attenzione fluttuante, in sottofondo, piatto, essendo altrove il pensiero ossessivo».
Scrupolosa novizia nevrotica è una mirabile sintesi di molti dei temi di questi racconti. È una specie di concentratissimo e coloratissimo succo del suo senso e dell’assenza di senso, un po’ come la vita.
Ognuno di noi, in fondo è un supereroe con gli extrapoteri craccati: «E riesco ad arrivare in cima ai grattacieli… senza scale o ascensori, intendo, e senza lasciare impronte sui vetri delle finestre… veloce e leggero come un Uomo Ragno – dice il giovane lavavetri, scostando dalla fronte una ciocca di capelli ossigenati con un leggero movimento del capo, e srotolandosi il pacchetto di Chesterfield avvoltolato nella mezza manica della t-shirt.»
I racconti de La cosa sono anche un modo, per Garrapa, di descrivere il pianeta che egli pensa e immagina, ciò che vede e ciò che non vorrebbe vedere. Anzi, no, non c’è nulla che non si possa vedere se lo si sa cogliere dalla prospettiva giusta, calcolando con esattezza la consistenza e la misura dei materiali per poi scordarla e riforgiarla, ritrovandola alla fine mutata e uguale, assolutamente reale.
In questo libro si parla di quella “cosa” chiamata vita, o forse sogno, o magari poesia. Ma la sua forza è proprio in quel “forse”, nello spazio sospeso tra tenerezza e nitidezza, riflessione e gesto esatto, tagliente, necessario alla speranza della metamorfosi: «Qualche giorno fa, sabato 12 marzo, ero in treno e pensavo di scrivere un racconto usando penna + carta, e detto così sembra che, se un marziano decerebrato o sub-intelligente leggesse quello che andrò a battere sul PC – perché è lì, come la morte, che vanno a finire tutti i corpi verbali, e in fondo è la morte che dà valore alla vita – questo marziano potrebbe pensare che carta + penna sia una lega metallica, un modo di mescolare, quasi che scrivere sia una scultura o una pittura che mescoli acqua oppure olio e tempera e colori per il vetro, ecco, preciso che non è casuale il riferimento alla pittura perché, se mi capita, espongo i miei quadri che io chiamo DESCRITTURE CROMATICHE e invece significa semplicemente cambiare gesto, è una questione di gesti».