Archivio mensile:Aprile 2017

25 Aprile 1945 – 25 Aprile 2017

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Panta rei. Tutto scorre. Ma perfino l’acqua, l’acqua vera, ha una sua memoria incancellabile.

PANTA REI

racconto di Ivano Mugnaini

Dulce et decorum est pro patria mori. Noia e studio, lingue morte e vive, anni di scuola, la testa immobile sui libri, placidamente perduto, sconvolto ma tutto sommato al sicuro, ed ora, là fuori, la morte bussa ed io non so che fare. 
     Loro sono e restano granitici, imperterriti. Sanno come agire, cosa pensare e cosa non pensare. Manganellate, fucilazioni, rastrellamenti, petto in fuori, una mano fiera sui testicoli, uno sguardo gelido e avanti, un’altra risatina e via al bar a farsi una briscola e a scolarsi un grappino. E io qui a rimuginare frasi in una lingua morta e a riflettere sull’etica della violenza. Cazzate! Li ho visti, giù alla curva davanti alla vecchia miniera. Li ho visti con i miei occhi fucilare sei ragazzi di vent’anni. La colpa? Avere un’idea. Il grave per loro non era che l’idea fosse opposta, contraria, ma che esistesse, che avesse forma, corpo, pensiero. Il sole spietato d’agosto e l’odore del sangue. Li ho visti. Li ho ancora nella mente. Un attimo scolpito nelle braccia, nella fronte, nelle costole.
     Avrei dovuto essere là anch’io, indossare la camicia di quei ragazzi trucidati e macchiarla anche con il mio sangue.  Io che non amo far male neppure ad una zanzara per esistere ora devo uccidere o essere ucciso. Il gioco della vita è questo: ora, per vivere, devo morire. Morire o cercare il mutamento che può ridarmi la vita attraverso la morte. La loro.

Ho una donna. Quando poso la testa sul suo seno e le mie mani scivolano sulla pelle liscia delle sue cosce non c’è guerra, la vita non odora più di morte. C’è solo il profumo di lei, il suo sudore caldo, la saliva, la linfa.
     “Se muori fai morire anche me. Non andare”, mi ha detto.
     Forse ha ragione. Non vale la pena morire per questo paese. Le ingiustizie cambieranno colore un giorno, ma io resterò straniero, escluso, al di là del fossato e della rete di recinzione. Che duri finché deve durare. Niente è eterno.  Anche l’Impero Romano sembrava infinito, poi, un giorno, si è sgretolato, sfarinato, disciolto come neve al sole.  Passeranno anche loro. Non darò la mia vita per questa patria. La mia patria sono io. E’ lei la mia patria, Monica, l’amore, l’affetto sincero.

Morire per un mondo come questo? No. Anche il mio, ne sono certo, non è perfetto, non è ideale. Ma è mio. E’ diverso, lontano dal loro. Troppo lontano. Qui, in questo posto non farei mai nascere un figlio. Dargli la vita qui, hic et nunc, sarebbe qualcosa di più crudele di una beffa mortale.
     Una beffa. Come questa pioggia, l’acqua che prende a cadere, ironica e tenace, proprio ora che avevo in progetto di uscire per respirare un po’ d’aria e un po’ di sole. Resto qui invece, davanti a questa finestra spalancata a bagnarmi la faccia e i capelli, ad annegare i pensieri e a salvarli uno ad uno su sponde salde di sorrisi. Penso alle settimane, ai mesi interi in cui l’afa ha dominato incontrastata. Assorbe la carne l’afa, risucchia le energie, la volontà. Beve e risputa sull’asfalto infuocato perfino la speranza. Pensi che sarà sempre così, arrivi a concludere che è tutto assurdamente necessario: è così e non può essere diverso da così. Poi, un pomeriggio come tanti, un granello di polvere si fa più scuro e un altro accanto a lui si colora, muta, respira.
     Mi sbaglio. Adesso lo so. So che la logica che custodisco dentro come uno zelante carcieriere è peggiore della follia.  Ne ha diritto. Il figlio che sogno un giorno deve avere una possibilità. Devo offrirgliela. Quello che appare impossibile deve poter provare a mutare di segno, deve poter scommettere di esistere in modo diverso. Devo lasciare spazio a mio figlio, spazio e tempo, anche di sbagliare, di fare i suoi errori, ma in un mondo libero, che magari, tra dieci o cent’anni, saprà fare equo, vivibile, solidale.
     Giù al fiume c’è un ponte. La vita si agita, incalza, cerca di scorrere, di scivolare in avanti, anela al panta rei. Loro lo bloccano, fanno da argine all’espandersi del mondo nuovo, allo straripare dei partigiani nella pianura, verso Reggio Emilia. Da giorni decine di ragazzi provano a forzare il ponte ma è tutto inutile. E’ imprendibile, l’unico risultato finora è una lunga catena di morti falciati dalla mitragliatrice.

Noi siamo gli studenti, quelli che masticano latino e greco, quelli che stanno nei bar a cazzeggiare, a parlare di filosofia, di Bakunin, di Lenin, di Trotskij, quelli che non hanno mai preso una vanga né un fucile in mano. Siamo quelli che durante le battaglie stanno nascosti in cantina a sussurrare sogni di rivoluzione timidi e ciechi come pipistrelli.  Siamo quelli che si riempiono i polmoni di parole grosse ma sussurrate sottovoce come in chiesa. Quelli che tremano al pensiero di esser visti, denunciati, interrogati e presi a bastonate nelle costole e sulla testa. Siamo sempre e solo noi, i perditempo.
     Sono andato al bar oggi, dai vagabondi come me. Ho parlato della mia donna e di mio figlio. Quello che non ho.  Quello che non ha me, quello che un giorno nascerà dal mio sangue, quello che forse avrà solo la sostanza di una chimera. Ho parlato della mia donna e di mio figlio ai compagni. Oggi facciamo una chiacchierata diversa, noi smidollati. La andiamo a fare all’aperto, davanti al fiume. Ci siamo guardati ed abbiamo deciso, piangendo, ridendo, urlando per una volta, tutti insieme. Insieme, per una volta, tutti quanti.

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Un fucile ce l’abbiamo, una moschetto, una doppietta, va bene qualsiasi cosa. Un’idea, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Un’idea valida. Nascosti nell’erba alta col fiato trattenuto cerchiamo un’escamotage. Farci massacrare subito servirebbe a poco. Uno di noi deve andare là disarmato e distrarli, deve lasciare agli altri tempo e modo per aggredirli a sorpresa. Giorgio parla tedesco, suo nonno era austriaco e lo ha ospitato per mesi su nel Tirolo. Andrà lui.  Si rifiuta però. Propone di far scegliere la sorte. Nessuno vuole andare, tutti dicono di voler agire, tutti dicono di voler sparare. In realtà ciò che vogliamo davvero è scamparla: sappiamo bene che chi sale sul ponte disarmato durante il conflitto a fuoco sarà spacciato, è già, fin dal primo momento, un morto che cammina. Decido di andare io. Anch’io parlo un po’ di tedesco in fondo.

Percorro i primi metri con le gambe leggere, inconsistenti. Sento solo un martellare insistente all’altezza degli zigomi. Il resto del corpo è aereo, impalpabile, è come se se vedessi e sentissi me stesso camminare al mio fianco.  Cerco di far comparire sulla faccia qualcosa di simile a un sorriso e mi avvicino ai soldati di guardia. Chiedo la più banale delle informazioni, la strada più breve per arrivare ad un paese vicino. Facciamo qualche metro insieme, poi, nel momento in cui mi voltano le spalle, prendo a correre a perdifiato verso la postazione della mitragliatrice. Il fattore sorpresa mi concede istanti preziosi. Corro ad occhi semichiusi. I colori si confondono con i suoni e gli odori.  Tutto si ingantisce e si fa vivido, il mondo per qualche passo è dentro di me, ne colgo il mistero, la chiave, la direzione. Fino al momento in cui il primo sparo mi lacera i vestiti e la carne, un taglio netto, profondo, un dolore che afferra le gambe e le trattiene. Il sangue cola lento e denso sul fianco. Posso ancora muovermi però, ne ho ancora la forza. Sono a pochi metri dalla mitragliatrice, schivo una raffica buttandomi a terra e mi scaglio addosso al soldato che mi spara contro. Lo immobilizzo con un abbraccio disperato quindi estraggo il coltello e glielo affondo nel petto fino all’ultimo centimetro. Solo adesso riesco a guardarlo. E’ un ragazzo della mia età. Il suo sguardo di terrore esterrefatto è fisso nella mia testa. Chiude gli occhi lentamente, divorato dalla morte. Li chiudo anch’io, serrati dal sudore, dalla paura, dal frastuono degli spari, dal desiderio di quiete. Sotto di me l’acciaio fumante della mitragliatrice e il corpo del ragazzo, le gambe e le braccia in una posa grottesca, un Cristo in croce di qualche pittore minore, una figura sospesa nell’estasi tragica di una macabro presepe.
     Rimango fermo, abbracciato alla morte finchè non si spegne l’eco dell’ultimo degli spari. Rialzo la testa di qualche palmo, in tempo per vedere le braccia dei compagni levate al cielo, in tempo per sentire urla di gioia che attraversano i campi e le strade. Il ponte è libero. E’ nostro. La prima volontà, l’istinto immediato, è quello di distruggerlo. Pensiero tanto assurdo quanto prepotente. Prevale presto la ragione, la consapevolezza che è un bene prezioso, da proteggere ad ogni costo. Un paio di settimane dopo, dal nostro ponte, transitano le truppe alleate. E noi con loro, fino in fondo, fino alla sponda più estrema, verso la città, verso la gente.
     L’acqua scorre, ora. La vedo ancora rossa di sangue, il loro e quello dei compagni. Ma si muove, è libera, vola verso il mare. E’ valsa la pena. L’acqua potrà tornare limpida, tornerà a vivere.

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Dall’acqua scorre il tempo, l’avvenire. Il cielo è caldo adesso, nei polsi e nel petto c’è il tepore di un respiro che abbraccia l’orizzonte degli anni. Riapro gli occhi. La playstation di mio nipote spara sibili elettronici come una mitragliatrice. Vorrei raccontargli la mia storia, vorrei dirgli di quei giorni, dei boschi, delle montagne, della paura, del coraggio, delle attese. Vorrei dirgli tutto, ma forse faccio bene a tacere. Non è stata un videogame la mia vita, è stata sangue e fremito al cuore, stretta violenta di realtà. Non capirebbe. Riderebbe sarcastico per qualche attimo, si farebbe una sbuffata e accenderebbe lo stereo.
     Apro la finestra e ascolto il suono dell’aria. C’è ancora il profumo e il ritmo della pioggia. Piove ancora, come quel pomeriggio lontano della mia gioventù, la stessa acqua, la stessa musica sulla terra e nella carne, la stessa forza, la stessa speranza. La vità è uguale, nel profondo, identica a se stessa. Anche oggi i ponti della libertà sono occupati e presidiati. Da loro. Gli stessi, a ben vedere. L’oppressore muta divisa ma non gli occhi, non le braccia, le astuzie, le trappole. Anche mio nipote, con la sua playstation eternamente in funzione, con il suo videofonino sempre in mano, deve correre sopra un ponte a petto nudo contro piombo e fuoco, contro assurdità e ingiustizia.
     Posso raccontarglielo. Sì. Posso rivivere con lui la mia storia, la storia di un uomo. Posso aiutarlo a correre. A correre anche per me. Anzi, posso fare di più. So parlare la sua lingua, se voglio. So parlare anche la loro, quella del nemico, dell’oppressore. Insieme, io e mio nipote, possiamo fregarli. E’ ancora possibile, correre, vivere, respirare, mettere a tacere la loro mitragliatrice, acciaio di falsità e ipocrisie non meno micidiale del piombo reale. Sì, è ancora possibile. Altra acqua, libera davvero, può aprire la strada alla primavera.

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Alla casa di Dante

Scusandomi per il ritardo, propongo un resoconto (tratto dal sito Pianeta Poesia http://www.pianetapoesia.it/?p=410)  della mia presentazione alla Casa di Dante a Firenze del 14 marzo scorso.
Pianeta Poesia

PIANETA POESIA fa parte dell’ASSOCIAZIONE NOVECENTO POESIA diretta da Franco Manescalchi.

La bellezza del luogo, le suggestioni artistiche e letterarie e la partecipazione attenta dei presenti mi hanno consentito di annotare belle sensazioni da inserire “nel cammin  di nostra vita”. Copio, sperando di non essere mandato all’Inferno. Oppure sì: la compagnia descritta dal Poeta è molto interessante.
Ringrazio i relatori e i lettori, di cui riporto qui di seguito le note e i commenti. IM

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La presentazione è iniziata con il benvenuto della Presidente del Circolo degli Artisti, Graziella Marchini.

Poi Annalisa Macchia ha presentato l’autore, elencandone le molteplici attività e opere, ed ha letto la propria nota critica:

Scarne, essenziali le notizie biobibliografiche di Ivano Mugnaini presenti su questo libro, in perfetta sintonia con il carattere schivo e modesto dell’autore (pregevole e rara virtù, oggi, tra gli scrittori), nonostante l’eccellenza della sua attività letteraria e critica, caratterizzata da un autentico amore per la parola, in ogni sua artistica declinazione. Molto sinteticamente ricordo che Mugnaini è autore di romanzi, racconti, poesie, recensioni, note critiche; collabora con riviste ed  editori, ha curato una rubrica sul sito della Bompiani RCS, cura un blog letterario tutto suo, “Dedalus”, www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com e il sito www.mugnaini.it, dove sarà  facilmente rintracciabile una nota biobibliografica più ampia e dettagliata.

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Certamente può essere utile appropriarsi delle note bibliografiche di un autore per inquadrarlo, capire a grandi linee come si articola la sua scrittura, tuttavia non è sufficiente per percepire a pieno le sue potenzialità, quanto riesce a trasmettere con la parola, quale vita sa ricreare nelle pagine, quanto di sé sa comunicarci. Leggere le sue opere resta un’inevitabile e spesso sorprendente via. Avventurarsi in questo specchio di Leonardo, dunque, aiuterà indubbiamente il lettore a conoscere meglio la personalità del grande artista-genio toscano, ma, e non in misura inferiore, anche quella di chi l’ha scritto.

Il romanzo, precisa l’autore, è stato ispirato da un film-documentario su Leonardo da Vinci, alle prese con lo studio sugli specchi, cui il genio si dedicò a lungo per scopi scientifici e militari, suscitandogli interrogativi sul possibile rapporto tra il genio toscano e la sua immagine speculare, con tutti i contrasti che potevano derivarne.

Così, dall’incontro casuale con un sosia, di identico aspetto fisico, ma diversissimo come carattere e inclinazioni, Manrico, nasce e si sviluppa questo romanzo, non ascrivibile al genere “romanzo storico” perché molti sono gli elementi romanzati della vicenda, anche se la ricostruzione storica dell’ambiente è fedele e ricrea una perfetta cornice di paesaggi e situazioni per i personaggi che vi si muovono.

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Come sottolinea Giuseppe Panella, autore di un ampio saggio critico che precede il testo, il romanzo non può nemmeno essere comparato, trasportati nostro malgrado dall’onda di una potente pubblicità, a una delle tante sensazionalistiche emulazioni nate in seguito alla fortuna del Codice da Vinci di Dan Brown. Il romanzo di Mugnaini affonda le sue radici in ben diversi terreni, possiede una personalità propria (anzi due…), ben delineata e tratteggiata, seppure inserita nella vastissima corrente delle tematiche trattate.

Quest’opera, afferma Giuseppe Panella, è uno scavo in profondità nella mente di Leonardo supportato da una notevole ricostruzione del suo percorso biografico che non pretende tuttavia di rivelare verità storiche nuove o sorprendenti quanto di puntualizzare e di ricostruire ciò che è noto della dimensione umana del personaggio, tentando di farlo interagire con le proprie contraddizioni.”

Un’opera che si situa sia tra le molteplici, varie e variegate altre opere sul geniale artista toscano, dopo aver solleticato la fantasia, gli studi e la voglia di indagine di tanti autori nel corso dei tempi,  sia in quelle, ancor più numerose, che, fin da epoche assai anteriori a quella di Leonardo, si destreggiano con l’inesauribile tematica del doppio. Non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta nell’enumerarle, ma, forse, la mente corre più facilmente ad alcune, famosissime, giocate sulla tragedia, come: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson, Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il fu Mattia Pascal  o anche Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello; oppure a quelle in chiave più surreale come Il visconte dimezzato di Italo Calvino o L’uomo duplicato di José Saramago; ma anche alla godibilità del “doppio” giocato da Plauto, Shakespeare e dal nostro Goldoni.

Il “doppio” di Ivano interpreta il desiderio inappagato che ciascuno di noi ha di comprendere la natura umana in ogni sua misteriosa sfumatura, cercando se stesso negli altri e in ciò che ci accade intorno. Aspirazione, a maggior ragione, drammaticamente vissuta da Leonardo, dotato di un genio capace di creare bellezza e scienza così magistralmente da essere difficilmente superato da altre menti e mani della sua epoca, senza tuttavia riuscire, per la intrinseca limitata natura umana, a comprendere fino in fondo la ragione della sua creatività, la complessità, la follia e tutti i moti spontanei di un io più profondo, costantemente tenuto a bada dall’altro io, quello inevitabilmente soggetto alle soffocanti leggi della società.

L’incontro con il sosia Manrico è per Leonardo l’occasione di affondare in questa oscurità, di scavare impietosamente in se stesso, liberando istinti repressi, lasciandosi coinvolgere poi da insolubili contraddizioni, tormentato dal continuo struggimento di non trovare adeguata finitezza alla sua sete di sapere e nel suo operato. Cercherà di mettere quest’io nei suoi ritratti. La pittura è per lui lo specchio in cui guardare dentro di sé e risalire alla parte più sconosciuta di se stesso; davanti al suo sosia, il suo specchio umano, capiterà la stessa cosa. Crederà di essersi ritrovato in parte, ma dovrà prendere tragicamente atto del suo fallimento, poiché l’io di entrambi, come quello di ciascuno di noi, è in continua evoluzione, sfuggente, ambiguo, inafferrabile.

Particolarmente interessante, nella nota critica di Panella, è il duplice riferimento, opportunamente presentato nel testo in maniera speculare, alla Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci del 1894 di Paul Valery e al saggio biografico su Leonardo di Sigmund Freud, scritto nel 1910.

Si tratta di due tra le più autorevoli e significative analisi su questo personaggio, profondamente diverse, come diversi sono i loro autori e le origini, ma capaci di mettere in luce le altrettanto diverse facce di Leonardo: il rigore scientifico che convive con la grazia delle sue opere artistiche, ovvero la natura solare di artista-scienziato evidenziati da Valery e, scandagliata da Freud, la resistenza al piacere, l’inquietudine interiore, la genialità misurata in rapporto alla vitalità sessuale.

Affidando alla parola scritta, come l’autore fece a suo tempo anche nella raccolta poetica  Il tempo salvato, un’operazione di scandaglio nei meandri più profondi dell’essere, attraverso cui si possa arrivare a conoscere qualcosa di più di noi stessi, letterariamente scavalcando ogni barriera temporale, Mugnaini guida il suo Leonardo in questa particolare ricostruzione al contempo biografica e romanzata.  Nell’umanissima figura umana che ne emerge, combattuta tra dubbi e incertezze, tra complessità e linearità, tra luce e buio, tra bene e male, si percepisce bene quanto lo scrittore si identifichi con il suo personaggio, con lui immerso nell’ansia di una ricerca di verità sfuggente, che mai si rivela nella sua pienezza, perché al Vero è concesso solamente avvicinarci.”

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A questo punto Valeria Serofilli, dell’Associazione Caffè dell’Ussero, di Pisa, ha letto alcuni brani dell’opera.

L’intervento di Giuseppe Baldassarre è iniziato portando i saluti di Giuseppe Panella, che non ha potuto partecipare, per impegni di lavoro lontano da Firenze, e leggendo alcune righe dall’Introduzione al libro fatta dallo stesso Panella. Se ne riporta una parte: ” Il libro di Mugnaini è un romanzo, anzi una biografia romanzata simpatetica e allucinata, attraversata dai brividi dell’approssimarsi alla verità, dal timore di non poterla raggiungere. Ma ogni biografia (e, aggiungo, ogni autobiografia) è il romanzo che il suo protagonista non ha avuto il tempo o il coraggio di scrivere. Lo specchio di Leonardo è un sogno della Storia e, come tutti i sogni che si sono avverati, parla un linguaggio fatto di poesia e di sapiente accostamento al vero.”

Poi Baldassarre ha esposto alcune riflessioni critiche, che qui si riportano sinteticamente.

La tensione vitale dell’ambivalenza
Lo specchio porta a un riflesso asimmetrico, che porta a riflettere sull’identità, le due figure non sono un raddoppio, ma un invito a tentare una sintesi che si rivela impossibile. Ma il punto di partenza è ormai superato, per cui c’è evoluzione, necessaria. Che può anche non trovare l’ubi consistam, se non momentaneo. Ma avviene, per caso e per scelta.

Il genio è scontento, insoddisfatto ed ha bisogno di esperire le sue possibilità. Nel caso di Leonardo alla sublimazione degli istinti vitali fa da contralto e contrasto la sensazione, la carnalità, a partire dalla sessualità istintiva. Leonardo e Manrico rappresentano i due poli, la cui tensione è forte e vitale, ma si scopre via via impossibile da armonizzare. Manca la sintesi armoniosa, resta l’ambivalenza, e la scontentezza. E’ un’interpretazione romantica del personaggio simbolo del Rinascimento.

Anche il prodotto artistico è incompleto se non c’è la fusione degli elementi contrastanti: la bellezza diventa statica senza la vitalità degli istinti. A parte le altre opere portate a termine o incompiute, simbolo di questa situazione diventa la Gioconda, che l’artista porta con sé e rifinisce continuamente, ma non ha sorriso. E’ un gesto dirompente di Manrico, espressione degli istinti originari, che la fa diventare pienamente donna e allora appare il sorriso. Suggestiva e inaspettata soluzione artistica che porta alle estreme conseguenze la teoria freudiana della sublimazione artistica. Scelta originale di Mugnaini, che la carica di una valenza artistica anticipatrice di una certa arte performativa del Novecento.

Il linguaggio del romanzo è misurato, ma incisivo, carico di parole e immagini concrete. La narrazione è sempre verisimile. Il lettore si trova subito immerso, in modo del tutto naturale, nell’ambiente e nel tempo della seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Se l’autore entra in piena sympàteia con il suo personaggio, non è richiesta l’immedesimazione del lettore con Leonardo, anche perché colto in questa fase di schizofrenia, in cerca lui stesso di unitarietà, probabilmente non raggiungibile. La narrazione di Mugnaini, in compenso, rende il grande artista uno di noi, lo porta tra noi. E  questo, insieme ad altri,  è certamente un grande merito dello Specchio di Leonardo.”

Valeria Serofilli ha letto alcune pagine del libro.

E’ quindi intervenuto l’autore che ha dialogato con i relatori e con il pubblico in merito al libro, alla tematica e al proprio metodo di scrittura.

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Il Rifugio dell’Ircocervo – incontri e letture

Nel Rifugio dell’Ircocervo si fanno buoni incontri: libri, animali mitologi e lettori attenti, tra cui Eva Luna Mascolino, vincitrice del Premio Campiello 2015, traduttrice, scrittrice di talento e lettrice vorace e acuta. Anche Leonardo ha avuta la ventura di imbattersi nell’Ircocervo.

https://ilrifugiodellircocervo.wordpress.com/2017/04/11/leonardo-da-vinci-loriginale-biografia-letteraria-pubblicata-da-ivano-mugnaini/

Leonardo da Vinci: l’originale biografia letteraria pubblicata da Ivano Mugnaini

 

APRILE 11, 2017 ~ LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA

Lo specchio di Leonardo – Ivano Mugnaini
(Eiffel Edizioni)

Ci sono personaggi storici di cui siamo convinti di avere capito tutto: i moti dell’animo, gli ideali, lo stile di vita, la grandezza del genio, il contributo dato alle generazioni future e, soprattutto, i lati più significativi della personalità. Leonardo da Vinci rientra senza alcun dubbio in questa categoria, eppure forse non siamo così consapevoli della sua storia personale e dei suoi pensieri come abbiamo sempre creduto.

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A mettere in discussione molte delle certezze che si sono consolidate secolo dopo secolo è stato, di recente, Ivano Mugnaini, autore del romanzo breve Lo specchio di Leonardo, edito da Eiffel Edizioni nel 2016. Una lettura lontanissima dalle rivisitazioni “alla Dan Brown” cui siamo stati abituati di recente e che, se dovesse essere definita in una frase sola, si potrebbe descrivere come un fugace viaggio episodico composto da innumerevoli tappe, in cui ad essere una scoperta è addirittura ogni singolo passo, ogni pennellata, ogni scambio di sguardi e di sorrisi. Qualsiasi microscopico avvenimento è per Leonardo un’occasione, infatti, per raccontare e specialmente per assaggiare la vita.

L’espediente narrativo iniziale è ingegnoso e parte da un incontro casuale fra il Maestro e un popolano qualsiasi, identico nell’aspetto a Leonardo in ogni dettaglio. La scoperta fa venire al pittore l’idea di “scambiare” la propria identità con quella dell’altro, facendosi sostituire nella vita pubblica e nelle occasioni importanti, lasciando che Manrico parli e risponda al posto suo.

Nel frattempo, il vero inventore può dedicarsi in solitudine alle esperienze che prima, per questioni di immagine e non solo, gli erano precluse. Tale punto di vista consente all’autore uno scorcio insospettabile sulle vicende di un uomo che qualunque lettore avrebbe creduto di conoscere, prima di leggere la versione dei fatti in questione. Così, senza veli e senza inni, con la meticolosità di chi la vita la studia e la vuole gustare morso dopo morso, e soprattutto con l’onestà di chi non vuole farsi vedere Altro da quel che è, Leonardo si lascia andare ai propri istinti passionali e violenti, concedendosi picchi di intensità mai sperimentati prima, né nel bene né nel male.

Lo stile a tratti aulico, che però è sempre sapiente e calibrato, e in particolar modo l’incalzare degli eventi con la nonchalance che ha l’esistenza stessa nel suo accadere risultano in questo contesto sempre piacevolissimi. Delicati, intimi, adeguati al punto giusto, pagina dopo pagina. Per di più, la curiosità e la sorpresa iniziali non vengono meno man mano che si prosegue, anzi: il rapporto fra Leonardo e Manrico è destinato al disequilibrio continuo e, se da un lato il “sosia” si avvicina all’arte del dipinto aiutando il Maestro in più di un’occasione cruciale, dall’altro lato questo scatena l’invidia e l’aridità creativa del suo doppio.

Gli sviluppi della vicenda si fanno, dunque, sempre più frenetici dal punto di vista psicologico e diventano letteralmente lo “specchio” di un rapporto costruito su somiglianze e contrasti a un tempo. L’epilogo denso e ineluttabile racchiude così, nel punto più alto dell’intreccio, la chiave di lettura dell’intero romanzo, consentendo di unire fra loro gli spunti di riflessione sparpagliati qua e là e di ritrovarsi in maniera totale in lui, nel Maestro che probabilmente avremmo tutti bisogno di guardare da questa insolita prospettiva bio-letteraria.

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Articolo di Eva Luna Mascolino.

Nata nel 1995 a Catania, dove si è laureata in Lingue curando la prima traduzione mondiale di “Cap Africa”, una raccolta poetica del tunisino Moncef Ghachem. Dal 2016 si è invece trasferita a Trieste per studiare russo, francese e rumeno alla Scuola per Traduttori e Interpreti. Affascinata delle parole fin da sempre, nel 2010 ha vinto il Premio di Poesia Kiwanis in un concorso locale e ha iniziato a collaborare con il quotidiano online “Voci di Città” nel 2011, di cui è stata caporedattrice e vicedirettrice. Nel 2015 ha poi vinto il Premio Campiello Giovani con il racconto “Je suis Charlie” e recensisce adesso narrativa per il blog “Il Rifugio dell’Ircocervo”, oltre a gestire la pagina Facebook “Eva Luna racconta” e a essere in trattativa per una prima pubblicazione editoriale. Chiacchierona e assetata di risposte, ama viaggiare per l’Europa con fotocamera alla mano, guardare serie tv e strimpellare il pianoforte.

Poesie d’amore e di terra

 

Siate dolci con i deboli, feroci con i potenti./ Uscite e ammirate i vostri paesaggi,/ prendetevi le albe, non solo il far tardi./ Vivere è un mestiere difficile a tutte le età,/ ma voi siete in un punto del mondo/ in cui il dolore più facilmente si fa arte,/ e allora suonate, cantate, scrivete, fotografate”.

Versi del libro “Cedi la strada agli alberi – Poesie d’amore e di terra” di Franco Arminio su cui ho scritto le mie impressioni a questo link http://www.zestletteraturasostenibile.com/cedi-la-strada-agli-alberi-franco-arminio/ nel sito di ZEST – Letteratura Sostenibile.

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Altri rami e altri frutti – Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Seeds: Selected Poems 1978-2006

Adam Vaccaro, Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Avere semi, reali o poetici, implica un percorso, esso stesso reale e metaforico, simbolico, strettamente correlati. Il percorso nasce dalle radici e ad esse, ossia alla terra, ritorna, per poi ridare a sua volta vita ad altri rami e altri frutti. Altri semi, in una ciclicità vitale.

Le radici di Adam Vaccaro, tracciate anche in questo suo libro, sono quelle del Molise. Terra di confine, difficile, aspra. Lascia, spesso, solo la soluzione del viaggio, dello spostamento verso altri orizzonti.

Non è un caso che questo libro, che parla di semi, quindi di radicamento in un suolo, in realtà sia anche, simultaneamente, un libro di viaggi, reali o sognati, concreti o letterari, fino al punto in cui anche il viaggio mitico, quello di Ulisse o di Enea o di altri uomini che hanno esplorato i mari, le terre e il loro mondo interiore, diventa esso stesso reale, o meglio vissuto, come un evento concreto, tangibile, assimilato al punto da favorire una completa immedesimazione.

Il libro è un lungo diario di bordo con le varie tappe scandite da precisi riferimenti, annotazioni, schizzi descrittivi delle genti incontrate, dei gesti, degli scambi, di parole, di sensazioni, di emozioni.

È un libro in cui si registra, con preciso ma intenso stupore, quella che è una delle mete che Vaccaro, come poeta e come uomo, ha sempre tenacemente inseguito: la adiacenza. Concetto anche questo tangibile, reso carne pulsante, non concetto sterile e astratto. Adiacenza non significa semplicemente vicinanza, non vuol dire soltanto trovarsi accanto in un luogo, significa piuttosto condivisione profonda, di un ideale, una tensione, una volontà di conservare qualcosa e modificare qualcos’altro: conservare quella radici di cui si è detto, quelle di un mondo contadino fatto di autenticità e allo stesso tempo modificare il presente tramutandolo in un futuro più umano, più solidale.

Tutto ciò avviene in modo fattivo, sia nel libro che nella pratica quotidiana messa in atto da Vaccaro, non con proclami altisonanti ma astratti. Con una ben motivata concretezza, piuttosto, con parole nitide, lente, da slow food, verrebbe da dire, con la consapevolezza che solo ciò che ha un punto di appoggio solido può generare pensieri solidi e al contempo sogni, non impalpabili ma percorribili, come strade, come solchi di aratro.

Il libro, tradotto e curato nella versione inglese da Sean Mark, acquista un respiro internazionale senza abdicare alla sua autenticità. Trasportando semmai anche oltreoceano quei valori di un popolo e di una terra, che poi, ed è questo quello che conta, si scoprono universali, come le foglie d’erba di Whitman (citato in una epigrafe) o come tutto ciò che parla direttamente alla parte più genuinamente umana di ciò che siamo e di ciò che possiamo o potremmo essere.

Nella prima parte, nella sezione dal titolo “Nei biancoscuri antefatti” si parla di cose e di oggetti, di lavori, di mestieri, alcuni dei quali quasi obsoleti, di sicuro antichi, molto poco globalizzati o globalizzabili: si parla di orti, di filari, di scalpellini, di giardinieri. Quasi a dire e a dirci che gli “antefatti” in realtà sono necessari e presenti. Poco dopo, per analogia e per contrasto, una sezione dedicata a simboli, quasi magici, allegorici, simbolici, e, alla fine della prima parte, “la deligittimazione”, tra favola amara e realtà, le guerre e le cornacchie, il campo del vivere messo a repentaglio.

Nella seconda parte il racconto in versi prosegue. Con una sezione con un titolo evocativo, con un rafforzativo interno: “Nell’aperto aperto Inferno”. Dante, ma anche i miti, draghi, tesori nascosti, Clitennestra, un repertorio di riferimenti per parlare del proprio tempo facendo appello a luoghi mitici. Anche per esorcizzare il dolore, mai spento, mai del tutto avulso, quella SLA d’amore, ad esempio, quella malattia che non può esser dimenticata ma che può diventare spunto per trovare nuovi parametri per la resistenza, ognuno sul proprio fronte, sulle trincee dei propri individuali mali, “contro il deserto che avanza/ unico amore che mi sostiene in questa/ guerra che mi pare persa in partenza – solo/ tu Stefania mia quotidiana epifania/ dittongo che inventa la mia resistenza/ ma tu non sai il peso di questo scudo/ le mie braccia vuote il mio cuore piegato/ la mia voglia di fuggire e trovare una fonte/ un sorso d’oasi che mi dia un po’ di calma ai polsi/ mentre mi scruti e lanci lividi spilli che conosco” (da Sla d’amore, pagina 116).

Si riparte poi, nella sezione finale, verso il “Nilo maggiore e minore”. La prima esplorazione è quella del tempo, il nodo fondamentale, con quel richiamo a quello che non è solo un fiume ma un mito reso acqua, movimento, cultura e fascino. Con una distinzione tra maggiore e minore che separa e unisce, unisce e separa. Così come gli eventi maggiori dell’esistenza si affiancano a quelli in apparenza minori fino al punto in cui il discrimine si perde e resta soltanto il sapore e il senso del fluire, dello scorrere verso un delta ignoto, che ognuno dentro di sé è tenuto a creare, o meglio a generare, come un seme gettato, una scommessa nel niente che può diventare una forma di esistenza.

Nella visione di Vaccaro, non solo poetica, il passato e il presente si intersecano, il mito è un modo per gettare luce, e calore, umano, sul presente, per cercare di comprendere, o almeno per non comprendere ma con un moto interiore più ampio, generoso. Parlando di luoghi distanti in realtà di ragiona sull’attualità, sul mondo di oggi, imperfetto, ingiusto e aspro, quello che Vaccaro mira a mutare, senza timore di accuse di idealismo, senza rinunciare a percorrere i sentieri delle utopie. È una rincorsa dura ma necessaria, una gara olimpica, un gioco serissimo, vitale. Come quello descritto a pagina 134, Ludi a Menfi : “tu ragazzo dagli occhi sfolgoranti/ a fare il sciuscià tra smorfie e canti/ nella polvere del mercato di Menfi/ e noi turisti disfatti a bere incantati/ il tuo ludente grumo di energia/ in filastrocche incomprensibili/ sulla pelle battenti più del sole –/ chi canterà nefertiti mia Afrodite/ la rosa della tua carne esplosa/ nella risata liberata da un bisturi/ di gioia – intelligenza che apre/ deridendo questa pancia di carne/ in scatola occidentale così colma/ di detriti ruggine e deserti”.

Il corpo come simbolo vivente, quella pancia occidentale che ormai deborda, a dispetto del mondo, dell’equità, della giustizia, ed è ormai piena di ruggine e deserti, deserti fatti di un pienissimo nulla, non quelli fascinosi ricchi di silenzi e di favolose visioni oniriche.

La vera natura, e il valore di maggior rilievo di questo libro, è la capacità di Vaccaro di porre fianco a fianco, adiacenti al punto di combaciare, il proprio mondo interiore e il mondo tout court. Il dolore altrui ma anche la bellezza autentica di popoli ancora spontanei e ricchi di umanità, quella che noi abbiamo perduto e perdiamo ogni giorno, non sono osservati con occhio distaccato o con sterile commiserazione. L’autore mette in parallelo il proprio essere con il mondo che percorre e che vede, ascolta, sente. Comprendendo, e forse è questo il consiglio, la richiesta, l’invito alla riflessione che ci deriva da questo libro, che gettare semi per se stessi è efficace, può dare frutti, soltanto se li gettiamo anche per gli altri. Non per generosità fine a se stessa, o per una presunta bontà, ma per un discorso più lineare: il mondo è un insieme di corpi e di voci, un organismo unico, in cui ogni singola parte è collegata alle altre. In un mondo come il nostro, in apparenza privo di speranza, la sola via di uscita è dare per riuscire ad avere qualcosa. Per ascoltarci, davvero, è la sola vittoria possibile arriva nel momento in cui riusciamo a sentire, nel senso della percezione più sincera, il grido altrui: Haiti è un urlo (pagina 140) : “Haiti è un urlo – l’ultimo/ di questa carne umana/ macinata dalla macina/ del dominio che decide/ senza domande chi nel mondo/ navigherà nell’oro o nella merda/ Il terremoto ha rotto il silenzio/ sulla infinita colonna in-fame di/ bambini in fila verso la bocca/ corrosa che li renderà liberi! – ma/ vedete come siamo trepidi e/ bravi nell’invio di soldati e/soccorsi/ Io giravo scalzo e senza/ pazienza senza consistenza/ senza accoglienza nemmeno del/ vento che mi braccava nella polvere/ come l’ultimo invisibile granello/ qual ero e nient’altro/ anch’io/ Che all’urlo d’ali della Terra/ bastò poco per sollevare/ fino a questi prati di cielo/ limpidi e senza limiti così/ pieni dello stesso niente che/ ero – finalmente angelo e/ libero”.    IM

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive da più di 50 anni a Milano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: La vita nonostante, Studio d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997, con prefazione di Giancarlo Majorino; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003, con postfazione di Gio Ferri; e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria& Spettacolo, Roma 2006, con prefazione di Dante Maffia. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre varie pubblicazioni d’arte:, Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005; I tempi dell’orsa (2000) e Questo vento (2009) con opere di Salvatore Carbone, Edizioni Foto: Nicola Picchione – Firenze PulcinoElefante. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.

Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti (tra questi Premio Speciale Astrolabio, Pisa 2007, a La piuma e l’artiglio) ed è presente in molti Siti, blog e raccolte antologiche. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica. È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato Sotto la superficie – quaderno di approfondimento sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca Editori, Milano 2004; e tra gli autori de La poesia e la carne, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009.

Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it,), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, di cui ha curato con Rosemary L. Porta gli Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, di cui ha curato con G. Guidetti la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con Anna Santoro e Maria Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha curato con F. Squatriti 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.