Archivio mensile:Settembre 2016

INXS: A MID-SUMMER DREAM

INXS: A MID-SUMMER DREAM

 
Maida Cappelletto, https://www.facebook.com/profile.php?id=100000477222667, mi ha chiesto un racconto che contenesse le suggestioni di alcune canzoni da lei selezionate. Ne è venuta fuori questa scatola senza pareti, senza logica, senza tempo. Questa memoria di fatti vissuti, immaginati, o forse soltanto sognati di cui la musica è materia pulsante, una radio accesa su una spiaggia, un juke-boxe fatto girare dalle monete di altre tasche, altre vite. Eppure quella presenza discreta è essenziale. È la colonna sonora del film che abbiamo girato o che ci è toccato in sorte, come la solitudine, come l’amore cercato e inseguito. Provando sempre a tenere il ritmo, svaniti, sperduti ma tenaci, ballerini improvvisati di gioie e dolori a tutto volume, sempre al massimo, sempre INXS.
 
   Estate, pieno agosto. Il mondo intero è o appare in vacanza. Per me niente di nuovo; solo molto tempo, troppo. Seduto da solo, straccio bianco e peloso su un divano quasi bianco e quasi altrettanto peloso, scorro uno dopo l’altro i numeri della rubrica del cellulare alla ricerca di qualcuno da chiamare o a cui scrivere. Nomi vecchi e nuovi in abbondanza; ma non ce n’è uno che vada bene. Da molti ho ricevuto torti, ad altri ne ho fatti. Sono archiviati. Su cento numeri non ne trovo nessuno contattabile, specialmente ora. A meno di chiamare farmacie o assicurazioni, o un tecnico del computer con cui fingere un guasto o un’urgenza. Guardo meglio, con più cura. Ci sono in realtà cinque numeri che di solito salto istintivamente con lo sguardo: mettono in difficoltà, appartengono a persone buone. Buone, sì, ma difficili. Anzi, buone perché difficili, troppo generose. Danno e chiedono in eccesso, anzi INXS, per dirla con il nome di un gruppo in voga negli Anni Ottanta. Vogliono sapere, informarsi, interagire, vogliono cambiare il mondo, vorrebbero cambiare me.
Guardando le finestre sento un’afa dolciastra e molle nelle vene. Mi accorgo che l’estate è avanzata e tra poco sarà autunno: mi accorgo che non ho niente da perdere.
   Invio un messaggio ai cinque samaritani. A ciascuno scrivo che ho bisogno di lui o di lei soltanto, e che solo lei o lui può trovare il modo di convincermi ad uscire di casa. Le risposte non si fanno attendere, in breve mi trovo a dover considerare cinque proposte, cinque progetti di vita. Essere membro unico di una Commissione Giudicatrice implica vantaggi e svantaggi: non c’è nessuno che ti contraddice, ma non c’è neppure nessuno con cui prendersela in caso di errore.
   La sola via di uscita è stabilire criteri limpidi e univoci di valutazione: vincerà chi riuscirà a farmi fare la cosa più difficile. Come premio avrà questo straccio di vita, con la possibilità di stringerlo e strizzarlo a suo piacimento. Un trofeo di scarso valore intrinseco, ma di notevole valore simbolico, per loro, per i miei accaniti benefattori. Un po’ come il drappo del Palio di Siena per i contradaioli.
   Flavio mi propone di catapultarci insieme nella discoteca Technomatic di recente inaugurazione, musica moderna da far saltare per aria le casse, ma, a suo dire, nella semioscurità la nostra effettiva età anagrafica resterebbe celata, clandestina, e, di sicuro, potremmo abbordare qualche procace adolescentina capricciosa.
   Piera mi prospetta una cena di classe: un revival degli anni del liceo, dei gloriosi fasti che, a sentir lei, hanno preceduto la Maturità. “Vieni tranquillamente – miagola – tanto tutti quanti abbiamo qualche capello in meno e qualche ruga in più. Nessuno ci farà caso. Ascolteremo musica dei mitici Anni Ottanta, e, se ci prenderà la nostalgia, la combatteremo raccontandoci le nostre vite, ciò che abbiamo realizzato, i resoconti, i bilanci”.
   La cura che vorrebbe prescrivermi Massimo invece è molto più semplice. Si tratta di una sorta di elettroshock: andare in cerca di prostitute, una per ciascuno, e vedere volta per volta chi ha il coraggio di andare con quella più oscenamente brutta e sconcia.
   Nello è di tutt’altro avviso: è convinto che ciò che può salvarmi è un ritorno alle radici. Mi invita a ripresentarmi a sorpresa al bar del paese, tra facce che mi scruterebbero come un marziano per un’ora e più, sicuro, ma, alla fine, mi inviterebbero a passare la giornata giocando a tressette e aspettando che passi qualcuno per la strada per poterne parlare male; così, senza farsi sentire.
  Ilaria mi invia il messaggio più breve in assoluto, poche parole secche e luminose come fulmini. Mi chiede di riprendere la passeggiata interrotta anni prima, quella che doveva portarci alla terrazza panoramica della nostra collina.
   La Commissione si riunisce e delibera: apprezzabili nel complesso tutte le proposte presentate, ma, per il grado di difficoltà, e, non ultima, per l’intrinseca imperscrutabilità attuale e potenziale, viene premiata la proposta della candidata Ilaria.
   Ci troviamo alle otto di mattina ai piedi della salita. L’orario lo ha scelto lei, e sembra che abbia scelto anche il clima: un sole zelante, già sveglio e caldo, in grado di illuminare ogni millimetro degli occhi e della bocca. Mi saluta con gesto breve, Ilaria, come se ci fossimo visti la sera prima, come se quattro anni di silenzio e assenza non fossero mai esistiti. Inizia a camminare, e io di fianco a lei. Non mi chiede niente, non vuole niente, ascolta solo il mio respiro, sempre più affannato. Lei sembra una gazzella, io un leone spelacchiato e asmatico. Ma, come recita uno strano proverbio, ogni mattina un leone si sveglia e sa che dovrà correre per provare a sfuggire a una gazzella.
   Arriviamo, passo dopo passo, al vertice della collina. Là sotto c’è il mondo. Lei si siede sul parapetto e osserva, serena, immobile, io, torturato dalle vertigini, resto a due passi di distanza. Non apre bocca neppure adesso, Ilaria, si gode la vista della pianura e della città, la fa risplendere in sé, nei suoi gesti, nelle mani, nella quiete frenetica.
  Mi avvicino, quasi ad occhi chiusi, tremando mi arrampico sul parapetto e mi siedo. Abbracciato a lei il tremore svanisce, assieme alla voglia di vomitare, o di provare a volare. Sono seduto sul mondo, ora. Oscillo, ma riesco a rimanere in bilico sul legno saldo; ho nelle braccia e nello stomaco solo il suo calore.
   Estate, pieno agosto. Il mondo intero, anche in questo nuovo anno, è o appare in vacanza. Seduto sul divano bianco e non più peloso insieme a lei, non provo neppure a toccare il cellulare. Lei controlla ogni mio messaggio e ogni chiamata: vuole sapere chi, come, dove, quando e perché. Un po’ mi fa imbestialire, e un po’ mi viene da ridere. In fondo ora di tutti i torti fatti e subiti mi importa un bel nulla. Uso il cellulare soprattutto come sveglia, per far sì che la sua musica ci richiami alla coscienza del tempo, ogni tanto, prima di tornare, con lei, al sogno di un panorama reale, che ora, nella luce e nel buio, è ancora possibile guardare.

 

Andate a scoprire il blog di Maida: http://www.mymusicvideo.it/index.php/it/

 

Il sorriso di Monna Lisa

Nella visione del professor Andrea Salvini, Leonardo, dal “vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze scivola dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza”. Una visione corredata da riferimenti a vari libri fondamentali del Novecento.
Una nuova “lettura allo specchio” di sicuro valore e spessore di cui ringrazio.  IM

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“Lo specchio di Leonardo” di Ivano Mugnaini (Eiffel edizioni, 2016)

L’idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che, ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare, quasi all’inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all’universo pirandelliano: “E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri. Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per questo mondo malato” (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della “Coscienza” sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo approfonditi studi storici e artistici.

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Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un “io narrante” che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell’«io» del grande Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che si trova nell’animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle “Memorie di Adriano” della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar, rafforza nel lettore l’impressione di onnipotenza dell’io narrante.

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Il Leonardo di Mugnaini ci sembra ripercorrere un cammino simile, connotato da una onnipotenza intellettuale, diversa da quella di Adriano. All’inizio manipola il povero Manrico senza difficoltà, lo convince a diventare il suo doppio, anzi, il suo specchio. Segue quindi la fuga a precipizio dal proprio ruolo che ci appare come una vera e propria discesa agli inferi. Leonardo cerca anzitutto la trasgressione in una casa di prostituzione a Firenze. Poi passa una notte spensierata a Venezia con Emilia, una delle figure forse più tragiche del romanzo: Leonardo non esita ad abbandonarla, pur sapendola innocente, alla terribile giustizia veneziana1, dando prova di un perfetto egoismo narcisistico. Il fondo viene toccato poco dopo, con la narrazione a Manrico della violenza abietta compiuta in gioventù ai danni di Jacopo Saltarelli in compagnia dei giovani‑bene di Firenze, che poi, grazie all’intervento personale del Magnifico Lorenzo, possono anche concedersi il lusso di sfuggire elegantemente ai rigori della legge. Leonardo ci appare a questo punto una figura disgustosamente impunita, ma ecco che nel suo “specchio” avviene qualcosa. Manrico comincia a rivelarsi tutt’altro che ottuso e docile: scopre di avere un’arma per ricattare in futuro proprio Leonardo, anche se, per il momento, abbiamo solo un’allusione oscura: “Quello che mi ha detto, Maestro, è una cosa grossa. Io, lo sa bene, sono un contadino, tutto sommato, e figlio di contadini; ho fatto il copista, certo, ma resto un ignorante e so di esserlo. Però perfino io capisco che quella notte è accaduto qualcosa che non si cancella. La ringrazio per avermi fatto questa confidenza. Ma si ricordi, la prego, ora e nel futuro, una cosa: non sono stato io a chiederle di raccontarmi di quel fatto e di quel processo” (p. 47).

Leonardo non sembra percepire il cambiamento avvenuto nello “specchio”, in colui che gli ha reso possibile fare ciò che ad un personaggio pubblico, prigioniero della sua dignità, non sarebbe stato possibile. Comincia ad essere assillato dal pensiero del tempo che si consuma e della morte che si avvicina e continua il suo viaggio, stavolta da solo, lasciando Manrico a vivere la sua vita di artista ricercato e osannato. Si alternano vari quadri, vari incontri, tutti contrassegnati da immagini di morte, di fallimento, di sopraffazione. Il mondo appare irredimibile, ma, ad un certo momento Leonardo sembra avere un’illuminazione: “Ho iniziato questo viaggio, la fuga da me stesso e dalla mia immagine, per ribellione, per un moto di rabbia contro il mondo e contro di me. Ora, a metà del cammino, mi trovo di fronte a un paradosso: negli occhi umili che ho incontrato, e non di rado ferito, c’è la più quieta e la più possente tra tutte le forze, la più inattesa e autentica forma di rivolta: la bontà” (p. 57).

Fin dall’inizio il Leonardo di Mugnaini viene rappresentato come un essere in profondo dissidio con se stesso; l’Autore, però, non ci sembra precisare mai fino in fondo la natura di tale dissidio. All’inizio sembrano prevalere motivi psicanalitici, legati all’abbandono da parte della madre, ma poi su di essi si innestano vari altri motivi, tutti contrassegnati da una profonda e amara sfiducia verso se stessi e il mondo. La scoperta della presenza della bontà non cambia l’animo di Leonardo: egli rientra nella sua casa fiorentina per accogliere proprio sua madre, la donna che lo aveva abbandonato, che rimane con lui negli ultimi giorni di vita. Tra i due non si apre alcun confronto pacificatore e risolutivo: la madre di Leonardo muore e basta, senza che vi sia stata nessun dialogo liberatorio, nessuna confessione, nessun perdono. Leonardo tenta allora di tornare indietro, di rinunciare al suo assurdo gioco indagatorio: “Non era più tempo di pagliacciate, per rispetto della morte e della vita dovevo ritrovare la follia più autentica, la verità” (p. 63). Tenta di sbarazzarsi di Manrico riconducendolo là dove lo aveva incontrato, ma non si accorge che sta commettendo un errore. Manrico, infatti, rivela, quasi di sfuggita, ma inequivocabilmente, di essere stato una sorta di “convitato di pietra” alla mensa di Leonardo: “Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto. Con un solo gesto mi fece capire che non era con lui che mi dovevo scusare. Mi fece intendere che aveva raccolto molto, ed altrettanto teneva custodito dentro di sé, destinato a dare nuovi frutti” (p. 65). Così Leonardo scivola inconsapevolmente dall’onnipotenza all’impotenza: crede di poter tornare al suo interminabile investigare e rimuginare di studioso, ma Manrico una sera bussa alla sua porta e lì comincia la sua riscossa. Leonardo cede da codardo ad un basso ricatto e consente a Manrico di realizzare la propria autentica natura: il sosia non era solo un sosia, era qualcuno che non aveva avuto le occasioni del suo fortunato “doppio”. Tutto questo ci ha fatto pensare alla scena finale del “Ritratto di Dorian Gray” di Wilde. Il ritratto uccide Dorian nel momento in cui sembra destinato alla distruzione, così come Manrico diventa artista più sublime di Leonardo nel momento in cui sembra destinato a sparire per sempre dalla scena della Storia: è lui che realizza il sorriso della “Gioconda” e sta per trionfare su Michelangelo nella decorazione del salone dei Cinquecento a Firenze con “La battaglia di Anghiari”. Leonardo lo terrà ancora con sé a Roma, muto assistente del suo interminabile colloquio con se stesso, collaboratore sfruttato e mai ricompensato per la propria creatività. Cercherà ancora di liberarsene, ma il suo “doppio”, dopo aver escogitato una vendetta ancora più tremenda del precedente ricatto, riuscirà a diventare definitivamente Leonardo, quello che lavorerà nei suoi ultimi anni alla corte francese. Se volessimo ancora richiamarci a Pirandello, quando si è usciti dal proprio ruolo, dalla propria “maschera”, non è più possibile rientrarvi: Mattia Pascal non può risuscitare, Enrico IV non può tornare indietro nel tempo a rivivere il suo amore perduto e via dicendo. Manrico appare perfettamente consapevole di questo e lo rivela a Leonardo quando torna dalle sue montagne : “Senza mai smettere di sorridere, mi disse che aveva provato con tutte le forze ad ambientarsi di nuovo nelle sue montagne, ma non gli era stato possibile. Nulla era più lo stesso, e soprattutto lui era cambiato” (p. 67). Il genio è sconfitto, il copista povero e ignorante è il vero trionfatore: la sicumera iniziale di Leonardo è stata battuta dalla tenacia, forse un po’ furbesca, di un montanaro.

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Concludiamo, per ora almeno, le nostre considerazioni, tornando a dire che queste non possono essere che provvisorie. Speriamo quindi in nuovi contributi critici su questo testo, che non può lasciare indifferenti, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione della vera natura del dissidio interiore di Leonardo, davvero sfuggente come il sorriso di Monna Lisa.

Andrea Salvini

1 Ci se ne può fare un’idea leggendo “La mia fuga dai Piombi” di Giacomo Casanova.

Gradiva – numero speciale

 

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In ottima compagnia, un mio testo di cronaca “sportivo-esistenziale” sul numero 50 di Gradiva.

È un numero speciale dedicato a: CINQUANTA POETI ITALIANI PER GRADIVA. Nel fascicolo, oltre ai testi dei vari autori, un editoriale del direttore Luigi Fontanella che percorre la storia della rivista.

* * * * *

Riporto qui sotto, per chi fosse interessato, alcune informazioni sulla rivista 

 

GRADIVA

International Journal of Italian Poetry

Editor-in-Chief: Luigi Fontanella ~ Associate Editor: Michael Palma

Quote di abbonamento: 2016 | 2017

«Gradiva» è una delle più longeve riviste di poesia italiana, dedicata in particolare allo studio e alla diffusione della poesia contemporanea. Rivolta a un pubblico internazionale, pubblica testi sia di poeti italiani (con o senza traduzione in inglese) che di poeti stranieri di origine italiana, saggi, note, traduzioni, recensioni e interviste. Oltre a sezioni dedicate a testi inediti e interventi critici, comprende rubriche specifiche curate da singoli studiosi e poeti. Arricchisce la rivista una «Fototeca», archivio fotografico che documenta i principali eventi della poesia italiana, passata e presente.

«Gradiva» is one of the oldest journals of Italian poetry, and is particularly devoted to the study and promotion of contemporary literature. Addressed to an international audience, it publishes texts by Italian poets (with or without accompanying English translations), or of Italian descent, as well as essays, notes, translations, reviews, and interviews. Beyond its regular sections, with original poems and critical contributions, it includes special sections developed by scholars and poets. Among the latest features of the journal is a «Fototeca», a photographic archive documenting the most important events of the Italian poetical scene.

Da questo fascicolo in poi la rivista «Gradiva» è pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki in Firenze. Dopo questo numero, per ora ancora doppio, la rivista uscirà con cadenza semestrale. Sono molto grato a Daniele Olschki per aver accettato di pubblicare «Gradiva» che, nata nel lontano 1976, ha ormai alle spalle ben trentasette anni di vita, quasi un record per un periodico dedicato esclusivamente alla poesia e alla poetologia italiana. Questa novità trascina con sé anche un significato intensamente paradigmatico: quello di far ‘ritornare’ la nostra rivista al suo alveo materno, pur continuando a mantenere il carattere transnazionale che le è proprio. È, di fatto, a Firenze, con il suo amato/odiato concittadino Dante, che la poesia italiana trova il primo vero iniziatore, senza con questo voler disconoscere la rilevanza storica della Scuola Siciliana e di tanti altri importanti poeti toscani e non toscani che operarono prima e durante la grande stagione dantesca. Questo ritorno alle origini non è, dunque, senza un suo valore fortemente simbolico, che fra l’altro richiama alla mente due versi straordinariamente profetici di Hölderlin: «Difficilmente il suo luogo / abbandona ciò che abita vicino all’origine».
Luigi Fontanella, Premessa al volume 43/44

Prospetto illustrativo


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Ultimo fascicolo pubblicato • Last published issue
2016/2 n. 50


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Letture allo specchio 4: “La colpa del genio”, nota di F. Cannavò

La colpa del genio è la negazione del genio stesso alla propria essenza umana.”
È bello vedere come la lettura di un libro possa generare a volte un’alchimia libera, quasi del tutto autonoma, di sicuro in grado di generare forme ulteriori, altre creazioni.
Grazie a Leonardo, per questo suo ennesimo meccanismo messo in moto in modo mirabile, e grazie a Francesca Cannavò per questo originalissimo e vivido brano di “lettura poetica”. IM

Due volti di donna

“La colpa del genio”, nota di Francesca Cannavò

Con il suo sguardo, l’altro conosce me più di quanto io possa conoscere me stesso,perché io non posso mai oggettivarmi, distanziarmi come un oggetto da me stesso.
Io sono quel me che un altro conosce e mi sento trasformato in un oggetto inerme e nudo davanti all’altro.
J.P.Sartre

L’occhio fuori dal finestrino, il paesaggio conosciuto che scorre scandito dai cigolii dei cardini; i lampi, gli scrosci violenti, bombarde di tuoni, dita di fango che arraffano i raggi… il carro rallenta, ansima: deve fermarsi.
Il pensiero invece corre già troppo velocemente a raccattare tasselli di memoria che spianeranno le visioni : il Carro mi viene incontro con i suoi significati simbolici, è il settimo degli Arcani; il sette è l’indicatore, il settimo dito della mano: indica ed accusa. E lo si ritrova, questo dito, ben in vista nei disegni in sanguigno, nei dipinti di quell’epoca che si volle impregnare di ri-nascimento, nel dipinto forse più caro a Leonardo, “quel dito che promette il paradiso”, la rinascita finale a se stesso e che in un vortice estatico riporta al Satiro Danzante, ebbro dell’attimo d’infinito in cui viene colto da mano d’artista sconosciuto.

Indica ed accusa . Espiazione e Colpa.

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Che colpa potrà mai essere addossata ad un genio? Al genio?
La colpa del genio è la negazione del genio stesso alla propria essenza umana.
Sul genio non piove grazia divina, il suo capo è eretto e fiero, si rivolge all’universo sfidandolo all’ultimo dubbio, alla prossima certezza; l’incedere manifesta sconfinate prospettive, lo sguardo a carpire la meccanica del volo, mai sospeso nel contemplarne il mistero.

La negazione delle mani che accarezzano la testa, il viso di un bimbo forse divengono ali sfrenate all’interno di quella testa, attorno a quel viso.
Il Genio che si nega all’umanità, un assassino, un essere abbietto, uno di cui diffidare e da tener lontano.

La colpa è piena e grave.

L’espiazione è dovuta: lo svuotamento e la leggerezza.

Il Processo lo istruisce il Caso: immenso Fattore.

È il gioco della sorte stavolta a mettere il genio in competizione con se stesso e non più con Dio.

La sosta forzata, il caso magnanimo che prudentemente la vita riserva a ciascuno dei propri adepti, diviene foriero di una visione inimmaginabile, uscita dallo specchio, l’immagine del proprio sembiante si ridesta in sguardo carnale e univoco.

È nell’osservare il vero più vero che si perde se stessi.

È nel transito dei vuoti di senso che si scopre il senso, la verità.
Nel vuoto di quell’attimo senza senso offerto dal caso Leonardo, il Genio, finalmente, sa.

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Leggo Lo Specchio di Leonardo nei primi giorni di giugno, quando tutto pare fluire gioioso verso l’esplosione dei sensi, e mi avvolge il ritmo delle visioni e dei suoni, quasi volesse, lo spirito del genio, condurmi dentro le volute e i riccioli studiati e trattati come solo gli uomini di scienza e di arte riescono a fare: entrandoci dentro a confondersi, infimi e grandissimi.

Offre parecchi spunti il libro: si legge in sanguigno, si avverte forte l’odore delle città, del fango e della pioggia; e i colori appena accennati delle campagne, il fruscio delle vesti pesanti ed eleganti, lo sguardo inquieto di Leonardo e la sua voce: pacata e superba ; il sommesso diniego dei prelati e l’inchino da incorniciare nelle chiese.

Scorre la scrittura, come un ruscello di montagna intorno ai sassi, ritornando appena su se stesso per poi andar via lesto e sornione; la montagna, rifugio dei grandi, lo inizia ai suoni del ritmo naturale delle sensazioni, ed ai vuoti di suono, acutissimi e sordi, dell’intelletto che vuole l’analisi asettica delle cose, la ricerca insinuante della verità più dolente, la beatitudine della ferita, dei suoi lembi, accarezzati dall’interesse e dalla necessità di esserne parte: sollevante e dolente allo stesso modo dei fratelli gemelli che si curano della loro morte esattamente come i quattro incolpevoli ceri posti a guardia di un inganno condiviso, esattamente come lo scrivano che finalmente legge ciò che altri scrivono sulla sua carne.

Leonardo e il suo destino: guardare allo specchio le sue paure.

Imparare a vivere la perfezione della morte, per irriderla durante la vita. Regno di imperfezione, in cui annaspa e vi permane straniero, imparare a riconoscere quell’umano in forma d’infinito che è la morte che per non far paura si è creduta donna materna di cure custode, ed invece è maschio la morte è da pari a pari il genio dovrà guardarlo per poterne domare la potenza e donarsi alla vita, unicamente lei femmina universale.

Leonardo e la sua vita: quel palpito d’ali che crescono dentro.
Scevra di emozioni, qualche guizzo amaro, la rivalsa malcelata dell’abbandono che lo vuole a tutti i costi presente, nel male e nel bene finto, la vita del genio viene ad esporsi platealmente attorno alla sua più grande prova: la mancanza. L’indisponibilità emotiva di Leonardo spiattellata senza pudore né remora alcuna, come gli indispensabili cadaveri da sezionare sul tavolo di laboratorio.

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Indisponibilità che diventa ostacolo all’arte vera che di essa si nutre. Leonardo è genio per pratica disciplina ed applicazione ma manca della genialità propria dell’arte, che è fatta di tumulti immobili, ritmi forsennati e pensieri evacuati. Manca a Leonardo ciò che commuove, quella forza che fa muovere insieme, la forza della relazione.

La relazione con l’altro gli viene assolutamente negata, l’altro viene semplicemente usato, necessariamente utilizzato come una protesi per renderlo capace di stare al mondo, e da questo suggere linfa di conoscenza.
Molteplici surrogati di madre non riusciranno però a suscitare in lui quella sommossa interiore che sviluppa la luce nel buio, non ci saranno che sentimenti di rivalsa nella vita del genio e la mancanza colmata alla fine dalla morte della madre sarà quieto sopore.

L’arte, la potenza creatrice, l’invisibile che manifesta se stesso viene trovato nello specchio “Manrico”, il copiatore , il ripetitore , cui il destino offre a sua volta una occasione di rivalsa, non cercata.

Inconsapevole custode della creazione, nella cui rivelazione egli annette il se stesso sconosciuto e negato, Manrico sperimenta la meraviglia; abbaglio fatale che gli farà toccare il fondo dell’abiezione , spingendolo al tradimento pur di affermare la propria potenza creativa.

Quella forza incontenibile cui la vita a testa china non aveva permesso la fuoriuscita, diviene, adesso, il tumulto che lo innalza.

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In Manrico Leonardo si accosta al bambino, all’essere che sgambetta, dapprima, incerto e fiducioso, poi, del sostegno della terra, felice dello spazio conquistato.
Leonardo ha rinunciato al bambino con spietatezza: l’uomo saggio sa.
E sa che quel bambino ha da proporgli la sua arte e Leonardo rinuncia all’arte, al moto creativo che pure arriva sopra le proprie gambe non richiesta, gli volta le spalle; non può guardarsi l’anima, può solo subirne gli effetti , i morsi; le sue vedute scientifiche non gli permetteranno di vedere oltre, di immaginare che attraverso gli effetti manifesti si possa scoprire il progetto dell’essere; egli va in cerca delle malattie che degenerano gli organi, si avvicina alla vita attraverso la morte , ma mai potrebbe immaginare che la morte è solo vita consumata , usata, donata.

Tutto torna, però, e nulla è uguale a come dovrebbe essere. E la morte, compagna dei vivi, non potrà essere sbeffeggiata oltre.

Il Genio impari a vivere per riuscire a morire da uomo vero imbalsamato nella propria fedele menzogna.

Una straordinaria avventura su un libro che mescola le pagine col tempo e con le storie della storia.

Francesca Cannavò

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TRENO QUASI DIRETTO – reloaded

TRENO QUASI DIRETTO

Piccola riproposizione di un racconto piuttosto domenicale e piuttosto folle

 

8 dicembre 2015, raccontiBolognacantareCassandra CrossingFirenzeFrankie Lane,HollywoodIvano MugnainiLiguriaMarlon BrandoRomatreno

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

 

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Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

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La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

 

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

 

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

 

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

 

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