Archivio mensile:Dicembre 2015

Il dono

Un dono, atipico, poco “correct”, tra sogno e incubo, più incubo che sogno a dire il vero, se mi è concesso l’ossimoro.
 Buona lettura, e, senza alcun ossimoro stavolta, buon 2017 a tutte le visitatrici e i visitatori di questo angolo dell’immenso oceano del web.    IM

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Il dono

Libertà va cercando, 

ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta

.                   Dante, Purgatorio, I, 70-2

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         Le sei e trenta della mattina di Natale. Mi hanno svegliato di soprassalto i vicini di casa. Erano già in piedi ad aprire i regali e a cantare a squarciagola “Jingle Bells”. Pur di non sentirli sono scappato fuori di corsa. Ho ancora il pigiama sotto i pantaloni. Sulle strade e nelle vene, il gelo. Cerco perlomeno il privilegio della solitudine: viaggiare in carreggiate vuote, quasi all’inglese, sulla corsia opposta rispetto al normale. Ci sono gli altri, però. Numerose macchine, lanciate in direzione contraria o analoga. Mi viene da chiedermi perché. Dove vanno? Con quale diritto invadono il mio spazio, la mia follia fuori tempo e fuori orario?

          Lo so, è assurdo. Ma non posso fare a meno di pensarlo. Così come non posso evitare di fuggire, ora. Lontano da tutti, ad ogni costo. Mi infilo in un dedalo di viuzze che non conosco. Ho tutto il tempo che voglio. E assolutamente nessun impegno o appuntamento. Mi ritrovo in una strada sterrata. Solchi sempre più profondi all’altezza delle ruote e sempre più alti l’erba e il pietrisco al centro. Non c’è uno spazio vuoto grande abbastanza per fare manovra. Vado avanti per chilometri. Dietro di me il nulla, una pianura desolata e sconosciuta. Costeggio la siepe di una villa enorme. Presagisco la presenza di una muta di cani da guardia. Mi si affiancano, puntuali, spalancando le fauci fin quasi a mordere la rete. Mi inseguono fino all’ingresso. Mi preparo a fare retromarcia nel vialetto antistante l’entrata, più velocemente possibile, per tornare indietro, sulla strada statale. Ma, contro ogni attesa, il cancello automatico mi si spalanca di fronte. Sarebbe una ragione di più per scappare rapido come un fulmine, se fossi lucido. Oggi però è un giorno speciale. Sarà la stanchezza, la follia generata dalle musiche e dalle campane, dallo spumante e dall’overdose di pandoro, ma decido di premere sull’acceleratore ed entro.

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       Guido tra muro e muro, nei vialetti minuscoli che separano le varie palazzine e le dependance. Sfioro la calce con gli specchietti. La tensione, paradossalmente, svanisce. Lascia il posto alla concentrazione, alla voglia di uscire dal labirinto. Mi ritrovo finalmente in un prato amplissimo, quasi un piazzale da luna-park senza giostre e baracconi. Rimango fermo. Il centro esatto di un gigantesco bersaglio. Immobile, sotto sguardi invisibili. Minuti di silenzio assoluto. Poi una voce, secca, poderosa, amplificata da un megafono. “Eccolo il regalo per te, amore!”. Chissà come e perché mi viene da pensare che le parole siano rivolte a me. Penso a uno scherzo, qualcosa di simile a una “Candid camera”. Invece, qualche attimo dopo, esce fuori un ragazzino di circa dieci anni, con una giacca elegante e un cravattino rosso. Tra le mani stringe un enorme fucile ad acqua giallo e viola. Il suo regalo sono io! D’altronde, si sa, oggi è Natale.

          Spruzza la macchina da ogni lato, urlando e sghignazzando. Dopo un po’ cambia espressione, guarda sconsolato verso le finestre della villa, e comincia a frignare: “Papi, non mi diverto così! Non mi piace. Mi annoio lo stesso, papino!”

          Riecheggia di nuovo il megafono.

          “Sì, Gerardo bello, tieni raggione. Tieni raggione, a papà. Vedrai che chisto ti piacerà!”.

          Si fiondano nella piazza due fuoristrada da cui escono scagnozzi in doppiopetto. Sostituiscono il mitra ad acqua di plastica con uno in acciaio verniciato di nero. Molto più realistico. Anzi, reale.

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          Mi fanno cenno di aprire il finestrino e uno di loro mi borbotta in un orecchio: “Gerardo si deve divertire! Adesso ti diamo cinque minuti di vantaggio, poi ti veniamo a cercare con le Land Rover. Nel parco della villa c’è un’uscita con uno sbocco verso l’esterno. Se sei fortunato la trovi e scappi in direzione della superstrada. Quello sarebbe il tuo Natale. Se non la trovi ti troviamo noi. E quello sarà il Natale di Gerardo. È bravo quanto noi a sparare. Si esercita fin da quando aveva cinque anni. Vai mò. Ah, dimenticavo: nella villa ci sono una ventina di uscite. Tutte sbarrate e invalicabili tranne una. L’estensione del parco è di un’infinità di ettari. È il quinto della regione per estensione. Vengono anche quelli del WWF, il sabato e la domenica, perché qui svernano diverse specie rare di uccelli migratori. Il padrone concede il permesso di ingresso per osservarli e studiarli. Eh sì, è proprio una gran brava persona. A proposito: i tuoi cinque minuti cominciano… ora! Buona fortuna! E buon Natale!”.

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          Metto in moto e ingrano le marce. Rapido, ma non frenetico. Sparisco alla vista, lontano dalle finestre. Le strade sterrate sono deserte, ora. Vuote. Completamente. Solo qualche cerbiatto mi osserva, e qualche poiana. L’uscita giusta la cerco, sì, ma senza particolare convinzione. Anzi, mi viene da pensare che se la trovassi mi dispiacerebbe, quasi. È bello girare a vuoto in questo silenzio, questo intrico di terra, erba e acqua, sotto alberi secolari. Non so quanto durerà, ma è proprio un gran bel regalo. Non solo per Gerardo. Anche per me.

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La verità nascosta

Resta attuale, come tutta la vera letteratura, Cuore di tenebra di Conrad. Magari per ricordarci che “the inner truth is hidden – luckily, hidden.  But I felt it all the same.” La verità interiore è nascosta, per fortuna. Ma la sento ugualmente.

(il racconto è stato pubblicato su Il Cartello a questo link:

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LUCKILY, la verità nascosta

La luce rovina la carta. La fa scurire. La offusca.

Non è paradosso, di conseguenza, non è follia, leggere Cuore di tenebra nel buio. Sfogliare le pagine con dita frementi, come un bambino che divora di nascosto, sotto le coperte, le parole di un’orrida fiaba. Sfogliare le pagine per scoprire cosa e dove è la tenebra. Non è follia. O, se lo è, ne ho bisogno, ne ho sete e fame. È qui che sono giunto. A questo confine, questa desolata terra di nessuno, mi ha condotto la strada. Leggere al buio l’incubo in forma di metafora di Joseph Conrad. Per mantenere un minimo di luce, di contrasto: il bianco, il nero, la distinzione, lo scarto. Scacchiera di una partita senza inizio né fine. Difendiamoci. Salviamo il re e la regina, sacrifichiamo i pedoni. Difendiamoci. Da noi stessi. Visto che nessuno ci aiuta. Se davvero è così.

Leggere e ascoltare, ad occhi e orecchi spalancati, senza riuscire a smettere un solo istante, il vicino di casa. I rumori, i silenzi, gli assalti al mio corpo, reale, di carne e paure. Non l’ho mai visto. Non so se è bianco, nero, rosso, se è alto o basso, grasso o magro, se ha uno sguardo astuto o innocente. C’è, qui, in questa casa dalle finestre sbarrate, il progresso, la certezza della civilizzazione: il microonde, la radio-sveglia, il computer. La pazienza, santificata, esaltata in mille ore di lezioni. Già. Ma lui è là. Non si ferma. Mi scruta, logora come un dentista sadico e sarcastico. Tenace come un morso, un conato di vomito, senza la gioia di un respiro più ampio e pulito.

Ho provato a scrivere, a dare misura alla corsa affannata della mente, i ricordi, le immagini. Le parole però sono scure, selvagge. Ti scagliano contro frecce curaro al dal fitto della boscaglia. Sono nere, le parole. Anche se fingi che l’inchiostro sia azzurro, verde, viola. Chiare e certe sono solo le ipotesi, le scommesse. Il resto oscilla, vibra nell’aria impalpabile.

È là fuori. Avido senza audacia e crudele senza coraggio. Là, nei suoi territori, nelle sue fortificazioni. Incrollabile nell’etica del lavoro di demolizione. Strappa via da me l’avorio della gioia, la spinta a vivere. Lo accumula per pura ingordigia, senza altro scopo né funzione. Forse vuole sentirsi un dio. Lo tiene vivo tuttavia solo la più umana e misera delle condizioni: la meschinità dell’orgoglio, l’orgoglio della meschinità.

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Dovrei dialogare con lui. So che è questo che desidera. È ciò per cui sono stato chiamato. Scambiare con lui frasi e pensieri. Il senso del mio viaggio in fondo è questo. Salvare lui per salvare me. O viceversa. Resto inchiodato qui. Sfoglio una ad una le pagine, avvinto, avviluppato da una trama che non varia, priva di eventi e mutamenti , come un fiume limaccioso, acque morte, stagnanti. Neppure le frecciate degli indigeni che continuano a sibilare a un palmo dalle tempie sembrano vere. Solo il tragitto esiste. Il moto, reale o apparente che sia.

 Kurtz è un uomo notevole. Me lo hanno detto e confermato fino alla nausea. Certo. Tutti lo siamo. Ma notevoli per chi? Per quali occhi, quale logica? Du calme, du calme. Adieu. È questo l’accorato lasciapassare di tutti i saggi e tutti i dottori. E il mio viaggio può riprendere. Atto alla missione, abile arruolato, pronto a muovere verso un continente ancora da esplorare.

Devo prendere il suo posto. Sostituire Kurtz in tutto e per tutto, diventare il suo perfetto alter-ego. Il solo orrore di cui sono certo, sicuro, è questo: somigliargli. Arrivare ad essere simile, identico a lui. C’è un fascino nell’abominio. Ancora più forte però è il desiderio di scappare, fuggire lontano, dentro le proprie trincee.

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“Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo/ tu sola puoi salvarmi/ tu sola e te lo scrivo”. Borbotto tra me e me questi brandelli di note tra riso e tensione. Anche una canzone può servire ora. Se solo sapessi a chi dedicarla. Io, Cyrano scalcagnato che non può vantarsi neppure di essere cadetto di Guascogna, cerco una musa, un’ispiratrice. Una Rossana ideale: la verità, la speranza, l’amore magari.

Lui è già fidanzato. Ha trovato qualcuno che lo accetta com’è. Anch’io, come Marlow, mentirei alla sua fidanzata se mi chiedesse di parlarle del suo amore. Inventerei una menzogna qualunque. Più benevola in fondo, dei denti acuminati della realtà. Kurtz è la solitudine, affermano. Ed è la solitudine che lo ha ridotto così. No. Lui è l’orrore che sconfina nel mio.

Bussa alla porta adesso. Agli stipiti di legno e di ferro di questa sera quieta e terrificante. È gelido l’appartamento, il marmo delle scale, il fruscio e il battere incalzante dei passi. Odori crudi, carne putrefatta. Persino i profumi più familiari, il caffè, le verdure, il dopobarba, trasudano linfa di morte.

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Vuole che io parli. Che dia fiato e respiro al mio orrore per lui. Che gridi il mio odio, nutrendolo, dandogli corpo. Dando corpo all’incubo. Per lui io sono il nemico. Vorrebbe che esclamassi lo stesso con identica linearità. Non ci riesco. Io, per salvarmi, continuo ad adorare la verità del mio silenzio. L’illusione, assurda e vitale, di non averlo mai visto né sentito.

Nego. Resto sordo e cieco. Anche al suo urlo e al coltello che avanza rapido nel buio. La lama poggiata sulle vene del collo.

La bugia più grande? Dire che Kurtz non esiste. O che esiste. Che differenza fa? Niente ha sostanza e dimensione nella tenebra assoluta. Niente. E il contrario di niente.

“Che ne è della menzogna?” – si chiedeva l’antropologo James Clifford. La domanda rimane, persiste. Anch’io, come Marlow, all’inizio ho provato schifo per la bugia, ed ora, alla fine di tutto, mi ritrovo a mentire per evitare la catastrofe. O almeno a riflettere, come Clifford, sul fascino esile e letale di un’affermazione: “I frutti puri impazziscono”.

Forse è poesia, forse logica, forse niente di tutto questo. Ancora una volta niente di niente. Il rebus è senza soluzione, resta oscuro il punto cardine, il cuore della questione: se la pazzia sia la sua essenza esclusiva, l’integrità della follia. A me, adesso, rimane il sangue delle vene del collo, ancora caldo, ancora vivo. E un pensiero, l’idea di sempre: “siamo tagliati fuori dalla comprensione di ciò che abbiamo intorno. Il significato non è all’interno. È fuori. Un alone di foschia reso visibile a tratti da spettrali riflessi lunari”.

La verità interiore è nascosta.

Luckily, luckily.

Per fortuna. Per fortuna.

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TRENO QUASI DIRETTO, storia di tre donne che avevano sbagliato treno

Un altro vecchio racconto, che in questi giorni mi sembra essere tornato vivo, attuale.    IM

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TRENO QUASI DIRETTO

ovvero

storia di tre donne che avevano sbagliato convoglio,

e ridevano, felici

Le prime ore del pomeriggio di una domenica senza pretese. Novembre forse, o almeno novembre del cuore. Grigio ovunque, ma anche qualcosa di simile ad un baluginio. Né caldo né freddo; stagione che passa e striscia in punta di piedi per non disturbare. Nessun tepore estivo da rubare allo schermo delle foglie, nessun gelo da fuggire rannicchiando le vene e i pensieri. L’aria impalpabile della quiete, dell’armistizio.

Tempo e respiro da sondare, pigri, con la punta delle dita, per tentare di saggiarne la consistenza. Tempo e respiro da sondare, sì, ma con scarsa convinzione. Altro non è che spreco di energia. La quiete, a ben vedere, non può durare.Un treno più vuoto che pieno scivola lento. Solca la crosta di una campagna di giallo marzapane non perfettamente lievitato. Sui sedili gente dispersa assorta in tranquille disperazioni.

Il fascinoso intellettuale sfoggia un volume di saggistica fresco di stampa come un accessorio firmato da portare con solenne nonchalance. Non varia di un millimetro la postura della magra gambetta accavallata. Scorrono le pagine, ma resta di pallido marmo il ghigno del monumento al lettore ignoto.

Di fronte a lui, adorante, una giovane signorina speranzosa d’amore. Osservandola meglio, nelle pieghe vanamente camuffate della fronte, non è tanto speranzosa e non è giovane per niente.

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Lì nei pressi, fianco a fianco con la valigetta di pelle, il manager della domenica. Giacca blu notte e cravatta intonata. Intonata al sospetto che la soffice seta lo stia elegantemente strangolando. Sfoglia le imponenti pagine della borsa di un giornale finanziario, ma forse anche lui preferirebbe avere accanto una borsetta assai più minuscola piena zeppa di trucchi, specchi e cianfrusaglie di poco conto.

Passa, con tutta la calma del caso, l’addetto al controllo biglietti. È cortese, informato, cordiale. Elargisce ad ognuno battute a iosa, mordicchiate però, a più riprese, dai dentini tenaci di un tagliente dialetto. È il tipo giusto al posto giusto. Il controllore ideale per un treno di scarso rilievo. Un lusso da poco. Moderato, popolare.

Fora il biglietto e le orecchie anche al passeggero seduto nel sedile d’angolo dello scompartimento. Lo stultus in fundo: uno scribacchino ambulante che da quando è entrato finge spudoratamente di guardare il panorama.

La polvere ristagna per diversi minuti sul fotogramma di una pellicola inceppata. Ciascuno continua a fare ciò che sta facendo. Il meno possibile. Guardare senza vedere e pensare senza sentire.

Ma ecco che, tre metri oltre la barriera di vetro che separa le due metà dell’interminabile scompartimento, accade qualcosa. Una risata. Un gorgoglio chiaro e vibrante di tre gole femminili. L’aria si scuote, si erge, allarga i pori, estende i tendini, e ascolta.

Le tre donne ridenti vanno al mare. Lo dicono, anzi lo cantano, liete, al gioviale bigliettaio. Con ironica cortesia l’omino azzurro fa notare che il treno, per quanto è dato di sapere, è diretto ovunque tranne che al mare.

“Loro volevano, signore, il treno delle due e ventitre che va in riviera – sillaba lento masticando una risata. Volevano andare in Liguria, lo dice il loro biglietto… ma questo è il treno delle due e quattordici, stesso binario ma tutt’altro percorso. Questo convoglio, mie care signore, taglia dritto l’Italia come un colpo di coltello: la prima fermata è Bologna, poi Firenze, e infine Roma.

Mi spiace tanto, sono dolente, ma voi lo capite… non posso fermarlo né tantomeno farlo andare a ritroso. Non vi resta che arrivare a Bologna, farvi restituire i soldi del biglietto sbagliato, quindi ripartire verso la vostra meta.

Io, intanto… mi rincresce, ma… debbo compilarvi un nuovo biglietto, quello relativo alla tratta che stiamo attualmente percorrendo”.

Si guardano tra loro le tre donne. Pagano il tutto, sovrattassa compresa, senza fiatare. Si guardano, e scoppiano in una nuova risata. Un sussulto ritmato non troppo diverso dal precedente. Lo rende più cupo soltanto il tremolio di un’eco appena accennata di sarcasmo. Stille di umorismo che cadono a perpendicolo su una pozza d’acqua chiara. Ancora fresca. Pulsante.

La signorina senza volto e senza età si alza in piedi, frattanto. Indugia per un attimo sterminato davanti alla gambetta anchilosata del divoratore di libri, e attende che sollevi lo sguardo dal fiero pasto. Lo saluta con la formalità di un anziano caporale, poi scompare. Richiude la porta senza un cigolio. Svanisce lasciandosi alle spalle profumo di glicini malinconici e polline sterile.

Lo scribacchino prova a scribacchiare. Ma l’occhio tende a chiudersi, ipnotizzato dal dondolio delle ferraglie.

Le tre Maddalene lo riaprono, in extremis, con una nuova raffica di risate. Placide, interminabili, e di nuovo zuccherose. Consapevolmente infantili. Hanno sconfitto la sorpresa e il disappunto con una fulminea battaglia. Hanno ripreso possesso assoluto della loro serenità, e con essa hanno catturato l’attenzione generale.

Viene fatto di pensare che si tratti di tre signore anziane. Decisamente distratte, un po’ arteriosclerotiche, e con una montagna di tempo da perdere.

Ma poi le vedi, finalmente. Le osservi scattare in piedi senza smettere di ridacchiare, e le segui con lo sguardo mentre sgusciano lievi una dopo l’altra verso la toilette. Tornano indietro rinfrescate e pettinate. Belle e procaci, o giù di lì. Tre donne al vertice della parabola della sensualità. Al culmine di una maturità carnosa e succulenta. La punta estrema del soffice prato che sovrasta il baratro del declino.

Altro che vecchie! A Roma direbbero che sono bbone. E non certo per indicarne le qualità morali. Iniziano ad alzarsi e a risedersi a turno con la scusa di prendere qualcosa dalle valigie, balzellano sui sedili e vanno avanti e indietro lungo i corridoi come ragazzine in gita scolastica.

C’è tempo e modo di scrutarle con più cura. Sono belle, sì, in un certo senso. Sono belle… ma solo a metà. È come se ognuna delle loro facce contenesse un pezzo stonato, fuori luogo e fuori misura. Montato male o a sproposito. Sotto i bei capelli cotonati sbuca un naso aquilino, un neo bitorzoluto, un’ombra viscida di peluria che vela, in controluce, un mento troppo marcato, da uomo.

Le serenissime viaggiatrici hanno un fascino tetro. Un aspetto quietamente micidiale che richiama qualcosa alla memoria. Qualcosa di poco rassicurante.

Non vorrei che in fondo fossero state loro, a ben pensarci, a prendere in giro quel buonuomo del bigliettaio. Ride bene chi ride ultimo – recita un noto detto popolare.

Sanno benissimo dove andare, loro! Sanno dove andare e cosa fare. E il treno che hanno preso è, in realtà, quello giusto. Quello giusto, sì, per il loro intento, per il loro disegno. Non lo hanno preso a caso, no. Lo hanno preso perché così era scritto.

Nel frattempo le tre ricamatrici di risate continuano a tessere la loro tela. Parlano, cantano, e cospirano, liete, alle nostre spalle. Per il momento tessono, ma…

Vorrei cambiare treno. Se fosse possibile, se fosse sensato, cambierei volentieri tragitto e destinazione. A costo di tornare al punto di partenza, o di puntare davvero, io sì, verso un punto qualunque del continente.

C’è una calma feroce su questo treno. Una pace mortale – starei per dire.

E la risata, ora, non è calda, non è tonda e non è chioccia. È schiettamente, nitidamente raggelante.

La sola gioia, il sospiro prolungato di sollievo, adesso, è l’uscita dal buio fitto di una galleria. Ed è una stretta metallica al cuore la visione di un cimitero che biancheggia nel verde dopo una curva. Non è certo un camposanto all’inglese immerso in un rigoglioso giardino. Qui c’è solo calce nuda: trappole in miniatura che impediscono ogni possibile fuga persino agli spiriti trapassati. Non mi sento davvero in vena di provare a scrivere elegie cimiteriali alla Thomas Gray. Al massimo potrei scarabocchiare, con mano tremolante, qualche abbozzo iperrealistico sul tema della paura.

Là fuori, da stazioncine aggrappate ai bordi di magri ruscelli, volti di pietra ci guardano passare. Facce aliene al calore del pianto ma anche all’ombra gelida del sadismo. Spettatori malgrado loro ci scrutano, sobri e impassibili, con gli occhi di chi osserva una nave di folli che solca l’orizzonte del proprio destino.

Ci vedono sfilare, rapidi e inermi, come i passeggeri della trappola d’acciaio di “Cassandra Crossing”, ma senza il lieto fine hollywoodiano.

Anzi, no. Ci guardano scorrere davanti alle loro pupille spalancate con la stessa espressione con cui si prende visione dei numeri di una statistica. Cifre nude e crude, dati di fatto ridotti a pura logica matematica: un numero ics di treni su un totale ipsilon di convogli che partono ogni giorno è destinato a… sì, insomma, è diretto verso… la fine.

Ecco, voilà: oggi è toccato a noi di entrare nella statistica. Abbiamo il privilegio di essere noi il numero ics.

Quale onore! Non ne sono degno però. No, non mi sento pronto per tale memorabile evento. Preferirei rimandare.

Guardo di nuovo il finestrino e la striscia di terra che scorre inesorabile sotto l’ombra del treno. I prati erbosi ce li siamo lasciati alle spalle. Ghiaia e zolle indurite punteggiate da lame di stoppie, ora. Nient’altro.

Vorrei saltare fuori. Lo vorrei con tutte le mie forze. Ma non sono abbastanza atletico per riuscire a morire in modo sufficientemente elegante.

Che fare? In quali vicoli angusti di pensieri rintanarsi, sempre sperando di non essere scovati, appiccicati al muro e dilaniati come sorci?

Non lo so. Tutto ciò che penso e sento ora è il battito parossistico del cuore che rimbomba nelle vene. Quasi una musica… una musica, a modo suo.

Cantare! Sì, cantare. A polmoni spalancati, con la speranza di assordare la mente. A squarciagola, con la bocca sbarrata. Dissolversi nell’urlo di un ritmo interno che martella dalla testa ai piedi. “Your eyes are the eyes/ of a woman in love,/ and, ho, how they give you away”.

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Cantare, sì, anche se non ricordo bene le parole. Cantare, come Marlon Brando nella colonna sonora di un film anni cinquanta. Quasi dolce, quasi tenero, quasi innamorato. Marlon Brando ancora nel fiore degli anni, poco obeso e molto vivo.

Cantare. Tutto qua. La cosa più vicina al respiro che riesco a immaginare. La sola che riesco a fare, adesso, appoggiato al sedile come una valigia colma di fragilissimo piombo. “… they say no moon / in the sky/ ever lent such a glow…”

Hanno sentito! Nonostante le labbra accuratamente serrate, nonostante le narici sigillate come un documento top secret, le tre vedove allegre hanno udito ogni sillaba, ogni nota.

A dieci file di sedili di distanza, al di là dello spesso separé di vetro, sentono tutto quanto. Sentono e cantano anche loro, in questo momento, la mia stessa canzone, la stessa identica strofa.

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Prosegue per arcani, sconfinati minuti il quartetto per voce e mugolio orchestrato da un filo invisibile. Prosegue e oscilla, seguendo le vibrazioni dei vagoni sballottati dagli scambi.

Si alzano. Scivolano via… scendono. A sorpresa come erano comparse, svaniscono, d’un tratto, le tre fascinose viaggiatrici.

Il treno c’è ancora, e c’è ancora il binario. È ancora lì il dondolio testardo che ti scuote e ti culla come una nenia, una melodia rotonda che ti avvolge. Un velo, una corda, un riso, uno sguardo…“those eyes are the eyes/ of a woman in love…/and may they gaze, evermore,/ into mine,/ crazily gaze, evermore,/ into mine”.

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